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DURATA E PERENNITÀ. PAROLE DI ANTICHI RIVISSUTE DA MODERNI
Durata e perennità. Parole di antichi rivissute da moderni
Reading a cura di Zetesis. Partecipano: Moreno Morani, Professore Ordinario di Glottologia all’Università degli Studi di Genova; Giulia Regoliosi, Direttore di Zetesis. Realizzazione scenica a cura di Adriana Bagnoli del Teatro Pedonale, con gli attori: Stefano Biasoni, Lorenzo Casati, Sara Gallotti, Miriam Gaudio, Alessandro Guerra, Martina Maffezzini.
MORENO MORANI:
Allora innanzitutto do il saluto a quanti partecipano a questo incontro che ormai è diventato una consuetudine da diversi anni, questo incontro organizzato da Zetesis, curato da Zetesis con la collaborazione degli amici del Teatro Pedonale che quest’anno ha il titolo “Durata e perennità. Parole di antichi rivissute da moderni” e che fa appello al titolo del Meeting. Avremo l’occasione di ripercorrere alcuni aspetti tematici attraverso testi, letture, immagini e musiche. Cominciamo dall’espressione omerica “parole alate” che rappresenta simbolicamente il carattere leggero e incorporeo della parola che con facilità e con leggerezza si trasmette da una persona all’altra. Una leggerezza in realtà che è solo apparente perché è vero che la parola, una volta emessa, può svanire nell’aria, senza lasciare traccia di sé, ma è anche vero che essa si collega al logos cioè, la capacità di formulare pensieri e ragionamenti che fa dell’uomo una creatura speciale collegandolo al divino. Dunque la parola può diventare lo strumento fondamentale dell’operare umano e attraverso di essa l’uomo esprime se stesso e comunica e alla parola viene demandato il compito di narrare, evocare, creare benessere, insegnare, consolare ma anche ammaliare, ingannare e distrarre, al punto che l’imitazione di Cristo mette in guardia dal suo uso sconsiderato, se cammini dall’interno di te non darai molto peso alle parole alate. Vi sono parole alate inconsistenti, che svaniscono immediatamente ma vi sono anche parole che lasciano una traccia di sé nel tempo tale è soprattutto la parola della poesia, fisicamente è leggera e inafferrabile e tuttavia essa si carica di una potenza evocativa che diventa capace di esprimere in modo duraturo le problematiche dell’essere umano e del suo interrogarsi. Un linguista dell’800 ha usato una metafora, quella del sasso che viene gettato in uno stagno e che crea intorno a sé delle onde. Ogni parola crea attorno a sé degli echi e non resta priva di effetti, resta una vibrazione, resta un movimento, sia pure piccolo e appena percepibile man mano che ci si allontana dal punto dove il sasso ha toccato l’acqua. Queste vibrazioni possono far nascere nuove vibrazioni e talora invece di spegnersi progressivamente possono vivificarsi e arricchirsi di nuovi riflessi e integrarsi con nuove vibrazioni che giungono da altri punti. È questo che noi vorremmo delineare nel percorso che proponiamo questa sera, osservare come temi che hanno riscosso la riflessione e lo stupore di uomini di epoche lontane, si siano rinnovati col tempo suscitando anche creazioni musicali e come vi siano costanti che vi appaiono e si rinnovano anche quando i modi di pensare, la cultura, l’organizzazione della vita si modificano. Non è una semplice rilettura o una semplice imitazione perché in alcuni casi i testi che si configurano come archetipo non erano materialmente accessibili a chi li ha rivissuti. Si tratta di vibrazioni che si propagano nel tempo e che vengono percepite e, come suggerisce la frase di Goethe posta a titolo del Meeting, “riguadagnate”.
