Giussani 100

Guzman Carriquiry, Vicepresidente emerito della Pontificia Commissione per l’America Latina (Cal); Fabrice Hadjadj, Scrittore e filosofo; Maria Francesca Righi, Badessa del Monastero Cistercense di Valserena; Joseph Weiler, University Professor at NYU Law School and Senior Fellow at the Center for European studies at Harvard. Introduce Roberto Fontolan, Direttore del Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.

Il 15 ottobre 1922 nasceva Luigi Giussani, sacerdote, educatore, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione e grandissimo amico del Meeting (dove ha parlato nel 1983 e nel 1985). Della sua figura e della sua opera parlano quattro testimoni d’eccezione: due lo hanno conosciuto di persona e due no. Ne uscirà un ritratto a più voci, originale e profondo.

Con il sostegno di Intesa Sanpaolo, Tracce.

GIUSSANI 100

Roberto Fontolan: Cari amici a questa serata, che abbiamo chiamato Giussani 100, ricordiamo i cento anni dalla nascita di don Giussani ma, come mi è capitato di scrivere questa mattina per il Sussidiario, a questo numero cento vogliamo dare più significati. È un po’ un simbolo: cento mondi, cento modi, cento scintille che don Giussani, la sua figura, la sua personalità, il suo pensiero, le sue parole hanno acceso nelle persone che lo hanno intercettato o che lo hanno conosciuto direttamente o che lo hanno conosciuto attraverso gli scritti o, come è capitato tantissime volte, attraverso altre persone. E questo cento è un po’, racchiude tutti questi significati. Io introduco sempre i miei incontri con pochissime parole perché penso che siete tutti qui per ascoltare persone che hanno da dire cose molto interessanti su don Giussani e abbiamo pensato questo incontro in una forma che è nata un po’ dalla mostra virtuale su don Giussani, di cui qui al Meeting si può vedere una parte, perché la mostra allestita qui fisicamente è tratta dalla mostra virtuale, perché in questa mostra virtuale alcune delle persone qui, su questo palco, sono presenti con un loro commento, un loro pensiero, una loro riflessione per quanto breve su don Giussani ed è uno degli spunti che vorrei approfondire questa sera. Vi presento i nostri ospiti nell’ordine in cui darò loro la parola. Madre Maria Francesca Righi che è la badessa del monastero cistercense di Valserena, il professore Joseph Weiler che, non leggiamo le biografie e i curriculum perché in particolare con il professor Weiler staremmo qui almeno una mezz’oretta a leggere tutti i suoi titoli

 

Joseph Weiler: Siamo in famiglia

 

Roberto Fontolan: Ah, siamo in famiglia non c’è bisogno. Ah comunque lo dico, professore alla NYU di New York e Senior Fellow al centro per gli Studi Europei all’Università di Harvard, tra le sue tante cose. Ma ieri mi ha detto che è venuto qui dalla Polonia, dove sta tenendo un corso anche in Polonia. Stai ricevendo un corso in Polonia. Ci dirai dopo cosa stai facendo in Polonia. Il professor Fabrice Hadjadj, che è scrittore e filosofo molto noto ai tanti di voi e di noi che abbiamo letto i suoi libri, e il professor Guzmán Carriquiry che è Vicepresidente emerito della Pontificia Commissione per l’America Latina e amico di lunghissima data del Meeting. Possiamo dirlo, no Guzmán che non è la prima volta che ti trovi qui. Bene, allora, io vorrei chiedere subito, io darei subito la parola a madre Francesca. Mi ha colpito, è uscita una sua intervista qualche giorno fa che è stata ripresa anche dal sito di Comunione e Liberazione in cui c’era questa cosa che lei ricordava prima, che mi aveva appunto suscitato come un interesse. É capitato a madre Francesca di accompagnare più volte don Giussani in auto, prima parlavamo delle esperienze molto difficili delle persone a cui è capitato di accompagnare don Giussani in automobile anni fa, e in questa intervista ha usato questa espressione: in auto dava indicazioni perentorie, e chi ha avuto questa avventura se le ricorda, ma nel dialogo personale, nell’incontro personale tutto ciò che faceva emergere era la libertà della persona. Allora su questo spunto vorrei che madre Francesca prendesse la parola, credo che abbia anche qualcosa da farci vedere, credo qualche foto qualche immagine se non vado errato e che speriamo che la regia possa mandare in onda. Prego.

 

Maria Francesca Righi: Grazie. Io comincio dicendo che sono moltissimo stupita di essere qui, di quello che vedo. Ma semplicemente in quello che vedo di essere io qui, sinceramente, perché ho incontrato Cristo nel 1968 e questo da subito ha coinciso con una sequela scelta della persona e delle parole di don Giussani e questo spazio della mia vita è durato fino al 1977 anno in cui sono entrata in monastero, dunque, un brevissimo spazio di tempo che però ha posto le fondamenta di tutto il resto. Dunque la mia vita in monastero è più lunga del Meeting che io non ho mai visto. Ho incontrato Cristo o meglio mi sono aperta alla sua presenza attraverso una comunità di GS al liceo dove ero stata inviata perché nella scuola dove ero e dove appartenevo al Movimento studentesco (mi tirate la cintura se vado troppo lungo, io vado…)

 

Roberto Fontolan: Non mi permetto. Non mi permetterei mai di farlo naturalmente

 

Maria Francesca Righi: Dove appartenevo al Movimento studentesco. La mia classe era stata espulsa e dispersa. Così, in una scuola di periferia, rispetto al Parini, ho incontrato una realtà viva di persone che pregavano e che erano presenti nella scuola. Ma il vero incontro con Cristo per me e con una forma adulta della fede, è coinciso con l’incontro con don Gius, con monsignor Giussani, e con la scelta di seguire i suoi corsi di Introduzione alla teologia all’Università Cattolica. Per la mia famiglia era una scelta controcorrente, perciò ho dovuto pagare lo scotto di un anno in Università Statale dove si imperversava unicamente il marxismo. Fatto l’unico esame di Storia del Cristianesimo, ho chiesto di passare alla Filosofia in Cattolica con l’unico scopo di mettermi alla scuola del don Gius. Era una scelta controcorrente sia rispetto alla mia famiglia ma anche rispetto alla stessa università cattolica che precedeva il maggio francese con le proteste e diventava in qualche modo capofila della sinistra. Io questo non lo sapevo. Molti giessini lasciavano le fila del movimento, mentre io che mi ero trovata tra le mani un libretto delle ore postomi da qualche compagno della scuola dove ero, dove ero stata esiliata, andavo alle manifestazioni e mentre la gente gridava Viva Marx leggevo affascinata il piccolo libro verde. Poi ho scelto. Dovevo scegliere, o le manifestazioni o il piccolo libro verde: ho scelto il piccolo libro verde. E alla fine del liceo mi son messa in primo banco ai corsi di Introduzione alla teologia di Monsignor Giussani. La sua genialità è stata, per me, quella di cogliere la persona nel suo rapporto col mistero come suo fattore costitutivo al di là e oltre le circostanze, in modo che il piccolo io si trovasse sempre in relazione con il grande Tu, che faceva lui e faceva tutto. Balthasar lo avrebbe detto con il tutto nel frammento, Qohelet lo dice con “Ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore senza che riescano a capirla fino in fondo”. Di questo senso della vita in relazione ad un altro don Gius ha colto fino in fondo l’importanza come senso religioso. Ripeto ancora, sono stupita di esser qui perché dopo gli anni dell’Università e un anno di lavoro sono entrata in monastero dove Monsignor Giussani è venuto una volta a trovarmi e lasciandomi mi ha scritto: “Sono sicuro, perché ti so nelle mani di Cristo” e punto. Questo fu tutto. Ma tutto si giocò in quella scelta, in quel riconoscimento di una presenza da seguire, una presenza che mi rendeva concreto il Cristo che avevo incontrato. Lui non lo incontrai più, sì, forse una volta quando venni a Milano per questioni di famiglia di mio padre. Ma ho continuato a bere letteralmente ogni sua parola e la scelta di un distacco pulito fu altrettanto chiara, come la scelta di una sequela che continuava sotto un’altra forma. Volutamente non ho cercato di rimanere attaccata alle parole e agli scritti che mi avevano accompagnato ma li avevo dentro e attraverso quelli potei incontrare, in profondità, la tradizione della chiesa nella forma monastica e potei verificare che erano la stessa cosa. Mi permettevo solo ogni tanto di dare una sbirciatina agli eventi e alle parole che circolavano nel movimento e mi bastava per registrare la sintonia di sempre. Quello che voglio dire è questo: c’è un distacco che è allontanamento e distanza e c’è un distacco che è approfondimento e fecondità, un distacco che somiglia a quella sembianza di morte di cui don Gius parlava, ma prima di arrivare al distacco c’è una sequela, una decisione, una identificazione, una appartenenza e, infine, il tutto in un ultimo rischio che è il passo della fede. Quel passo sulla voragine dell’essere che solo la libertà della persona può fare.

