GLOBALIZZAZIONE E COMPETITIVITÀ

Globalizzazione e competitività

Sergio Marchionne al Meeting

In collaborazione con Invitalia, Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa. Partecipa Sergio Marchionne, Amministratore Delegato di Fiat S.p.A. e Presidente e Amministratore Delegato di Chrysler Group LLC. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti e un cordiale bentornato a Sergio Marchionne.
Sono un po’ più di dieci anni fa che Sergio Marchionne è arrivato alla guida del gruppo Fiat, esattamente l’1 giugno 2004. Da quel giorno ha cominciato una riforma della più grande azienda manifatturiera italiana che l’ha portata da una situazione di estrema criticità alla fusione con una grande casa automobilistica americana, così è nata FCA che entra, se così possiamo dire, nel G8 delle case automobilistiche a livello mondiale. Tra l’altro ieri sono stati superati gli ultimi ostacoli di una possibile recessione. Per comprendere la complessità dell’operazione, dico solo che si tratta di 16 marchi, molto differenziati fra loro, che vanno dal camioncino fino alla macchina di lusso e quindi un posizionamento strategico sul mercato globale non facile da ottenere. Alcuni numeri. In FCA lavorano o lavoreranno, a seconda di come la vogliamo vedere, 300.000 dipendenti di cui 80.000 in Italia, avremo 159 siti produttivi di cui 45 in Italia e un dato molto rilevante: 78 centri di ricerca di cui 35 in Italia. Tra l’altro quando siamo stati qui, quattro anni fa, eravamo ancora in mezzo alla discussione sul contratto di Pomigliano, perché l’avvio di questa fusione è stato un percorso difficile, tumultuoso per certi versi, spesso criticato, spesso applaudito, ma mi sembra che Sergio Marchionne avesse una linea strategica chiara, di portare a una sinergia FIAT e Chrysler per renderlo un player vincente su scala globale. Molto discusso è stato il futuro dei siti produttivi in Italia, ma penso che oggi Sergio Marchionne ci darà una risposta anche a questo quesito. Abbiamo concordato due riflessioni.
La prima riguarda un po’ un bilancio di questi dieci anni: se l’idea iniziale si è confermata, quali sono stati i lati positivi, che cosa, forse, si poteva fare meglio, diverso. La seconda domanda riguarda il futuro di FCA in Italia ma mi sono permesso di aggiungere una domanda un po’ più ampia: come Sergio Marchionne vede il futuro del manifatturiero in Italia? Quali sono le condizioni per uno sviluppo? Perché l’Europa in quanto tale sta di fronte ad una desertificazione industriale. E’ necessaria una svolta importante in questo momento, tanto è vero che l’Unione Europea ha dato non solo un obiettivo di fiscal compact ma anche di industrial compact per arrivare nel 2020 a una percentuale del 20% del PIL basato sulla produzione industriale. Grazie di essere con noi, a te la parola.

SERGIO MARCHIONNE:
Grazie, grazie Bernhard Scholz, e buongiorno a tutti. E’ un piacere per me tornare dopo quattro anni a incontrare questa platea e i tanti giovani che sono la vera anima del Meeting di Rimini e vi ringrazio di avermi invitato oggi.
Per l’azienda che rappresento sono cambiate tantissime cose dal 2010. Abbiamo approvato la scissione del gruppo FIAT in due entità distinte: quelle che oggi sono FIAT e Chrysler da una parte e CNH industrial dall’altro. Abbiamo quotato CNH Industrial a Wall Street, abbiamo acquistato il 100% del capitale Chrysler dopo aver risanato e riportato il costruttore americano tra i leaders del settore. Abbiamo completato l’integrazione industriale e commerciale e soprattutto culturale tra le due anime della nostra azienda, quella italiana di FIAT e quella americana di Chrysler, e ora siamo in procinto di completare l’unione legale e societaria delle due aziende che darà vita a Fiat-Chrysler-Automobiles. Quello che purtroppo non è cambiato è la situazione generale e la misura della crisi che ha colpito l’Italia e l’Europa. Per rispondere al compito che mi è stato assegnato oggi – condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione attuale e sulle prospettive della Fiat e del nostro Paese – vorrei iniziare raccontandovi una storia che ho preso in prestito dallo scrittore americano David Foster Wallace. E’ forse una delle più brevi ma senza dubbio tra le più geniali: “Ci sono due pesci che nuotano insieme e a un certo punto incontrano un pesce più anziano che va nella direzione opposta, il quale fa un cenno di saluto e dice: Buongiorno ragazzi com’è l’acqua oggi? I due pesci continuano a nuotare per un po’ e infine uno dei due si rivolge all’altro e fa: ma che diavolo è l’acqua?”.
Ho voluto iniziare così non perché mi senta come il pesce grande e saggio che è venuto qua a farvi una lezione sul senso dell’acqua. Il punto della storia è che spesso nella vita siamo talmente prigionieri delle abitudini, delle nostre idee, della nostra educazione e dei nostri preconcetti che diventiamo quasi ciechi difronte alla realtà che ci circonda. Lo vediamo nelle cose più ovvie che spesso sono le più importanti e questo è stato per tanto tempo anche il male della Fiat, una delle aziende più dinamiche e innovative con oltre un secolo di storia e tra i fondatori dell’industria dell’auto, si è ritrovata isolata e in preda della corrente e la tragedia è che non sapeva nemmeno spiegarsene il motivo. Quando sono arrivato più di dieci anni fa ho trovato una Fiat che era imprigionata nella sua stessa mentalità, schiacciata dai problemi che si era creata da sola e per cui accampava una scusa dietro l’altra. Era un’azienda ancora convinta di vivere in un sistema tolemaico al centro di un universo tutto suo, protetto e almeno parzialmente collegato con politica e alcuni dicono anche sostenuto da essa. Ma era totalmente incapace di guardare in faccia la realtà, e la realtà era che nel frattempo c’era stata una rivoluzione copernicana e il mondo intero era cambiato, era avanzato e ci aveva superato di anni luce. La realtà è che il mondo era diventato estremamente piatto ed estremamente aperto.