GIULIA REGOGLIOSI:
La notte è insieme fonte di fascino e di turbamento. Rappresenta l’interruzione di ogni attività, perché la natura tutta ha bisogno di una pausa e le creature si rilassano dalle attività del giorno: ma se riposo e silenzio, buio e bagliori di luce hanno ispirato pagine e musiche suggestive, frequente è anche il motivo dell’irrequietezza di chi non trova riposo e attende il lungo trascorrere della notte. Partiamo da un testo di un poeta greco del VII secolo a.C., Alcmane. È un frammento di pura contemplazione: dal verbo iniziale, poi ripetuto nell’ultimo verso, “dormono”, nasce lo spunto che diventa sentimento di meraviglia di fronte al silenzio e alla quiete di tutti gli esseri della natura.
ATTORE
Dormono le cime dei monti e le gole,
i picchi e i dirupi,
e le famiglie di animali, quanti nutre la nera terra,
e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api
e i mostri negli abissi del mare purpureo;
dormono le schiere degli uccelli dalle lunghe ali.
(Alcmane)
GIULIA REGOGLIOSI:
Stupore, ma anche timore, sono i sentimenti che si provano di fronte all’oscurità immota della notte, poiché alla serenità e al silenzio si accompagna la difficoltà di muoversi e difendersi da ciò che non si vede: persino le anime del Purgatorio, nella Commedia dantesca, sono obbligate a rimanere ferme durante la notte. La poesia greca arcaica indica la notte con un termine che è insieme affettuoso ed di buon augurio: εὐφρόνη, la benevola: il suo contenuto apparentemente favorevole cela la volontà di designare con termini positivi realtà oscure che non si vogliono nominare. Lo stesso atteggiamento di timorosa reverenza lo troviamo in un testo che viene dall’India. È una preghiera alla divinità della Notte, Rātrī, figlia del Cielo e sorella dell’Aurora: si trova nel Rigveda, la raccolta di inni del pantheon induista, scritta in epoca remota, molti secoli prima dell’era cristiana. L’uomo in preghiera manifesta la sua ammirazione di fronte alla bellezza e all’immensità della notte, in cui le stelle sono come gli occhi della dea. Per tutti è il momento del riposo e del ritorno a casa, i contadini e i falchi, gli esseri che camminano e gli esseri che volano. Ma nella quiete della notte possono manifestarsi anche forze oscure: il lupo e il malfattore vi operano, e per questo occorre pregare la dea perché ci protegga da queste forze e trascorra priva di pericoli e angosce.
ATTORE
Con tutti i suoi occhi la dea della Notte guarda lontano
a molti luoghi accostandosi: si è rivestita di ogni sua bellezza.
La dea immortale ha riempito l’abisso, ha riempito altezza e profondità:
vince l’oscurità con la sua luce.
Mentre procede lascia il posto all’Aurora sorella: e l’oscurità svanisce.
Proteggici questa notte, o tu le cui vie abbiamo visitato
come uccelli il nido sull’albero.
I contadini hanno cercato le loro case, e quanti esseri camminano e quanti volano, e anche i falchi, contenti della preda.
Tieni lontano la lupa e il lupo, o notte fluttuante, tieni via da noi il ladro,
sii facile per noi da passare.
Luminosa è venuta da me lei che orna il buio con i più ricchi colori: o Mattino, paga i tuoi debiti.
Questo ti ho recato come bestiame in dono: o Notte, figlia del Cielo, accetta questa lode come per una vittoria.
GIULIA REGOGLIOSI:
In varie riletture dell’epoca successiva il centro di gravità tende a spostarsi verso l’elemento umano, e la quiete della notte viene contrapposta all’inquietudine dell’uomo, o di un unico essere umano che veglia immerso nel sonno di tutti. A partire dalla notte di Medea, disperata per un amore infelice, cui dà voce il poeta greco Apollonio Rodio nel poema Argonautiche, diventa comune la contrapposizione fra la quiete della natura degli uomini e l’inquietudine di chi è privato di riposo, per un amore come Didone nell’Eneide, per un cammino faticoso da affrontare, come Dante all’inizio dell’Inferno, per una coscienza colpevole, come l’Innominato nei Promessi Sposi. In una lirica di Quasimodo la contemplazione della notte, realizzata con una sequenza descrittiva in cui il poeta stesso s’inserisce, si oppone al male che è nel suo cuore.