L’esperienza di una amicizia dove la fede diventa cultura.

Quello che poi ho potuto sperimentare in Università cattolica è stata la scelta di una sequela voluta e ripagata, il paradiso di un’amicizia dove, a ogni passo, tutto fioriva di promessa, di speranza, dove nella contraddizione del presente era tutto pieno di positività, dove guardavamo i cristiani in Russia che ci facevano come da maestri e modelli e guardavamo con compassione e tristezza i cosiddetti cristiani anonimi. Padre Scalfi era il mio confessore quando non trovavo il Gius, era raro, ma ho imparato allora a vivere la confessione una volta alla settimana. Andavo al piano superiore, lui allora abitava davanti alle Suorine di via Martinengo dove io ero ospite di una casa dei Memores. Da entrambi, dal Gius e da Scalfi, ho ricevuto la parola pace, il dovere della pace come dovere di una testimonianza.

Dopo l’età dell’amicizia o dentro l’età dell’amicizia l’età della decisione come esperienza di autorità.

Il tempo dell’università è stato tempo di amicizia e appassionate discussioni, tempo di presenza a ciò che avveniva, tempo di appassionato interesse a una tradizione in cui io ero nata ma che non conoscevo, o conoscevo solo per quello che me ne era stato detto. In Università Cattolica, allora con Melchiorrre, Vanni Rovighi, Bontadini si insegnavano le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, si insegnava la Summa di Tommaso accanto, non so se ancora si fa, ai gradi dell’amore di San Bernardo. In Cattolica ho sentito per la prima volta il nome della compagnia che sarebbe stato poi Bernardo per me e le lezioni di don Gius erano il punto unificante di tutti i corsi della Cattolica. Unificante come interesse culturale, unificante come amicizia che lì nasceva, lì c’erano don Lugi Negri, Massimo Camisasca con il seminario di Apologetica, Angelo Scola come responsabile del neonato Clu. La mia amica Silvia rimase in Statale, ma andavamo insieme a incontrare il don Gius se c’era qualche domanda da porre, qualche consiglio da chiedere. Gioia di un’appartenenza vissuta, che coincideva con una presenza significativa della società. Per me questo aspetto quasi politico era importante, fin troppo. Era il livello in cui il don Gius correggeva il tiro della compagnia, riportandolo sempre all’essenziale. Mi ero trovata a scoprire che la fede cristiana era il fondamento ormai misconosciuto delle due posizioni che i miei genitori rappresentavano: liberalismo e marxismo. E che, come sorgente misconosciuta, poteva però valorizzare quello che c’era di buono in ognuno. Nel mio andare in monastero, certamente, ha avuto parte la scelta di non rimanere a livello delle discussioni di controversia, in cui potevo anche essere svelta e capace di dialettica, ma andare a quel fondo in cui la verità di ciascuno trova il suo fondamento. Infatti, don Gius mi prendeva in giro quando gli arrivavo appassionata e arruffata per le questioni politiche. “La politica ti distrugge” mi diceva. Eppure attraverso la sua persona ho imparato un’altra presenza politica, che poi si è concretizzata in monastero.

Tempo di fede che diventa cultura non per un apprendimento teorico ma per le domande che facevano nascere gli insegnamenti che ricevevamo e le risposte che suggerivano, o meglio, proprio per quel concepire la vita come un’ipotesi di lavoro, l’inizio di una verifica. Verificare non come la posizione di chi da spettatore sta a vedere se l’esperimento riesce, ma la passione di chi ritiene sempre più vero ciò di cui fa esperienza. E l’esperienza dell’amicizia con gli altri è coincisa con l’esperienza di una autorità paterna e per questo assolutamente rispettosa e libera. Sapevo che nella decisione della forma di vita sarei stata io a giocarmi e so che volutamente mi ha lasciato misurarmi con quello che avvertivo come il mio destino, anche se forse avrebbe preferito diverso. Salto un pochino sennò è troppo lungo.

La funzione educatrice di una vera autorità si configura precisamente come funzione di coerenza.