Qualunque azienda per restare viva doveva prendere coscienza della più banale delle cose che si trovava a bagno nella competizione del libero mercato e che sul quel terreno, solo su quello, poteva giocare le sue occasioni di successo. Ciò che abbiamo fatto allora è stato spezzare un circolo vizioso alimentato dall’inerzia e dall’assenza di confronto. Abbiamo abbattuto le gerarchie aziendali per permettere alla Fiat di decidere e di muoversi in modo snello e veloce. Abbiamo introdotto nuovi principi culturali basati sul merito e sulla ricerca dell’eccellenza e sul cambiamento come spirito vitale, e come sapete, questo ha portato la Fiat a macinare un record dopo l’altro, a centrare tutti gli obiettivi economici e commerciali fino a quando, nel 2008, con lo scoppio della grande crisi internazionale, il mondo è cambiato di nuovo. I mercati sono stati travolti, le certezze che si pensavano acquisite sono crollate ma nel frattempo anche la Fiat si era trasformata, aveva imparato a vivere la cultura del cambiamento come una necessità e a sentirsi stimolata dall’incertezza. Sapeva che vivere in un mondo globale richiede la necessità costante di cambiare strategia, di adottare nuove prospettive, cercare strade non ancora abbattute e a volte reinventare anche se stessi e sapeva bene che restare fermi è la scorciatoia più sicura verso il disastro.
Questo è il motivo per cui nel mezzo della peggior crisi degli ultimi 80 anni, invece che temporeggiare, come hanno fatto quasi tutti i nostri concorrenti, noi ci siamo mossi: siamo andati negli Stati Uniti, nell’epicentro della crisi a cercare la nostra prossima opportunità. Era chiaro che per il settore dell’auto l’indipendenza non era più un valore, avevamo bisogno di raggiungere adeguate economie di scala, di condividere investimenti, di aumentare i volumi di produzione e di allargarci a nuovi mercati e Chrysler per noi era la risposta perfetta. Inutile dirvi che nonostante l’entusiasmo mediatico con cui è stata salutata la nostra alleanza, erano in pochi a credere che avrebbe funzionato: unire un’azienda in bancarotta a un’altra che iniziava a soffrire gli effetti della crisi europea non sembrava la migliore delle idee, ma noi ci siamo impegnati a risanare Chrysler che, in meno di due anni, è tornata a macinare profitti e ha rinnovato completamente la sua linea di prodotti e ha ripagato tutti i prestiti ricevuti dal Tesoro americano con sei anni di anticipo. La verità è che negli ultimi dieci anni abbiamo creato dalle potenziali ceneri di un costruttore italiano un gruppo automobilistico che adesso ha un orizzonte globale. Fiat è cambiata nella struttura, nella dimensione economica, nell’estensione geografica, nel peso che ha all’interno del settore automobilistico mondiale. Il modo più diretto per comprendere la portata di questo cambiamento è considerare il profilo del gruppo, in particolare delle attività automobilistiche: come era ieri, come è oggi e come prevediamo sarà domani. Nel 2004 la Fiat era fortemente sbilanciata verso un’area geografica, fatturava 27 miliardi di cui il 92% erano in Europa, era un produttore di auto dalle dimensioni modeste, che vendeva circa 1.900.000 vetture l’anno, era un’azienda che era in profondo rosso ed era sull’orlo dell’estinzione. La Fiat che abbiamo creato in questi anni grazie all’integrazione con Chrysler è un gruppo che ha una presenza ampia e diversificata: il fatturato del 2013, dell’anno scorso è salito a 87 miliardi di euro, più che triplicato rispetto a dieci anni prima, la nostra presenza sul mercato è più equilibrata con Europa e Brasile che pesano circa il 20% ognuna e il Nord America adesso che pesa oltre la metà. L’anno scorso abbiamo venduto più di 4,4 milioni di vetture e siamo diventati il settimo costruttore mondiale, leggermente alle spalle della Ford.
La Fiat di adesso è un’azienda capace di generare forti profitti nonostante le perdite collegate ai marchi generalisti in Europa. Sulla base del nostro progetto del Piano di sviluppo, che abbiamo presentato a maggio, il nostro obiettivo è di fare in cinque anni di Fiat-Chrysler-Automobiles un’azienda con un fatturato di oltre 130 miliardi di euro, un EBIT di circa 9 miliardi di euro che è poco più di due volte e mezzo quello dell’anno scorso e un utile netto di circa 5 miliardi di euro, più di 5 volte quello dell’anno scorso. Le nostre vendite, ci aspettiamo, saranno distribuite in modo bilanciato nelle quattro aree geografiche con una presenza significativa in Asia. Ci siamo posti il traguardo di 7 milioni di vetture che ci aprirà la possibilità di guadagnare almeno un’altra posizione nella classifica globale dei principali costruttori di automobili. Vi dico queste cose non per vantarci di quello che abbiamo fatto, il punto è tutto un altro: ogni singolo risultato che siamo riusciti a raggiungere è il frutto di un nuovo modo di pensare e di guardare alle cose. C’è la coscienza di chi siamo e dove ci troviamo, di un compito che noi tutti in Fiat-Chrysler facciamo quasi giornalmente senza illusioni e senza farci sconti ed è questa la vera forza che ci dà la lucidità di pianificare un percorso da compiere. Dietro i nostri successi ci son persone libere dalla gabbia del passato e dall’abitudine, che sono capaci di andare oltre il conosciuto e di rovesciare il tavolo ogni giorno. Un approccio simile è diventato ormai una necessità storica, non solo per le aziende industriali, ma più in generale per tutti i tipi di organizzazione.