ATTORE
La notte avvolgeva di oscurità la terra: i marinai sul mare
guardavano l’Orsa e le stelle d’Orione
dalle loro navi; già il viandante e il guardiano
desideravano il sonno;
anche una madre privata dei figli
era avvolta da un profondo sopore;
non un latrato di cani
si udiva per la città, non vi echeggiava un fremito;
il silenzio riempiva la nera tenebra.
Ma Medea non fu presa dal dolce sonno:
molti pensieri la tenevano sveglia
per il desiderio di Giasone.
ATTORE
Notte, serene ombre,
culla d’aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso il mare odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l’alba desti.
Monti secchi, pianure d’erba prima
che aspetta mandrie e greggi,
m’è dentro il male vostro che mi scava.
GIULIA REGOGLIOSI:
Il tema del contrasto fra la quiete della natura e la fatica umana è rivissuto da Goethe con un invito alla pazienza, nella speranza che l’attesa di riposo abbia il suo compimento. La lirica ispirò molte rielaborazioni musicali fra cui scegliamo quella di Franz Schubert (D 768), anche per la vicinanza cronologica con l’originale.
ATTORE
Su tutte le vette
è quiete,
in tutte le cime
senti
appena un respiro.
Tacciono gli uccellini nel bosco.
Aspetta un poco, presto
avrai quiete anche tu. (Goethe)
MORENO MORANI:
Le cicale sono diventate presto simbolo dell’estate: il loro canto sommesso e ininterrotto, sottratto agli occhi dell’ascoltatore perché nascosto nel folto degli alberi, costituisce lo sfondo sonoro della giornata estiva. Ma già Omero introduce un significato metaforico, paragonando al loro canto il conversare dei vecchi esclusi dalla partecipazione alla vita attiva della città e dediti solo alla parola. .
ATTORE
Sedevano alle porte Scee gli anziani del popolo,
fuori ormai dalla guerra per la vecchiaia, ma parlatori
eccellenti, simili alle cicale che nel bosco,
posate su un albero, emettono una voce dolce come un giglio.
GIULIA REGOGLIOSI:
A partire da Platone la cicala diventa simbolo del canto e della poesia. Gli antichi ignoravano come si nutrissero le cicale e pensavano che non prendessero cibo e bevanda, se non la rugiada celeste: da qui il mito narrato nel Fedro, in cui gli antichi uomini affascinati dal canto fino a morirne divengono cicale, con il compito di fare da messaggere delle Muse.
ATTORE
Socrate: Mi sembra che le cicale cantando e parlando fra loro sulle nostre teste guardino anche noi. Se dunque vedranno che anche noi, come fanno tanti nell’ora più calda, non parliamo di cose serie ma sonnecchiamo e per pigrizia ci facciamo affascinare da loro, giustamente rideranno e penseranno che degli schiavi sono giunti in questo luogo a dormire, come greggi sul mezzogiorno presso una fonte; se invece parliamo fra noi e passiamo loro accanto, come davanti alle Sirene, senza farci incantare, si rallegreranno e ci daranno il dono affidato loro dagli dèi per gli uomini.
Fedro: Qual è questo dono che hanno? Non mi sembra di averne mai sentito parlare.
Socrate: Non è bene che un uomo amante delle Muse non abbia mai sentito tali cose. Si dice che un tempo le cicale fossero uomini, di quelli vissuti prima della nascita delle Muse; e quando nacquero le Muse e si manifestò il canto, alcuni dei quegli uomini di allora furono così colpiti dal piacere che cantando trascurarono cibo e bevanda, e morirono senza accorgersene. Da loro poi sorse la stirpe delle cicale, che ottenne dalle Muse il dono di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cantare subito senza cibo né bevanda, sino alla fine. E poi si recano dalle Muse e dicono chi fra gli uomini onora ciascuna di loro.
