GUARDANDO LA TERRA… DALLE STELLE. UN ASTRONAUTA SI RACCONTA

Partecipa Paolo Nespoli, Astronauta. Introduce Marco Bersanelli, Docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.

 

GUARDANDO LA TERRA… DALLE STELLE. UN ASTRONAUTA SI RACCONTA
Ore: 17.00 Auditorium B7

MARCO BERSANELLI:
Buonasera, benvenuti a questo incontro davvero eccezionale. La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito, questo è l’invito del meeting di quest’anno, e da sempre la parola infinito evoca immediatamente la vastità del cielo. Fin dall’antichità, l’uomo ha immaginato, ha sognato di poter volare, di potersi spingere negli spazi del cielo. In effetti, oggi è diventata un’esperienza abbastanza comune, ordinaria, quella di andare da una parte all’altra del nostro pianeta prendendo un aeroplano. ma pochissimi essere umani, almeno fino ad oggi, hanno potuto fare l’esperienza rarissima di poter uscire dall’atmosfera terrestre, di entrare nello spazio e di poter osservare la terra dall’esterno, in un solo colpo d’occhio. Uno di questi pochissimi uomini è qui con noi oggi, Paolo Nespoli. Non ho nessuna intenzione di dilungarmi nel presentare il ricchissimo curriculum professionale di Paolo, anche perché sarà lui stesso a introdurci a quella che è stata la sua storia, nell’incontro di oggi. Vorrei però accennare soltanto alle due missioni nella stazione spaziale internazionale di cui è stato protagonista: una con lo Space Shuttle americano e l’altra con la Sojuz russa, quindi con due contesti molto diversi che hanno richiesto due training separati. La prima missione di corta durata, 15 giorni, è partita il 23 ottobre del 2007 con lo Space Shuttle Discovery. In quella occasione, Paolo si è occupato del coordinamento delle attività extra-veicolari, cioè fuori dalla navicella, relative in particolare all’assemblaggio di un modulo della stazione spaziale internazionale, costruito con tecnologie italiane, come del resto molti dei moduli che sono sulla stazione. Questa missione è stata molto intensa, come mi spiegava, spesso accade nelle missioni brevi, ma anche molto complessa e come vedremo ricca di imprevisti. La seconda missione, invece, di lunga durata, è partita il 15 dicembre 2010. Paolo è tornato sulla stazione spaziale internazionale, stavolta con Sojuz TMA-20. In quell’occasione, era Vicecomandante della stazione e, dopo ben 159 giorni di permanenza nello spazio, il 23 maggio 2011, alle 4.27 ora italiana, è rientrato a terra a bordo della sua Sojuz insieme al comandante russo Dmitri Kondratyev e alla statunitense Catherine Coleman, atterrando nelle steppe del Kazakhstan. Ci farà rivivere qualcuno di quei momenti. Dunque, con i sei mesi globali che Paolo Nespoli ha vissuto nello spazio, è l’uomo italiano con la più lunga permanenza nello spazio. Bene, oggi abbiamo questo privilegio di incontrare un testimone diretto di un punto di vista più unico che raro, riservato davvero a pochissimi essere umani, un testimone di che cosa significhi vivere nello spazio e osservare la realtà terrestre da un punto di vista extraterrestre. A Paolo, in questo incontro, vorrei offrire tre spunti per il suo intervento.
Primo: tu, Paolo, hai vissuto una situazione molto diversa da quella ordinaria, forse per noi difficile da immaginare, particolare per l’assenza di gravità. Ecco, che cosa ha significato questo e che tipo di esperienza ti ha dato? Che cosa hai imparato da questa situazione?
Secondo: hai potuto ammirare uno spettacolo eccezionale, la terra vista dall’esterno. Che tipo di bellezza hai scoperto? Quali domande e quali considerazioni ti sono nate in questa esperienza? E l’ultimo spunto, già accennato: come sempre succede qui al Meeting, incontriamo dei contenuti, delle cose grandi e belle, ma lo vogliamo fare incontrando la persona che ce le porta, quindi, vorremmo che tu ci raccontassi di te. Grazie.

