“GOING WEST”: LIBERTÀ, SOLITUDINE, E L’ESPERIMENTO AMERICANO

Greg Lukianoff, Presidente Foundation for Individual Rights in Education (FIRE);  Martina Saltamacchia, Associate Professor di Storia Medievale all’Università del Nebraska, Omaha. Introduce José Medina, Insegnante, USA.

"Going west": Libertà, solitudine, e l'esperimento americano

Greg Lukianoff, Presidente Foundation for Individual Rights in Education (FIRE);  Martina Saltamacchia, Associate Professor di Storia Medievale all’Università del Nebraska, Omaha. Introduce José Medina, Insegnante, USA.

JOSÉ MEDINA:

Buon pomeriggio. Ci troviamo oggi ad ascoltare Greg Lukianoff e Martina Saltamacchia. Ve li presento e dopo vi dico il contenuto della conversazione. Greg Lukianoff è il Presidente di Fire, una fondazione che si occupa di difendere i diritti individuali nel mondo dell’educazione. Il suo lavoro è soprattutto attorno al primo emendamento della Costituzione americana, scritto nel 1791, 228 anni fa, che protegge il diritto individuale dall’influsso del Governo, riguardo la libertà di espressione, la libertà di assemblea, la libertà di stampa e il diritto di petizionare al Governo nel caso che uno trovi dei problemi. Avvocato di professione, è anche autore di un libro, che è uscito nell’Ottobre dell’anno scorso, che è stato nella lista dei libri più venduti del New York Times per quattro settimane. Scritto con Jonathan Haidt, si chiama “The Coddling of the American Mind: How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting up a Generation for Failure”, il coccolare della mente americana. Il sottotitolo dà anche un po’ un’idea del contenuto di cui lui parlerà oggi: “Come buone idee stanno preparando una generazione al fallimento”. Alla mia sinistra, la professoressa Martina Saltamacchia, professoressa associata di Storia medievale e direttrice di studi rinascimentali e medievali nell’Università del Nebraska, in Omaha, terra di pionieri, nel Midwest americano. Ha scritto diversi libri, la sua specialità è soprattutto il Medioevo, la costruzione di cattedrali. Il tema di oggi è attorno alla libertà e solitudine nell’esperimento americano. Nasce da una provocazione: l’America, gli Stati Uniti, formati da quelli che hanno lasciato l’Europa alla ricerca di un luogo di libertà dove poter costruire la loro vita fin dall’inizio avevano un gran desiderio di proteggere questa libertà trovata. Negli ultimi anni, di questo ci parlerà Greg, sembra che una certa paura all’uso della libertà sia iniziata. Greg Lukianoff ci farà vedere un po’ come questo stia succedendo oggi, in particolare nelle Università americane dove lui lavora come avvocato che difende i diritti individuali, il diritto di espressione dei professori. La professoressa Martina Saltamacchia ci aiuterà ad illuminare anche, essendo storica e vivendo nella terra di pionieri, visto che insegna all’Università in Nebraska, come questo problema, che troviamo oggi, possa essere capito guardando alla storia dei pionieri e all’esperienza che loro hanno fatto nei primi anni che hanno vissuto là. Allora senza fermarmi troppo ad introdurre, vi presento Greg Lukianoff.

 

GREG LUKIANOFF:

Innanzitutto vorrei esprimere il mio ringraziamento per avermi invitato, sono un fan di José Medina e sono molto contento di essere qui. Purtroppo sono un po’ raffreddato, di solito non ho una voce così roca. Il mio libro con lo psicologo sociale Jonathan Haidt, “The Coddling of the American Mind”, comincia con un racconto. Io con il mio coautore raccontiamo il viaggio sul monte Olimpo, fatto per poter parlare con un uomo molto saggio, Misoponos, e lì cerchiamo di capire che cosa sia andato storto nei campus americani e nella società americana in generale, per arrivare poi all’intolleranza della libertà di parola ed anche all’ aumento incredibile della depressione, dell’ansia e della polarizzazione politica. Misoponos ci dà tre risposte: quello che non ti ammazza ti indebolisce, abbi sempre fiducia nelle tue sensazioni e la vita è un conflitto tra i buoni e i cattivi. Entrambi siamo sconvolti da questa spiegazione. Sappiamo dalla nostra esperienza, dalla psicologia moderna e anche dalla saggezza antica occidentale e orientale che questo tipo di risposta è orribile e che anche gran parte dei lettori avrebbero questo tipo di reazione. Però cerchiamo di invitare i lettori a pensare questo: se pensiamo che questo consiglio sia orribile, perché continuiamo ad insegnare delle grandi falsità ai giovani, in maniera diretta ed indiretta? Vediamo cosa raccontiamo nel libro. Non dovremmo essere sorpresi che una generazione di giovani siano sempre più ansiosi, depressi e polarizzati, perché noi, i loro genitori, professori, insegnanti, stiamo insegnando loro le prassi intellettuali che sono tipiche delle persone ansiose, depresse, polarizzate. Come siamo giunti a questa conclusione? Facciamo un passo indietro. Vi racconto un po’ della mia storia professionale: nel 2001 ho cominciato a lavorare sulla libertà di parola nelle Università americane. Le persone dentro e fuori dagli Stati Uniti vedono la libertà di parola nelle Università legata al concetto di essere politicamente corretti. Certo, c’è un fattore di certezza in tutto questo, c’è però uno stereotipo che non corrisponde alla realtà. Qui vedete, in questa immagine della diapositiva, un documentario intitolato “Can we take a joke”, che mostra proprio il tentativo di bloccare la rappresentazione di un musical da parte degli studenti. Uno studente è stato arrestato per aver distribuito volantini contro il capitalismo. Oppure c’è una zona, un gazebo dove è consentita la libertà di parola, che è quella zona così, un po’ triste, dove i 28 mila studenti di quel campus possono esprimersi liberamente. Ci sono stati anche studenti puniti per aver distribuito copie della Costituzione statunitense, che include anche copie del Primo emendamento. E questo certo è un limite alla libertà, non si può veramente credere che possa succedere questa cosa. Ci sono stati limiti imposti e sono state definite zone dove gli studenti possono esprimersi liberamente, come nella foto in basso, la Free Speach Swamp. Tutti questi casi sono una violazione della tutela della libertà di espressione degli Stati Uniti. Per tanto tempo queste violazioni sono state perpetrate all’interno dell’Università, per esempio approvando dei codici contro l’uso di messaggini o di mail duri, o ancora, con espressioni quasi ridicole che vietano l’uso di derisioni o scherno in maniera inappropriata. La situazione è un po’ strana: ci sono posti, come le Università, che difendono la libertà di parola, dove questa viene in realtà vietata. La mia idea su tutto questo però è cambiata quando sono caduto in depressione, nel 2007, e ne parlo nel libro. Sono stato ricoverato e a quell’epoca pensavo di non poter guarire. Quello che mi ha salvato, onestamente, è stata una pratica terapeutica chiamata “Terapia cognitiva comportamentale”, conosciuta come CBT. Semplificando molto, la CBT comporta l’apprendere come sbarazzarsi dei pensieri ossessivi, esagerati, negativi, utilizzando degli argomenti razionali, invece di usare delle distorsioni cognitive, di cui vi parlerò dopo. Cercavo di non trovarmi bloccato in questi pensieri catastrofici, però non potevo neanche ignorare che nei campus questo sembrava succedere, era un esempio quotidiano. Nel mio primo libro del 2012 che si chiama Unlearning Liberty, porto un esempio: un professore del New Jersey è stato sospeso e mandato in cura psichiatrica dopo aver postato la foto di sua figlia che faceva questa mossa di Yoga, questa posizione di Yoga, con la maglietta de “Il trono di spade”. L’aveva postata sui Social Media e la t-shirt citava il testo di un personaggio, Daenerys Targaryen, che dice: “Prenderò tutto ciò che è mio, con il fuoco e con il sangue”. La serie ha avuto grande successo nella storia della televisione, però l’Università l’ha ignorato e ha sostenuto che la parola “Fire” nella maglietta poteva riferirsi ala volontà di uccidere gli studenti nel campus. Questo è l’apice del pensiero catastrofico e l’ho visto tantissime volte durante la mia carriera, nella fondazione dove lavoro. Però dal 2000 al 2013 gli studenti praticamente si irritavano nei confronti di queste reazioni da parte degli adulti, però all’improvviso tutta la situazione è cambiata. Questo è un esempio dal Dartmouth College che è successo proprio prima del grande cambiamento. Uno studente ha guidato con la sua macchina sopra tutte queste bandierine americane, queste bandierine erano un tentativo di protestare contro una decisione della Corte Suprema che aveva reso l’aborto legale in tutto il Paese, quindi l’avere guidato la macchina sopra queste bandierine è stato molto pericoloso, però era anche ironico, perché lo studente aveva un adesivo con scritto “Coesistenza” sulla macchina. Quindi ci sono tantissime dissonanze come queste negli studenti: credono di essere così tolleranti che diventano intolleranti nei confronti di coloro che non la pensano come loro. Il 2013 è stato l’anno in cui abbiamo cominciato a vedere un aumento degli sforzi degli studenti a non invitare oratori che erano considerati controversi, quando accadevano forme di violenza contro gruppi sotto rappresentati. All’Università della California, Los Angeles, ci sono molte affermazioni che gli americani considererebbero innocue, per esempio: “Credo che la persona più qualificata dovrebbe avere il lavoro” o “L’America è una terra di opportunità”, ma queste sono viste come una forma di violenza nei confronti degli oppressi. Sempre in questo periodo c’è stato un aumento di medicalizzazione rispetto alla libertà di espressione, perché si pensava che ci potessero essere degli effetti negativi a livello psicologico nel momento in cui ci fossero stati degli oratori scomodi all’interno dei campus ed è successo che i centri di igiene mentale sono stati presi d’assalto ed è stato lì che mi sono preoccupato, perché c’era questo senso di censura che veniva insegnato ai giovani, che aumentava il senso di ansia e di depressione. Quindi mi sono avvicinato al mio nuovo amico Jonathan Haidt, gli ho parlato della mia teoria della libertà di pensiero e della CBT e con grande sorpresa gli è piaciuta e nel 2015 abbiamo scritto un articolo per la rivista The Atlantic che si chiamava “The Coddling of the American Mind”, la coccola del pensiero americano. Nel nostro articolo abbiamo parlato delle distorsioni cognitive e di come pensiamo che gli studenti stessero esprimendo improvvisamente le prassi mentali non solo dell’intolleranza, ma anche dell’ansia e della depressione. Le distorsioni cognitive comprendono atteggiamenti come l’essere catastrofico, la lettura del pensiero, la previsione del futuro e anche esagerazioni mentali. Gli esempi che di solito faccio, riguardano per esempio un appuntamento che va male e allora la persona dice: “Sono orribile e morirò da solo”. Tutti quanti magari abbiamo avuto questo pensiero qualche volta, però non si è mai realizzato nella realtà. Le nostre distorsioni cognitive comprendono anche il ragionamento emozionale che sta proprio al cuore della grande falsità numero due, cioè che le nostre sensazioni hanno sempre ragione. Si parla anche di “pensiero dicotomico”, che è definito come la grande falsità numero tre e cioè che il mondo è diviso solo tra buoni e cattivi. L’articolo ha avuto successo, è diventato l’articolo più letto, il numero due, nella storia della rivista The Atlantic, che è una rivista fondata nel 1857. Ma nonostante il successo dell’articolo, la situazione è continuata a peggiorare, nei campus e anche fuori dai campus. L’elezione di Donald Trump ha acuito tutte queste tendenze, portando alla prima serie di violenze commesse dagli studenti: situazioni orribili che non avevo mai visto prima, per esempio è stato assalito Charles Murray, è stato bloccato, sono stati bloccati anche oratori conservatori e ci sono stati disordini a Berkeley, in California, dove gli studenti hanno bloccato degli oratori di destra perché non volevano che esprimessero le loro idee. Tutto questo ha spinto me e John a continuare con il nostro lavoro e a domandarci cosa diavolo stesse succedendo. E devo dire che non mi è mai piaciuto il titolo “The Coddling of the American Mind”, ho pensato che era troppo offensivo nei confronti delle persone che avevano proprio bisogno di leggerlo, quindi preferirei chiamarlo “disempowered”, disemancipazione, perché penso che molti dei college delle élite che stavano prendendo degli studenti eccellenti, li stavano trasformando in persone piene di paura, arrabbiate e piene di sensazioni di frivolezza. Tra il 2013 e il 2014 gli studenti che frequentavano le Università erano di una generazione completamente diversa rispetto alle generazioni precedenti. Vedete che è stata una generazione che è cresciuta molto più lentamente, che ha passato le tappe principali dell’adolescenza molto tardi, per esempio guidare la macchina, avere rapporti sessuali o bere alcol. Questa nuova generazione, incominciata con le persone nate dal ’95 in poi, è stata chiamata “Generazione Z”, in inglese “Generation Z”. Nel 2015 non c’erano abbastanza dati per dimostrare che il peggioramento della condizione di igiene mentale era così grave, però purtroppo questo si è dimostrato essere vero, grave ma molto più traumatico di quello che ci si poteva aspettare. I tassi di depressione sono saliti alle stelle e tra quegli studenti che andavano all’Università proprio in quel periodo, dal 2013 al 2014, i racconti di depressione erano molto diffusi, soprattutto tra le giovani ragazze. Nel frattempo c’erano delle teorie sull’aumento della depressione e dell’ansia che non spiegavano la realtà, dato che gli studenti non parlavano di un aumento di stress, alla base di tutto questo e non c’erano neanche preoccupazioni legate al debito d’onore, sempre più grande. Alcuni critici dicevano che probabilmente gli studenti si sentivano più aperti a poter parlare della loro depressione ma anche questo non spiegava la situazione. Per esempio, considerate queste statistiche: qui vedete i ricoveri per violenza autoinflitta non fatale, commessa da giovani prima della Generazione Z, di solito con dei tagli autoinflitti. Guardate come la situazione dopo la Generazione Z, a partire dall’età della pubertà è cambiata, e cosa ancora peggiore, il tasso di suicidio è aumentato sia per i ragazzi che per le ragazze; anzi, per le giovani ragazze dal 2008 fino ad oggi è raddoppiato negli Stati Uniti. Allora perché sta succedendo tutto questo? Abbiamo individuato dei filoni di cause diversi e abbiamo cercato di spiegare quello che succede nei campus, però tenete presente che ci concentriamo soprattutto sui campus delle Università con giovani della classe media, medio-alta. I problemi che riguardano gli studenti poveri degli Stati Uniti sono diversi e sono trattati in altri libri. Allora, vediamo cosa succede nei campus: posso dire con un certo grado di certezza, essendo in prima fila nelle battaglie dei campus, che le cose sono peggiorate negli ultimi anni, soprattutto per l’espansione massiccia della burocrazia dei campus, che tende a reagire anche agli incidenti più insignificanti insegnando le distorsioni cognitive e promuovendo la dipendenza morale, cioè l’idea secondo cui qualcuno ci sarà che risolverà i conflitti per voi. Inoltre, sempre nei campus, agli studenti si insegna un modello di giustizia sociale che è molto più manicheo ed enfatizza il conflitto totale tra l’oppresso e l’oppressore. Questo potrebbe anche sorprendere alcune persone, però la generazione Z negli Stati Uniti mostra livelli più bassi di solidarietà. Molti di questi studenti credono così tanto di esser parte della minoranza più piccola della società, che mostrano pochissima solidarietà nei confronti della grande maggioranza degli Stati Uniti, che magari potrebbe avere anche una posizione leggermente diversa. E poi parliamo di genitorialità: negli Stati Uniti, sono sicuro che lo sapete, siamo stati molto critici verso lo sviluppo di uno stile di genitorialità che chiamiamo “genitori elicottero”, cioè sempre sopra i figli ai quali organizzano un sacco di attività. C’è stato un declino del gioco libero, è stato un fattore che ci ha sorpreso, però crediamo che i bambini con tantissime cose da fare e con tantissima pianificazione non riescano a sviluppare le competenze di base di socialità e di vita nella società libera, dato che ogni secondo della loro vita è organizzato e pianificato dai genitori. E qua c’è il punto più importante: perché tutto questo è successo così velocemente? I social media sono i colpevoli più probabili, essendo l’unico cambiamento improvviso principale che si correla bene con tutti gli altri cambiamenti improvvisi. È stata la prima generazione di studenti che è cresciuta con i social media e con gli smartphone in tasca, quindi crediamo che ci sia stato per questo un aumento di depressione, di ansia, dato che per esempio i social media permettono di trasmettere continuamente, ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana, il film peggiore per le ragazze che è Mean Girls. I social media hanno anche inasprito il problema della frammentazione della società, perché sia online sia offline la società si è divisa tra persone che la pensano nello stesso modo, creando una polarizzazione fortissima e questo avviene anche in altri Paesi. E qui arriviamo alle tre grandi falsità: quello che non ti ammazza ti indebolisce, abbi sempre fiducia nelle tue sensazioni. Rispetto alla prima, i bambini sono sempre anti-fragili e nell’avere sempre fiducia nelle proprie sensazioni siamo tutti inclini al ragionamento emozionale e a cercare sempre conferme. Quanto a vedere la vita come una lotta tra i buoni e i cattivi, sappiamo che siamo tutti inclini al tribalismo e al pensiero dicotomico. Questi sono praticamente gli argomenti che presentiamo nel libro. Vi ringrazio di nuovo per avermi invitato e vi prego di non infastidirvi se continuerò a fare delle foto ma le pubblicherò poi su Twitter, su Instagram. Vi trasmetto tutto il mio affetto, anche ai colleghi qui sul podio con me. Grazie.