(Platone, Fedro)
GIULIA REGOGLIOSI:
La tradizione più nota e più diffusa, anche a livello popolare, contrappone il canto della cicala all’operosità della formica, facendo dei due insetti i simboli di due opposti modi di vivere: il contrasto fra l’attività e la parola, già in Omero, fra chi onora le Muse e chi non le onora, come in Platone, diviene presto l’opposizione fra il lavoro e la vita dissipata e incosciente. Il motivo si trova già in una favola di Esopo: se la morale sembra stare dalla parte della formica operosa, che condanna la cicala alla morte per fame e freddo, alla cicala è attribuito però un aspetto positivo, l’allegria donata ai viandanti, che darà origine a molte reinterpretazione e capovolgimenti successivi:
ATTORE
Era freddo e inverno giù dall’Olimpo. La formica, avendo raccolto molto al tempo della mietitura, l’aveva riposto nella sua casa. La cicala nascosta in una cavità, stava per morire per la fame, stretta dalla penuria di cibo, e per il gran freddo. Pregò dunque la formica di prestarle del cibo, in modo di salvarsi assaggiando un po’ di grano. Ma la formica le dice: “Dov’eri in estate? Come mai non hai raccolto il cibo al tempo della mietitura?” La cicala dice: “Cantavo e rallegravo i viandanti”. E la formica deridendola disse: “Dunque d’inverno balla”.
GIULIA REGOGLIOSI:
È soprattutto nel ‘900 che, da esempio negativo, la cicala si trasforma in un esempio positivo, nell’esempio di chi valorizza la contemplazione della bellezza e del canto, riavvicinandoci così all’immagine offerta dal testo platonico. Il poeta spagnolo Federico García Lorca celebra la cicala, la cui morte avviene in uno sprazzo di sole e di canti, sorte invidiata dal poeta che desidera per sé un destino simile al suo.
ATTORE
Cigarra!
Estrella sonora
sobre los campos dormidos,
vieja amiga de las ranas
y de los oscuros grillos,
tienes sepulcros de oro
en los rayos tremolinos
del sol que dulce te hiere
en la fuerza del Estío,
y el sol se lleva tu alma
para hacerla luz.
Sea mi corazón cigarra
sobre los campos divinos.
Que muera cantando lento
por el cielo azul herido
y cuando esté ya espirando
una mujer que adivino
lo derrame con sus manos
por el polvo.
Y mi sangre sobre el campo
sea rosado y dulce limo
donde claven sus azadas
los cansados campesinos.
Cigarra!
Dichosa tú!,
pues te hieren las espadas invisibles
del azul.
Cicala!
Stella sonora
sopra i campi addormentati,
vecchia amica delle rane
e dei grilli oscuri,
hai sepolcri d’oro
nei raggi tremuli
del sole che dolcemente ti ferisce
nella forza dell’Estate,
e il sole porta via la tua anima
per trasformarla in luce.
Sia il mio cuore cicala
sopra i campi divini.
Muoia cantando lentamente
ferito dal cielo azzurro
e quando stia già spirando
una donna che indovino
lo sparga con le sue mani
nella polvere.
E il mio sangue sul campo
sia un limo rosato e dolce
dove immergano le loro zappe
i contadini stanchi.
Cicala!
Felice te,
poiché ti feriscono le spade invisibili
dell’azzurro.
GIULIA REGOGLIOSI:
Alla fine la cicala diviene anche un simbolo politico. Nella canzone della cantautrice argentina Maria Elena Walsh, composta nel 1973, la sopravvivenza ad ogni dittatura si risolve nella possibilità di rivivere e di ricominciare a cantare.