Un accompagnamento autorevole non ti toglie dai guai, dandoti una risposta prefabbricata, ti immette con consapevolezza nel lavoro dell’esistenza. Queste erano le sue lezioni, questo era il rapporto con lui, in cui io non ricordo grandi discorsi. Tempo di università, tempo di decisione. La scelta era continuare a studiare? Sposarmi? ho incontrato il monastero in cui poi sono entrata per una persona che adesso è nella nostra fondazione in Siria che mi invitò, ci invitò alla sua vestizione. Eravamo insieme in un’amicizia aperta e vera, parlo di gente come Laura Cioni, Bernardo Cervellera, Nori Grassi, Claudio Dal Ponte, Alberto Roderi, Dorotea Fortunato. Una compagnia così. Andammo là in Valserena a fare un ritiro di studio e poi le monache ci dissero che avevamo fatto un po’ troppo casino. Io dicevo allora che volevo andare in missione, ma di quel gruppo sono poi io che sono entrata in quella casa dove entrando in chiesa avevo avvertito la presenza che mi aveva chiamato e poi dove, con stupore, ho visto che c’è davvero tutto, non manca nulla alla vita umana e non manca nulla di tutto ciò che la rende più tale, più piena. Per questo amo dire che il monastero oggi è il luogo che custodisce l’ecologia dell’umano, un amore che ho imparato dalla persona del Gius. Gli facevo spesso da autista e fu in uno di questi viaggi in Milano che gli dissi che pensavo di andare in clausura. Partecipavo agli incontri della verifica ma quasi da subito ebbi l’intuizione del monastero come dimora definitiva. Vitorchiano era l’ideale che circolava, Valserena la chiesa che avevo incontrato. L’incontro tra don Gius e madre Cristiana era appena avvenuto e in CL appena nata circolavano le parole di madre Cristiana e la lettera di una certa Monica che mi colpì tanto che la ricordo ancora a memoria. Non sapevo che l’avrei poi trovata come badessa a Valserena e in questa lettera parlava della conversione: passaggio da una solitudine ontologica a una libertà di dire io sono perché Tu mi fai. È tardi? Per me era vera l’esperienza di una solitudine ultima, ma era anche bella e vera l’esperienza di un amore vero, ma incontrando Cristo avvertii che quel nuovo amore mi chiedeva l’omaggio del primo. Ora, alla mia veneranda età, posso testimoniare che è vero, l’affezione vera, l’amore vero ha in sé l’eternità, o meglio, è quel briciolo di eternità che ha dentro che rende vero l’amore. Per cui un giorno che l’accompagnavo in macchina non so dove, presi coraggio e gli dissi la parola clausura e lui non ci pensò due minuti e mi disse: “Allora vieni in Argentina”. “Cosa c’entra?” “C’è un bellissimo monastero, tu sei un tipo missionario”. Mio silenzio totale, ma dentro mi dissi “Ma perché devo dire di no?” anche se mi pareva una follia. Erano gli anni ’73, lui aveva appena conosciuto il monastero di Vitorchiano, fondato da Vitorchiano, Madre di Cristo di Hinojo, la mia famiglia era talmente sottosopra per la mia nuova posizione che adesso metterci di mezzo l’Argentina mi sembrava davvero troppo. Mi decisi, ma non dissi nulla a casa, così come i miei viaggi in Toscana erano giustificati da una visita a una tenuta in campagna di una mia amica non meglio identificata. Per arrivare al viaggio dovetti dire una bugia grossa, mi inventai che sarei andata per preparare un libro con il cardinale di San Paolo del Brasile, per la Jaca per la quale lavoravo. Arrivai all’aeroporto e don Gius mi chiese: “Lo sanno i tuoi?” io dissi “No, ho inventato una cosa” “Allora resti qui”. Era chiaro che non c’era da discutere. Poi vide la mia faccia e partimmo per quel viaggio famoso. Don Gius, don Ricci e io e in Argentina, non in Brasile, ma in monastero, avrei trovato e fatto amicizia con Pigi. Nel libro di Savorana c’è una foto dove siamo tutti e quattro, me nascosta dietro al don Gius, di me si vede solo una mano, un pezzo di jeans e i capelli. Ma so solo io che sono io. Tralascio i dettagli della vicenda che non sono centrali. Ero una ragazzina avevo in mente che dovevo andare in quel misterioso monastero della pampa argentina per scoprire poi che avrebbero solo ricevuto vocazioni locali e per trovarmi a bussare alla porta di Valserena e dove poi sono entrata e rimasta. Finisco con che cosa. I pilastri del monastero sono preghiera, vita fraterna, lavoro. L’esperienza del monastero ha esaltato e portato a maturazione i semi che avevo ricevuto nel movimento, collegandolo in modo organico con tutta la tradizione spirituale della Chiesa, con la tradizione teologica e filosofica che avevo imparato ad amare e il tutto in collegamento continuo con l’esperienza vissuta di una passione pedagogica, sperimentata prima su di me e poi da me stessa per le giovani che mi sono state affidate. E la passione pedagogica è esattamente l’introduzione alla realtà completa della fede, non è mai solo un rapporto personale, ma l’introduzione, attraverso l’esperienza personale, alla vita della comunità, della Chiesa. Quello che i padri chiamano il passaggio dall’io al noi, non come fine della autocoscienza personale, ma come una sua maturazione ultima. Gius è stato l’esempio di un carisma che guida la gerarchia. Una personalità carismatica che ha vissuto il carisma a lui affidato in assoluta obbedienza all’autorità gerarchica ma anche con la capacità di suggerire, indicare e in qualche modo governare, è una parola grossa, in una assoluta sottomissione di fede. In qualche modo come san Bernardo. Un’esperienza di rinnovamento in fondamentale unità con la tradizione. Per me tutto era nuovo, tradizione e rinnovamento e non avrei buttato via nulla di tutto quello che mi si apriva davanti. Il monastero in cui sono entrata viveva in pieno tutti i sussulti del rinnovamento postconciliare. Autorità, tradizione, esperienza personale costituivano un triangolo vitale che ho ritrovato funzionante nell’esperienza del monastero, anzi esaltato alle sue potenzialità più grandi. E finisco perché mi sembra davvero che sia tardi, costruire la chiesa liberare l’uomo, costruire il monastero, custodire e far crescere l’umanità. Coscienza di certezza. Venivo da due tradizioni simili e contrapposte e ho scoperto quella cristiana che unificava le altre due e ne era il fondamento e la tradizione cistercense e benedettina come l’espressione più matura della coscienza cristiana come vedere avverato ciò che l’esperienza del movimento indicava come meta. Ricordo bene l’importanza che il don Gius dava all’attenzione, ai momenti di preghiera, al silenzio, al lavoro. La liturgia come esperienza vitale come respiro della vita della chiesa. Arrivando al monastero ho vissuto ciò che avevo sentito e l’ho meglio capito. La liturgia come punto di verifica e rilancio che è la preghiera personale, il faccia a faccia con Cristo, a cui mille volte ci eravamo richiamati. Faccia a faccia che diventa ipotesi di lavoro, amore alla verità, senso dell’essere e della sua gloria, che risplende nella persona umana, nella famiglia, nelle comunità, l’essere padre e madre, che è ciò che, proprio alla nostra società, manca. Ora sono qui a testimoniare non la bellezza della vita monastica, ma a dire che io là ho trovato la realizzazione di tutto quello che nei primi anni del movimento avevo imparato a desiderare, con il desiderio di rendere onore alla persona che più mi ha indicato Cristo come termine ultimo di tutto e unico problema della vita.

 

Roberto Fontolan: Grazie madre Francesca. Ora il professor Weiler che forse oggi è un po’ arrabbiato con me perché da stamattina alle 7 l’ho fatto arrivare qui per raccontare al pubblico di un programma della Rai, TG1Mattina, alcuni pensieri sul Meeting e don Giussani. Ora sono le 21 e 40 ed è ancora qua, quale altra dimostrazione di amicizia ci può dare? Ora, nella mostra il professor Weiler dice una cosa, la introduco perché mi aveva molto colpito, e cioè che lui nel messaggio di don Giussani ha trovato questo grande invito: fare i conti con l’Onnipotente nella vita quotidiana e questo mi aveva colpito proprio come pensiero su don Giussani che comunica universalmente a tutti questo invito a fare i conti con l’Onnipotente o il mistero nella vita quotidiana. Allora grazie professore che sia ancora qui, dopo, se c’è tempo, ci dirà anche della Polonia ma non è una cosa molto importante.

 

Joseph Weiler: Scusate, mi sono emozionato di questa testimonianza, grazie signora. È chiaro ed evidente che il mondo è diviso in due, quello che avevano la fortuna la benedizione di conoscere don Giussani di persona di vedere i suoi occhi e ascoltare la sua voce vedere la sua faccia di fare strada con lui e noialtri poveri che non avevamo questa fortuna. Però non è fatale. Perché non è fatale? E qui dico una cosa e mi raccomando, cum grano salis, perché prendo la mia ispirazione dagli evangelisti, perché sicuramente tre di loro e possibilmente tutti e quattro, su Giovanni si discute, non avevano conoscenza personale di Gesù e hanno scritto i loro vangeli basati su testimonianza sulle storie su racconti di quelli che avevano il contatto personale con Gesù. E allora la mia conoscenza di don Giussani è di ascoltare persone come la madre Francesca, come Julián Carrón, come Vittadini, come Emilia che avevano questa fortuna e anche studiare in maniera profonda il pensiero di don Giussani, di tanti suoi scritti, essere uno dei pochi che ha letto dall’inizio alla fine la biografia, 1400 pagine. Allora, se mi permetto, questo è il mio vangelo di don Giussani e, devo dire una cosa, perché se leggiamo Giovanni e leggiamo Marco, sono Gesù un po’ differenti. Il Gesù di Giovanni è molto differente dal Gesù di Marco e questo arricchisce la nostra conoscenza della persona, vedendolo da punti di vista differenti. E allora il Giussani che vado a presentare io non è il don Giussani è il don Giussani come percepito da Joseph Weiler.