PAOLO NESPOLI:
Grazie, Marco, per questa introduzione, grazie agli organizzatori che hanno lavorato per farmi venire qua questa sera, e grazie a voi per essere qui così numerosi, siete quasi un mare da vedere, da quassù, quindi meno male che hanno abbassato un po’ le luci così mi inquieto un po’ meno, siete quasi voi stessi un infinito, se devo esser sincero, visti da quassù. Abbiamo circa un’ora e un quarto, cercherò di mantenere la mia presentazione in questo tempo. Parleremo appunto di spazio e attraverso le sue attività tenteremo di trovare spunti per la vita di tutti i giorni. Comincio sempre le mie presentazioni con una cosa un po’ scolastica: vi prometto che ci saranno poche slides con scritte, saranno quasi tutte immagini, ma la prima è la domanda: perché andiamo nello spazio, in un posto ostile alla vita e dove è difficile andare? È un posto che richiede delle apparecchiature costose, complesse, anche rischioso, alcuni hanno perso la vita cercando di andare nello spazio e di ritornare sulla terra. Perché allora ci andiamo? La mia risposta a questa domanda è che lo facciamo perché lì troviamo delle cose che non ci sono sulla terra, e il fatto di andare in questi posti che non abbiamo nella vita di tutti i giorni è una delle cose che di solito facciamo: cioè, conosciamo, ma andiamo lì soprattutto perché ci sono delle condizioni di micro-gravità, delle condizioni di posizione rispetto alla terra che ci permettono di fare della ricerca scientifica. Poi vi farò vedere un attimo delle attività che abbiamo fatto in questi sei mesi nel volo di lunga durata sulla stazione spaziale internazionale. Facciamo ricerca scientifica che non può essere fatta sulla terra, perché se così fosse la faremmo qui, invece andiamo là sopra. Andare lì, poi, ci obbliga a lavorare, testare, sviluppare, costruire delle cose che non sono normali, perché l’ambiente non è normale. Se devo vivere in un posto dove una macchina mi deve mantenere in vita, una specie di polmone artificiale, è chiaro che la devo costruire in modo che non si fermi, perché se si ferma la bombola dell’ossigeno sulla stazione non è che c’è molto tempo per darsi da fare, quindi è bene cominciare a costruire queste tecnologie con un’affidabilità molto elevata. Alla fine, poi, queste tecnologie – motori, lubrificanti, pompe – vanno a finire nelle cose di tutti i giorni, nelle lavatrici, lavastoviglie, in queste cose che usiamo sempre. Insomma, l’andare in questi posti impossibili ci aiuta a vivere meglio nelle cose normali. Per finire, andiamo nello spazio per esplorare. In effetti, questa è la cosa principale, l’esplorazione vista come conoscenza, immagazzinamento delle cose interessanti, importanti, per farle proprie ed utilizzarle nella vita di tutti i giorni. Noi non ci rendiamo conto ma esploriamo sempre, in continuazione, è nella nostra natura, è forse la cosa che ci ha differenziato dal resto degli animali. Io ho una bambina di 3 anni, si chiama Sofia, e tutte le volte che la lascio da sola in una stanza le devo dire: “Mi raccomando, non toccare!”. Dura circa 15 secondi, dopo di che le cose cominciano a volare, a cadere. E non lo fa per dar fastidio a me, lo fa perché è così che facciamo: in un certo senso, noi adulti ci comportiamo nello stesso modo. Andiamo nei posti che non conosciamo, andiamo a cercare di capire e scoprire; e le civiltà che fino ad ora hanno coltivato questa esplorazione sono quelle che sono andate avanti, sono fiorite, le altre, che si sono chiuse in se stesse, sono morte. Quindi è una delle cose che dobbiamo fare per definizione.
Come abbiamo esplorato e come esploriamo in questi sei mesi sulla stazione spaziale internazionale? Lo abbiamo fatto lavorando in un laboratorio che si chiama appunto “stazione spaziale internazionale”, che viaggia a circa 400 km sopra la superficie terrestre, quindi non lontanissimo, ma è fuori dall’atmosfera, con una velocità di circa 28000 km/h (pari a 7,5 km al secondo circa): immaginate di essere su un’auto che sta andando a questa velocità, voi non vi accorgete che state andando così forte, l’unica cosa che sentite è il fatto che state cadendo, l’auto sta cadendo con voi, siete in una situazione di microgravità, state galleggiando. Una sensazione veramente diversa. Il fatto che sta andando a questa velocità, porta questa navicella, questo laboratorio, a fare un giro completo attorno alla terra ogni ora e mezza, il che vuol dire che ogni 30/40 minuti c’è un’alba o un tramonto: vuol dire che non è il caso di andare a guardare fuori dalla finestra, se volete sapere se è il momento di andare a letto o di svegliarvi e lavorare, perché finireste per dormire a singhiozzi. Però, è interessante perché, se uno vuole, può vedere là sopra 16 albe e 16 tramonti al giorno. Il volume interno è più o meno come una casa di 100 mq, il bello è che però puoi lavorare in tre dimensioni, sul soffitto e sulle pareti, e non c’è più bisogno di un pavimento che usi solo per calpestare, quindi lo spazio si moltiplica: è piccolo ma poi non così tanto. L’ultima cosa importante è che si tratta di un progetto internazionale: i partner di questo progetto sono gli Stati Uniti, la Russia, dieci nazioni europee coordinate dall’Agenzia Spaziale Europea, il Giappone e il Canada. E’ interessante come queste nazioni, alcune nemiche giurate fino a qualche tempo fa, ora stiano lavorando insieme ad un progetto molto complesso, molto costoso, a lungo termine. Sembra strano, ma il fatto che tutte queste nazioni abbiano lavorato insieme, ha fatto diventare il lavoro più complesso: immaginate rappresentanti di ognuno di questi Paesi a discutere qualsiasi cosa abbia a che fare con la stazione: ognuno parla nella sua lingua, hanno culture e metodi diversi, misure e dimensioni diverse. Il progetto è complesso anche per questo, ma alla fine, il fatto che siano coinvolte queste nazioni così varie lo porta ad essere un progetto più solido, molto meno attaccabile dal punto di vista politico, per esempio, perché ogni volta che un Presidente viene eletto negli Stati Uniti, cancella i programmi passati e si ricomincia da capo, il che vuol dire che è difficile fare programmi. E accade anche in Europa, dove 3 o 4 anni è l’arco di vita di un politico. Se dici a uno di questi: voglio un progetto che duri 15 anni e costi 100 miliardi, ti risponde che ne finanziano 50 che duri 3 anni, perché questa è la vita politica. Quindi, se in futuro vogliamo costruire qualcosa di grosso, andare su Marte o fare delle cose molto grandi, forse fare un progetto internazionale con tutti i partner è il modo per andare avanti.
L’idea e il sogno di fare l’astronauta mi è venuto da bambino, quando vedevo queste immagini che venivano dalla luna, con questi astronauti che saltellavano in modo un po’ strano o che erano sulla jeep lunare: mi piaceva che guidassero facendo le derapate, con i pezzi di luna che volavano dietro. Volevo anch’io andare in orbita e fare lo stesso, era il mio sogno. In effetti, poi, ero un ragazzino normale, come tanti, cresciuto in un piccolo paesino a nord di Milano, che andava all’oratorio. Ero anche carino, ma se guardate con attenzione la mano sinistra, la vedete tutta sbucciata, per non parlare delle ginocchia che – diceva mia madre – erano sempre scorticate perché ero un tipo attivo, non stavo molto fermo. Il risultato è che sono arrivato a 18 anni, alla fine del liceo, senza veramente sapere che cosa fare. Ho deciso di fermarmi un attimo e di andare a fare il servizio militare. Mi sono trovato così sospeso in aria: in questa foto sto cadendo a 200km/h, prima o poi devi trovare la maniglia per aprire il paracadute. Mi son trovato a fare queste cose strane nell’esercito, non avevo mai pensato di fare questo tipo di lavoro: alla fine, le esperienze che ho fatto mi hanno portato un attimo fuori dal mio paesino, mi hanno costretto a confrontarmi con tutta una serie di situazioni che mi hanno fatto conoscere un po’ di più le mie capacità personali, fisiche ma anche mentali. Alla fine, a 26 anni, mi sono trovato ad un bivio. Qualcuno mi ha chiesto: “Ma tu, cosa vuoi fare da grande?”. Mi sono sentito un po’ come di fronte a una foresta, dovendo cercare di capire se fosse il caso di restare in un posto sicuro, conosciuto, o se invece dovessi cercare di bucare la foresta per andare dall’altra parte. Ce l’avrei fatta? Sarei morto? Avrei trovato qualcosa che mi avrebbe dato fastidio? Sarei dovuto rimanere dentro la foresta perché non sarei riuscito a uscirne prima dell’arrivo della notte, o del giorno?
Tutte queste domande sono molto grosse, forti, ti fanno un attimo pensare a quello che uno debba fare da grande. Io mi metto nei panni dei giovani, così come ero io allora: non è una decisione semplice, non è facile capire che cosa uno voglia veramente fare, non è facile capire se abbia la possibilità di farlo e che cosa fare per raggiungere l’obiettivo. Alla fine, ho intrapreso questo viaggio con una domanda: “Che cosa vuoi fare da grande?”. Voglio fare l’astronauta ma oramai ho 26 anni, non parlo inglese, non ho una laurea, l’unica cosa che ho è un fisico normale. Ho cominciato ugualmente questo viaggio, sono andato negli Stati Uniti, mi sono scritto ad una università e dopo quattro anni ho preso una laurea in ingegneria aerospaziale. Questa è una foto scattata allora, c’erano ancora le torri gemelle, tutto contento, con il mio bel pezzo di carta, ho imparato l’inglese per forza, perché stando lì non poteva che essere così. E ho cominciato la corsa verso questa foresta, sono entrato dentro cercando di trovare la mia via d’uscita. Ci sono voluti molto tempo, molte prove, molti scontri: alla fine, però, dopo 10 o 15 anni, al mio terzo tentativo, nel ’98 sono stato selezionato come astronauta dall’Agenzia Spaziale Europea e sono stato mandato a Houston, nel Texas, dove c’è il famoso centro di controllo americano: avete presente? “Houston, we have a problem”. E’ anche la sede del volo umano negli Stati Uniti, dove tutti gli astronauti arrivano e si addestrano, è la casa degli astronauti.
Sono stato incluso in una classe di astronauti standard americani, la numero 17, che non porta sfortuna, è la 13 che porta sfortuna in America: la classe dei pinguini. 31 candidati astronauti, 25 americani, 2 italiani, 1 francese, un tedesco, un canadese, un brasiliano, 18 civili, 13 militari, 12 piloti collaudatori, 9 ingegneri, 7 fisici, un medico, un chimico, un’insegnante: come vedete, una classe abbastanza varia. Assieme abbiamo fatto l’iter iniziale, due anni di addestramento di base sullo Space Shuttle e sulla stazione spaziale internazionale, per poter essere qualificati ed assegnati a una missione. Dopo due anni perdi il titolo di candidato astronauta, diventi finalmente astronauta e sei assegnabile a una missione. Per capire quando e come ti assegnano, ci vuole un attimo di tempo, perché dipende da cosa serve, da come sono le opzioni di volo, da questioni politiche: tutta una serie di fattori. E io sono stato anche abbastanza sfortunato, perché nel 2003 c’è stato un incidente, lo Shuttle Columbia si è distrutto al rientro, per cui si è fermato tutto il programma. Ma alla fine, dopo nove anni, sono stato assegnato a una missione con un equipaggio americano sullo Space Shuttle Discovery. La missione si chiamava STS120, aveva come obiettivo portare il nodo 2, un modulo della stazione spaziale internazionale costruito qui in Italia, in orbita, e agganciarlo alla stazione. Questo era l’obiettivo primario, il secondo era spostare un gruppo di pannelli solari dalla parte superiore della stazione e portarlo nella posizione finale, operazione delicata e complessa. Gli ingegneri americani della NASA hanno lavorato per anni alla pianificazione di questa missione, noi siamo stati assegnati un anno prima apposta per diventare capaci di fare queste cose, anche in orbita. La maggior parte delle attività si sono svolte fuori dalla stazione, con astronauti in passeggiata spaziale: a me è stato dato il compito di fare il coordinatore delle passeggiate spaziali, una specie di regista, quello che, con il libro delle procedure di bordo, un libro alto 10 centimetri dove, passo per passo, c’è scritto quello che devono fare là fuori, è responsabile di fare in modo che avvenga. Loro sono fuori e possono solo lavorare, tu li devi dirigere. È stata una missione interessante e importante, partita nel novembre del 2007: quella che vedete nella foto, sulla destra, è la comandante della missione, un’astronauta americana donna, la seconda pilota e comandante di Shuttle americani, Pamela Melroy, con sei altri astronauti, tra cui io, l’unico non americano. C’era molta gente di Verano, il paese da cui vengo, al lancio dello Shuttle, tutti col cartello “Go, go, go”. Hanno cominciato a cantare: “O mia bela Madunina”. Poi ho detto: “No, ragazzi, non è il caso, facciamo qualcosa di più neutrale”. Perché rischiavamo di offendere i napoletani. Allora hanno fatto anche “O sole mio”: c’era un po’ di conflitto. Ci siamo accordati su “Volare”: c’era questo “Volare” che risuonava per Capo Kennedy, gli americani ci guardavano un po’ così, come dire: “Questi italiani sono tutti matti”. Ma insomma, lo Shuttle è partito ed è incominciata questa missione, 15 giorni molto intensi, come fare un campeggio veloce dove tu dormi e, anche se non dormi, non fa niente, se non mangi non fa niente, basta che lavori perché devi fare tutta una serie di cose in fretta e furia. Tra l’altro, lo sapete quanto tempo ci vuole dal momento in cui si accendono i motori qui sulla piattaforma di lancio al momento in cui sei in orbita? Ci vogliono 8 minuti e mezzo: fate conto che in questo tempo fate 600 km, come un Milano-Roma in 8,5 minuti, che non è male, devo dire, chi sa però cosa ci faranno pagare.