Tantas veces te mataron,
tantas resucitarás,
tantas noches pasarás
desesperando.
A la hora del naufragio
y la de la oscuridad
alguien te rescatará
para ir cantando.
Cantando al sol como la cigarra
después de un año bajo la tierra,
igual que sobreviviente
que vuelve de la guerra.
Tante volte ti hanno ucciso,
tante resusciterai,
tante notti passerai
disperando.
All’ora del naufragio
e dell’oscurità
qualcuno ti libererà
perché tu vada a cantare.
Cantare al sole come la cicala
dopo un anno sotto la terra,
come un sopravvissuto
che torna dalla guerra.
MORENO MORANI:
Con la primavera la natura pare risvegliarsi dal lungo letargo invernale. La visione del rinnovarsi della vita suscita sentimenti di letizia, ma in molti testi alla festa della natura fa da contrasto la situazione triste o angosciata del poeta. Per il poeta greco Ibico, vissuto nel VI sec. a.C., la potenza di un amore che si è impadronito di lui in modo bruciante si oppone alla delicatezza della natura che protegge e rinfresca i nuovi germogli.
ATTORE
A primavera i meli cotogni,
irrigati dalle correnti dei fiumi,
là dov’è il giardino incorrotto delle Vergini,
e i fiorellini della vite,
che crescono sotto gli ombrosi tralci ricchi di pampini,
germogliano; per me invece Amore
non riposa in nessuna stagione.
E come il tracio Borea fiammeggiante per il fulmine,
così, balzando dal grembo di Cipride,
con aride pazzie, cupido, indomabile, potentemente dal profondo
tiene prigioniero il mio cuore.
GIULIA REGOGLIOSI:
Anche Francesco Petrarca contrappone la festosità della natura in primavera al proprio dolore: ma la sua situazione è ancora più angosciata, perché la donna amata, Laura, è morta, e al contrasto fra gioia e dolore si aggiunge il contrasto fra la rinascita e la definitiva scomparsa. Il tema era già presente in un’ode di Orazio, che in opposizione al ritorno della primavera vede tutti gli uomini destinati a divenire soltanto “polvere e ombra”: per Petrarca, vissuto in epoca cristiana, il destino finale è il cielo, ma questo non toglie il dolore di chi resta.
ATTORE
Zefiro torna e ’l bel tempo rimena
e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia,
e garrir Progne e pianger Filomena,
e primavera candida e vermiglia;
ridono i prati e il ciel si rasserena,
Giove s’allegra di mirar sua figlia,
l’aria e l’acqua e la terra è d’amor piena,
ogni animal d’amar si riconsiglia.
Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi,
e cantar augelletti e fiorir piagge
e ’n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto e fere aspre e selvagge.
GIULIA REGOGLIOSI:
Il sonetto di Petrarca fu imitato da Ottavio Rinuccini, vissuto fra ‘500 e ‘600, in un sonetto che Monteverdi mise in musica, componendo una ciaccona per due voci e basso continuo.
Zefiro torna e di soavi accenti
l’aer fa grato e’il pié discioglie a l’onde
e, mormoranda tra le verdi fronde,
fa danzar al bel suon su’l prato i fiori.
Inghirlandato il crin Fillide e Clori
note temprando lor care e gioconde;
e da monti e da valli ime e profond
raddoppian l’armonia gli antri canori.
Sorge più vaga in ciel l’aurora, e’l sole,
sparge più luci d’or; più puro argento
fregia di Teti il bel ceruleo manto.
Sol io, per selve abbandonate e sole,
l’ardor di due begli occhi e’l mio tormento,
come vuol mia ventura, hor piango hor canto.