 

È diverso dal Giussani percepito da altri. È vedendo allora ho cercato di ridurre questa conoscenza, questa risonanza che ha fatto don Giussani in questa maniera che ho appena spiegato in sette proposizioni, perché il numero sette è un numero sacro.

Allora, il primo. Quando pensiamo, quando incontriamo leader religiosi ci sono due tipi di carisma differenti. C’è uno cerebrale, profondo, che scrive, che riflette, e la storia è piena di questi, e quando si legge si impara delle cose importanti, si arricchisce la fede. Esempio di contemporanei: Ratzinger. Chi non ha letto il secondo libro su Gesù deve farlo, oggi stesso. E poi c’è un altro carisma, carisma che dipende meno sulla parola detta, ma sulla voce, sullo sguardo, sulla presenza, sull’ispirazione che la persona dà; vederlo, ascoltarlo, ecc. e sono due carismi differenti. C’è una piccola banda di leader religiosi che riescono a combinare tutti e due i carismi: Giovanni Paolo II, uno, filosofo profondo e una persona magnetica; e don Giussani appartiene a questa piccola banda perché Giussani pur non avendo scritto una teologia sistematica era un pensatore teologico molto profondo, e allo stesso tempo ascoltare questa testimonianza, vedendo in YouTube i suoi interventi, è anche lui magnetico. Perché è importante questo? a parte che è un fatto interessante su don Giussani, penso. Per due ragioni. Uno: a volte mi sono domandato. che vuol dire quando dicono una persona santa, una persona toccata dalla santità? E quelli che hanno questa combinazione dei due carismi si può dire che sono toccati dalla santità. Il secondo, è modello per l’uomo religioso, perché l’uomo religioso deve cercare da una parte di radicare la fede nel pensiero, nell’investigazione intellettuale, nel capire, ma quello non basta, deve essere anche quella spontaneità spirituale proprio di sentire la presenza di Dio. In questo senso don Giussani è un modello. Allora quello è la prima cosa che mi ha fatto risonanza nella vita di Giussani.

Secondo. Si parla molto della sfida educativa. Quante parole abbiamo speso sulla sfida educativa che predicava Giussani. Cosa vuol dire? Qui sarò duro. Se pongo la domanda qualsiasi persona qui nell’aula. Perché credi in questo, perché accetti quell’altro? E la risposta sarà: perché così ha detto don Giussani. Posso assicurarvi che questa risposta non sarebbe piaciuta a don Giussani. Lo credo perché ho sentito, perché ha l’autorità. No. Lui credeva nel pensiero. Lo credo perché, può darsi perché ho sentito da Giussani, ma ho riflettuto, ho integrato, a volte ho rifiutato, ma è diventato il mio pensiero autonomo. In questo senso don Giussani è kantiano, che la cosa deve venire da dentro, dall’autonomia, dalla scelta della persona e non dall’autorità di qualcun altro. Quello per me è importante. E c’è un’altra cosa che sempre pensavo sulla parte “La sfida educativa” di don Giussani. Si doveva prendere questa personalità complessa e ridurla un concetto: vi ricordate che i discepoli di Gesù lo chiamavano rabbino, don Giussani rabbino.

Terzo. Numero tre e quattro sono collegati. La prima cosa è veramente un contributo essenziale di Giussani alla persona di fede: la Presenza. L’idea di Dio onnipotente non è un’idea cerebrale, è un a presenza reale che deve essere nella vita della persona. Deve sentirlo e non soltanto pensarlo. Ma di questo sapete e non bisognerebbe spendere troppe parole sul concetto della Presenza.

Ma il numero quattro è collegato. La Presenza non può essere la presenza nella messa nell’Eucarestia. Pur essendo una cosa bella che i cattolici hanno, sono benedetti in questo, la Presenza deve essere quotidiana, di ogni giorno, non soltanto dentro la Chiesa. E qui don Giussani lottava contro il cristiano della domenica. Sono cristiano domenica e poi vado a lavorare e nessuno sa di questo. Di non essere imbarazzato in questo mondo secolare, di essere una persona religiosa. E anche questo insegnamento di Giussani mi ha colpito molto e ha avuto una risonanza in me. Sono quello tre e quattro.

Numero cinque. Quando penso ai miei figli, vivono in un mondo molto diverso del mondo in cui io sono cresciuto, molta più incertezza, molti più rischi. Quando io ero giovane sapevo la mia strada: vado a scuola, vado all’università, lavoro sodo, faccio carriera, bla bla bla… Sapevo sì, tutto sommato devo andar bene. In questo mondo di oggi pensate, la Ucraina, la crisi economica, è un mondo che fa paura. I nostri figli hanno paura e di Giussani, anche prima di Giovanni Paolo II ha già scritto: non aver paura. E questo in nostro mondo è insegnamento fondamentale: non aver paura. Quello è il mio numero cinque.

Numero sei. Spirito Gentil, la musica, ecc. ma non è solo la musica, perché Giussani si vede in tante grandi e piccole cose. Ha sottolineato l’importanza della bellezza nella vita. La bellezza come concetto spirituale, la bellezza come concetto religioso, la bellezza come via di sentire la presenza dell’Onnipotente della vita. Questa è una cosa cristiana, non ebrea, e questo ho imparato da Giussani. Quanto è importante di mantenere la bellezza! Un piccolo aneddoto. Nel mio ufficio ogni giorno c’è un fiore fresco perché? È la presenza della bellezza che è aperta a tutti. Questo è il mio numero sei.

Numero sette è, non va a sorprendervi: Giussani amava la Bibbia e non come tanti di voi che non hanno letto la Bibbia, e ha scritto delle cose bellissime, per esempio su Giacobbe. Uno degli scritti più fondamentali, più profondi su Giacobbe vengono da Giussani amante della Bibbia. Ecco, ho finito.

 

Roberto Fontolan: Il professor Fabrice Hadjadj ha detto: C’è un approccio di don Giussani alla cultura veramente diverso, perché è la cultura stessa che ci parla di Cristo, non dobbiamo avere il problema di cristianizzare la cultura: è questo che rende possibile il dialogo con Leopardi, Pavese, lui aggiungeva anche scrittori francesi famosissimi, è questo che consente questo approccio, è la cultura stessa che ci parla di Cristo. E tutto questo appartiene alla dinamica della rivelazione. Allora con queste parole ero molto interessato che lei potesse approfondire questo tema davanti a tutti noi. E grazie per essere arrivato a Rimini.