Lo Shuttle è limitato, nel senso che ha un sistema interno per cui le accelerazioni sono limitate a un massimo di 3 g: vuol dire che se voi vi sdraiaste su una cosa rigida e metteste tre persone sdraiate sopra di voi, del vostro stesso peso, questa è l’accelerazione cui uno viene sottoposto. Niente di supereccezionale, sono convinto che se prendessi la maggior parte di voi, con un po’ di addestramento, sareste in grado di sostenere queste accelerazioni al lancio e di arrivare in orbita. E’ una delle ragioni per cui dico sempre che andare nello spazio probabilmente sarà aperto a tutti, in futuro, non bisogna essere supereroi. Comunque, si arriva in orbita dopo 8 minuti e mezzo: appena arrivi in orbita, ti sganci e cominci a lavorare, è come una corsa veloce, come fare un 100 metri alle Olimpiadi, naturalmente non sei solo, si è in 7, ma giù c’è un centro di controllo, con 150 controllori di volo che controllano in continuazione quello che devi fare, quello che fai, e manovrano tanti sistemi della navicella. Quello che è successo, però, è che durante una delle passeggiate spaziali, quando abbiamo spostato il pannello solare, uno dei pannelli ha cominciato a rompersi: è quello che succede quando fai cose complesse. C’è la possibilità che succeda l’imprevisto e questo imprevisto è molto pericoloso perché, se il pannello solare, che non è piccolino, è lungo 35 metri, largo 4, 8 kilowatt di potenza, si fosse tranciato completamente, avrebbe potuto addirittura andare a sventolare nel corridoio di partenza dello Shuttle, bloccandoci lì sulla stazione. Siccome non c’è abbastanza ossigeno per tutti, per lungo tempo, non ci sono viveri, sarebbe stato sicuramente un problema. Un problema molto grosso, una specie di situazione alla Apollo 13 – ricordate il film? – dove gli ingegneri attorno alla scrivania buttano tutte le cose sul tavolo: “Hanno questo problema, che cosa possiamo fare?”. Ci è successa più meno la stessa cosa. Al centro di controllo hanno fatto così, si sono trovati e uno ha inventato di fare dei lacci da mettere nel pannello solare dove c’era la rottura, in modo da evitare che la rottura si propagasse. E allora abbiamo cominciato a lavorare in orbita, per due giorni, per costruire questi cinque lacci con pezzi di emergenza che abbiamo trovato sulla stazione. E dopo Scott Parazynski, uno degli astronauti americani con più esperienza per le passeggiate spaziali, e un altro collega, sono usciti per fare questa riparazione d’emergenza. Era un problema veramente grosso, perché la rottura – la vedete qua – era in un posto dove lui non poteva arrivare. Di solito si cammina con le mani fuori, quando si va in passeggiata spaziale, tra l’altro, se becco chi le chiama “passeggiate spaziali”, lo metto io dentro a una tuta da 150 chili, in assenza di gravità, e gli dico: “Adesso passeggia!”. E’ un po’ difficile, sembra quasi di fare la scimmia da una liana all’altra, in queste passeggiate spaziali. Usi le mani per muoverti, per passeggiare, vai dove devi lavorare e lavori. Beh, lì non ci poteva arrivare. Tenete presente che questi pannelli solari sono sotto tensione, non è che puoi spegnere il sole: tolgo la corrente, spengo il sole un paio d’ore, tre o quattro ore, faccio questa riparazione e via! Per esempio, abbiamo dovuto nastrare tutti i pezzi metallici della tuta, perché avevamo veramente paura che se lui avesse toccato le celle fotovoltaiche avrebbe causato dei cortocircuiti che avrebbero potuto sciogliere il metallo, fare scintille e bucargli la tuta. Non è molto bello, se sei in passeggiata spaziale e ti va via l’ossigeno. Di solito, non è molto piacevole, insomma, una cosa complessa! Tra l’altro, non ci poteva arrivare, quindi si sono dovuti inventare di agganciare sul braccio meccanico un altro pezzo che non c’entrava assolutamente niente, più un’altra estensione: scherzando, ho sempre detto che se avessimo avuto un paio di scope, le avrebbero legate lì, col filo di ferro, per permettergli di arrivare vicino, qua sopra. Morale della favola, questa cosa fantasmagorica è successa, nella foto c’è Colin Scott che ha messo tre dei suoi lacci, ce ne sono ancora due da mettere. Se notate con attenzione, in questa foto vedete che c’è un altro astronauta che vegliava attentamente su Scott, perché questo pannello solare è montato su una specie di vela che si muove. Se lo tocchi, la vela va via e poi ti viene addosso, quindi il suo compito era urlare: “Attento, Scott, ti sta venendo addosso la vela!”, così che Scott potesse tirarsi indietro o fermarsi. Insomma, una cosa abbastanza complessa.
Tutto questo per dirvi che quando siamo messi all’ angolo come esseri umani, e ci dobbiamo dare da fare per tirar fuori le cose astruse, strane e complesse, riusciamo a fare delle cose quasi impossibili: se l’avessero programmata, questa passeggiata spaziale, ci avrebbero messo quindici anni, e non sarebbero state possibili tutta una serie di cose di emergenza e di regole di sicurezza. Questa cento metri della missione sullo Shuttle è finita, al rientro, dopo qualche mese mi è stato detto: “Benissimo, Nespoli, ti abbiamo assegnato ad una missione di lunga durata! Sei mesi nello spazio”. Mi sono chiesto se dovessi essere contento o se invece dovessi avere paura. In effetti, sei mesi nello spazio non sono pochissimi. Io mi ero addestrato per volare sullo Shuttle, non sulla stazione, ma per tutta una serie di ragioni mi sono trovato in questa situazione, per cui non ho avuto scelta. Assegnato alla missione di lunga durata, mi sono trovato, questa volta, con un equipaggio formato da un colonnello dell’aviazione russa, Dmitri Kondratyev, lo vedete qui nel mezzo che sorride, e Catherine Coleman, anche lei un colonnello, dell’aviazione americana ma anche uno scienziato, ha una laurea in chimica. Mi sono trovato in equipaggio con questi tre ad addestrarmi in Russia per volare sulla navicella Sojuz: ora, volare sullo Shuttle è come imparare a guidare una Ferrari, più o meno, è una cosa veramente disegnata e costruita al limite, all’estremo, molto delicata ma molto capace. Poi arrivi in Russia, ti fanno vedere la navicella e ti viene da pensare: “L’ha fatta qualcuno nel garage negli ultimi quindici giorni? L’hanno comprata e montata in scatola di montaggio? Queste manopolone rosse di bachelite?”. Vi ricordate che c’erano una volta queste belle cose di bachelite rossa? Piano piano impari il russo, perché è tutto fatto in russo, parlano in russo i controllori di volo, le procedure, i libri, l’addestramento è tutto in russo, e impari anche ad apprezzare in effetti questo piccolo veicolo che, se da un lato sembra un po’ così, dall’altro ha la capacità di essere molto semplice, poco costoso e estremamente affidabile, nel senso che quando i russi dicono: “Il 26 febbraio alle 4.00 di mattina parte la Sojuz da Bajkonur”, la Sojuz parte il 26 febbraio alle 4.00 di mattina, che ci siano -20°, -30°, la bufera di neve, gli orsi polari. Parte! Lo Shuttle, al contrario, di solito, prima di partire, deve essere rimandato due, tre, quattro, cinque, dodici, quindici volte, perché c’è sempre qualcosa che non è esattamente, perfettamente a posto. Quindi, ci sono vantaggi e svantaggi. Dopo due anni e passa di addestramento, ci siamo trovati quindici giorni prima del lancio a fare una cosa tradizionale: i russi sono molto tradizionali. Ci siamo trovati nella Piazza Rossa a mettere i fiori sulla tomba di Jurij Gagarin e sulla tomba di Sergei Korolev che è l’equivalente del Von Braun russo, prima di partire per il Kazakhstan. Siamo partiti da Bajkonur, questo posto segreto, una volta, segreto, dove c’era ad attenderci il nostro razzo, la nostra Sojuz, che sostanzialmente è quasi identica al razzo di Jurij Gagarin, tanto è vero che la piattaforma da cui ci si lancia, che è questa, è sempre la stessa. Sempre quella di 50 anni fa, da dove è partito Jurij Gagarin. Mi piace questa foto perché è un po’ nazionalista, c’è la bandiera russa, la bandiera americana, la bandiera italiana e la bandiera del Kazakhstan. Non capita tutti i giorni, di aver la bandiera italiana che sventola nelle steppe del Kazakhstan. Ci siamo trovati li, era dicembre, di notte facevano -20°, -30° ma, implacabilmente, ci hanno infilato dentro il razzo e a mezzanotte, mezzanotte e venti, se non sbaglio, siamo partiti verso la stazione spaziale internazionale.
Quanto tempo ci mette questo veicolo, molto più piccolo, ad arrivare in orbita? Otto minuti e mezzo, un’altra volta. Sempre lo stesso. È un pochettino più forte, se devo essere sincero, invece di 3 g arriva a 4 g e qualcosa, ma il lancio è molto simile allo Shuttle. Lo Shuttle parte molto più forte poi rallenta un po’, questo parte molto più lento e poi va più forte alla fine, ma più o meno è lo stesso.
Ritorniamo al discorso di prima: se dovessi prendere la maggior parte di voi, potreste sicuramente affrontare un lancio senza nessun problema su questo veicolo. Otto minuti e mezzo e arrivi in orbita, sei su una navicella con lo spazio interno equivalente al sedile posteriore di un’utilitaria. Sei qui nel mezzo, questo si chiama modulo orbitale, è una specie di sfera di due metri di diametro, all’interno ci sono equipaggiamenti per la stazione, viveri, cose così. C’è un po’ di spazio, si può andare dentro, c’è una specie di micro bagno, nel caso dovessi andare, ma insomma, la maggior parte del tempo sei schiacciato in questa parte centrale. In questa parte posteriore, invece, c’è tutta la parte di supporto, con i motori, i contenitori, e lì non si può andare. Insomma, 48 ore, e piano piano ti avvicini alla stazionale spaziale internazionale che sta andando a 28.000 km all’ora: tu devi fare l’aggancio a 28.000 km all’ora più 10 cm al secondo, e deve essere 10, non deve essere 12 o 7, se vai più piano il sistema di aggancio, che è qua sopra, non si aggancia, quindi rimbalzi, più o meno, se vai troppo forte sfondi tutto e crei altri problemi. Cose successe, tra l’altro! Tutte queste cose sono successe in passato. La navicella Sojuz ha un sistema di controllo, di pilota automatico, per cui l’equipaggio di solito monitorizza quello che sta facendo il pilota automatico e, in caso di problemi, interviene e risolve la cosa. Per noi è andato tutto bene, ci siamo agganciati e non abbiamo avuto assolutamente nessun problema.