GIULIA REGOGLIOSI:
Un poeta ungherese del secolo XX, Miklós Rádnoti, morto fucilato nel 1944, ha cantato la nuova fioritura della primavera che però considera come un momento provvisorio, prima di una fine che si preannuncia prossima e che è comunque segnata. Nel clima lugubre dell’Europa sconvolta dalla guerra, il ritorno della libertà è come una speranza irraggiungibile, mentre grigiore e tristezza avviluppano un mondo privo di futuro: anche la descrizione delle foglioline verdi, ispirata alle egloghe di Virgilio che danno il titolo alla sua raccolta, diventa così una bellezza inutile. Questo però non toglie al poeta il desiderio di far sentire la sua voce, pure con la certezza di essere tra poco destinato alla fine, identificandosi col tronco che germoglia.
ATTORE
Vola la primavera, sciolti i capelli,
ma l’angelo dell’antica libertà non vola più con lei,
dorme nel fondo, giace
congelato nel fango giallo,
inerte fra inerti radici,
non vede più luce laggiù, né vede la schiera di foglioline verdi
arricciate sopra i polloni,
inutilmente. Niente lo sveglia.
Comunque scrivo, e vivo in mezzo al mondo malato
come vive lì quel tronco;
sa che sarà sradicato, ha già la croce bianca
che segnala domani al tagliaboschi dove estirpare –
e in attesa butta nuove gemme.
GIULIA REGOGLIOSI:
Anche Quasimodo s’identifica con la natura a primavera. Ma la visione è tutta positiva: la vita che si rinnova, anche in elementi che sembravano morti nel sonno invernale, fa quasi pensare ad un miracolo di resurrezione, in cui anche il poeta si rispecchia.
ATTORE
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.
MORENO MORANI:
L’avvicendarsi delle foglie è spesso assimilato al rinnovarsi delle generazioni umane: le foglie che sono sugli alberi saranno sostituite, nella stagione ventura, da altre foglie destinate a loro volta alla stessa sorte. Il motivo è già presente in Omero: due guerrieri, uno greco e uno alleato dei troiani, sono sul campo di battaglia pronti per affrontarsi, e il greco, il tidide Diomede, chiede all’altro di che stirpe sia, perché vuole evitare di trovarsi a combattere con una divinità che ha preso sembianze umane. Ma l’altro ribatte, introducendo il paragone tra la caduta delle foglie e il rinnovarsi delle generazioni: il senso del paragone è l’unicità di ogni vita umana, appartenente ad una generazione che non ha con la precedente e la seguente alcun legame.
ATTORE
O magnanimo Tidide, perché chiedi la stirpe?
Come è la stirpe delle foglie, così è anche quella degli uomini.
Le foglie, alcune il vento ne versa a terra, altre il bosco
in rigoglio ne genera, quando giunge la stagione della primavera:
così una stirpe di uomini nasce, un’altra s’estingue.
GIULIA REGOGLIOSI:
Nella storia successiva il paragone fra le foglie e gli uomini si baserà soprattutto sulla precarietà della vita, che dura quanto una stagione: il motivo s’incontra ad esempio in una lirica del poeta greco Mimnermo, che riduce il senso della vita alla breve giovinezza, l’età felice in cui nascono le foglie e gli amori. In un poeta inglese dell’Ottocento, Shelley, il paragone coinvolge invece i pensieri morti del poeta: al vento dell’ovest, cui è dedicata la lirica, il poeta chiede di dare ad essi una nuova vita come trascina in cielo le foglie appassite e bruciate dal fuoco.
ATTORI
Make me thy lyre, even as the forest is:
What if my leaves are falling like its own!
The tumult of thy mighty harmonies
Will take from both a deep, autumnal tone
Sweet though in sadness. Be thou, spirit fierce
My spirit! Be thou me, impetuous one!
Drive my dead thoughts over the universe
Like withered leaves to quicken a new birth!
And, by the incantation of this verse,
Scatter, as from an unextinguished hearth
Ashes and sparks, my Words among mankind!