 

Fabrice Hadjadj: Vado a parlare in italiano e anche in piedi: due miracoli. Ciò che sorprende un francese quando scopre il movimento di Comunione e liberazione è il ruolo centrale che vi svolge la cultura, come se gli artisti potessero essere considerati profeti. Questo stupore è rivelatore. Mostra fino a che punto il cattolicesimo francese, che per molti aspetti può sembrare più combattivo del cattolicesimo italiano, resti tuttavia il più delle volte ex-culturato, è, del resto, questa ex-culturazione che può conferirgli il suo vigore polemico, il suo carattere di resistenza al mondo circostante. Dalla legge del 1905 che separa la Chiesa dallo Stato, il cattolico francese tende a vivere una separazione tra religione e cultura. Ha splendide cattedrali, ma questo è il passato. La sua fede non sa più riunire le arti del suo tempo. Essa si accontenta di esercizi di devozione o di azione sociale. Il cattolico francese non apre mai un romanzo in quanto cattolico, a meno che lo scrittore non sia un cattolico patentato, altrimenti legge un giallo, un ultimo bestseller alla moda, tanto per divertimento, egli ascolta il Vangelo, ma quando si tratta di andare al cinema, va a vedere i campioni di incasso del momento. E se deve promuovere un’opera preferirà il cattivo autore dotato di un certificato di battesimo al grande poeta i cui costumi gli appariranno dubbi. È un uomo spirituale, quindi è un moralista ma non un artista. Qualcosa come il Meeting di Rimini in Francia non esiste. Qualcuno come don Giussani tra i francesi non esiste. Certo, in Francia gente di chiesa avrebbe potuto invitare un Tarkovskij, un Ionesco, un Aharon Appelfeld, ma lo avrebbero chiamato dialogo con il mondo della cultura. A riprova del fatto che la cultura è un altro mondo al di fuori del loro. I cattolici francesi, parlo dei più ferventi, quando si rivolgono agli artisti è per strategia o per utilitarismo spirituale. Si tratta di condurre gli artisti a Cristo o di servirsi dell’arte per annunciare la Buona Novella. E di fatto l’importante è salvare le anime, non produrre le opere perché è la fede che salva, non le opere, opere che possono sempre essere sospettate di condurci a qualche idolatria. Il giovane seminarista Giussani, com’è noto, preferiva andare a pregare in cappella con un libro di poesia piuttosto che con un trattato di ascetica e di mistica. Avrebbe potuto accontentarsi di Dante, ma no, prendeva Leopardi, meno ortodosso. E che dire della sua passione per la musica. Perfino la musica profana. Quando un francese sfoglia il libretto dei canti di Comunione e liberazione rimane sorpreso di trovarci Edith Piaf, e pure Fanchon, una canzone da osteria non proprio virtuosa. Giussani era l’uomo del compromesso, tendeva a scendere a patti con il mondo, ad amare troppo le creature. Come si possono dirigere gli esercizi spirituali appoggiandosi non su Ignazio di Loyola, ma su Cesare Pavese o Thomas Mann? Un francese, per esempio della comunità dell’Emmanuel che si reca da un membro di Comunione e liberazione resta sorpreso di non trovare nella casa un angolo di preghiera con un’icona, un lumino, un inginocchiatoio. Al posto dell’angolo di preghiera ci trova una biblioteca. Come tra gli ebrei. È vero che il francese, che ahimè non è l’unico, tende a limitare la preghiera a un angolo, un solo angolo, c’è un tempo per fare le devozioni e un tempo per preoccuparsi del mondo. A questa schizofrenia francese don Giussani non farebbe che opporre un non meno discutibile confusione? Non lo credo. Mi sembra, al contrario che se don Giussani supera il moralismo e l’utilitarismo spirituale che tanto frequentemente colpisce i francesi, è a causa non di una concessione mondana, ma di una vera profondità metafisica.

Vorrei iniziare leggendo un brano del “Si può vivere così?”. È in questo passaggio che ho scoperto don Giussani e ho colto quella profondità metafisica di cui ho appena parlato. Quando dico profondità metafisica si potrebbe pensare a qualcosa di molto astratto: è il contrario. Quando la metafisica è profonda raggiunge ciò che c’è di più concreto, tocca qualcosa che si trova in ogni essere, anche il più ordinario ci rivela una trascendenza che affiora nelle cose più banali. Qui don Giussani si rivolge a un ragazzo che è innamorato di una ragazza. È la trama primordiale: l’uomo e la donna e il dono della vita che passa attraverso di loro. Ecco la domanda che Giussani pone: “Amico mio, la ragazza a cui vuoi bene di che cosa è fatta? Non è mica fatta di polenta, non è mica fatta di cenere, non è mica fatta di oro. Pensa, io voglio bene a una ragazza che è tutta oro. Oddio! Anche fosse platino! No. La ragazza a cui vuoi bene è fatta di un Altro, è fatta di Cristo. Tutto in Lui consiste, le montagne, il corpo di questa ragazza è fatta di un Altro perché da sola sarebbe nulla, nulla.” Qui sorge incidentalmente una parola di Paolo ai Colossesi, capitolo1 versetto 17. Questo versetto, pronunciato come per caso, mi sembra la chiave per entrare nel pensiero di Giussani e capire la sua poetica apertura a tutta la diversità del reale: “Tutto in Lui consiste”. Ti innamori di una ragazza. Da dove viene il fatto che lei ti attira? Puoi certamente pensare che venga dal suo sex appeal, ma dietro al suo sex appeal in verità c’è il Cristo appeal perché tutto in Lui consiste. Senza questo Cristo appeal il sex appeal perde ogni consistenza. L’atto sessuale che stai cercando cola. Invece di essere apertura alla gioia della vita attraverso la comunione, la fecondità, diventa fuga davanti all’angoscia della morte. Invece di essere incontro di quella ragazza come persona, diventa stordimento da attrito di mucose e presto il vuoto, il disgusto. Don Giussani continua dicendo che nell’incontro amoroso è sempre Cristo il grande mediatore. “Chi te l’ha fatta trovare? Il Signore del tempo, che è padrone del tempo, il Signore della storia. Chi te la dà per sempre? Chi assicura l’eternità del rapporto senza della quale uno o non ci pensa ed è scemo o muore, soffoca”. Appena il fascino della ragazza non è più inserito nel fascino di Cristo il desiderio si trasforma in disperazione perché non c’è che Cristo salvatore che possa salvare il desiderio. Solo Cristo Signore può farne una storia, una storia drammatica, senza dubbio di fedeltà provata, di lotta di tutti i giorni, di danza e di lutto, ma una storia bella e forte, una storia consistente e non un momento di godimento che conduce a un lungo disgusto, disgusto che ci rigetta verso il prossimo godimento breve come l’oblio. Perché senza di Lui nulla consiste.

Così Giussani si oppone al grande errore metafisico, un errore sia degli atei che dei fondamentalisti religiosi. Qual è questo errore? La visione di Dio e dell’uomo come due concorrenti. La visione dello spirito e del mondo come due nemici. E si dovrebbe sempre togliere all’uno per dare all’altro, e si dovrebbe necessariamente abbassare l’uno per elevare l’altro. Cristo dice: io sono la via, la verità e la vita. Allora gli uni diranno: Cristo è l’unica via, non c’è altra via, tutto il resto è vicolo cieco e perdizione; ma gli altri replicheranno subito: per niente, ci sono altre strade, per esempio c’è la A14 per andare da Bologna a Rimini, ed è un’autostrada molto concreta, dove la tua auto è appena passata. C’è anche la via che porta a Roma o sotto il balcone di Giulietta. Non è una vera via viva quella? Giussani risponde che la via che conduce a Giulietta è la via di Cristo. Le due vie non sono in competizione, non sono due vie separate o opposte perché l’una esiste solo attraverso l’altra. Se sei veramente attratto da Giulietta è Cristo che ti attira a lei. Se vuoi davvero Giulietta è Cristo che vuoi attraverso lei. Ovunque ci sia una verità, anche se nelle pagine di un autore ateo, è la verità di Cristo. Ovunque ci sia vita, anche se è la vita di una formica è la vita di Cristo perché tutto in Lui consiste. E se vuoi celebrarlo non devi ripetere: Signore, Signore, o Cristo, Cristo, ma canta Giulietta! Parla della formica, nomina ciò che di buono c’è in quell’autore ateo. Non c’è concorrenza tra il Creatore e la sua creatura. Non sono sullo stesso piano, non possono entrare in conflitto. Uno è causa dell’altro e quindi amare l’uno è amare l’altro e viceversa. Ami il poeta e allora ami la sua poesia. Ami la sua poesia e quindi ami il poeta. E Dio non è solo creatore, è salvatore. Amarlo come salvatore significa amare i peccatori, e Dio non è solo salvatore, è Signore. Amarlo come Signore significa accettare di essere il suo intendente, di agire attraverso Lui e per Lui e di raccogliere tutte le scintille della sua luce sparsa in tutto il mondo. Ciò che Giussani chiama verifica o conformità del fatto con le esigenze del nostro cuore non ha nulla di meramente psicologico: si tratta sempre di vedere se ciò che facciamo lo facciamo veramente, se quello che cerchiamo ha veramente consistenza, se la ragazza che amo, il povero che aiuto, il libro che leggo, la amo, lo aiuto, lo leggo in Cristo, come una rivelazione particolare per me del suo mistero, come il seguito della sua storia nella mia vita.