Sulla stazione c’erano già tre altri astronauti, due russi e uno americano, che erano lì già da tre mesi. Funziona così, di solito, ci sono tre che stanno sei mesi, ma dopo tre mesi ricevono tre nuovi astronauti, e si va avanti così in modo da avere sempre tre anziani a bordo. Quando arrivi in orbita, l’inizio è un pochettino complesso, difficile, quindi è bene avere qualcuno che sia lì da tre mesi. Quindi siamo arrivati noi. Ecco Dmitri che sorride di nuovo, Cady e Scott e noi tre, tre mesi dopo quei tre che c’erano se ne sono andati e noi siamo diventati gli anziani, eccolo sempre li, Dmitri, questa volta è diventato comandante della stazione. Questa è una foto fatta il giorno dopo, stavo mettendo a posto il mio cubicolo personale, la mia cabina, che è questa sulla sinistra, una specie di cabina telefonica: ognuno di noi ne ha una e quello è il tuo spazio personale, puoi entrare qui dentro e chiudere tutto, spegnere la luce. Sei abbastanza isolato, c’è un sistema di circolazione dell’aria per cui non muori, in caso di emergenza c’è un altoparlante che ti sveglia. Quando mi hanno dato quello lì di sinistra, ho pensato: meno male che mi hanno dato quello sulla parete, perché io a dormire come un vampiro, come questo qua, non ce l’avrei fatta. O peggio ancora, ho pensato, se mi avessero dato la tomba qua sotto: invece l’hanno data al russo! È veramente un posto fuori dal mondo, perché sei in caduta libera sostanzialmente, stai cadendo ma è la navicella che sta cadendo attorno a te, sei in questa situazione di micro-gravità, succedono delle cose veramente strane, non puoi più camminare, succedono una serie di cose interessanti. Questo è lo stemma che è stato creato dall’Agenzia Spaziale Europea per questa missione. Di questo stemma, sono importanti questa pianta, questi ingranaggi e questo libro, perché sono i tre pilastri della missione: la ricerca, la tecnologia e l’educazione, le attività principali che abbiamo fatto durante questi sei mesi. Questa è la slide equivalente della NASA, e siccome è della NASA, deve essere leggibile: cioè, avete bisogno di un anno di addestramento per capire qualcosa. Ci sono almeno una cinquantina di acronimi, lì dentro, ma è la lista di tutti gli esperimenti che abbiamo fatto nei vari settori: ricerca umana, fisica dei fluidi, ecc. Questa è Cady Coleman nel laboratorio giapponese che fa sfoggio del suo taglio di capelli. In effetti, quando arrivi in orbita, succedono le cose più strane: uno non ci pensa, poi arrivi in orbita e ti trovi con i capelli lunghi così, cosa fai? Il problema però è che come i capelli volano, volano o si muovono o si distribuiscono diversamente anche i liquidi che di solito sono nella parte inferiore del corpo, tirati giù verso il basso dalla forza di gravità, qui vanno verso l’alto. Infatti, se vedete, le facce sono piuttosto rosse perché c’è tanto sangue, sono molto irrorate dal sangue, ma c’è anche un innalzamento della pressione idrostatica dentro il cranio che porta a uno schiacciamento del cervello, uno schiacciamento del nervo ottico, uno schiacciamento dell’occhio. Tu arrivi in orbita e non vedi più niente, almeno io non vedo più niente, devo mettere gli occhiali. Di solito, quando si torna a terra si recupera. Di solito: ci sono stati tre casi di astronauti americani che non hanno recuperato, per esempio.
Succede anche che c’è un meccanismo all’interno che decide che, non essendoci più la forza di gravità, possiamo smantellare lo scheletro. E quindi si comincia a perdere calcio, si scioglie letteralmente lo scheletro. Non esageriamo, si scioglie velocemente, circa dieci volte più velocemente di una tipica persona osteoporotica, qui sulla terra. Per cui, sostanzialmente, il mio scheletro, facendo due conti, più o meno, in questi sei mesi in orbita è invecchiato di dieci anni. Il mio scheletro è più vecchio di me di dieci anni, è interessante, questa cosa! E si fa tutta una serie di ricerche: se guardate con attenzione, Cady ha addosso tutta una serie di strumentazioni mediche, appunto per calcolare, per vedere, per misurare questi cicli circadiani, per capire un po’ tutti questi cambiamenti che succedono in orbita. Qui sto facendo degli esperimenti. Stiamo guardando come si comportano degli altri esseri viventi: qui c’erano circa 200 micro vermi di un millimetro, all’interno di questo contenitore e gli scienziati da terra guardavano come si stavano comportando. Avevamo 21 di questi contenitori, alcuni con cellule cancerogene, altri con cellule di organi umani o animali: anche questo fa parte della ricerca nello spazio. Così come qui, non è Cady che sta mettendo il sale nella mia zuppa, come sembra: mette del gel in questi sensori in modo che gli scienziati possano misurare l’attività del cervello, perché quello che succede è che tu arrivi in orbita, sei sano ma è cambiato l’ambiente, in un modo così pesante che è come se fossi meno abile, diventi disabile pur essendo abile. Gli scienziati cercano di capire come il cervello si riadatta a questa nuova situazione, per tirar fuori dei paradigmi da utilizzare poi nella vita di tutti i giorni, quando qualcuno ha un ictus, un problema, un incidente, cose di questo tipo. Questo è Scott che sta facendo un esperimento tecnologico, sta guardando come si distribuiscono i liquidi in orbita. Volevo anch’io fare un esperimento, ma non abbiamo avuto moltissimo tempo. Immaginate cosa succede, qui sulla terra, se ho un contenitore con del liquido: come si distribuisce se dovessimo andare in orbita? Provate ad immaginare cosa succede, dove va la parte vuota? Va verso l’alto o verso il basso? A destra o a sinistra? Dove va? Non è così semplice, la cosa! Questa è Coca Cola, fa anche la schiuma. In effetti, quello che succede è che la parte vuota si distribuisce al centro, per cui le pareti attirano il liquido e succede questa interazione: qua sulla terra non si vede perché c’è la forza di gravità, lì invece si vede. Quello che hanno scoperto è che, se cambia la forma del contenitore, si schiaccia un po’, il liquido all’interno si comporta in modo completamente diverso. Sono esperimenti tecnologici che facevamo in orbita. Questa è sempre Cady che sta cavalcando una fornace spaziale, una specie di forno che è in grado di sciogliere piccoli pezzi di metallo e fare delle leghe: in assenza di gravità, si formano perfettamente. Poi si portano a terra e si possono valutare e misurare.
Poi abbiamo fatto attività educative. È molto importante, questa cosa dell’educazione, è stato molto importante coinvolgere i ragazzi delle scuole, fare capire loro che fare lo scienziato non è essere matto, essere pazzo, è qualcosa alla portata di tutti. Fare capire che la scienza, la tecnologia sono cose interessanti ed intelligenti. Spesso e volentieri, sui media, diamo delle immagini di persone di successo: cantanti, calciatori, veline, cose di questo tipo. Forse, far vedere ai ragazzi che lavorando per la scienza si riesce ad essere persone di successo, e si ha anche un ritorno, è importante. Abbiamo fatto un progetto chiamato Green House, un esperimento semplice: abbiamo fatto crescere piccole piante qua dentro. A terra, c’erano 800 scuole in tutta Europa dove avevano fatto crescere piante uguali: facevamo osservazioni incrociate. Come crescevano le piante sulla stazione? Come crescevano a Varsavia? Come crescevano a Milano, a Roma, a Parigi, a Oslo? È davvero interessante, questa cosa. Così come è interessante quest’altro progetto, chiamato progetto educativo Mission X, sottotitolo, Train like an astronaut, che non vuol dire “vai in treno come un astronauta” ma “addestrati come un astronauta”. Perché alla fine, sulla stazione, per via di tutte queste problematiche, con l’assenza di gravità dobbiamo stare veramente attenti, da un lato, all’alimentazione, dall’altro, a mantenerci in forma fisica, tanto è vero che facciamo due ore di esercizio fisico al giorno, sulla cyclette o sul tapis roulant. Interessante come, sia sulla cyclette che sul tapis roulant, tu ti debba legare, perché altrimenti vai a sbattere la testa sul soffitto dopo il primo passo. E poi un’ora di esercizio su una macchina speciale che ti permette di fare pesi in assenza di peso, per cui schiacci la colonna vertebrale e fai lavorare i tuoi muscoli contro questa forza. La ragione di questa Mission X è dare un esempio ai ragazzi, cercare di spronarli a fare attività fisica e a controllare quello che mangiano. Oggi come oggi, specialmente negli USA, succede che c’è un alta incidenza, per i ragazzi, di malattie che una volta non c’erano: diabete, obesità, cose di questo tipo. Perché? Una ricerca ha detto che i ragazzi di oggi mangiano male, mangiano quello che trovano dentro il frigo quando vogliono, e non fanno esercizio. Non è che io facessi esercizio, quando ero piccolo, non andavo in palestra, andavo fuori, ero fuori metà della mia giornata a correre e saltare e sbucciarmi le mani e le gambe. Adesso, invece, la maggior parte dei ragazzi sta a casa al computer o a guardare la televisione. E questo porta ad avere problemi. Quindi, l’idea era Mission X, “addestrati come un astronauta”, “emula un astronauta”. Abbiamo fatto anche attività con i radioamatori, collegando le scuole. Abbiamo parlato con 10.000 ragazzi dall’orbita, 77 contatti dalla stazione spaziale, per invogliarli a seguire le cose tecnologiche.
Per finire, una cosa molto bella: da un paio di anni sulla stazione c’è un modulo nuovo che si chiama “Cupola”, anche questo, tra l’altro, costruito qui in Italia, come il 40% della stazione, così come il “nodo 3”, costruito qui in Italia. In questa cupola è possibile guardare la terra che scorre sotto. Non usiamo la cupola per andare a fare le foto la sera, o almeno, non è questa la ragione per cui è stata costruita: all’interno della cupola ci sono dei joystick, dei controlli con cui è possibile manovrare una specie di gru spaziale che usiamo per fare cose tecnologiche, come per esempio catturare al volo una navicella di rifornimento Giapponese, lunga 12 metri, larga 5, che pesa diverse tonnellate e si ferma a 10 metri dalla stazione: noi dobbiamo andarla a prendere. C’è un attimo di batticuore, perché se fai un operazione sbagliata e la urti, comincia a rotolare. Poi bisogna dire ai giapponesi: “Scusate, la vostra navicella sta rotolando verso l’Oceano Pacifico”. E loro probabilmente ti risponderanno: “Scusate, non mangiate per i prossimi tre mesi”.
È interessante la tecnologia di questo braccio meccanico perché, se guardate con attenzione, ha una mano e un polso, una serie di snodi che equivalgono al nostro polso, uno snodo equivalente al gomito, e dall’altra parte ha un altro polso e un’altra mano, per cui questo braccio può camminare, lo posso prendere, agganciarlo da una parte e sganciarlo dall’altra. La stazione è lunga 100 metri e il braccio solo 25, perciò, se devo andare a lavorare laggiù, lo faccio camminare e poi da laggiù lo manovro. È una tecnologia veramente interessante, il contributo canadese alla stazione spaziale internazionale: dovendo sviluppare questa tecnologia, sono riusciti a diventare leader mondiali nel settore della robotica, dei freni e dei motori che ci sono nel braccio, tanto è vero che ultimamente, basandosi su questa tecnologia, hanno costruito un mini braccio meccanico che è in grado di fare operazioni chirurgiche remote.
Sulla stazione non c’è molto tempo libero: ogni giorno, da Huston, ti mandano una pianificazione giornaliera, si comincia a lavorare alle 7,30 del mattino e si va avanti, teoricamente, fino alle 7,30 di sera. C’è un’ora di pausa pranzo, due ore di esercizio fisico, però è tutto pianificato, perciò devi correre e di solito non si riesce neanche a mangiare perché, se fai un errore, ti parte il pranzo. Si arriva alle sette di sera, si parla con i centri di controllo e, tra una cosa e l’altra, arrivano le dieci, ora in cui, teoricamente, si dovrebbe andare a letto. Si dormono otto ore, così poi da svegliarsi e ricominciare. Questo non ti permette di fare niente delle cose che tu vuoi veramente fare, cose personali: fare foto dalla cupola o chiamare gli amici dal telefono di bordo, mandare messaggi su twitter o scrivere la posta elettronica, cose di questo tipo. Io infatti non andavo mai letto alle dieci, andavo a dormire all’una di notte, facevo tre ore di queste cose personali e poi di mattina mi svegliavo un po’ più tardi. Quando avevamo un po’ di tempo, ci mettevamo alla cupola e guardavamo di sotto, facevamo foto. che è una delle cose più belle da fare lassù. Vorrei farvi vedere un filmato che non ho fatto io, è stato fatto da astronauti che sono appena scesi dalla stazione. Hanno montato sulle finestre delle macchine fotografiche come le nostre, su dei cavalletti, e hanno programmato la macchina affinché facesse delle foto in sequenza, durante questi passaggi. Vediamo assieme questo filmato.