Be through my lips to unawakened earth
The trumpet of a profecy! O Wind,
If Winter comes, can Spring be far behind?
Fa di me la tua lira, come lo è anche la foresta:
che importa se le mie foglie cadono come le sue!
Il tumulto delle tue potenti armonie
trarrà da entrambi un profondo tono autunnale,
dolce anche se triste. Sii tu, o fiero spirito, il mio spirito! Sii tu me, o impetuoso!
Guida i miei pensieri morti su per l’universo,
come foglie appassite per affrettare una nuova nascita!
E, per l’incantesimo di questo verso,
diffondi, come ceneri e faville da un focolare inestinguibile,
le mie parole fra gli uomini!
Sii attraverso le mie labbra per la terra addormentata
la tromba di una profezia! O vento,
se viene l’inverno, può essere lontana la primavera?
GIULIA REGOGLIOSI:
Un poeta russo dell’800, Fëdor Tjutčev, riprende il tema della brevità della stagione delle foglie, ma con un capovolgimento: in opposizione ai grandi e maestosi sempreverdi, rigidi nel sonno invernale, le foglie degli altri alberi desiderano solo andarsene dalla noia del ramo, terminata l’età del sole e dei fiori: al vento chiedono non una rinascita, come Shelley, ma una libera avventura.
ATTORE
Stiano alti tutto l’inverno | i pini e gli abeti, | e di neve e bufere | dormano avvolti. | Il loro scarno verde, | come gli aghi di un riccio, | se mai non ingiallisce, | pure non è mai fresco. | Noi, popolo lieve, | fioriamo e splendiamo | e solo per breve tempo | siamo ospiti dei rami. | Tutta la splendida estate | siamo state in bellezza, | abbiamo giocato coi raggi, | immerse nella rugiada. | Ma è finito il canto degli uccelli, | e i fiori sono sfioriti, | più pallidi sono i raggi, | e gli zefiri sono lontani. | Perché dunque invano pendere e ingiallire? | Non è forse meglio per noi | volar via con i venti? | O venti furiosi, | più veloci, più veloci, | più veloci strappateci via | dai rami noiosi! | Strappateci, portateci via, | non vogliamo aspettare. | Volate, volate! | Voleremo con voi.
GIULIA REGOGLIOSI:
Nella canzone di Prévert, l’immagine delle foglie morte raccolte a mucchi e trascinate dal vento è paragonata ai ricordi di una amore finito. Come nelle liriche dedicate alla primavera il rifiorire viene spesso associato al rinnovarsi degli amori, così qui la caduta delle foglie richiama il venir meno dell’amore.
Oh ! je voudrais tant que tu te souviennes
Des jours heureux où nous étions amis.
En ce temps-là la vie était plus belle,
Et le soleil plus brûlant qu’aujourd’hui.
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle.
Tu vois, je n’ai pas oublié…
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle,
Les souvenirs et les regrets aussi
Et le vent du nord les emporte
Dans la nuit froide de l’oubli.
Tu vois, je n’ai pas oublié
La chanson que tu me chantais.
C’est une chanson qui nous ressemble.
Toi, tu m’aimais et je t’aimais
Et nous vivions tous les deux ensemble,
Toi qui m’aimais, moi qui t’aimais.
Mais la vie sépare ceux qui s’aiment,
Tout doucement, sans faire de bruit.
Et la mer efface sur le sable
les pas des amants désunis.
Oh! Vorrei tanto che tu ti ricordassi
dei giorni felici in cui eravamo amici.
In quel tempo la vita era più bella,
e il sole brillava più di oggi.
Le foglie morte si raccolgono a palate.
Vedi, non ho dimenticato…
Le foglie morte si raccolgono a palate,
i ricordi e i rimpianti anche
e il vento del nord li porta via
nella notte fredda dell’oblio.
Vedi, non ho dimenticato
la canzone che mi cantavi.