Don Giussani inizia gli esercizi del 1997 con una ontologia a riprova del fatto che il suo punto di partenza è metafisico. Questa volta non cita la lettera ai Colossesi, ma la prima ai Corinzi, capitolo 15, versetto 28. Dio è tutto in tutti. Ora c’è qui qualcosa di interessante. Egli traduce il verbo al presente, mentre nel testo greco il verbo rimanda a un futuro. “Quando tutte le cose gli saranno state sottomesse allora il Figlio stesso sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso tutte le cose, e Dio sarà tutto in tutti”. È un’altra dimensione del pensiero di don Giussani, la dimensione escatologica. L’escatologia non è un semplice pensiero del dopo o dell’aldilà, è innanzitutto una teleologia, un pensiero della finalità di tutte le cose. Aristotele dice che è la causa delle cause. Per capire che cosa è l’uomo bisogna guardare a ciò per cui ultimamente egli è fatto. Ora, l’uomo non è fatto per la conversione o per la morale. La conversione e la morale sono, se non mezzi, almeno fini intermedi. Non sono fini ultimi. Questo punto è fondamentale per comprendere l’evangelizzazione e i limiti della prospettiva francese spiritualista o utilitarista che ho menzionato all’inizio del mio intervento. Bisogna convertire e convertirsi, certo, ma una volta convertiti, che cosa si fa? Bisogna agire secondo le virtù cardinali, molto bene, ma una volta raggiunta la perfezione, cosa si fa? Le virtù morali o cardinali sono solo virtù cerniere, questo è il significato della parola latina “cardo”, cerniera, perno, servono ad aprire una porta, ma una volta aperta la porta e varcata la soglia che facciamo? Quaggiù, ed è normale, ci interessiamo al movimento che va dall’imperfetto al perfetto, dal peccato alla santità, ma bisogna anche interessarsi agli atti del perfetto e fin da quaggiù manifestare qualcosa degli atti della vita santa e beata, vivere già adesso ciò che alla fine polarizza tutto il nostro desiderio senza il quale la nostra evangelizzazione difficilmente si distinguerà da un semplice clientelismo nel quale si è contenti che ci siano più cristiani, senza sapere ciò che fa essenzialmente eternamente la vita del cristiano, cioè la vita di Cristo, cioè la vita della vita. Ed è questo che sta al cuore del pensiero di don Giussani: qual è la vita che ci chiama e che comincia già ora quaggiù nella grazia. Qual è l’attività dei beati? Tale attività non è il perfezionamento morale, poiché essi sono già in Dio. Allora, non più il perfezionamento ma la creatività, non più la morale, ma la musica, in particolare il canto corale.

È nota l’importanza del canto per Don Giussani e per Comunione e Liberazione, un’importanza che non consiste solo in una presenza, ma in una precedenza. Citazione: “cinque minuti prima della prima messa del movimento è nato il canto del movimento, l’inizio del canto del movimento è l’inizio del movimento. Non c’è differenza. Nasce il movimento e si canta”, come un bambino con la madre, il canto appare cinque minuti prima della prima. Com’è possibile? Come poteva esserci il canto prima dei cantanti? Prima che i primi membri del coro si riunissero e facessero sentire la loro voce? Ciò che ho detto prima permette di accettare l’enormità di questa affermazione. La precedenza della musica sul movimento. Cioè la precedenza della musica sulla morale. La musica è venuta prima perché verrà definitivamente dopo, perché corrisponde all’attrazione ultima, alla chiamata della vita eterna. Cantare, cantare la Gloria di Dio nelle sue creature è la finalità di tutte le cose e quindi tale fine è già lì in potenza. Come ciò che è all’origine di tutto il dinamismo dell’esistenza.

Ecco perché Giussani parla della musica come della massima espressione del cuore della comunità umana e quindi come elemento dell’atmosfera di ogni missione. Nessuna, citazione “nessuna espressione dei sentimenti umani è più grande della musica”. All’inizio del mio intervento ho detto che non c’era un Don Giussani tra i francesi, devo correggermi, c’è Paul Claudel, ma Paul Claudel è un poeta, non ha fondato un movimento. Ecco ciò che scrive e mi sembra molto giussaniano: “non fermate la musica, quale musica? Quella prima di tutto di quel concerto che è la vita umana, dove non abbiamo la scelta di occupare il nostro posto piccolo o grande, non siamo cicale che gridano a squarciagola attaccate alla corteccia di un pino, per tutta la durata di un giorno d’estate. Dobbiamo prestare, dobbiamo prestare attenzione a tutto ciò che accade intorno a noi e molto nel nostro destino dipende dalla finezza del nostro udito, della qualità della nostra intelligenza e dal virtuosismo dei nostri riflessi”.

Trattengo questa frase, dobbiamo prestare attenzione a ciò che accade intorno a noi perché il nostro tempo si inscrive sempre nella grande sinfonia drammatica dell’eterno di cui la Bibbia e la tradizione ci forniscono la chiave. Senza tale chiave è cacofonia o monotono ritornello. Questa osservazione mi porta a una critica. Una critica che vale la pena di fare a tutti i discepoli che finiscono per tradire il loro maestro a forza di una fedeltà che diventa fossilizzazione. I discepoli di S Tommaso d’Acquino, invece di essere figli di S Tommaso degenerarono in tomisti. Diventano pappagalli del maestro invece di fare come lui, di pensare a partire dalla sua eredità confrontandosi con le questioni contemporanee, interessandosi ai pensatori del loro tempo. Allo stesso modo il pericolo è di ripetere Don Giussani, come dice Joseph Weiler, come se il padre volesse sterilizzare i suoi figli e impedire loro di avere la propria avventura, i propri figli. A dire il vero leggere e rileggere continuamente il senso religioso senza fare attenzione a ciò che accade attorno a noi significa perdere il senso religioso. Se Giussani ha cantato con tono così giusto nel concerto del suo tempo, con una precisione che permetteva di rilevare armonie dove gli altri sentivano solo dissonanze, è perché ha prestato attenzione all’opera di Dio, alla sua inventiva passata e presente. Allo stesso modo se riconosciamo in Giussani un esempio e un padre, dobbiamo anche imparare a ricevere il suo calcio nel sedere, cioè a voltare le spalle per andare avanti e riconoscere Cristo ovunque si nasconda oggi. Grazie

 

Roberto Fontolan: Grazie Fabrice per questa vasta e densissima lettura di Don Giussani. C’è un’immagine degli anni ’90, della fine degli anni ’90 che è diventata un’immagine, un’icona una immagine iconica per tanti di noi e anche per tanti di fuori da noi ed è l’immagine in cui il prof. Carriquiry accompagna Don Giussani il 30 maggio 1998 in Piazza San Pietro davanti a Giovanni Paolo II e il prof. Carriquiry è l’uomo che ha accompagnato simbolicamente, fisicamente quel giorno Don Giussani in quella breve passeggiata e che ha accompagnato Don Giussani per tanti anni nella sua esperienza lunghissima di servizio nella Chiesa cattolica. Grazie per il tuo intervento.