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Questa verde che vedete è l’atmosfera, i piccoli lampi che vedete ogni tanto sono temporali, fulmini. Guardate se riuscite a riconoscere qualcuna delle zone che stiamo sorvolando in questo momento. Qui sulla destra, un temporale! Questo è un passaggio sul Nord Europa. Ecco l’Italia! La Grecia, Turchia, Cipro, Medio Oriente, Il Cairo, il Nilo, i deserti dell’Arabia. Ogni tanto capita di vedere un’aurora boreale, lo spettacolo di queste cortine che volano verso l’alto. È capitato, lo scorso dicembre, di vedere uno spettacolo davvero incredibile! Non era proprio Natale ma quasi. Poi ci sono le riprese che vengono fatte di giorno, dove si vedono cose interessanti come gli uragani: questo è un uragano, ad esempio. Per finire, un passaggio sui deserti dell’Africa, questo è il Nilo, Il Cairo, il Sinai, il Mar Morto, il Medio Oriente, poi, andando avanti, la notte orbitale. Sono spettacoli davvero belli: vale la pena affrontare questo viaggio per arrivare lassù e vedere così la terra. Vediamo ora alcune delle foto che ho fatto io. Ne ho fatte circa 26000, in questi sei mesi nello spazio. Questi sono ghiacciai del Sud America, in Patagonia. Qui siamo nel nord del Canada, in inverno, è tutto gelato, tutto sotto zero, con questi fiumi dall’acqua un po’ più calda che fanno una specie di acquerello. Le dimensioni sono chilometriche, state guardando delle cose macroscopiche, non piccoline. A me, in effetti, ogni tanto sembrava di guardare al microscopio ma stavo guardando un microscopio che mi dava un’immagine macroscopica. Qui siamo in Amazzonia. È interessante questa foto, mi piace così com’è, sembra quasi un tappeto: quando uno la guarda con attenzione, vede che questo fiumicello, che sembra un fiumicello, è di diversi km, non è un fiume come i nostri! Se sei su questa sponda, probabilmente non vedi l’altra sponda. Il colore di questo fiume è un po’ marroncino, perché c’è del terriccio disciolto in acqua. Se uno la guarda con altri occhi, capisce che questa non è una foto statica ma dinamica, in questo momento lì si sta muovendo una collina. In tutti i momenti, tutti i giorni ci sono colline che si spostano da un punto a un altro. Quindi, cambia, la morfologia cambia, la natura non è ferma come pensiamo che sia! Se guardiamo questa foto, vediamo che questo fiume ha cambiato corso: siamo parlando di 80, 90 km di dimensione. Cambia in continuazione mentre noi pensiamo che i fiumi siano statici. Si capisce che forse non è il caso, se dovessimo costruire una città, di farla qui, giusto? A maggio dell’anno scorso ho fatto questa foto: è il Mississippi straripato negli Stati Uniti. L’ho fatta colorare apposta, tutte le aree che non sono verdi, sono sott’acqua, sono state inondate. Migliaia e migliaia di chilometri quadrati inondati dal fiume, con tutta una serie di problemi. Forse dovremmo lavorare con la natura e non contro la natura. Qui dove siamo? Il Gran Canyon. E questo di destra, cos’è? E’ il fiume Colorado. Qui è già successo quello che abbiamo detto, questo fiume nei secoli si è portato via tutto quello che c’era qua attorno, ed è rimasto un buco, il Gran Canyon: è grande, non è un bucherellino piccolino. Qui siamo a un chilometro e mezzo di profondità, una trentina di chilometri di diametro: si è spostata una montagna intera che è finita da un’altra parte. E ora, cosa è successo al fiume qua sotto? Si è abbassato di intensità, negli ultimi anni è diventato quasi un rigagnolo, perché ora usano l’acqua del Colorado e di tutti quei fiumi per alimentare le varie città, per mantenere verdi i prati delle case o i campi da golf. Bisogna fare attenzione, anche lì. Qui, dove siamo? Nei Caraibi, questa in alto a sinistra è Cuba, queste sono le Bahamas. Guardando questa foto, mi hanno incuriosito queste aree non lisce: quando sono andato a fare delle foto di dettaglio, ho visto cose veramente interessanti. Passiamo da profondità chilometriche a metri o anche meno di profondità, con queste sabbie tirate dalle correnti. Un ecosistema molto importante. Queste sono altre piccole isolette, ricordate che stiamo parlando di chilometri e chilometri, non di cose piccoline. Queste sono cose veramente grosse ma se siete su un aereo non riuscite a vederle. Vedete questa isola nel mezzo e questi drappeggi tirati? Siamo a Dubai. E qui, nel Bahrein, non lontano dagli Stati degli Emirati Arabi. Guardando questa foto mi viene da sorridere, pensando che hanno costruito delle isole in mezzo al mare, a forma di pesce. Però, se guardate in basso a sinistra, vedete la barriera corallina che parte, parte, parte e poi arriva lì e si ferma. Non è che si ferma, è che hanno dragato tutta questa area per tirar su la terra e per fare queste isole.
Se dallo spazio riesco a vedere queste cose – parliamo di chilometri e chilometri -, vuol dire che c’è un impatto ecologico. Stiamo facendo degli impatti qui e là, relativamente piccoli, ma quando li aggiungiamo uno dietro l’altro, sicuramente qualcosa cambiamo. Qui, sicuramente, le correnti sono cambiate. Non so cosa faranno queste isole in futuro, se sopravvivranno. Insomma, questo pianeta qui e là lo stiamo cambiando, ed è chiaro che, da lassù, si vede come questo pianeta sia un po’ in equilibrio: dobbiamo stare attenti a quello che facciamo. Questi sono i deserti. I deserti sono molto belli visti da lassù, perché di solito non ci sono nuvole. È un deserto, non piove, non ci sono nuvole. Di solito i deserti sono su superfici piane, forse una volta erano oceani, addirittura qualcuno ha del sale sulla superficie: hanno una superficie piana sopra la quale il vento ha attirato queste sabbie, di solito di più da una parte e meno dall’altra. Qui il vento è vorticoso e ha creato questi ghirigori interessanti. Ma non perdetevi lì dentro perché probabilmente non ne uscireste. Questi sono altri venti, molto più lineari, che tirano le sabbie sulle dune: viene da pensare che mi sarei perso, andando in quella direzione invece di cercare di scavalcare le dune in quest’altra. Questo è un altro deserto della Arabia Saudita, prima eravamo nello Yemen. Le sabbie hanno coperto quasi completamente questa base piatta, con una strada nel mezzo. Qui, invece, siamo in Egitto, questi li chiamano “deserti bianchi”, con una forte concentrazione di sabbia su questo lato. Tra l’altro, guardando questa foto di sera ho pensato: “Accidenti, devo pulire la macchina fotografica, è molto sporca, guarda quante macchie nere ci sono”. Perché, in orbita, l’elettricità statica sporca il sensore molto più di quanto succeda sulla terra: la polvere va in giro, mentre sulla terra si deposita. Poi mi sono reso conto che ad ognuna di queste macchie nere corrispondeva una macchia bianca. C’erano queste nuvolette che proiettavano ombre nere, vedete? E quindi mi sono divertito a pensare che queste fossero tante nuvolette di Fantozzi, con Fantozzi che seguiva la nuvoletta per evitare di essere bruciato dal sole del deserto. Questa a sinistra è una foto interessante, una zona completamente scura, con tante città, con tante piante, uno svincolo autostradale, una linea di demarcazione netta e poi il deserto con un’altra città strana. Dove siamo, al Cairo? E come fate a sapere che siamo al Cairo? Se guardate attentamente, vedete le piramidi nel mezzo. Le piramidi sono uno dei monumenti più importanti della antichità: pensate un attimo che, se dovessimo fare oggi le piramidi, noi le costruiremmo in mezzo alla città. Ma gli Egizi, che erano un pochettino più intelligenti, hanno pensato di metterle dove non arrivava il Nilo, anche perché le mummie non erano capaci di nuotare e quindi, per evitare che finissero sott’acqua, le hanno messo giusto dove il Nilo non arrivava. Qui dove siamo? Questa non è una montagna, è un vulcano, siamo in Europa, in effetti è il Vesuvio. Tanto per cominciare, vedete che l’area interessata dall’eruzione del ’79 d.C. non era poi piccolina, era piuttosto grossa? Se voi andate a vedere le città attorno, vedete che c’è tanta gente. Ma se uno vuole vedere e capire l’estensione delle popolazioni delle città, deve andare a fare le foto di notte. Ho aspettato di fare una foto di notte, ho aspettato qualche giorno e ho fatto la foto di notte. Abbassiamo un po’ le luci. Ho fatto la foto di Napoli di notte, secondo voi dov’è il Vesuvio, qua? Questo è il Vesuvio e si trova ad un diametro dal centro città. Pensate che qui attorno vivono un milione di persone, per cui se il Vesuvio si arrabbia un’altra volta, sono guai. Bisogna stare un po’ attenti a queste cose, io spero che non si arrabbi, però. Qui dove siamo? In Puglia! Non siamo in Puglia, questa è la Florida. Questo è Miami, Capo Kennedy, Orlando, Tampa, ecc. Guardando le foto di notte, è interessante vedere dove c’è la gente, si possono fare una serie di considerazioni. Per esempio: se una nazione ha tanto potere industriale ed economico, riesce a costruire un’infrastruttura come questa, cioè ad avere tante zone illuminate molto forte, perché occorre una potenza industriale per farlo. Tra l’altro, si capisce anche se una città è nuova o vecchia, perché di solito quelle nuove, come quelle americane, sono tutte squadrate. Vedete che sembrano fatte con la squadra? Se le guardate attentamente, sono tutte fatte così. Per cui, una città relativamente nuova è squadrata e una città vecchia