È una canzone che ci assomiglia
tu mi amavi e io ti amavo
e vivevamo tutti e due insieme,
tu che mi amavi, io che ti amavo.
Ma la vita separa quelli che si sono amati,
tutto dolcemente, senza far rumore
e il mare cancella sulla sabbia
i passi degli amanti divisi.
MORENO MORANI:
Per il poeta tedesco Rainer Maria Rilke, il cadere delle foglie sembra propagarsi fino a occupare tutto l’universo: l’analogia non è più con una stagione dell’anno o della vita, è l’affermazione di un destino inevitabile che riguarda tutti. Ma da tale vortice emerge la visione di un altro che dolcemente e saldamente tiene nelle sue mani questo cadere.
ATTORE
Le foglie cadono, cadono come da lungi,
come se giardini lontani avvizzissero nei cieli;
cadono con gesto di rifiuto.
E nelle notti cade la terra pesante
da tutte le stelle nella solitudine.
Noi tutti cadiamo. Questa mano cade.
E guarda gli altri: è così in tutti.
Eppure c’è Uno che questa caduta
senza fine dolcemente tiene nelle sue mani.
MORENO MORANI:
Vorremmo assumere questo cadere dolce come metafora della fine dell’uomo. Gli ultimi due brani che proponiamo sono tratti da due testi culturalmente lontani: una tragedia del poeta pagano Sofocle e una tragedia di Shakespeare. Il primo testo è dall’Edipo a Colono, in cui Edipo termina la vita, dopo vicende travagliate e orrende, dopo l’accecamento e l’esilio, con una inattesa promessa di riscatto da parte degli dèi. Il secondo brano è dall’Amleto: anche il protagonista di questa tragedia ha subito inganni e macchinazioni, ha visto il diffondersi del male e dell’assassinio nella sua stessa famiglia, e alla fine muore di una morte violenta, ma con la sua fine si rivelano gli inganni e i malefici contro cui aveva lottano. In entrambi i testi il protagonista è accompagnato da un addio che si effonde in un moto di preghiera, del Coro di anziani, nell’Edipo a Colono, che chiede per Edipo una buona accoglienza nell’al di là e un sonno perenne, e dell’amico Horatio che prega gli angeli di accompagnare Amleto l riposo. L’assimilare la morte a un riposo è uno dei tanti semi di verità che incontriamo nei testi pagani; la tradizione cristiana rende definitiva questa intuizione: fin dalle più antiche iscrizioni cristiane rileviamo quanto sia diffusa e popolare, L’augurio requiescat in pace esprime bene questa sensibilità, e col termine cimitero (κοιμητήριον) ‘luogo del sonno’ si designa anche oggi il terreno dove le spoglie mortali attendono il definitivo ricongiungimento con l’anima da cui sono stati momentaneamente separate, fino al giorno della rinascita nella pienezza della persona.
ATTORI
Se è lecito / venerare con preghiere il dio invisibile / e te, / signore della notte, / Adoneo, Adoneo, / concedimi che senza dolore / e senza gravi gemiti / lo straniero raggiunga secondo il suo destino / la pianura sotterranea dei morti / che tutti accoglie / e la dimora stigia. / Infatti / dopo che gli sono giunti / molti dolori / anche incomprensibili / un dio giusto potrebbe renderlo di nuovo grande. O figlio della Terra e del Tartaro, / ti prego: / lascia libera la strada allo straniero / che si avvia nelle regioni sotterranee dei morti:/ o dio del sonno perenne / ti invoco.
ATTORI:
Amleto: Se tu mi hai avuto nel cuore, / tienti lontano per un po’ dalla felicità / e in questo duro mondo trascina il tuo respiro nel dolore / per raccontare la mia storia.
Orazio: Ora si spezza un nobile cuore: buona notte, dolce principe / e voli di Angeli ti accompagnino cantando al tuo riposo.
MORENO MORANI:
Grazie.