La crisi internazionale che l’Italia e che l’Europa hanno dovuto affrontare negli ultimi anni e la congiuntura che stanno vivendo, non sono l’effetto della normale dinamica dei cicli economici, vanno visti alla luce di un momento storico di profonda trasformazione. Si tratta di un cambiamento di cui dobbiamo prendere coscienza se vogliamo essere in grado di controllarlo e di adeguarci a esso invece che diventarne vittime. Credo che la nostra era segnerà uno spartiacque di portata enorme per almeno due motivi. Il primo ha a che fare con il crollo delle certezze. Nel giro di poco tempo abbiamo visto cancellare gli assetti che nella finanza come nell’economia sono stati i nostri punti di riferimento nell’ultimo mezzo secolo. Se pensiamo anche solo la situazione degli anni ’80 o ’90, il quadro della crescita economica dei mercati, dei valori delle aspirazioni sociali, ci appariva ben definito e tutto sommato credo abbastanza ordinato. I Paesi industrializzati si trovavano in una fase ascendente del ciclo, l’Europa era rivitalizzata dalle prospettive del mercato unico. L’Italia anche se già sentiva il peso del dissesto dei conti pubblici, di un’inflazione elevata, di una bilancia commerciale che si andava deteriorando, dava segnali di vitalità e di voglia di crescere. Questo oggi ci sembra lontano non di anni, ma di secoli. Basta pensare allo stato dell’economia dei mercati o al fatto che l’Europa sembra ripiombata in una fase di incertezza, di pessimismo sul suo destino unitario e penso anche alla situazione dell’Italia che vive in una recessione prolungata e in condizioni che non sono più in grado di assicurare un Paese competitivo. Questi temi si collegano al secondo cambiamento storico che stiamo vivendo: il mondo di oggi, il mondo della crisi, sta spingendo tutti i sistemi, quelli industriali, economici, finanziari, anche quelli politici verso una strada di riforma e di rinnovamento, ci impone di chiudere con il passato. Nessuno di questi sistemi può più permettersi di sprecare tempo negando i problemi o rimandando le soluzioni. Non è più possibile sprecare energie e risorse cullandosi nella propria inefficienza. Non è più possibile sprecare capacità e impegno verso un obiettivo che non sia l’interesse comune. Perdere tempo e opportunità, sprecare risorse materiali e intellettuali è antieconomico e deleterio, ma soprattutto è immorale.
E’ un discorso che vale a livello generale per ogni settore e per ogni Paese. La crisi ha messo a nudo le nostre fragilità ovunque e per questo ora l’Europa si trova ad affrontare una riflessione seria sul proprio futuro. Abbiamo sempre saputo che la mancanza di un governo europeo dell’economia avrebbe reso l’unione monetaria incompiuta e vulnerabile. Sapevamo che i divieti e le sanzioni inserite nel trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità non contenevamo garanzie sufficienti a impedire ad alcuni Paesi di deviare dagli obiettivi concordati. Sapevamo che i poteri assegnati alla Banca Centrale erano troppo limitati e che far da semplice sentinella all’inflazione sarebbe stato insufficiente se non addirittura dannoso. E con l’attuale crisi l’Europa si trova davanti ad un bivio che impone a tutti gli Stati membri di riflettere seriamente sul senso e sulla natura stessa dell’unione. Devono decidere se sono disposti a impegnarsi nuovamente per garantire un futuro all’Europa. Il punto è ora capire se l’unione monetaria sia possibile senza che dietro ci sia un’unione fiscale ed eventualmente anche politica. Il compito che grava oggi sull’Europa è capire se i tempi sono maturi e se davvero vuole rafforzare la natura della sua unione. Deve decidere se limitarsi a una logica di assistenza ai singoli Stati nelle situazioni di emergenza oppure abbracciare finalmente un disegno più ampio proteggendo, oltre la propria moneta, anche l’idea di unità e solidità con cui è nato il sogno europeo. E a tal fine gli Stati membri dovrebbero superare le opposizioni nazionali, rinunciare a un bel po’ della loro sovranità per rendere l’unione più forte e concordare un approccio condiviso per gestire l’economia. E penso che questo sia l’unica lotta possibile per l’Europa se vuole uscire da un progetto incompiuto ed evolvere verso una natura più matura. L’Italia dal suo canto ha l’urgenza, l’assoluta necessità di intervenire per colmare il divario competitivo che la separa dagli altri Stati europei.