 

Guzmán Carriquiry: Ci sono più di 60 mila iscritti alla Fraternità di Comunione e Liberazione che hanno più titoli di me, io che non ne sono iscritto, per rendere testimonianza sulla vita e opera di Don Luigi Giussani nel centesimo anniversario della sua nascita. E ci sono circa 1600 di questi iscritti che hanno ancora molto più titoli di me perché il carisma effuso dallo Spirito Santo su Don Giussani ha portato loro a seguire il Signore in mezzo al mondo con vocazione di dedizione totale e cuore indiviso. Forse non ci ha insegnato Don Giussani che l’esperienza di questa appartenenza è una via preziosa per comprendere e vivere il carisma? E veramente non sono loro oggi i primi corresponsabili nel mostrare con la propria vita cosa significa aderire al carisma?

Io non oso soffermarmi né addentrarmi nella genialità educativa di Don Giussani, nemmeno nell’originalità sorgiva delle sue notevoli intuizioni e sviluppi teologici, perché altri già lo hanno fatto con molta più conoscenza e competenza di me e ne abbiamo ascoltato importanti interventi in questo Meeting e in questo incontro. Io posso solo limitarmi a raccontare la mia esperienza di incontro con la persona di Don Giussani, con questo cristiano, questo sacerdote straordinario con una lieta gratitudine nell’anima.

Ricordo che quando arrivai dall’Uruguay a lavorare in Vaticano con i miei 26 anni, un vecchio saggio monsignore mi ha dato un consiglio che mi è stato sempre molto importante. “Segui, mi disse, ciò che viene raccomandato nel libro proto-apostolico della Didachè che dice così: Guardate il volto dei santi e imparate dalle loro testimonianze”. E mi toccò sorprendentemente servire cinque santi successori di Pietro e anche sempre guardare il volto di Iris, mia moglie. Ricordo anche bravi prelati, monsignori, religiosi, responsabili laicali nei miei 48 anni di servizio nella Santa Sede, ma nessun incontro mi ha segnato tanto profondamente come quello con Monsignor Luigi Giussani.

Erano i tempi dell’irruzione nella scena della Chiesa di numerose realtà che furono chiamate” movimenti”, nuove comunità, e che nel discernimento di san Giovanni Paolo II furono accolti, incoraggiati come risposta provvidenziale suscitata dallo Spirito Santo per attuare il vero rinnovamento voluto dal Vaticano II, andando incontro al bisogno di comunicare in modo persuasivo il vangelo di Cristo in tutto il mondo di fronte ai processi di enormi cambiamenti in atto, anche di sgretolamento delle secolari cristianità, tempi segnati da una cultura lontana dalla tradizione cristiana. Quante volte san Giovanni Paolo II, nella sua lungimirante profezia e atteggiamento paterno ci chiese al Pontificio Consiglio per i Laici di accoglierle con cordialità, incluso con umiltà nell’ascolto, nello spirito di dialogo fraterno per incoraggiare tutti i loro doni e i loro frutti di grazia, invece di soffermarci sui loro limiti lontano da quei sentimenti reattivi di sospetto, diffidenza che caratterizzano una mens di clericalismo ecclesiastico. Fu il suo più grande collaboratore, il cardinale Joseph Ratzinger, padre della Chiesa, diventato poi Papa Benedetto XVI, tra i primi ad apprezzare come grandi segni di vita, di speranza la fioritura dei carismi, di fondazione di queste nuove realtà come dono per nuove generazioni di uomini e donne che riscoprono, scriveva,” la gratitudine, la gioia, la verità, la bellezza di essere cristiani e che ne rendono ovunque testimonianza”. Faremmo bene se riprendiamo la sua splendida omelia in occasione della nascita di don Giussani in cielo. Fu proprio in quel tempo nel processo di discernimento, di riconoscimento della Fraternità di Comunione e Liberazione che ebbi il dono di incontrare don Giussani. La prima cosa, il primo gesto, la memoria viva che rimane di quei primi incontri fu un imprevisto, sorprendente abbraccio di umanità, quell’interessarsi per la mia vita, per la mia famiglia, per il mio lavoro, fu come se in quell’incontro la carità di Dio mi toccasse il cuore per mezzo di un ‘affezione sproporzionata. Mai per parlarmi dell’iter del riconoscimento nel Pontificio Consiglio per i Laici né per chiedermi nulla al riguardo. Sembrava che in quell’incontro io fossi per lui, e con quale eccesso, la persona più importante del mondo. La sua passione per l’uomo si riversava nella passione molto concreta per la mia persona. Prima fu la sua umanità straordinaria, poi l’attesa ansiosa di ulteriori incontri, dopo furono le letture appassionate dei suoi scritti ed ancora poi l’ascolto delle sue lezioni negli esercizi della Fraternità. Ascoltare le sue lezioni provocarono a me e a mia moglie una commozione, una gioia, uno stupore nell’emergere dal fondo del cuore come qualcosa di cui eravamo nell’attesa, di cui avevamo bisogno. Fu come un uragano che smuove una calma a volte piatta. Direi che risultava sconvolgente imbattersi con quella presenza, con la sua irruenza e passione, con l’espressività con la quale ci introduceva nei vangeli, ponendoci davanti all’umanità del Verbo incarnato con il modo stringente in quello che diceva, con l’estrema logicità del suo ragionare. Potevo pensare allora con quella vana sufficienza tentata di fariseismo di essere un laico adulto, persino sottosegretario di un dicastero della curia romana, che la mia statura cristiana fosse già dritta e consolidata, e invece sperimentai la sorpresa, anche piena di entusiasmo, che questi incontri mi illuminavano più chiaramente la natura dell’avvenimento cristiano, lo rendevano di maggiore ragionevolezza, bellezza e attrattiva, per la mia vita e mi educavano uno sguardo di approccio cristiano a tutta la realtà personale e sociale. Di colpo mi trovai, io, che dovevo prestare la mia collaborazione tra i superiori del dicastero per il discernimento di queste nuove realtà ultimamente fatto dal santo Padre, come richiamato a fare un esame di coscienza, a discernere l’impasto cristiano della mia vita del mio lavoro, a lasciarmi provocare da testimonianze di vita cristiane più piene di parresia evangelica, di libertà cristiana, di dono commosso di carità, di slancio missionario di ciò che io stavo vivendo. Perciò posso affermare che non solo questo mi aiutò a vivere meglio il mio servizio nella Santa Sede, ma che ho ricevuto molto più di quanto poco ho potuto dare. Insieme all’incontro con don Giussani mi piace ricordare il dono di incontrare la dolce tenace Chiara Lubich, profeta dell’unità; la carità piena di tenerezza con gli ultimi di don Benzi e il richiamo alla preghiera e ai poveri e alla pace del maestro Andrea Riccardi e degli altri amici della Comunità di Sant’Egidio, lo slancio missionario agente della comunità brasiliana Shalom e tant’altro. Occupato, preoccupato come la figura di Marta nel Vangelo, spesso assorbito nella considerazione di situazioni, problemi, programmi ecclesiastici, venivo richiamato a un rinnovato incontro con Cristo, ragione ultima del vivere e dell’operare del mio umile servizio ai servi dei servitori dell’unico Signore. Don Giussani scrive una lettera alla Fraternità in cui disse che quello che è successo sabato 30 maggio del 1998 nell’incontro di Giovanni Paolo II con una moltitudine consapevole e festosa di numerosi aderenti di movimenti in piazza san Pietro, quell’incontro suo con il Papa “è stata la giornata più grande della nostra storia “. Anche per me fu una delle giornate più grandi della mia storia di quarantotto anni di servizio nella Santa Sede. Chi non ricorda e ripete le parole con cui don Gius concludeva il suo intervento “Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo”. Nella compagnia del don Gius, sostenendolo dal braccio a salire gli scalini che lo portarono a inginocchiarsi di colpo davanti al Successore di Pietro, percepii con singolare chiarezza quella coessenzialità dei doni gerarchici e carismatici che continuamente edificano, rinnovano la Chiesa nella sua costituzione divina, come ricordava il testo del Concilio Lumen gentium dalla tradizione cristiana, in cui lo stesso Papa indicava che concorrono insieme a rendere presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo. Lo Spirito Santo che parla per bocca di Pietro, è lo stesso Spirito che soffia dove vuole, suscitando novità di vita per mezzo della varietà dei suoi doni e carismi. I diversi carismi che si sottomettono ai piedi del successore di Pietro, al suo discernimento e giuda, perché lui stesso è assistito, guidato dallo Spirito nell’unità della verità, della carità; quello stesso Spirito che lo porta a riconoscere con gratitudine le sue opere come maestro delle anime. Da rileggere su ciò il bellissimo documento della Congregazione per la dottrina della fede di giugno 2016 Iuvenescit ecclesia. Certo, è più facile parlare di questa coessenzialità che attuarla fattivamente; se un signor Cardinale, come il Cardinale il canadese Marc Ouellet, prefetto della Congregazione dei Vescovi, ha affermato in una recentissima conferenza che la pneumatologia è molte volte assente in molti processi di discernimento cristiano, quando manca lo sguardo per vedere la presenza dello Spirito Santo, la concretezza dei suoi doni, il fervore la libertà che regala a molti fedeli. Oggi nel cammino sinodale che il Papa Francesco ha posto a tutta la Chiesa, più che mai è importante questo ascolto dello Spirito che è spirito di unità e di pluralità di forme in cui si esprime nella vita dei cristiani. Lontano, lontanissimo certamente da voi il ridurre questi cent’anni della nascita di don Giussani in una semplice apologia del vostro fondatore, in una commemorazione nostalgica della sua assenza, invece memoria viva della sua presenza. Lui è presente più che mai, lui è presente più che mai e vi accompagna nella comunione dei santi. Senza dubbio quanto sta intercedendo don Giussani per ciascuno dei suoi davanti alla Santissima Trinità. Quanto starà dicendo alla Madonna “Vergine madre, figlia del tuo figlio” di custodirli affinché nessuno si perda nel cammino, come cantava Claudio Chieffo alla “Stella del Mattino”. Dal cielo don Giussani aspetta dei suoi l’essere fedeli al carisma ricevuto, condiviso, non per custodirlo in vasi chiusi ma per viverlo come sempre in un rinnovato incontro sequela di Cristo per riprendere una bellissima storia di carità, cultura e missione della quale dovete essere fieri e grati. Il più bel regalo che potete fare a don Gius nel suo centesimo compleanno-sono sicuro che lui l’apprezzerà enormemente- è quella della vostra unità, unità con chi è stato eletto, incaricato di guidare attualmente il movimento, perché è il diavolo che semina divisioni, contrapposizioni, unità che trova il suo ancoraggio sicuro nell’obbedienza filiale al successore di Pietro, ultimo custode del vostro carisma. Per don Giussani l’obbedienza all’autorità ecclesiale, in primis al Papa, fu un dato incrollabile; lo ricordo sempre nel suo rapporto con la Santa Sede e con molta più autorevolezza di me lo ricordava il Cardinale Angelo Scola quando scriveva: ”La sua è un’obbedienza libera, parlava chiaro, manteneva con l’autorità ecclesiastica un rapporto testimoniale, non politico, un’estrema libertà e una straordinaria umiltà con la quale formulava domande, ascoltava risposte, poneva obiezioni, chiedeva indicazioni ragionevoli, esponeva soluzioni coraggiose, ma sempre obbedienza.”