 

MARTINA SALTAMACCHIA:

Insegno da una decina d’anni in Università in America, per cui le questioni di cui Lukianoff parla sono una realtà di cui anch’io sono cosciente, e comincio a vederne in atto le conseguenze su studenti e professori, sulla possibilità di conoscenza, di dialogo e di insegnamento.

Da sette anni, in particolare, vivo in Nebraska, che è un posto per molti versi inimmaginabile per un italiano, e per questo, da storica, mi è venuto il desiderio di conoscerne la storia. Lo stato del Nebraska non esisteva fino a 155 anni fa. Prima dell’arrivo dei primi esploratori europei, la regione era abitata per migliaia di anni da diverse tribù di indigeni, che nel settecento vengono massacrate dagli europei e poi, nell’ottocento, costrette a cedere i territori e relegate in riserve.

Nel 1862, a un anno dall’inizio della guerra di secessione americana, il Congresso vara il primo di una serie di procedimenti legislativi, gli Homestead Acts, che decretano l’assegnazione a chiunque ne faccia richiesta di 160 acri (65 ettari) di terra demaniale. 270 milioni di acri (oltre un milione di chilometri quadrati), per lo più praterie e terre selvagge, vengono concessi gratuitamente. Per poter “rivendicare” la terra e ottenerne il titolo di proprietà, agli homesteader è richiesto di risiedere nel lotto assegnato per almeno cinque anni, coltivare la terra e apportarvi migliorie.

Oltre un milione e mezzo di persone—uomini, donne vedove e nubili, famiglie, schiavi liberati, e immigranti—rispondono ad annunci che promettono:

 

“Terra per i senza terra! Tetti per i senzatetto! Milioni di ettari praticamente regalati ai coraggiosi pionieri del mondo dal generoso Governo americano. Milioni di ettari di frumento e pascolo! I frutti pagheranno per il terreno e le migliorie!”.


e intraprendono l’arduo viaggio – GOING WEST – verso le terre selvagge.

Cosa succede a questi uomini e donne una volta lì giunti? Il primissimo impatto è duplice. Da una parte, lo stupore alla vista della prateria che si estende a perdita d’occhio, e dall’altra lo smarrimento di fronte all’assenza di qualsiasi elemento familiare, come la scrittrice Willa Cather descrive in un suo romanzo l’arrivo di un gruppo di pionieri in Nebraska (lei stessa si trasferisce in Nebraska con la famiglia a fine ottocento all’età di nove anni, e a questa esperienza si ispirano i suoi libri):

 

Strisciai cautamente fuori dalla pelle di bisonte, mi posi in ginocchio e scrutai dall’orlo del carro. Pareva non vi fosse nulla da vedere: nessuno steccato, nessun torrente o albero, nessuna collina né campo. Se c’era una strada, non mi riusciva scorgerla alla luce tenue delle stelle. Mai avevo guardato un cielo su cui non si stagliasse una catena di monti familiare. Ma questa, invece, era l’intera volta del cielo, tutta quanta. Avevo la sensazione di aver lasciato il mondo dietro di me, di averne raggiunto il limite e di essere di là dal dominio umano. Null’altro che terra; non c’era un paese, ma il materiale di cui i paesi sono fatti.