Saranno almeno dieci anni che dico che abbiamo bisogno di interventi strutturali, di riforme profonde che hanno come obiettivo il riposizionamento della competitività del Paese e chiaramente non sono né il primo né l’ultimo a dirlo. Ma la realtà è che poco si è mosso. Il sistema ormai sembra totalmente incapace di reagire e per qualche strano motivo l’Italia, anche di fronte alla recessione e alla sofferenza provocata dalla crisi, ha un tasso di disoccupazione al 12,6% e una realtà che vede quasi il 43% dei giovani sotto i 24 anni senza lavoro. Ci comportiamo come se fossimo un’isola felice, dove ciò che esiste deve essere salvaguardato ad ogni costo. Il nostro Paese continua a vivere come i pesci di Wallace, chiuso nella sua boccia, incapace di vedere e affrontare la realtà, le realtà più ovvie, inerte di fronte alla richiesta di modernità di un mondo che ormai è globale. Abbiamo passato vent’anni a far finta di fare le riforme. Abbiamo adeguato il nostro sistema di protezione sociale ai cambiamenti del mondo e della società, non abbiamo modificato la struttura dei costi di gestione. Non siamo nemmeno stati capaci di approfittare degli enormi benefici dell’adesione all’euro, benefici che derivano dalla riduzione degli interessi pagati sul debito pubblico e che si sarebbero dovuti usare per finanziare il programma di riforme. Abbiamo vissuto pensando che il nostro Paese potesse andare avanti prendendo solo se stesso o il proprio passato come un punto di riferimento e abbiamo indirizzato le nostre risorse all’alimentare una dialettica distruttiva che ha progressivamente indebolito il quadro di istituzioni, di regole su cui è fondata la nostra nazione. Ci siamo costruiti da soli quell’handicap che oggi tiene lontano gli investitori stranieri, che erode la crescita dei salari, che mette a rischio le prospettive di lavoro e il tenore di vita nelle generazioni presenti e quelle future. Siamo stati noi il nostro più grande nemico. Quando dico noi intendo davvero tutti. Chi ha governato il Paese, quegli imprenditori che in un modo o nell’altro ci sono resi complici dell’inerzia e quelle tenaci forze di conservazione sia di destra sia di sinistra sia sono ancora radicate in tante parti delle società.
Per chi come la Fiat vive e si nutre di trasformazioni continue, guardare un sistema immobile, l’incapacità di accettare o peggio ancora di avviare il più piccolo cambiamento, è qualcosa di inconcepibile. Noi riponiamo la massima fiducia nel Governo, l’abbiamo fatto con gli ultimi tre e lo continueremo a fare, ma la verità è che fin ora, chiunque abbia guidato il Paese, si è scontrato con un muro di gomma ed è stato costretto e svolgere un ruolo quasi amministrativo, risultati concreti ne abbiamo visti molto pochi, compromessi tanti, iniziative che sono partite bene e poi sono sfociate in una gara al ribasso con l’obiettivo di toccare meno interessi possibili, di minimizzare gli effetti di qualunque decisione. In un sistema del genere, preoccupato più di conservare se stresso e di alimentare il proprio potere, forse non cambierà mai nulla. Il Presidente Renzi ha di fronte a sé un ruolo arduo e ingrato, ma pare determinato e coraggioso nel voler demolire le forze di resistenza al cambiamento e alle riforme. Nei pochi incontri privati l’ho incoraggiato a proseguire il suo programma riformatore senza curarsi del clamore e degli attacchi. La sua missione è molto più importante del rumore della polvere sollevata dagli oppositori. Mi avevano chiesto di portarvi uno spiraglio di ottimismo, di condividere messaggi positivi con voi oggi e mi rendo conto che non sto facendo un gran lavoro.
Tanto ho da perdere la voce. Ma il punto è proprio questo: occorre prendere coscienza della realtà se vogliamo creare nuovi termini di riferimento e avviare nuovi comportamenti. Dobbiamo smettere di aspettare miracoli, non possiamo più permetterci di vivere nella perenne attesa che il sistema sia riformato. Se, e quando succederà, se le riforme di cui sentiamo parlare da alcuni decenni fossero finalmente varate, saremo i primi a saltare di gioia. Ma noi non possiamo riporre tutte le nostre aspettative, le nostre speranze su un sistema che pare immobile. Questo è il messaggio che vorrei lanciarvi oggi: a chi tra voi si è iscritto alla squadra rassegnazione e sono certo che negli ultimi quaranta anni qualcuno ha preso anche la laurea, vorrei dire “il futuro non dipende da nessun altro se non da noi”. Per chi invece aspetta che la soluzione venga dall’alto, che le linee guida del cambiamento arrivino dalle stanze del così detto potere, ho una grande notizia: temo che non succederà domani mattina. Dovete diventare voi stessi promotori di quel cambiamento che volete vedere nella società. L’idea di poter cambiare le cose rimarrà un’utopia fino a quando ciascuno di noi non deciderà di fare la propria parte.
Dobbiamo alzarci ogni giorno e decidere di fare qualcosa in modo diverso da quello che abbiamo fatto fino ad ora, dal nostro lavoro come nella vita. Non aspettate che ve lo dica qualcuno, che vi arrivi una direttiva sulla scrivania o un e-mail sul vostro PC, siate voi i primi a rompere gli schemi. Invece di combattere con la realtà esistente, con l’inefficienza e con la burocrazia, pensate a un modello nuovo e più moderno che renda quella realtà obsoleta. Non lasciate che sia qualcun altro a definire la vostra strada, fatela da soli, costruitevi un percorso, seguitelo, disegnatelo da capo ogni volta che volete. Ma iniziate oggi, iniziate subito, accettate la sfida dell’ignoto e rischiate. Potrete sbagliare, potrete cadere, ma avrete acquisito la forza e il coraggio di rialzarvi e cambiare di nuovo. Avrete l’esperienza per ricominciare da capo, soprattutto avrete rotto l’incantesimo dell’inerzia. Le speranze sul futuro dell’Italia sono in mano alla gente che fa, a tutti coloro che, da qualunque strato della società provengano, decidono di reagire, di impegnarsi e di mettersi in gioco. L’esperienza della FIAT non è diversa. Quando abbiamo deciso di intrecciare il nostro destino con la Chrysler, un’azienda in banca rotta, ci siamo giocati tutto: credibilità, reputazione, io personalmente anche la carriera. Abbiamo rischiato di evidenziare in modo chiaro la fragilità della FIAT senza nemmeno la sicurezza di una poltrona su cui atterrare se il progetto fosse fallito. Anche in Italia, se avessimo aspettato di avere le condizioni di un sistema competitivo, non avremmo fatto assolutamente nulla. E invece abbiamo deciso di assumerci la nostra parte di rischio, di responsabilità.