è più arrotolata attorno al centro perché cominciavano da due, tre, quattro case, e diventano come le nostre, come Roma, come Milano. Qui dove siamo? Questa è una capitale dell’Asia. E’ una città nuova o vecchia? E’ arrotolata tutta attorno al centro, questa è Tokyo: pensate che in questa area vivono 37 milioni di persone. Più di metà dell’Italia vive in un’area grande tanto quanto la Lombardia, probabilmente. E’ un impatto molto forte, sebbene i giapponesi siano molto attenti, è comunque un impatto molto forte. Qui dove siamo? Città nuova o vecchia? Eh, mi piace perché ho sentito metà di voi che dicono nuova, e metà che dicono vecchia. Questo era un trucchetto, l’ho fatto apposta. Questa in alto a sinistra è Pechino, una città vecchia, che però ha un’infrastruttura vecchia e quindi non si riesce a capire, una infrastruttura squadrata, molto grossa, però arrotolata attorno al centro. Ma questo vi fa vedere un attimino che la Cina sta crescendo fortemente come nazione industriale: infatti, hanno la capacità industriale di costruire una infrastruttura di questo tipo. Qui vivono una decina di milioni di persone, ci vuole una struttura molto grossa: se fino a trenta anni fa andavano con i bastoncini e la bicicletta, adesso non più, sicuramente. Qui dove siamo? E’ una posizione un pochettino strana, si vede con un’angolatura diversa dal modo in cui siamo abituati a vederla: nella stazione, passi sopra la terra negli angoli più strani. Allora, questa foto è fatta dal Nord Europa, diciamo sopra l’Inghilterra, e stiamo guardando il Sud dell’Europa.
Mi piace che, quando sono in Italia, la maggior parte della gente dice: “L’Italia, la vedo! Eccola là, lo stivale, Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli. L’Italia, l’Italia!”. Beh, l’Italia, dovrei dire l’Europa, questa è la Germania, questa è la Svizzera, questo buco nero, l’Austria. Se voi foste un extraterrestre e doveste volare sopra l’Europa, e doveste dire qual è la nazione più industrializzata, cosa direste? Beh, non so se è il caso di applaudire, ma insomma, come extraterrestre direi: “Sono sicuro che l’Italia è la nazione in Europa che ha la maggior disponibilità di risorse naturali”. Petrolio! Come? Non abbiamo il petrolio in Italia? Ah già, è vero. Le centrali nucleari? Sicuramente in Italia. Come? Non abbiamo le centrali nucleari? Ah, è vero, compriamo l’energia dagli svizzeri, dagli austriaci, dai francesi. Compriamo l’energia dagli altri Paesi che sono un po’ più attenti a usarla e a bruciarla nello spazio. Perché è quello che stiamo facendo. Perché se io dall’orbita vedo tutta questa energia, è dissipata nello spazio, non serve a niente. Un lampione fa luce sulla strada e non sullo spazio. Questa che vediamo è tutta energia dissipata per niente. Dovremmo stare un pochino più attenti a come usiamo le nostre risorse. Forse, se spegnessimo la metà o due terzi delle luci che abbiamo sulle strade, vedremmo lo stesso. Forse questa è la ragione dello spread tra Germania e Italia.
Devo dire che l’Italia vista da lassù è molto bella, toglie quasi il fiato, da lassù ma non solo, per me e per tutti. Tra l’altro, mandavo queste foto via Twitter e tutti si lamentavano: “Eh, un’altra foto dell’Italia, basta, basta!”. E io dicevo: “Sì, però, in effetti quello che succede è che l’Italia è in una posizione così vantaggiosa, 45°, non fa né troppo caldo né troppo freddo, ha il mar Mediterraneo attorno e la corona delle Alpi. Per cui, ha questa posizione veramente vantaggiosa e una storia lunghissima, è bellissima”. Dovremmo veramente prenderci cura di questo tesoro e cercare di utilizzarlo un po’ meglio: da lassù è uno spettacolo stupendo. Vi ho detto che quando ero in orbita non andavo a letto presto, facevo queste foto, sono tutte sul sito con una serie di commenti, se volete andarle a guardare: ne ho mandate 632 un po’ da tutto il mondo. Per cui, andatevi un po’ a divertire. Per finire, in questi sei mesi di missione abbiamo fatto tante altre cose, oltre a questi esperimenti scientifici, tecnologici, educativi. Abbiamo ricevuto delle navicelle di rifornimento, è stato un andirivieni continuo: una giapponese, due russe, una europea. Questa navicella, costruita in Europa, si chiama ATV, un gioiello europeo che ci ha portato questi rifornimenti. Abbiamo festeggiato anche il cinquantesimo di Jurij Gagarin, eravamo tutti contenti: qui sorride, in quel momento era con noi in effige, perché era il 12 aprile del 2011. E’ stato un giorno di festa per noi, addirittura ci ha chiamato Putin dalla stazione spaziale e abbiamo mangiato in modo diverso dal solito, a base di scatolette, scatolette, scatolette e un salame! Meno male! Durante questi sei mesi abbiamo ricevuto due Shuttle nella loro ultima missione: hanno portato pezzi, rifornimenti per la stazione. È interessante quando arriva lo Shuttle, perché improvvisamente il numero di extraterrestri raddoppia, da sei a tredici. Hai questi pazzi che per quindici giorni arrivano a casa tua e sconvolgono tutto. Quando lo Shuttle arriva a cento metri sotto la stazione, si ferma, si ribalta e devi fare una serie di tegoline che sono dietro, foto che servono per vedere se c’è qualche problema: ecco Cady con il suo teleobbiettivo e le sue istruzioni. Questo è il mio teleobbiettivo e le mie istruzioni e stavamo aspettando lo Shuttle. Questo è il secondo Shuttle che è arrivato in orbita, aveva un esperimento gestito dal CNR di Ginevra con questo strumento che si chiama Alfa Magnetic Spectrometer. Un esperimento interessante, molto costoso e molto complesso, che è stato messo sulla stazione spaziale e sta collezionando particelle che arrivano dall’universo. La ragione di tutto questo è che i fisici hanno fatto il conto di quello che c’è nell’universo, hanno cominciato a misurare ciò che ci sta attorno, e hanno scoperto che manca qualcosa, giusto, Marco? I conti non tornano tra quello che dovrebbe esserci e quello che riescono a vedere e misurare. Secondo voi, quanto manca? Lo sapete? Manca circa il 96% della roba che ci dovrebbe essere, e non si sa dov’è, questo 96%. E questo è uno degli strumenti che potrebbe portarci a risolvere questo problema che è molto importante, a misurare per esempio l’antimateria. Esiste, questa antimateria? Potremmo utilizzarla per fare energia pulita? Queste sono cose veramente interessanti. Abbiamo parlato con il Presidente Napolitano, tra l’altro, come membro dell’equipaggio dello Shuttle c’era un altro astronauta italiano, Roberto Vittori. Eccolo qua, mentre insieme spieghiamo una bandiera che il Presidente della Repubblica gli ha dato per il 150° dell’unità d’Italia, l’abbiamo fatta svolazzare in orbita mentre parlavamo con il Presidente della Repubblica. È stato interessante, c’è stato un momento in cui c’erano due italiani fuori dal mondo. Abbiamo anche parlato con il Santo Padre, il Pontefice. È stato un discorso interessante: io mi aspettavo che il Santo Padre ci parlasse un po’ dell’universo, dell’infinito, invece ha iniziato a fare domande e a chiederci come facevamo le cose. È stato veramente interessante. È stato anche importante, perché il Santo Padre parlava in inglese con tutto l’equipaggio e ha cominciato a parlare con me in italiano, si è rivolto a me direttamente, perché proprio qualche settimana prima era a venuta a mancare mia madre mentre ero in orbita. Un momento importante per tutti noi, e il fatto che ci fosse il Santo Padre che parlava di questa cosa, ha portato sollievo a me e a tutto l’equipaggio. E finalmente, Dimitri sorride a bocca aperta. Questa è l’ultima foto nel momento di tornare a casa: siamo entrati nella navicella Soyuz, pronti a ritornare a terra. C’è stato un momento strano, mai successo prima, ci hanno dato l’autorizzazione di fermarci a 200 metri dalla stazione per eseguire delle manovre complesse e fare una serie di foto. Queste sono le uniche foto della stazione spaziale internazionale con lo Shuttle agganciato: le abbiamo fatte nel momento che ci siamo sganciati, un altro momento di privilegio e di estrema bellezza. Dopo di che, siamo rientrati. Lo Shuttle, quando rientra, rientra più o meno come un aereo di linea, è abbastanza dolce. La Soyuz, no. Il rientro della Soyuz è una sequenza di eventi catastrofici che succedono uno dietro l’altro, che ti lasciano esterrefatto, per cui pensi: “E’ stato bello, arrivederci, ci vedremo la prossima volta”. E dopo una serie di questi eventi, ti ritrovi appeso al paracadute in questo spazio molto piccolo, schiacciato dentro in posizione fetale, aspettando quello che i russi chiamano “atterraggio morbido”, che, vi posso assicurare, non è proprio morbido. Mi viene da pensare che la loro definizione di atterraggio morbido sia un incidente in autostrada tra un Tir e un’utilitaria: tu sei sull’utilitaria, meno male che hai la cintura e l’airbag, perché altrimenti ti spiaccicheresti. Dopo di che, la navicella naturalmente è passata attraverso tutte queste fasi sconvolgenti, come vedete non è in buonissime condizioni, e tu aspetti una mezz’ora che costruiscano una specie di trespolo in modo che possano andarci sopra. Siamo stati anche fortunati, noi, perché di solito, se c’è vento, invece di cadere così, cadi e cominci a rotolare per la steppa russa. E se non sganci il paracadute velocemente, parti e ti fai la cavalcata sulla steppa russa alla cosacca. Costruiscono