 

E dunque, con questi ingredienti, si può ricominciare: proprio questo è ciò che viene definito l’esperimento americano – la possibilità misteriosa di cominciare da capo la costruzione di una società senza poggiare su di un’origine e una tradizione comune, nella speranza di realizzare un mondo più buono e più giusto.

La mancanza di istituzioni e poteri preesistenti, insieme a spazi naturali così estesi, aprono un oceano di possibilità. Il poter fare e costruire senza i condizionamenti di uno stato o di una chiesa porta gli americani, fin dall’inizio, a rifondare tutto, perfino rinnovando la propria tradizione religiosa.

La stupefacente vastità delle distese a perdita d’occhio e le opzioni sconfinate del “paese delle opportunità” sono i refrain che appaiono continuamente nelle canzoni e negli scritti degli americani: l’idea che “tutto è possibile”, come scrive il pioniere Ed all’amico Ev, per convincerlo a venire anche lui a stabilirsi nel territorio Dakota:

 

Ho un buon pezzo di terra, potrei venderlo penso per mille, ma mi aspetto che varrà cinque volte tanto in un paio di anni e magari dieci. Farò crescere il raccolto, e appena riesco a mettere via abbastanza ci metto su un po’ di bestiame e in poco tempo potrò sedermi e guardare il mio denaro crescere. La mia sincera opinione è che una coppia giovane sarebbe matta a starsene ad Est mentre qui si può avere terra assegnata, e l’assegnazione non durerà per sempre. Pensaci: 160 acri! Non puoi immaginarti che bell’appezzamento da bestiame sia finché non cominci a scavare solchi da mezzo miglio”.

 

Ma non tutto è così semplice, e spesso all’arrivo gli speranzosi pionieri si scontrano con una dura realtà, come scrive una donna a sua zia Martha:

 

Le cavallette hanno distrutto i giardini. Finche’ riusciamo a coltivare qualcosa, siamo costretti a dover comprare tutto, ma non abbiamo neanche un po’ di denaro. Il nostro appetito è buono, il che sembra alquanto sfortunato. Non abbiamo una casa, ma una catapecchia di tre metri che fa acqua. Ci aspettavamo di costruire subito qualcosa—mamma ha detto quando abbiamo iniziato “andate lì a congelare e morire di fame il prossimo inverno.” Non pensavo, ma George ha detto oggi che potrebbe anche succedere così.

 

Il pioniere Ed, di fatto, avverte l’amico che:

 

Il West non è un posto per mammolette – né per cuori delicati. Ma Tutto ciò che chiede a quelli che vengono è di starci, e quelli che ci stanno vincono. Se riesci a sopportare ogni tipo di inconvenienti, duro lavoro, dieta rigida in genere, lavorare duro mattina mezzogiorno e notte, mai mollare o andarsene da qualche altra parte, partire dal basso e tenere duro, essere disponibile a fare qualsiasi cosa che salti fuori, allora puoi farcela qui nel West.

 

Eppure, anche con tutte le buone intenzioni e il sacrificio, c’è tutto uno spazio di inquietudine e solitudine che accompagna il viaggio di ogni pioniere dalla casa perduta alla casa ignota.

La giovane Harriett scrive:

 

 “È una serata molto bella. La nostra vasta prateria appare soffice e verde mentre si dispiega lontano lontano all’orizzonte, e le acque chiare del nostro nobile fiume scintillano nei tocchi rossi del tramonto mentre le foreste verdi scuro che ne costeggiano le rive si stagliano come uno stupendo dipinto nel cielo chiaro. È, di sicuro, la regione più bella che i miei occhi abbiano mai contemplato – ma certo nessun posto su questa Terra sembra tanto dolce e tanto casa quanto le vostre colline con i loro bianchi villaggi raggruppati nei loro angoli riparati.

La prateria è vasta, magnifica e imponente – ma ci mancano i cari vecchi alberi, i giardini, e i fiori del vecchio amato Massachussetts. Oh, quanto desidero una casa così! Non potrei mai rassegnarmi a chiamare questa terra casa mia, per quanto sia bella.

Spesso mi sveglio il sabato mattina mentre il sole splende raggiante attraverso la mia finestra e ascolto il fracasso, l’ubriachezza ed orribile volgarità che si sente per queste strade. E allora penso alla dolce e quieta casa della mia gioventù – il fresco e piacevole atrio, la fresca aria del mattino profumata della fragranza degli alberi da frutto in fiore o dei fiori del giardino che si intrufolava dalla finestra aperta, i cari fratelli e sorelle che gironzolavano in giardino o leggevano all’ombra, e il vecchio padre canuto con la Bibbia sulle ginocchia – ed il mio cuore si ammala di nostalgia e gli occhi si offuscano di lacrime”.

 

Alla nostalgia di casa si somma la fatica dell’isolamento, conseguenza proprio della distribuzione delle terre come homestead: appezzamenti di 160 acri in cui l’abitazione viene di solito messa al centro, lontana magari chilometri dalla prima abitazione di un altro pioniere che parli la stessa lingua.

Pearl scrive alla rubrica di un giornale per pionieri:

 

Nessuno tranne me e il mio Creatore sa quanto spesso, nei primi anni, mi mancava la vista di qualche mio amico e dei vecchi vicini! Immaginatevi essere a sessanta miglia da un ufficio postale!”

 

Proprio questo isolamento è la ragione della ricchezza di documentazione in prima persona, lettere e diari di questi pionieri, perché questo li forza a voler comunicare, a cercare un rapporto che per anonimi lettori.

Immaginate queste donne che giungono dai loro paesini in Germania o Norvegia, e all’improvviso si ritrovano a vivere in una catapecchia – la prateria è brulla e incolta, per cui all’inizio non c’è legname per costruire case, e molti si costruiscono case di zolle di terra, o si scavano come abitazioni buchi nelle pareti delle colline. I mariti stanno via per tutto il giorno, a volte anche interi giorni e settimane, a caccia o nei campi, e le mogli rimangono a casa coi figli.

 

A volte, scrive la moglie di un pioniere, mi sembra di poter sopportare tutto tranne il silenzio. Quello è davvero terribile. Nei giorni in cui mio marito è troppo lontano nei campi di granoturco perché il rumore del trattore possa raggiungermi, posso sentire il silenzio posarsi su di me come una nuvola pesante. Allora, se sto lavando i piatti, mi metto a farli sbattere tra di loro senza una ragione, solo per fare rumore. Forse non temerei tanto il silenzio e l’isolamento se fossi una donna felice.