Abbiamo fatto scelte coraggiose, di rottura con il passato, compreso uscire da Confindustria per stabilire un rapporto negoziale diretto al di fuori dei soliti riti sindacali e concordando insieme le condizioni per ricomporre la capacità di competere dell’industria dell’auto italiana. Siamo andati avanti incuranti delle accuse, degli attacchi e degli sgambetti. È da quasi cinque anni che stiamo progettando la nostra rete industriale, usando la sicurezza finanziaria che ci deriva dalle attività extraeuropee, soprattutto da quelle americane e del Brasile. Abbiamo detto e ribadiamo di nuovo oggi che non intendiamo chiudere nessuno stabilimento in Italia, accollandoci tutti i costi di una realtà operativa in perdita. Stiamo usando la forza che abbiamo al di fuori dell’Italia per aiutare a ricostruire un ambiente competitivo, moderno e tecnologico. E come saprete abbiamo anche deciso di rivedere la nostra strategia in una maniera radicale, puntando sul patrimonio storico del nostro alto di gamma per aprirci la strada in mercati esteri. E in questo modo potremo fare dei nostri impianti italiani una base di produzione dedicata ai veicoli destinati ai mercati di tutto il mondo. I risultati che abbiamo ottenuto con la Maserati Ghibli e con la Maserati Quattroporte, entrambe prodotte nello stabilimento di Grugliasco completamente rinnovato, mostrano con chiarezza che è la direzione giusta. Questo impianto che è rinato dalle ceneri, non solo ha permesso di salvare l’occupazione di oltre mille lavoratori dell’ex Bertone dopo sei anni di stop forzato, ma ha anche creato quasi duemila posti per i lavoratori di Mirafiori che erano in Cassa Integrazione. E questo non è l’unico esempio del nostro impegno: a Pomigliano, in un’area che storicamente è stata etichettata come una delle più complesse dal punto di vista sociale e una delle regioni meno produttive d’Italia, abbiamo creato uno stabilimento modello, il primo a guadagnare la medaglia d’oro nel World Class Manufacturing. A Melfi abbiamo investito oltre un miliardo di euro per iniziare a produrre la nostra nuova Jeep Renegade, la FIAT 500X, entrambe destinate ai mercati di tutto il mondo, a Mirafiori stiamo attrezzando le linee per produrre il SUV per la Maserati, il Levante, che dovrà uscire alla fine del 2015 e a Cassino sono in corso i lavori di ristrutturazione per iniziare a produrre un nuovo modello. Quello che abbiamo fatto noi è solo uno dei tanti esempi di cosa si può fare, dobbiamo però prendere coscienza tutti quanti che abbiamo davanti un’Italia che è ancora tutta da ricostruire.
Credo che se l’impegno nel mondo dell’impresa si unisca alla responsabilità di ognuno di noi da privati cittadini, possiamo invertire la rotta. Ognuno di noi può fare la propria parte, può farla quando l’ interesse generale prevale su quello personale, quando rovescia la proporzione tra profondità e banalità, quando i risultati duraturi sono considerati più importanti di quelli a breve scadenza, quando la voglia di impegnarsi prevale sulle scelte facili. E credo che questa sia la via per rispondere alla sacrosanta domanda di felicità che molti, anzi troppi, hanno dimenticato di poter raggiugere. In un libro uscito da qualche anno intitolato L’ultima riga delle favole, Massimo Gramellini ha scritto: “Puoi essere la storia di un vile o di un eroe, di uno che trema in fondo alla spelonca delle sue paure o che crede nell’amore capace di spostare le montagne, scegli tu il destino che preferisci, ma smettila di cercarlo fuori di te”. Nei momenti cruciali della nostra storia passata, gli italiani hanno dato una grande prova di eroismo, abbiamo trovato in noi stessi quella riserva di forza e di coraggio che probabilmente non sapevamo nemmeno di avere. Siamo stati capaci più di una volta di avviare trasformazioni profonde in grado di dare speranze e prospettive a intere generazioni. Tutte le più grandi rivoluzioni culturali e sociali sono partite dalla società. In tutti i momenti difficili gli italiani hanno dimostrato che questo Paese sa fare, di quali risorse umane e morali disponiamo, i capitoli migliori della storia d’Italia sono stati scritti da uomini e da donne che hanno saputo intrecciare intelligenza e visione e che hanno lottato per il cambiamento invece dello status quo. Queste sono le risorse che anche oggi possono dar vita a una nuova fase di ricostruzione e di rilancio nazionale.