Questo anniversario non può ricadere certamente per nessuno di voi in nostalgie, lagnanze, chiacchiericci, contrapposizioni che don Giussani ha sempre aborrito. È tempo propizio di mendicanza, di umile domanda di grazia nel cuore di ciascuno delle vostre comunità affinché si rinnovi la sorprendente stagione di effervescenza carismatica, di consapevole entusiasta appartenenza, di perseverante educazione, di energia missionaria di gente di fantasia della carità che è l’impeto originario del vostro movimento. Ricordo che già nel ’85 san Giovanni Paolo II vi invitava a risalire all’esperienza sorgiva da cui il movimento ha preso le mosse rinnovando l’entusiasmo delle origini. Ripeteva quell’invito a rinnovare continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinato e adesso vi condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che è Cristo Signore. Oggi per grazia di Dio il pontificato di Papa Francesco opera come una scossa di destabilizzazione e di forte interpellanza per aiutare a superare stanchezze e ripetizioni, per non accontentarsi di ciò che si considera come acquisito, per evitare che la forza dirompente del carisma diventi schema abitudinario, per superare la ricorrente tentazione di appiattire il dinamismo di un movimento dentro una logica associativa, per non limitare il dispiegarsi della libertà e della corresponsabilità di tutti secondo forme cristallizzate e soprattutto per superare ogni riduzione della portata ecclesiale del carisma e un impoverimento della presenza di una realtà tanto preziosa alla Chiesa come quella del vostro movimento. Queste sì sono correzioni necessarie e opportune. Permettetemi di dirvi che credo che siete chiamati ad avviare una nuova fase della vostra storia dispiegando la potenzialità del carisma del don Gius con nuovo ardore, creatività, inculturazione, impegno alla luce sia del magistero pontificio sia del bisogno delle persone delle nazioni in questo tempo di pandemia, di guerra, di confusione, bisognosi di fraternità e di fondata speranza. È lo stesso Papa Francesco che dal Canada ci dice:” Occorre ritornare all’essenzialità, occorre ritornare all’entusiasmo degli Atti degli Apostoli, alla bellezza di sentirci strumenti della fecondità dello Spirito oggi”. Questo è tempo favorevole, è tempo favorevole affinché il potente fecondo carisma dato a don Gius, che si è dimostrato, che si dimostra di utilità comune in tutto il bene che ha seminato, incluso molto oltre le frontiere visibili della vostra fraternità, patrimonio della Chiesa, continui a generare discepoli missionari in cui risplenda la testimonianza della bellezza dei santi, la vostra testimonianza. Grazie.

 

Roberto Fontolan: Siamo andati un po’ in là con i tempi questa sera ma quanto abbiamo potuto gustare sentire parlare così in questa serata a Rimini di Don Giussani. Il mio sentimento di fronte a tutto ciò che ho sentito questa sera ma credo di interpretare un po’ io sentimento di tutti che siete rimasti qui numerosi, attenti a sentire questa polifonia di accenti, di scintille, come dicevo prima in questo “Giussani 100”. Allora io vorrei ci unissimo nuovo caloroso applauso a coloro che ci hanno guidato questa sera in questo viaggio dentro il cuore, il pensiero, le parole di don Giussani. Madre Maria Francesca Righi, il professor Joseph Weiler, il professor Fabrice Hadjadj e il professor Guzmán Carriquiry.

Data

22 Agosto 2022

Ora

21:00

Edizione

2022

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo D3
Categoria
Incontri

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