 

Questa solitudine fisica acuisce una solitudine più profonda:

 

Ci strappammo dalla tomba della nostra amata figlioletta. Lacrime erano il mio pane quotidiano, giorno e notte, e non un amico che sembrasse capire il mio dolore. Nessuno che mi conosca qui tranne la mia famiglia. È tutto una vasta distesa di natura e, sebbene la regione sia straordinariamente bella, per me è tanto solitaria come se fossi rinchiusa in una tomba”.

 

Allora, se il primo aspetto alla radice dell’identità̀ del popolo americano è il senso del tutto è possibile, l’andare sempre oltre, le infinite possibilità, come dicevamo prima, un secondo aspetto, meno noto, è proprio questo della solitudine.

L’esperienza della solitudine è misteriosa, si rivela nei modi e nei momenti più disparati e inaspettati, come dopo che la tanto attesa fiera annuale dei pionieri si è conclusa, nel racconto Sophistication di Sherwood Anderson:

 

Il luogo si agitava e fremeva di vita, e ora è notte e la vita se n’è andata. Il silenzio è quasi terrificante. Mi nascondo restando in silenzio dietro al tronco, e quel che di una tendenza riflessiva c’è nella mia natura si intensifica.

 

E ancora questa solitudine si rivela, inaspettatamente, al ritorno dalla luna, il going west più estremo, come accade all’astronauta Buzz Aldrin dopo la spedizione dell’Apollo 11 nel 1969:

 

Dopo il tour mondiale, scrive Aldrin nella sua seconda autobiografia, ero fisicamente esausto ed emotivamente prosciugato. Sentivo che nel mio matrimonio le cose andavano di male in peggio. Sensi di colpa e disperazione iniziarono ad avvolgermi. Sentivo crescere un’impressione di mancanza di significato nel mio lavoro sapendo che non sarei mai tornato sulla luna.

La notte, pensieri inquieti mi tormentavano di domande. La mattina mi svegliavo senza risposte. Cosa avrei compiuto quel giorno? Che missione mi era assegnata? Se non era per qualcosa di straordinario, perché alzarmi dal letto?

“E poi?” Cosa fa una persona quando i suoi più grandi sogni si sono realizzati? Cosa fa un uomo come bis dopo aver camminato sulla luna? Ero volato sulla luna e la sua polvere aveva coperto i miei piedi. Ma ora, cosa c’era per me? Cosa avrei fatto del resto della mia vita?”.

 

Per concludere, è interessantissimo che nella lingua americana – unico caso, che io sappia, tra le lingue indoeuropee – si esprima l’esperienza della solitudine non solo con la parola loneliness, la classica esperienza di essere soli, ma anche con un secondo termine, solitude, un silenzio in cui più facilmente emerge la propria voce interiore.

La mia intuizione è che questa solitudine abbia qualcosa a che fare con le ragioni profonde delle questioni di cui parlava prima il dottor Lukianoff, cioè che il problema è che non sappiamo vivere il silenzio.

Perché questa silenziosa dimensione diventa inquietante quando non è indicata una strada da percorrere, e allora rifugiarsi in una bolla sicura per cercare di evitare o tenere fuori il dramma della vita con le sue domande diventa la soluzione più ovvia.

Ma questo, e mi sembra che alcune delle conseguenze di cui accennava il dottor Lukianoff ne siano una interessantissima documentazione contemporanea, non basta, perché il guscio protettivo, la bolla non ha la capacità di tenere fuori la realtà, e la paura che qualcosa possa accadere e rompere tale fragile equilibrio riempie di ansia.

E, soprattutto, alla fine la bolla risulta troppo stretta, troppo piccola, e ci lascia soli, perché, nella splendida formulazione della poetessa Marianne Moore: “The cure for loneliness is solitude”, la cura, il rimedio per questo dolore dell’essere soli, è la solitudine. Grazie

 

JOSÉ MEDINA:

Proporrei di usare il tempo che abbiamo adesso per toccare tre temi insieme e vedere come queste due vostre tesi dialogano tra di loro. Vorrei aprire la prima. Greg ci hai descritto una immagine della realtà della Università della America che sembra un po’ polarizzante, dicevi che c’è un discorso per cui si mette bene contro male, manca l’empatia, per cui sembra che sia impossibile costruire assieme, anzi direi quasi non riusciamo a pensare che sia possibile, sembra che sia impossibile costruire in molti modi. La prima domanda che vorrei mettere sul tavolo è a questo livello qua e non tanto al livello di quali siano le ragioni per cui questo è successo, ma quali sono nella tua esperienza, in quello che hai visto per il tuo lavoro di avvocato.

 

GREG LUKIANOFF:

Uno dei motivi per cui io ho lavorato con Jonathan Haidt è che ci siamo occupati della polarizzazione. La libertà di espressione è un elemento importante anche per la nostra democrazia, è funzionale per la società, per renderla migliore. Le persone giudicano gli altri che vengono da altre regioni, da altri Paesi, che appartengono ad altre classi e le vedono come cattive e come dannose, pericolose. Io come avvocato, rifletto molto su come far sì che le persone si vedano come persone e ci sono dei progetti interessanti in vari Paese, in vari Stati perché siamo molto polarizzati. Dopo la vittoria di Trump, sembra che la sinistra si stia spostando molto più a sinistra e la destra molto più a destra, a livelli veramente folli. Uno dei progetti in cui sono stato interessato prevede il coinvolgimento di persone di una zona depressa del Kentucky, che lavorano nell’ambito minerario, e lì si è creato un dialogo con persone che sono invece provenienti da zone più liberali come il Massachusetts e questi progetti sono costruiti in questo modo: le persone semplicemente si raccontano, si dicono chi sono e di cosa si occupano e parlano di cosa può passare per la loro testa e non è che cercano di convincersi e di cambiare idea, ma semplicemente si ascoltano. É stato interessante sentire quello che ha raccontato la collega sull’esperienza dei pionieri, perché quando si ascolta qualcun altro raccontare una storia, ci si fa un’idea anche migliore di quella che è la situazione della realtà. Quando si vede la persona dall’altra parte come una persona e non come un personaggio cattivo, ci può essere progresso, ci può essere un avanzamento. Un altro progetto coinvolge dei bambini che vivono nel Bronx e che vengono fatti interagire con altri bambini di altre zone. L’obiettivo è di farli parlare, di farli raccontare e spesso i bambini del Bronx raccontano con la loro voce l’esperienza degli altri bambini che vengono dalle altre zone e questa è una bella esperienza di conoscenza, di scambio, qui nasce l’empatia. Qui torniamo anche a parlare di quello che nel libro affrontiamo nei termini di progresso. Ci sono vantaggi a volte nell’avere esperienze terribili di persone che si comportano in un certo modo, che si sentono così invase da una vastità interiore che non riescono a spiegare. Però questo può spingere gli americani, come è stato sempre in passato, a fare tante cose. Questa esperienza è stata centrale nella storia dell’America e la solitudine di cui si è parlato prima è sempre stata una molla importante. Anche se noi capiamo che siamo animali sociali, ci può essere, però, anche una esperienza di solitudine che ci piace, che vogliamo vivere. Io ho visto che negli Stati Uniti si è sviluppato un grande interesse per la meditazione e per il buddismo, quindi ci sono anche influenze di esperienze diverse. Però, sentendo anche quello che ha raccontato Martina, è interessante vedere come si sviluppano tante correnti di pensiero diverse che possono essere utili.