Vorrei farvi vedere un video, si tratta di un filmato che abbiamo mandato in onda a febbraio negli Stati Uniti durante il Super Bowl, il più importante evento sportivo americano, per promuovere la Maserati Ghibli. Per la prima volta un’automobile disegnata, progettata e costruita in Italia è stata vista da più di centodieci milioni di spettatori. Il video parla di duro lavoro svolto con abilità di dedizione, di impegno e una storia di passione e di tenacia e un omaggio al marchio Maserati e a tutte le persone che hanno disegnato, progettato una vettura potente, capace di confrontarsi con i migliori. È anche una metafora del percorso che hanno fatto FIAT e Chrysler, due aziende che hanno lottato contro problemi interni e difficoltà esterne, che hanno saputo superare gli ostacoli e che oggi insieme possono passare all’attacco a testa alta con i giganti del settore. In fondo credo sia anche un invito al coraggio rivolto a tutti quelli che affrontano le piccole e le grandi difficoltà della vita, che trovano dentro di sé la forza di andare avanti, di continuare, di combattere e di vincere.

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Vorrei condividere con voi anche un’altra riflessione sui nostri giovani, perché se è vero che la mia generazione ha la responsabilità di disegnare una nuova visione del mondo, di porre le basi su cui iniziare a costruirla, è altrettanto vero che il compito di renderla reale spetterà ai nostri ragazzi e finora non abbiamo reso loro le cose facili. I giovani di oggi sono lontani dagli schemi nei quali per comodità o per ignoranza spesso li releghiamo, e ne ho conosciuti centinaia in questi anni qui in Italia come all’estero; sono gli stessi giovani che a Pomigliano hanno sconfitto i pregiudizi sulla loro terra e creato il miglior stabilimento di Europa; sono i tanti figli dei nostri dipendenti che ogni anno incontro per la consegna delle borse di studio agli studenti più meritevoli; sono le ragazze e i ragazzi di Ingegneria, del Design, dello Sviluppo, che sono partiti da Torino per andare a Detroit a plasmare questo straordinario progetto di integrazione con i loro coetanei di Chrysler; sono i giovani talenti che vedo nelle Università italiane ogni volta che m’invitano a raccontare l’esperienza della Fiat e sono anche le centinaia di migliaia di giovani che si trovano qui al Meeting di Rimini, ragazzi impegnati, con valori saldi che vogliono informarsi e che vogliono partecipare.
Quando parlo con i giovani italiani vedo la forza e la passione nei loro occhi, vedo l’amore per il loro Paese, hanno voglia, hanno l’energia e la capacità e non chiedono altro di essere usati per costruire il futuro; il loro coraggio, la loro sete di idealismo e di libertà sono la nostra migliore garanzia; questi giovani hanno ben chiaro, spesso più degli adulti, che, come scrisse Tolstoj, “l’ideale è la sola cosa che conosciamo con esattezza, la sola cosa che può aiutarci come individui e come umanità nella nostra esistenza”. Augurare loro buona fortuna sarebbe troppo poco; gli auguro invece che trovino la forza nella convinzione morale, che trovino il coraggio, come recita il titolo del vostro Meeting, nelle periferie del cuore, il desiderio di cercare un senso più profondo alla loro esistenza; e queste sono le forze più potenti di cui l’uomo dispone per cambiare il mondo e determinare la storia. Mentre mi accingo a chiudere il mio intervento mi chiedo se sono stato in grado di descrivervi con sufficiente chiarezza che cosa significa davvero l’impegno al cambiamento; il tizio in maglione nero che viene qua a parlarvi di fusioni, di cessioni, di turnaround, che viaggia su un aereo in giro al mondo per investire miliardi e mi rendo conto che tutto ciò ha un alone irreale, qualcosa in cui la maggior parte della gente fatica a identificarsi; la verità è che la mia esistenza come leader è molto più vicina alla terra e alla vita di tutti i giorni, concreta e reale e per questo vorrei raccontarvi due episodi che sono al cuore di quello che faccio e sono anche le cose che danno il vero significato al mio ruolo e alla mia vita.
Il primo esempio è una lettera scritta da una giovane ragazza di Detroit che ha fatto domanda e ha vinto una delle nostre borse di studio. Per chi non lo sa, si tratta di un programma nato nel ’96 e rivolto ai figli dei nostri dipendenti nel mondo, che nel tempo ha sostenuto migliaia di giovani nei loro studi superiori e universitari e vorrei leggervi alcuni stralci di questa lettera: “Sono una ragazza di Detroit nata e cresciuta a Detroit. La linea di montaggio mi dà da vivere, le aule affollate sono state la mia scuola e il declino mi fa da stimolo. Nel marzo del ’96, quando camminavo a malapena, mia madre ha iniziato a lavorare nello stabilimento di Chrysler a Jefferson North. La studentessa modello che sognava la facoltà di giurisprudenza si è ritrovata incinta e senza casa a solo diciotto anni; è andata a lavorare in Chrysler per assicurare un reddito alle nostre famiglie e per offrire a me un’infanzia diversa dalla sua; mi preparava la colazione tutte le mattine, Chrysler ci sfamava ogni giorno; lei non è più tornata all’Università ma ha lavorato duro per dare a me la possibilità di eccellere negli studi ed è per questo che le sarò eternamente grata. Io ho frequentato la famigerata scuola pubblica di Detroit; i miei voti erano alti e mi hanno permesso di iscrivermi ai corsi successivi con largo anticipo; il numero dei premi ottenuti negli studi era niente in confronto agli attacchi che mi aspettavano nel cortile della scuola; ho imparato presto che a Detroit i ragazzini devono avere la pelle dura e la mente assetata; quando mi sono trasferita dall’altra parte della città ero entusiasta di poter dimenticare i giorni