questo trespolo e poi vengono a tirarti fuori. Hanno tirato fuori prima Dimitri, che non era messo male. Ognuno di noi vive questo rientro nell’atmosfera diversamente, perché dipende da quanto sei alto, ecc. Di solito, quelli piccoli e le donne risentono molto meno di questo rientro. Cady ha gli occhiali, sta parlando al telefono satellitare col marito, saluta come la regina d’Inghilterra, se non sapessi che è rientrata dalla spazio, direi che torna dalle ferie, è stata a Rimini quindici giorni, ritorna e saluta. Dopo di che, hanno tirato fuori me, che devo dire ero un pochettino più provato. Questa gravità, mi è venuto da dire in inglese “gravity sucks”, che non si traduce benissimo in italiano ma si può tradurre “la gravità fa schifo”, perché è veramente forte, questa gravità. Guardavo l’orologio e dicevo: ragazzi, ma pesa tre chili, questo orologio, e non riuscivo a tener su le mani, non riuscivo a fare niente. Difatti, quando mi hanno deposto dalla croce, notate bene nella mano destra il sacchettino per vomitare, sono riuscito a malapena ad alzare il dito e a dire: “Sto bene, basta con le foto”. Atterri nella steppa del Kazakhstan, ti mettono su un elicottero russo, un’ora e mezza di volo, arrivi all’aeroporto più vicino, ti caricano su un aereo della NASA e ti fai 22 ore di volo per tornare a Houston. È un viaggio un po’ complesso, devo dire. Questa è la storia del rientro.
Parliamo un attimo del presente e del futuro. Noi siamo sulla stazione spaziale internazionale. A Houston ci sono i controllori di volo, controllano tutto, ci fanno dormire la notte, se c’è un problema o un’emergenza, ci pensano loro. In sei mesi ci hanno svegliato una volta per chiudere una valvola, per il resto ci hanno pensato loro. È un modo abbastanza interessante di lavorare. Ma già, se dovessimo andare un po’ più lontano, sulla luna, la luna è a 350.000 km, più o meno: se dovessimo prendere uno dei nostri razzi, ci andremmo in tre, quattro giorni, più o meno, 8 minuti e mezzo per arrivare in orbita, 3, 4 giorni per andare sulla luna. Anche sulla luna, se c’è un problema, chiami Houston: “Houston, we have a problem”, e si risolve la situazione. Ma se dovessimo continuare nell’esplorazione e andare nel pianeta più interessante vicino a noi, ovvero su Marte, dovremo fare qualcosa di diverso. Andare su Marte vuol dire fare un viaggio che dura 8, 9 mesi di andata, dopo di che un altro di 7, 8 mesi, un anno, aspettando che Marte ritorni verso la Terra, e poi 7, 8 mesi per tornare indietro. Insomma, un viaggio andata e ritorno sono 2 anni, 2 anni e mezzo, 3. Pensate a prendere 8, 10 persone, metterle dentro la navicella e fargli fare questo viaggio: comincia a diventare complesso. Se sei su Marte e hai un problema, e chiami Houston – “Houston, la valvola 27 alfa mi sembra che non funzioni bene, dai un’occhiata, per favore?” – aspetti una decina di minuti e ti rispondono: “What? Say again”. O meglio: “Che cosa? Ripetete”. Voglio dire, cambia completamente il paradigma. Non ci possono essere più i controllori di volo a terra che ti controllano la navicella, devi fare da solo o ci deve essere un sistema tecnologico molto superiore a quello che abbiamo adesso. Andare su Marte, per quanto mi riguarda, oggi come oggi non è possibile con la tecnologia che abbiamo, ma se dovessimo lavorare, fare un programma serio, per i prossimi 10, 15 anni riusciremmo a mettere un essere umano su Marte, così come abbiamo mandato in questi giorni un robot che ci manda delle bellissime foto. Andare su Marte, secondo me, è un obiettivo possibile, intelligente, umano, fa parte del conoscere. E forse dovremmo lavorare di più su questo e costruire meno incrociatori o altre cose di questo tipo. Ammettiamo anche di andare su Marte: ma se guardiamo un po’ più in là, alle stelle qua attorno, potremmo pensare che per ognuna di queste stelle ci sia un pianeta o più pianeti associati. Quindi, contando le stelle, potremmo contare i pianeti: ma dove sono le stelle? Questa è una foto della stella più vicina a noi, fuori dal sistema solare. Se guardate attentamente a questa foto, c’è un cerchio rosso: la stella nel mezzo é Proxima Centauri, e si trova a 4,2 anni luce, più o meno. Il che vuol dire che, se dovessi andare alla velocità della luce, 300.000 km al secondo, ci metterei 4,2 anni ad andare là sopra. Ma siccome alla velocità della luce non ci posso andare – oggi come oggi possiamo andare alla velocità delle nostre navicelle, 30.000 km/h più o meno -, per andare su Proxima Centauri, ho fatto un conto stamattina ed è saltato fuori 162.000 anni, che un po’ tanto, e questa è la stella più vicino a noi. È quella che, a paragone, è tra me e il fiore qua. Se guardo alle stelle più lontane, quelle a 10 anni luce, 100 anni luce, 1000 anni luce, sono la terza fila qui; l’ultima fila laggiù forse saranno 10 milioni di anni luce. Ma 10 milioni di anni luce per distanze astronomiche è niente, è qua dietro l’angolo. Immaginate quanta roba c’è fuori dal nostro sistema solare, fuori dalla nostra galassia. Questa è la foto di una galassia simile alla Via Lattea: quanti pianeti ci sono, quante stelle? Miliardi. Quante sono le galassie nell’universo? Questa è una foto fatta del telescopio spaziale Hubble: se prendete un centesimo di euro e lo mettete a un metro di distanza e riuscite a guardare quello che copre questo centesimo, vedere quello che si vede in questa foto. Ci sono centinaia di galassie in quest’area molto piccola. Quanti pianeti, quante stelle ci sono nell’universo! Quanto è grande questo universo! Non è infinito, probabilmente lo è ma non è infinito. Immaginate di essere sulla spiaggia, qui al mare, di infilare una mano dentro la sabbia, tirarne su un po’, lasciare una montagnetta di sabbia là sopra: poi cominciate con pazienza a contare i granelli di sabbia che vi sono rimasti in mano. Difficile, ma si può fare, con un attimino di calma. Quando avete finito, buttate via tutto, e pensate che le stelle nell’universo, probabilmente anche i pianeti nell’universo, sono più di tutti i granelli di sabbia di tutte le spiagge di tutto il mondo. E questo vi da un attimino l’idea di questo infinito finito, che per noi è incomprensibile ma che a me viene voglia di esplorare. Mi verrebbe voglia di andare là sopra, a trovare un extraterrestre.
Ritorniamo, chiudendo, alla foresta. Vi dicevo che io ero un ragazzino normale, come tanti, cresciuto all’oratorio, senza un’idea delle mie capacità. Avevo un sogno ma non ero sicuro di essere in grado di raggiungerlo. Oggi mi sento fortunato di essere riuscito a realizzare questo sogno. E devo dire che è difficile, complesso trovarsi davanti a questa foresta, ma alla fine ci sono delle cose che, se ci potessimo concentrare un attimino, potrebbero aiutarci ad andare avanti, darci forza. Per prima cosa, secondo me, serve sicuramente la passione: avere passione per quello che uno vuole fare, non forzarsi a fare una cosa che non interessa. Trova la cosa che è la tua passione e falla! Non deve essere per forza l’astronauta, potrebbe essere il cuoco, potrebbe essere il taxista, potrebbe essere il parrucchiere. Se la sai fare bene o la fai con passione, è molto, molto meglio di qualcuno che fa l’avvocato e va in tribunale tutti giorni con la faccia lunga così, perché non ci vuole stare e magari guadagna il triplo, a parte il fatto che ci sono cuochi e parrucchieri che guadagnano più di quello che guadagno io. Passione, coraggio, decisione, bisogna essere decisi, perseveranza, non fermarsi davanti agli ostacoli, trovare il modo di passare attorno a questi ostacoli, superarli o distruggerli, abbatterli, capire cosa fare in ognuna di queste situazioni. A me ha dato coraggio questo senso di sfida: più mi dicevano che una cosa non si poteva fare, più la volevo fare perché mi sentivo sfidato. Secondo me, occorre mettere assieme una serie di cose che poi ti aiutano in questo viaggio. Occorre mettere assieme delle conoscenze, che vuol dire andare a scuola, imparare, fare dei corsi; occorre avere una forma mentis, crederci in un certo obiettivo e andare avanti; occorre avere una preparazione tecnica, perché con una preparazione tecnica adeguata si riescono a fare cose impossibili; occorre l’equipaggio corretto; occorre secondo me lavorare in gruppo, perché nessuno di noi è un supereroe o un super genio, ma quando si mettono insieme le energie di più persone si riescono a fare delle cose che una singola persona non è in grado di fare. Quindi, lavorare in gruppo, tesorizzare questa cosa. Infine, secondo me, occorre imparare dagli errori perché ognuno di noi, prima o poi, fa degli errori. Bisogna affrontare questi errori e non nasconderli, imparare da questi errori, guardarli di fronte, tirar fuori le cose positive perché ci sono anche in questi errori, e buttare via il resto. Prendere questi errori e buttarseli dietro alle spalle, perché non devono essere più davanti a te a distrarti o a impedirti di fare il tuo viaggio. E finisco, dicendo che il futuro è nostro, siamo noi che decidiamo che cosa fare, non possiamo aspettare che gli altri ci offrano il futuro su un piatto, non sempre succede. Siamo noi che dobbiamo prendere questo futuro per le mani, questo toro per le corna, e andare avanti perché ogni tanto, se veramente ci crediamo e lavoriamo, anche le cose impossibili si possono realizzare.