 

JOSÉ MEDINA:

Volevo anche sentire raccontare da te di quel convegno che fai tra professori universitari a cui mi hai invitato, a settembre di quest’anno. In quell’occasione, sono rimasto molto colpito di trovare delle persone che avevano delle idee radicalmente opposte, ma che erano capaci, come tu dicevi, di avere quella empatia, quella capacità di ascoltare l’altro e anche di aiutarsi a esprimere liberamente il proprio pensiero nel luogo in cui erano. Per cui volevo chiederti: qual è l’origine di quella iniziativa e quale è stata la sorpresa che hai trovato?

 

GREG LUKIANOFF:

É stato incredibile. Quando si interagisce con le persone al di là della nostra polarizzazione, c’è una persona che vuole ovviamente sempre confermare il suo pensiero, però si può arrivare a dei livelli di questa ricerca che sono quasi folli, però rimane anche un margine di dubbio, un dubbio che uno ha di se stesso e quella credo sia una persona intelligente e curiosa. Le nostre Università purtroppo tendono a frammentare, a suddividere. C’è stato uno studio tremendo che parlava della formazione morale che veniva trasmessa negli Stati Uniti con persone poco interattive e che non erano d’accordo criticamente con le altre persone e, invece, si vedeva che le persone che interagivano di più, potevano avere dei risultati migliori nella loro performance. Ci sono però delle persone che semplicemente vogliono avere qualcuno che sia un avversario, che non vada d’accordo con il loro pensiero in maniera costruttiva e vogliono affrontare le critiche. Questa iniziativa l’ho fatta per alcuni anni, abbiamo incontrato delle menti illustri e continua ad essere una conferenza di piccole dimensioni, però è veramente un processo intellettuale meraviglioso da osservare. Bisogna essere in grado in quel contesto di accettare le critiche e bisogna ascoltare. A volte non è facile farlo, però è stato veramente bello vedere questo processo intellettuale, quasi idealizzato, avverarsi poco a poco. A volte si pensa «ah, non avrei dovuto includere quel capitolo nel libro che riguardava la libertà di espressione nel campus», si parlava di una festa di dottorandi, di studenti a San Francisco che scoprivano che c’era qualcuno che era completamente contrario alle opinioni di un’altra persona su una questione politica. L’alta persona ha detto: «Ah, devi parlare con Fred, devi parlare con queste altre persone, sarà fantastico». Il momento in cui si vedono queste reazioni è bello, ci può essere una interazione tra persone del mondo universitario e altre persone che magari sono repubblicani, che hanno un interesse, curiosità rispetto all’origine delle persone, da dove provengono le persone. Purtroppo questo valore si vede meno nel dimostrare che uno non ha ragione, perché viene poco accettato. Questa conferenza mi rende veramente contento e spero che ci siano molte altre iniziative simili.

 

JOSÉ MEDINA:

Martina, tu eri parte della conferenza. Io non sono professore ed ero là dietro a guardare. Che esperienze hai visto che ti danno un po’ di speranza, in cui tu vedi possibilità di costruzione assieme, non basata sul fatto di essere già d’accordo?

 

MARTINA SALTAMACCHIA:

Innanzitutto, comincio dalla conferenza organizzata da Greg, perché ad ottobre sono andata anch’io a questa conferenza. Lui dice che è un posto dove viene accettata la critica. Questo è un modo eufemistico di dirlo, nel senso che la cosa che mi ha scioccato quando sono arrivata lì, era come la gente veramente non aveva assolutamente il problema di criticare apertamente tutto quello che veniva detto. Per cui, immaginatevi una sala in cui ci sono un centinaio di persone e, come si diceva, tendenze politiche diverse, un professore va davanti a tutti a fare una presentazione, quindi venti minuti, trenta minuti, quaranta minuti, ben preparati e via dicendo e poi la prima persona alza la mano e dice: «Io sono completamente in disaccordo con tutto quello che hai appena detto». E la cosa che a me scioccava è che questo era all’inizio di una conversazione, di una discussione, e invece che diventare un muro, contro cui si blocca, si proseguiva per un’ora, un’ora e mezza. E la prima cosa evidentissima era che la conversazione, dopo un’ora e mezza, faceva arrivare tutti a un punto ancora più avanzato. Potrei parlarvi del Medioevo, potrei parlarvi di una cosa che ho approfondito nel primo semestre di quest’anno che è la disputatio, le dispute che avvenivano nelle Università medioevali come base della conoscenza e del sapere, cioè la discussione tra pareri opposti per arrivare a una conoscenza più grande, ma, anziché andare indietro nel Medioevo, vorrei semplicemente accennare a quello che ho fatto negli ultimi mesi, che è proprio il lavoro della mostra “Bolle, pionieri e la ragazza di Hong Kong”. Perché la mostra è nata da un gruppo di colleghi ed amici, un lavoro comune di una decina di persone che vivono e lavorano in America e con talenti e professionalità completamente diverse: un produttore di film di Hollywood, un insegnante di fisica e un professore di filosofia di Washington, un agente immobiliare del Colorado, un architetto che costruisce grattacieli di lusso a Toronto, due musicisti e compositori di New York e il direttore di marketing di una azienda che progetta proiezioni per i più grandi musei americani e parchi di divertimento. Ognuno di noi portava le proprie professionalità e talenti, ma anche sensibilità, temperamenti e approcci completamente diversi, per cui il lavoro è nato da una continua discussione. La cosa spettacolare è stata il fiorire di qualcosa che andava ben oltre la somma dei pezzettini che ognuno di noi portava e di cui appunto nella mostra potete vedere un po’ come la punta di un iceberg. Per me questo negli ultimi mesi è stato un punto interessantissimo e affascinantissimo da questo punto di vista.

 

JOSÉ MEDINA:

Io vorrei portare la conversazione verso questo tema della solitudine. Tu già, Greg ne hai parlato e anche l’intuizione di Martina va in questa direzione. Non saper vivere questo silenzio, può darsi che sia all’origine di una certa paura che vediamo attorno a noi. Allo stesso tempo noi siamo degli animali sociali, l’hai detto anche tu, bisognosi della compagnia. Per cui non mi è sembrato che Martina avesse messo questo in contraddizione, il fatto di apprezzare un certo senso di solitudine, di silenzio come contrario alla compagnia. Ma sarei molto curioso di sentire che commenti hai tu Greg, anche di esperienza personale al riguardo di questo. Come questo silenzio, questa solitudine entra dentro la tua vita, ma anche cosa centra non essere soli, avere degli amici, perché avere degli amici è bello.