in cui avevo paura di seguire le lezioni perché temevo di non poter rientrare a casa in pace; ma anche per frequentare una scuola privata e in periferia c’era un prezzo da pagare: classismo e razzismo infestavano i corridoi. Il primo giorno di scuola mi hanno chiesto se mi avessero mai sparato e se venivo dal ghetto; l’estate prima della maturità mio cugino di quattordici anni fu arrestato per furto d’auto; per me era come un fratello, io lo aiutavo a fare i compiti, lui mi ha insegnato ad andare in bici; non mi sono mai persa una sua partita di football e lui era sempre in prima fila quando io partecipavo ai quiz di spelling. Nella mia fuga verso un’istruzione migliore avevo trascurato le persone che avevano più bisogno di me. Quando sono andata a trovarlo in riformatorio mi disse che io ce l’avevo fatta e che per lui non c’era più speranza; ho pianto disperatamente per settimane e poi ho deciso di fare qualcosa. Dopo un’esperienza presso l’ufficio del procuratore del distretto orientale del Michigan, ho partecipato ad un progetto per la prevenzione della violenza giovanile a Detroit e mi hanno offerto l’opportunità di fare un tirocinio presso le Forze dell’Ordine. Aver partecipato a quel programma ha attenuato il mio senso di colpa nei confronti di mio cugino ed ha evitato ad altri di fare la sua stessa fine. Ora frequento la Northwest University ma mi preoccupo spesso del costo dei corsi e ho scelto le materie sulla base dei prezzi dei libri. Vorrei studiare legge e questa borsa di studio mi aiuterebbe a raggiungere il mio sogno. Sono di Detroit, un’operaia coscienziosa mi ha insegnato l’importanza di avere un’istruzione e di porsi degli obbiettivi; da sola ho imparato a contare sulle mie forze e a essere tenace e determinata; il declino della mia città ha stimolato in me il desiderio di equità e di giustizia tra la comunità qualunque siano la razza e le condizioni sociali; un giorno diventerò sindaco di questa città: Detroit è ciò che sono”.
Questa lettera che è arrivata da Detroit descrive una vita di difficoltà e di estremo disagio, che purtroppo è comune a un gran numero di persone. Potrei portarvi testimonianze altrettanto significative, anche se ognuna diversa dall’altra, scritte da un ragazzo brasiliano. In Brasile siamo impegnati da dieci anni con il progetto “Arvore da Vida”, per spezzare il circolo della miseria e favorire lo sviluppo sociale ed economico delle comunità di Jardim Terezopolis, uno dei quartieri più poveri nei pressi del nostro stabilimento di Betim. Ad oggi, oltre ventimila bambini ed adolescenti ne hanno beneficiato. Sono tutti esempi dell’impatto, piccolo o grande che sia, che il nostro gruppo può avere sulla vita delle persone che ci stanno intorno. Ecco, noi possiamo influenzare in modo positivo le comunità in cui operiamo. Il secondo episodio che vorrei condividere con voi oggi è racchiuso in un video che è stato girato circa tre mesi fa, durante la cerimonia di inaugurazione del nostro nuovo impianto di Tipton, in Indiana. Chi parla è Rich Boruff, che ho conosciuto quel giorno stesso, il Presidente dell’associazione locale della UAW, il sindacato americano dell’auto, che è stato visto tantissimo tempo come il nemico numero uno delle aziende automobilistiche americane. La realtà che vedrete è ben diversa.

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Credo che questi due esempi dicano che cosa è Fiat-Chrysler, dicano in modo più chiaro, in modo più forte di una realtà che noi gestiamo quotidianamente e dell’importanza cruciale del rapporto umano, di milioni di rapporti umani che si alimentano ogni giorno in un’organizzazione di circa trecentomila persone. E dimostrano anche un’altra cosa e cioè che oltre a tracciare strategia, piani di crescita, la parte cosiddetta tecnica della gestione della nostra azienda, la vera priorità, la mia vera priorità è a un livello molto più umano. Preoccuparsi di quest’umanità, considerarla come centrale è ciò che ha favorito i cambiamenti più profondi. E’ quello che ci ha permesso, come avete visto, di porre fine finalmente alla storica rivalità nel rapporto con il sindacato e di aprire un capitolo totalmente nuovo basato sul rispetto e sulla fiducia reciproca. In realtà le trecentomila persone di cui vi ho parlato sono troppe per essere controllate. L’unica cosa sulla quale io posso davvero lavorare è assicurare loro, assicurare la condivisione insieme a loro di valori comuni, a prescindere dalle loro differenze di cultura o di nazionalità. La vera forza di FCA è questa.
Per quanto riguarda la mia ambizione nella vita è sempre stata e rimarrà molto semplice: quando vado a dormire la notte, dovunque mi trovi, a qualunque ora sia, mi faccio una sola, semplice domanda: sono riuscito a migliorare le cose rispetto a come le ho trovate al mattino? E se ho fatto tutto il possibile per proteggere e migliorare il benessere della nostra gente. Tutto qua. Ma è esattamente questa semplicità di obiettivo che fa della leadership una vocazione nobile. Così a voi auguro la stessa cosa che auguro a me, a me stesso ogni giorno: di essere in grado di rispondere “sì” a questa domanda il più spesso possibile, nei vostri sforzi futuri. Grazie di cuore per l’invito di oggi.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, grazie a Sergio Marchionne per questo invito alla responsabilità personale, all’audacia, al coraggio, e anche per l’esempio che è possibile cambiare, che è possibile cambiare le situazioni anche molto difficili, e quindi mi permetto solo una domanda ancora. In mezzo a tante difficoltà, di fronte a tanti attacchi, di fronte a tante persone che non ci credevano, qual era la certezza di Sergio Marchionne per affrontare queste sfide enormi che hanno portato a questi risultati?

SERGIO MARCHIONNE:
Come ti ho detto è la domanda che mi faccio tutti i giorni, a fine giornata dopo che ti sei rovinato la vita per 18 ore: se il posto è migliorato, se hai fatto qualcosa di buono e sfortunatamente questa è una cosa che al di fuori non si vede. Ieri abbiamo annunciato il fatto che gli azionisti non hanno bloccato la fusione tra Fiat e Chrysler, quindi un passo avanti enorme nell’evoluzione del gruppo, ma guardiamo più quelle cose là che non la realtà quotidiana di gestire 300.000 persone.
Dieci giorni fa ero giù in Brasile e volevo intervistare uno dei nostri dirigenti, che volevo promuovere, e mi hanno detto che non era lì, son tornato su ed ho cercato di beccarlo quando ero in Italia e mi hanno detto che era in ferie in Italia e allora ho detto “rintracciatelo, fatelo venire su”. L’ho visto questo povero disgraziato, ieri, che l’abbiamo beccato in luna di miele nelle Barbados ed è tornato in Italia per incontrare me. L’ho fatto sentire proprio uno zerbino. Questo povero disgraziato ha lasciato la moglie in Barbados per venire a trovare me. Ma ti dice molto del tipo di impegno che esiste nel gruppo dei nostri leaders, queste persone che normalmente avrebbero detto “può aspettare che rientri dalle ferie l’8 settembre?”, ma la possibilità di poter lavorare nel gruppo ristretto che sta gestendo questa realtà è una cosa estremamente importante per tutti noi. Quindi la gente sta facendo tantissimi sacrifici a tutti i livelli dell’organizzazione per portare avanti il disegno che abbiamo presentato il 6 maggio. Qualcuno mi ha fatto la domanda se sarei venuto lo stesso in Fiat, sapendo lo stato di degrado della realtà industriale della Fiat del 2004. Razionalmente non sarei dovuto venire perché era una situazione quasi impossibile da riparare, l’abbiamo rimessa su appoggiandoci su un gruppo di giovani, che avevano 30 anni, che abbiamo tirato su dall’organizzazione, cui abbiamo dato un grandissimo spazio e libertà di azione, come insegnare a tuo figlio ad andare in bici. La cosa importante è che gli devi stare dietro per evitare che cada, senza farglielo mai pesare. Quindi il fatto di poter far crescere la squadra e i risultati del 2008 sono semplicemente un riconoscimento della capacità di questi ragazzi di accettare delle sfide che sembravano impossibili.
Sono assolutamente sicuro che, se moralmente la sfida è sana, riuscirà a trascinare le persone, a portartele dietro, perché trascinarti 300.000 persone non è facile. Mandare e-mail, messaggini ai nostri tutti i giorni, non vale niente, quindi dobbiamo stare molto molto più attenti a creare quella lealtà vissuta quotidianamente nello stabilimento, in tutti gli stabilimenti, nei centri di ricerca, nelle attività commerciali che facciamo. E ti dico onestamente, il fatto che siamo riusciti a ripetere l’esperimento in Chrysler nel 2009, dove la situazione era ancora più disastrosa, mi riempie di orgoglio. Ci siamo presentati un po’ da sfigati italiani e siamo andati su. L’abbiamo fatto ed abbiamo avuto la fortuna di trovare gente in Chrysler con lo stesso atteggiamento degli italiani che ho trovato nel 2004. Quindi il fatto di costruire queste alternative dipende veramente da noi, come avere la convinzione morale della certezza di potercela fare, di prendersi l’impegno.
Non c’è niente che mi dia più fastidio che vedere paura sulla faccia dei nostri dipendenti. Quando sono andato in Chrysler nel 2009 c’era assolutamente terrore. Quando vedi 30.000 persone che non hanno il minimo livello di certezza se fra sei mesi saranno in vita o meno con il loro posto di lavoro, ti rendi conto del peso, dell’impegno che hai preso. Quindi non sono cose facili da fare, io le ho prese seriamente, i miei colleghi sono ugualmente impegnati nella stessa missione. Spero che l’esempio della Fiat sia preso come esempio e non come base per fare i presuntuosi. Esso è la prova che anche in situazioni che sono veramente disperate, quando la concorrenza ti considera morto ce la puoi fare e ti puoi rimettere in piedi. L’Italia in questo momento non può più aspettare. Ieri ci sono stati un po’ di messaggi negativi dal presidente di Confindustria, io cerco di guardare l’aspetto positivo. Siccome abbiamo provato a fare questi cambiamenti a livello strutturale da parecchio tempo, abbiamo deciso di muoverci prima. La realtà dei fatti è che bisogna andare avanti, non si può più aspettare, se no la situazione si aggraverà con questi livelli di disoccupazione che abbiamo in giro, con un numero tale di giovani che non riesce a trovare lavoro. Il Paese sta prendendo una brutta impennata: credo che dipenda molto dagli imprenditori e dalla loro serietà nell’affrontare le sfide che hanno davanti, perché la risposta non arriverà dall’alto.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene, grazie. Cerchiamo di cogliere questo invito, di fare il nostro meglio, e penso che l’applauso sia stato anche un invito a rivederci a Rimini in uno dei prossimi anni. Grazie Sergio Marchionne.

Data

30 Agosto 2014

Ora

11:15

Edizione

2014

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo D5
Categoria
Incontri