MARCO BERSANELLI:
Io voglio solo ringraziare, a nome di tutti noi, Paolo, per la testimonianza che ci ha dato, e che questo applauso, questa partecipazione che ci hai consentito di vivere oggi, dimostra. Ci sono degli aspetti che lui ci ha fatto vedere, ci ha fatto vivere, che oggi credo ci facciano uscire da qui diversi da come siamo entrati: abbiamo visto, ad esempio, che cosa vuol dire dover ritornare bambini e imparare a camminare, a prendere le cose, a spostarsi in uno spazio in cui la gravità non c’è più. Quello che noi diamo per scontato, che le cose cadano quando le lasciamo andare, improvvisamente ci accorgiamo che non lo è. C’è un modo di essere disposti ad imparare di nuovo tutto, che è proprio della condizione umana, del potersi adattare, vivere. Abbiamo visto una bellezza, mi sembra, non usuale, testimoniata da uno con la vibrazione del cuore e degli occhi. Una bellezza del nostro pianeta che si impone per la sua grandezza e al tempo stesso per la sua fragilità, perché abbiamo anche avuto un contraccolpo della responsabilità che a noi tocca, per come trattiamo il dono che ci è dato di questa bellezza, di questo pianeta, di questo mondo naturale in cui viviamo. E poi, questa sproporzione straordinaria: da una parte, l’ingegno, il coraggio, oppure la perseveranza, per usare una delle belle parole che lui ha usato, la grandezza dell’uomo, di Paolo e dell’uomo che lui rappresenta, che ha fatto questo passo così grande. Eppure, nello stesso tempo, la piccolezza, il sentirsi ancora più piccoli di quando si è partiti, di quando si è incominciato a capire. Perché l’universo è molto più grande di quello che noi possiamo ad oggi esplorare, come ci ha fatto capire Paolo. Usciamo di qui al tempo stesso più orgogliosi e più umili, ci troviamo tutti più bambini, più capaci di istruirci, magari. Davvero mi ha colpito, sia perché lo ha ricordato lui ma perché l’ho seguito anch’io in diretta, quel dialogo famoso con Benedetto XVI durante la loro missione: perché non si è rivolto a loro con dei discorsi o con delle spiegazioni, ma era bambino anche lui, ha desiderato ascoltare la loro testimonianza, ha voluto immedesimarsi con gli occhi di chi era lassù e vedeva le cose come si potevano vedere da lassù. Questo è il cuore di un uomo vivo, di un uomo che desidera la verità, che desidera sperimentare la verità. Mi ha anche colpito, e con questo davvero concludo, come il Papa, rileggendo quel dialogo, si sia rivolto a loro come “nostri rappresentanti, la punta avanzata dell’umanità che esplora nuovi spazi e nuove possibilità per il nostro avvenire”. Quasi a dire: voi non siete lì per conto vostro, siete lì portando tutti noi, perché attraverso quello che voi vivete e scoprite, possiate testimoniare una bellezza e una verità più grande. Questo è il destino di tutte le cose belle e vere, di essere condivise e di essere testimoniate. Questo è quello che è successo oggi al Meeting, grazie a Paolo.

Data

22 Agosto 2012

Ora

17:00

Edizione

2012

Luogo

Auditorium B7
Categoria
Incontri