 

GREG LUKIANOFF:

Beh, sì, è sempre interessante vedere i proprio Paese dal punto di vista di un altro, perché si impara tantissimo. Per quel che mi riguarda, è stato un valore quasi implicito ed interessante. Io ho passato la mia infanzia praticamente da solo, nel seminterrato, giocando da solo. Non volevo interagire con nessuno mentre facevo i miei giochi. Magari sembrava che mi avrebbero diagnosticato qualcosa che non funzionava, ma questo mi fa pensare a una certa esperienza, perché si possono affrontare tanti temi della storia americana, ma l’idea che non si può stare seduti in una stanza, chiusi nel proprio Cottage ed essere felici da soli, è generale. In un libro, Freedom of speech, che riguarda come sta cambiando la società americana, ho parlato di problemi di confort piuttosto che di problemi di progresso e ho visto come ci sono stati alcuni miglioramenti all’interno della società: cose che sono molto buone, però possono anche portare risultati molto negativi. Non sto dicendo che dovremmo vivere come negli anni Venti, assolutamente, però mi piace tornare a pensare che bisogna essere in grado di mettersi alla prova, di mettersi in discussione, di sedersi in una stanza tranquilli, perché sennò ci si dimentica di quella che è stata l’esperienza americana. Per esempio Scott Fitzgerald si è seduto in cima all’Empire State Building e ha avuto un’epifania pensando a quello che era New York: pensò che New York poteva essere infinita. Penso che questo tipo di esperienze siano legate anche a un senso di solitudine, di piccolezza e se non ci fermiamo un attimo, rischiamo di perdere queste esperienze, perché queste esperienze sono possibili solo in situazioni che magari uno è forzato a vivere, in solitudine. A volte le idee migliori mi sono venute nel corso di passeggiate, di spostamenti da un punto all’altro del Paese, magari mi sono spostato da New York a Washington, ero da solo ed è lì che mi sono venute delle buone idee. É molto bello che Martina abbia ripreso questo punto della cultura americana, che si sta perdendo e che ci porta invece a una situazione peggiore e più triste. Grazie.

 

JOSÉ MEDINA:

E la parte sociale? Perché fino ad adesso hai detto: «É bello stare solo»; allora l’amicizia?

 

GREG LUKIANOFF:

Beh, sì, decisamente! C’è l’ideale del cow boy e dell’americano da solo, che è una semplificazione eccessiva. Mio padre veniva dalla Russia, è stato un migrante anche lui e si può arrivare a un estremo perché in quell’epoca si diceva “Sta tutto nell’individuo, solo l’individuo può muovere il mondo”, ma è una sciocchezza, perché c’è bisogno di amici, c’è bisogno di aiuto nel fare le cose che si fanno. C’è però questa immagine estrema come le immagini di John Wayne, dell’uomo che si fa da solo, che si arrangia. Ma c’è sempre anche una terra di mezzo, dove c’è più rispetto. Mia madre aveva origini britanniche e lì c’è rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza e dello spazio individuale, però c’è anche un rispetto della solitudine e dell’amore verso le persone, senza volere imporre alle persone l’idea che devi essere tu a gestire la tua vita da solo. A volte questo modo di pensare può essere duro, però è molto emancipante avere un amico che ti mette la mano sulla spalla e ti dice: “Sì, ce la puoi fare!”.

 

JOSÉ MEDINA:

Martina, puoi spiegarci un attimo di più questa solitudine, questo silenzio di cui ci hai parlato? E se ci puoi aiutare a collegarlo, sarebbe stupendo.

 

MARTINA SALTAMACCHIA:

Innanzitutto, mi veniva in mente mentre parlavi, Greg, che già Tocqueville parlava di come gli americani sono particolarmente propensi alla solitudine, alla solitude. È un tratto che è comune proprio all’uomo, ma per una serie di ragioni, l’apertura, la mobilità e l’incertezza di queste persone che arrivano in questi spazi sconfinati, il fatto che non ci sia una condizione, un pre-condizionamento esistente, sono tutti fattori che aiutano a sviluppare una propensione alla solitude che è tipicamente americana. Tra l’altro, c’è un altro immigrato, un altro europeo che si rende conto di questa unicità del linguaggio che è un teologo, Paul Tillich, che spiega questi due termini in questo modo. Dice: “La nostra lingua ha percepito sapientemente le due dimensioni dell’essere solo dell’uomo. Ha creato la parola loneliness per esprimere il dolore di essere solo e ha creato la parola solitude, per esprimere lo splendore di essere soli”. Allora, per capire un attimo di più cos’è questa solitude, penso che ci possa venire in aiuto un altro scrittore, questa volta americano, Wendell Berry, che a proposito scrive così: “Entriamo nella solitude in cui perdiamo la loneliness. Vera solitude si può trovare nei luoghi incontaminati dove non si ha nessun dovere umano. La propria voce interiore diventa orribile – che è proprio il punto per cui uno va in questa solitude – si sente l’attrazione per le proprie sorgenti più intime. Di conseguenza si risponde più chiaramente alle vite degli altri”. Questa provocazione di quello che accade, spinge a cercare altri per costruire insieme, come i pionieri del West. La storia del Nebraska continua, dopo quello che vi ho raccontato, in un brulichio di vita, di attività, per cui questa gente lontana si comincia a mettere insieme e cerca di costruire, di iniziare scuole, chiese, posti di ritrovo, sale da ballo: il ballo era un linguaggio universale, tant’è che ancora adesso, se venite in Nebraska, la prima cosa che a me ha stupito, ha scioccato quando sono arrivata sette anni fa, era proprio questa dimensione umana, questa vita piena di rapporti. Come se tutta questa fatica dell’isolamento, questa durezza della natura, della vita per i pionieri, li avesse spinti a mettersi insieme. Per cui alcuni li mette insieme in questo modo; altri, come Berry, li riempie di silenzio. A me ha colpito nel preparare insieme ai miei amici questa mostra, che anche un fotografo, Lee Jeffries, di Londra, esprimesse una cosa analoga. Il fotografo Lee Jeffries, se avete visitato la mostra, i primi piani, i bellissimi primi piani nella mostra sono suoi, spiega questo lavoro, dicendo così: «L’amore è stato lo stimolo di tutto. Mi ha dato una grande gioia ma anche periodi di interminabile loneliness che persistono fino ad oggi. In realtà non mi dispiace ammettere che questa è la forza trainante di tutti i miei sforzi artistici. I senzatetto, molte di queste foto sono primi piani di senzatetto, non perché sono senzatetto ma perché io capisca e riconosca veramente la solitude con cui cammino ogni giorno da solo. Questo è stato ed è ancora il mio punto di partenza». E dunque per questa ragione lui va a vivere dei periodi con questa gente e poi scatta queste fotografie. Allora tu chiedevi, José, del collegamento tra queste due cose. Innanzitutto tu chiedevi rispetto alla vera amicizia, certo non solo è bello, ma è fondamentale. Mi veniva da dire che non è fondamentale semplicemente dal punto di vista umano, ma anche dal punto di vista economico e sociale. Parlando di nuovo dei pionieri, mi ha colpito uno studio fatto dalla mia Università, dalla University of Nebraska, che è stato pubblicato un paio di anni fa. Un gruppo di professori sono andati a studiare gli homestead, uno per uno, di questi migliaia e migliaia di appezzamenti, sono andati a studiare la storia, cercando di andare a vedere dopo questa richiesta del terreno cosa succedeva. Quanti di questi dopo cinque anni riuscivano, dopo tutte queste avversità, tutti questi sacrifici, riuscivano ad ottenere la proprietà, formavano gruppi per nazionalità. E da questo studio, uno studio accuratissimo, con migliaia e migliaia di dati statistici e matematici, sono venuti fuori dei risultati veramente sorprendenti, perché quello che hanno scoperto è che la stragrande maggioranza di questi pionieri arrivati in questi terreni riesce a ottenere il terreno come propria proprietà e questo porta a far diventare il Midwest il grande polmone agricolo dell’America e, per certe colture, come appunto da noi il granoturco, i primissimi produttori mondiali. Ora questa ricerca mostra dal punto di vista matematico-statistico che il fare homestead, che in America si dice homesteading, non era un’attività solitaria. Questa gente va a formare da subito comunità date dalla vicinanza anche solo geografica e dipende da esse per riuscire ad avere successo. Per cui queste diventano il nervo e la linfa. Un altro esempio a questo livello è il problema della giustizia. Quando arrivano non esiste lo sceriffo, non esiste un corpo di polizia e via dicendo. Ciononostante le frodi dal punto di vista di questi terreni che vengono richiesti, sono a un livello bassissimo, di un 5%. Anche lì la comunità si organizzava liberamente per andare a controllare. Per esempio, non so, se c’erano degli squatters, cioè delle persone che andavano ad infilarsi nelle case magari lasciate vuote per un mese, allora il villaggio si organizzava per andare e cacciare via dalla casa questa persona. In questo modo, in maniera totalmente cresciuta dal basso, il livello di frodi rimane bassissimo. Ritorno alla lettera che leggevo prima della madre pioniera a cui muore la figlioletta durante il viaggio verso il West, che dice: «Non c’è nessuno che possa capire il mio dolore». Lei alla fine conclude questa sua lettera a casa, dicendo: «Il mio cuore è triste, tanto triste, mi rallegro che un giorno morirò». Per cui è come se ci fosse comunque un punto che anche questa bellissima compagnia fino in fondo lascia aperto.

 

JOSÉ MEDINA:

Per concludere vorrei fare l’ultima domanda a Greg. Hai parlato del rapporto genitori figli, e di come i genitori cerchino spesso di sostituirsi alle scelte libere dei figli. Cosa vuol dire, allora per te, amare la libertà dei tuoi figli?

 

GREG LUKIANOFF:

Io parlo di free range parenting, della genitorialità allo stato brado, come se si trattasse di allevamento di animali quasi, ma ci siamo allontanati da uno stile di essere genitori che concedeva libertà e in parte questo è dovuto a una rivolta non pianificata contro i cliché. soprattutto contro il cliché dell’individualismo americano, per cui si è visto come un vantaggio crescente la gestione totalizzante dei propri figli. E ci sono davvero dei casi estremi, quasi ridicoli, con attività extracurricolari in numero esagerato. Ci sono bambini che hanno il piano giornaliero dalle sei alle undici e io ho molta solidarietà nei confronti di questi bambini. Si parla di questi bambini che sono bravissimi, che però hanno tutta questa vita super pianificata, che ricevono solo insegnamenti di tipo accademico dalla mattina alla sera, che sono i migliori in matematica, però non sanno come usare una lavastoviglie, per esempio, e chiamano i genitori quando devono prendere qualsiasi decisione. Si vedono questi bambini totalmente senza emancipazione che sono intelligentissimi, che avranno sicuramente grande successo negli Stati Uniti. Uno può essere in grado di andare in un bosco da solo e sopravvivere, però abbiamo questi bambini che non sanno neanche usare una lavastoviglie. Il libro che ho pubblicato ha avuto molto successo, è uscito anche sul New York Times, è stato in cima alle classifiche e ho detto appunto nel libro che stiamo facendo qualcosa di sbagliato. Prima e nel passato c’era questa mentalità che diceva che i figli dovevano imparare a fare le cose da soli, dovevano avere degli spazi vuoti nel corso della giornata, dovevano avere la possibilità di annoiarsi. Io quando ho avuto delle situazioni in cui mi sono sentito da solo e annoiato, ho pensato anche delle cose interessanti e belle. Invece c’è stata tutta una stratificazione negli Stati Uniti che ha spinto questa forma di genitorialità a livelli tossici, perché si arriva ad avere delle persone senza emancipazione, senza libertà, che hanno paura di vivere le piccolezze della vita di tutti i giorni.

 

JOSÉ MEDINA:

Hai paura di lasciare i tuoi figli?

 

GREG LUKIANOFF:

Beh, quando parliamo di questo argomento dico sempre che io sono un genitore ansioso. Mio figlio ha tre anni e mezzo, uno un anno e mezzo, Benjamin e Max, li abbraccio così forte che li schiaccio quasi, non li vorrei mai lasciare e mia moglie è molto brava a ricordarmi i miei principi secondo i quali devono essere liberi, devono giocare con i bastoni, devono essere lasciati liberi di giocare come vogliono. Quando lei me lo ricorda, dico sempre è facile, però in realtà c’è una parte di me che controlla. Ci sono adesso dei progetti che si occupano proprio di questo negli Stati Uniti, per far sì che i bambini facciano esperienza della loro infanzia. Ci sono altre culture, anche, che hanno inserito delle norme in questo senso e sarei molto interessato a sapere come funziona in altre culture. Ho trovato, per esempio, in Germania come anche nella cultura Giapponese, che si dà molto valore all’indipendenza dei figli, che si lasciano autonomi. I figli si cerca di crescerli per farli diventare adulti, però sappiamo che non è facile. Però, il bambino, la bambina che ha emancipazione, è veramente il bambino o la bambina che si ama veramente e che si vuole veramente avere

 

JOSÉ MEDINA:

Grazie Greg, grazie Martina. Volevo solo ricordarvi che il Meeting è un incontro del tutto unico che permette conversazioni come questa e che è gratuito. La nostra responsabilità, la nostra e vostra, è sostenerlo, perché un lavoro come questo possa continuare. A questo scopo, lungo tutta la fiera, troverete delle postazione “dona ora” con il cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente in quei punti “dona ora”. Siate generosi, grazie per questo pomeriggio.

Trascrizione non rivista dai relatori

 

190820 “GOING WEST” LIBERTÀ, SOLITUDINE, E L'ESPERIMENTO AMERICANO

Data

20 Agosto 2019

Ora

17:00

Edizione

2019

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri