COME SI RISPARMIA. LE RISORSE PER LO SVILUPPO

Come si risparmia. Le risorse per lo sviluppo

Partecipano: Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano; Tommaso Nannicini, Professore Ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi. Introduce Alberto Brugnoli, Professore di Economia Pubblica all’Università di Bergamo.

 

Trascrizione non rivista dai relatori

COME SI RISPARMIA. LE RISORSE PER LO SVILUPPO

Lunedì 20 agosto 2018

ore 15:00

Partecipano:
Carlo Cottarelli, Direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica di Milano; Tommaso Nannicini, Professore Ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi.

Introduce:
Alberto Brugnoli, Professore di Economia Pubblica all’Università di Bergamo.

ALBERTO BRUGNOLI
Buongiorno a tutti, benvenuti a questo incontro. Il titolo “Come si risparmia, le risorse dello sviluppo” viene affrontato nell’orizzonte del titolo del Meeting: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. In questo contesto, affrontare questo tema in questo orizzonte, ci offre l’occasione per affrontare il tema dello sviluppo e dello sviluppo in Italia da un alto senza ridurla unicamente alla sua sfera economica, dall’altro lato dedicando alla sfera economica il peso che le compete, che le è propria. Abbiamo voluto questo incontro perché il tema dello sviluppo e dello sviluppo in Italia, così affrontato, tentativamente così affrontato, probabilmente oggi è il tema di maggiore importanza per quanto riguardo il futuro del nostro Paese, sia dal punto economico sia dal punto di vista non economico. Le due personalità che abbiamo invitato oggi ad Aiutarci a ragionare su questo tema, sono accademici e allo stesso tempo sono persone in qualche modo, ciascuna di esse con le proprie caratteristiche, la propria storia, impegnate sulla scena pubblica italiana e internazionale. Sono entrambi economisti: Tommaso Nannicini, da tempo anche direttamente impegnato sulla scena politica, Carlo Cottarelli storicamente più un tecnico, come comunemente si suol dire, ma molto recentemente come tutti sapete, ha rischiato di assumere un ruolo molto importante nella vita politica del Paese. Questo applauso mi da anche l’occasione per formulare un ringraziamento personale, ma penso condiviso da molti di voi in sala, per la responsabilità lo stile e l’equilibrio con i quali Carlo si è mosso in quell’occasione. Grazie veramente anche di questo. Due parole sono doverose sul percorsi dei nostri due autorevoli relatori. Carlo Cottarelli è direttori oggi dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, un incarico che svolge a titolo gratuito, è visiting professor presso l’Università Bocconi di Milano; dal 1981 al 1987 ha lavorato presso la direzione monetaria del servizio studi della Banca d’Italia; dal 1987 al 1988 al servizio studi dell’Eni. Poi nel 1988 ha iniziato la sua carriera al Fondo Monetario Internazionale, nel quale dal 2008 al 2013 è stato direttore del Fiscal Affairs department e successivamente dal 2017 al 2017 è stato direttore esecutiva per Italia, Albania, Grecia, Malta Portogallo e San Marino. Come sapete nel periodo tra l’ottobre 2013 e l’ottobre del 2014 è stato commissario per la revisione della spesa pubblica, spending review, in Italia. Tommaso Nannicini è professore ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi di Milano, ha insegnato anche in numerose altre e prestigiosi università a livello internazionali, tra le quali Harvard. E’ un ricercatore di fama internazionale molto stimato, fra l’altro nel 2015 ha vinto un Consolidator Grents, che dell’European Research Council, che è uno dei più ambiti finanziamenti individuali alla ricerca a livello europeo. Fin da giovani ha unito agli interessi scientifici una forte passione per la politica, che poi lo ha portato nel settembre del 2014 ad essere nominato consigliere economico del Presidente del Consiglio Matteo Renzi; da gennaio a dicembre 2016 ha ricoperto il ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al coordinamento delle politiche pubbliche in ambito economico e sociale di ricerca scientifica; dal maggio del 2017 fa parte della segreteria nazionale del Partito Democratico e alle recenti elezioni politiche del 2018 è stato eletto senatore del Partito Democratico ed è membro della Commissione lavoro. Ringrazio da subito i nostri due autorevoli relatori per questa occasione che ci offrono. Abbiamo pensato di strutturare l’incontro con 4 o 5 domande che porrò ai due relatori con delle risposte sufficientemente brevi. La prima domanda partiamo con Tommaso, vuole proprio andare ad indagare il nesso tra il titolo del Meeting e il titolo di questo incontro, quindi da un lato le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice, e dall’altro come si risparmio le risorse per lo sviluppo, quindi il tema della felicità da un lato e il tema dello sviluppo dall’altro. Come ti senti di interpretar questo nesso e come si sta svolgendo nella tua esperienza personale, anche alla luce di come lo stanno interpretando le Nazioni Unite, che prima con il Millennium level gorc, hanno fissato un orizzonte di sviluppo per il pianeta al 2015 e poi più recentemente con l’agenda 20/30 hanno fissato 17 obiettivi di sviluppo sostenibili, quelli che dovrebbero essere appunto gli obiettivi che dovrebbero essere raggiunti a livello planetario sino al 2030.

TOMMASO NANNICINI
Buongiorno a tutti, grazie innanzitutto per l’invito, per l’occasione di confronto. Io partire dalla parte finale della domanda, l’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile. Io debbo che si debba riconosce un merito importante a questi obiettivi di sviluppo sostenibile, 17, che danno ai paesi di tutto il mondo degli obiettivi chiari di una crescita sostenibile dal punto di vista ambientale ma anche di contrasto alle diseguaglianze. Personalmente non sono un grande fan degli obiettivi quantitativi scritti nella carta delle Organizzazioni o dei trattati internazionali perché è una carta che finisce spesso per diventare sabbia, si scrivono molti obiettivi quantitativi che lavano un po’ la coscienza, si fanno grossi meeting in cui i capi di stato, tecnici, organizzazioni internazionali, si trovano di fronte a problemi enormi e spesso non sapendo cosa fare ci si dà degli obiettivi e spesso gli obiettivi sono ovviamente ben lontani dalle prossime elezioni e dall’orizzonte delle scelte che la politica deve affrontare. Però in questo caso mi sentirei di spezzare una lancia all’agenda 2030, perché il merito delle Nazioni Unite, è quello di indicare il paradigma giusto che è quello di uno sviluppo che deve essere sostenibile in un eccezione multidimensionale, non solo rispetto ai limiti che la crescita economica può mettere sulle risorse naturali e sull’ambiente, ma anche con un’attenzione particolare, per questo multidimensionale, al tema dell’inclusione sociale: il contrasto alle diseguaglianze, alla povertà educativa, agli investimenti in istruzione in capitale umano, che sono tra gli obiettivi principi dell’Agenda dello sviluppo. Quindi un paradigma di sviluppo per dirla con il premio Nobel per l’’economia Amartya Sen, guarda molto alle capacità delle persone, per cui si combatte la diseguaglianza non solo redistribuendo reddito (anche la redistribuzione del reddito ovviamente per contrastare le diseguaglianze è un elemento importante) ma si guarda in maniera più ampia all’allargamento delle capacità delle persone che non sono altro poi che la trascrizioni delle nostre sfere di libertà, la liberta di seguire i propri sogni, i propri desideri, di sottrarsi a malattie evitabili, di vivere in una comunità sicura, di ricevere una paga onesta per un lavoro onesto; quindi un approccio multidimensionale alla crescita inclusiva e allo sviluppo che secondo me è l’approccio giusto, se vogliamo guardare alle traiettoria giuste e dare degli obiettivi di politica economica ai Paesi perché ci sia uno crescita inclusiva e uno sviluppo sostenibile, a questi indicatori dobbiamo guardare. Diseguaglianza istruzione, capitale umano, contrasto alla povertà educativa. Poi ovviamente dobbiamo fare in modo che questi obiettivi non siano solo cibo da convegni, ma siano anche leve economiche. Nella scorsa legislatura c’è stata una riforma della legge di bilancio che adesso include questi obiettivi, quindi indicatori di investimenti in capitale umano, povertà educativa, impatto sulle risorse ambientali; quindi il decisore di politica economica, chi fa una legge di bilancio, dovrebbe occuparsi non solo delle compatibilità finanziarie, ma anche dell’impatto che quelle decisioni, le scelte di politica economica, hanno su questi indicatori. Il vero rischio è pero che questa riforma della legge di bilancio, si traduca solo in un esercizio burocratico, in cui alla fine, l’ultima notte in un mercato di emendamenti in cui c’è da far passare l’emendamento x o emendamento y, si ricorda di questi indicatore, si chiude qualche burocrate in una stanza e gli si dice per favore fai questo documento con questi indicatori e togliamoci questo orpello. Però il compito di togliere questi indicatori di sviluppo sostenibile dal ruolo di mero esercizio burocratico, invece a fare e che può dirigere informare le scelte di politica economica, è un compito che spetta non solo a chi fa la legge di bilancio ma anche al dibattito pubblico, perché più questi indicatori stanno al centro della discussione pubblica sulla politica economica e del dibattito collettivo su questi temi, più c’è speranza che la politica poi si ricordi dell’impatto delle proprie scelte su questi indicatori. Chiudo perché il tempo è contingentato, magari rientro nella seconda fase su un tema che mi sta a cuore, che secondo me è il tema che lega un po’ il titolo del Meeting col titolo di questa nostra chiacchierata, perché il concetto di sostenibilità di per se, richiama il concetto di limite, di vincolo e se il desiderio di felicità delle persone, dei singoli che poi lega le motivazioni individuali alle forze che appunto muovono la storia, secondo me non può esserci desiderio senza senso del limite, senza senso dei vincoli. Non introduco il tema dei vincoli sul quale torno dopo per fare il solito economista triste per cui tutto si riduce ad un problema di compatibilità o di vincoli ragioneristici. Per me francamente i vincoli sono opportunità, perché definiscono lo spazio entro cui posso sprigionare quell’azione individuale e collettiva che tende a realizzare il bene comune. Senza questo senso del limite, questo senso del vincolo, francamente è difficile perseguire il bene comune e conquistare questi spazi di libertà Il problema è che trasformare i vincoli in opportunità, li devi conoscere; ignorarli o far finta che non esistono è prendersi gioco dell’umanità e dell’uomo, perché l’unico modo per trasformare i vincoli in opportunità è quello di conoscerli chiudo solo con una storia che mi raccontava sempre un amico che faceva il manager in una società che doveva sponsorizzare una gara di moto GP quindi scegliere il nuovo campione il nuovo motociclista su cui investire soldi di pubblicità e a un certo punto il suo capo gli dice “quel giovane è bravo vogliamo investire su di lui” e lui gli dice “Sarà anche bravo ma è sempre per terra ogni curva casca” e la risposta è stata “Non è che casca perché è un bidone, casca perché sta testando il suo limite”. Per superare quel limite e trasformare il limite in opportunità lo devi conoscere devi metterti faccia a faccia con quei limiti, possederli e poi li puoi anche superare fare lo struzzo e fare finta che tutto è possibile in politica economica come in altri ambiti, non mi preoccupo dei vincoli, della limitatezza delle risorse, dei vincoli di bilancio, dei vincoli della realtà non vuol dire che risolvi il problema con la bacchetta magica vuol dire che divento schiavo dei miei vincoli perché non li conosco.

ALBERTO BRUGNOLI
Grazie Tommaso, torniamo su questa questione dei vincoli e del nesso con lo sviluppo tra un attimo; Carlo la tua concezione di sviluppo la tua visione di sviluppo anche a partire dall’esperienza del Fondo Monetario Internazionale.

CARLO COTTARELLI
Grazie prima di tutto di avermi invitato qui grazie di essere venuti.
Il tema è estremamente importante ovviamente questo dello sviluppo sostenibile una prima considerazione che mi viene da fare come italiano è che noi prima di tutto dobbiamo avere lo sviluppo come definito tradizionalmente perché la realtà drammatica dell’economia italiana è che sono anni che noi non cresciamo noi abbiamo lo stesso reddito pro capite medio che avevamo venti anni fa questo un primo grosso problema quindi c’è la necessita di riavviare il processo di crescita del PIL come noi economisti diciamo il PIL è il totale dei redditi di tutti gli italiani questo PIL in termini pro-capite sono vent’anni che non è cresciuto è necessario che riprenda a crescere poi magari discuteremo come cercare di raggiungere questa maggiore crescita nel nostro reddito come definito tradizionalmente il PIL e poi però sono d’accordissimo con quello che è stato detto finora che la sostenibilità della crescita è essenziale prima dobbiamo ottenere la crescita poi dobbiamo fare in modo che questa crescita sia sostenibile, sostenibile da diversi punti di vista io come sempre metto sempre prima il cappello del macro economista che è quello che sono quindi la crescita deve essere sostenibile dal punto di vista macro economico cioè noi abbiamo visto tanti Paesi nel passato più remoto e anche in quello più recente per esempio la Turchia che sono Paesi che sono cresciuti molto però poi ad un certo punto si incontrano con certi vincoli nel caso della Tirchia vincoli delle partite con l’estero, dei bilanci dei pagamenti così via che poi causano una crisi. Noi vorremmo avere una crescita che è stabile, magari sacrificare un pochino anche in termini di crescita ma da un punto di vista macroeconomico che ci sia stabilità. Poi ci sono elementi della stabilità che vanno al di là della macroeconomia. Su questo Tommaso ha già fatto riferimento quindi scusate se ripeto delle cose. Il primo è ovviamente i vincoli per il pianeta, quello di cui si parla molto. La crescita, la produzione e noi consumiamo il pianeta. Quindi questa è una cosa da tenere ben presente, come minimizzare l’impatto sul pianeta della nostra attività economica come umani, come abitatori del pianeta terra, in maniera tale che la crescita sia sostenibile e che la generazione attuale non si consumi tutte le risorse che esistono nel pianeta. Poi c’è un problema di distribuzione del reddito, anche questo è un elemento di sostenibilità. Il F.M.I. negli ultimi anni ha prodotto diversi studi che fanno vedere che una crescita che è, tra virgolette, ingiusta, cioè in cui la distribuzione del reddito diventa sempre più sfavorevole nei confronti della maggior parte delle persone e la crescita coinvolge soltanto l’1%, il 10% è una crescita poco sostenibile, è qualche cosa che poi causa una crisi o che addirittura riduce la media del tasso di crescita nel corso di diversi anni. Purtroppo, qui, i paesi avanzati non stanno andando troppo bene; sono diversi anni che la distribuzione del reddito si sposata a favore dei più ricchi, diciamo, per un insieme di motivi che adesso purtroppo non possiamo discutere per motivi di tempo, ma al momento questo tipo di crescita è qualcosa mi preoccupa. La distribuzione del reddito si è spostata sempre di più a partire dagli anni ‘80, all’interno di ogni paese avanzato, verso chi ha un reddito relativamente elevato. E poi c’è un terzo aspetto, e con questo chiudo, che ha di nuovo a che fare con l’equità nella distribuzione, ma è un’equità di natura un po’ diversa; io ho parlato di cambiamenti nella distribuzione dei redditi, ricchi che diventano sempre più ricchi, e questo riguarda l’uguaglianza nei risultati, come noi distribuiamo il reddito, come la società nel suo insieme distribuisce il reddito. Ma c’è un concetto che secondo me è ancora più importante, è quello dell’uguaglianza nelle opportunità, uguaglianza non nei risultati che dipenderanno da diverse capacità delle persone, ma uguaglianza nei punti di partenza, ognuno deve avere una possibilità nella vita. Questo concetto dell’uguaglianza nelle opportunità secondo me anche in Italia negli ultimi anni, forse decenni, forse mai non è stato abbastanza sviluppato, si dice che noi siamo uno dei paesi in cui l’ascensore sociale (l’ascensore sociale è quella cosa che se uno nasce povero ha la possibilità però di migliorare le propria condizione sociale); noi siamo un paese in cui l’ascensore sociale funziona poco. C’è un bel libro di Fubini, pubblicato di recente, in cui illustra anche tutte le conseguenza della mancanza di un ascensore sociale che funziona in maniera adeguata; ecco, credo ci sia per l’Italia la priorità di fare in modo che l’ascensore sociale funzioni o riprenda perlomeno a funzionare, cosa che non è successo negli ultimi anni e credo che questo sia una condizione essenziale di sostenibilità, un elemento essenziale per rendere non soltanto l’economia e la crescita sostenibile ma la società sostenibile; perché una società in cui ognuno di noi non ha la possibilità di migliorare è anche una società in cui: beh se le regole non mi consentono di migliorare io evado le regole, io evado le tasse, perché devo accettare delle regole imposte dalla società, dall’economia se non mi danno la possibilità di migliorare, se io nasco da una famiglia povera rimango per sempre povero. Questa mancanza di un ascensore sociale in funzione di questa mancanza di uguaglianza di opportunità è qualche cosa che mina fondamentalmente il funzionamento dell’economia e della società.

ALBERTO BRUGNOLI
Grazie Carlo. Quello che stavi dicendo ha un forte nesso con la seconda domanda. I vincoli. Veniamo in Italia. Abbiamo parlato della concezione di sviluppo e ne avete parlato a livello internazionale con qualche affondo già sull’Italia. Adesso veniamo soprattutto all’Italia. Quali sono i vincoli allo sviluppo in questo paese oggi. Tu hai scritto anche un libro “I sette peccati capitali dell’economia italiana”.

CARLO COTTARELLI
Perché l’Italia non cresce. Noi abbiamo negli ultimi venti anni non abbiamo avuto una crescita, al contrario di quanto è successo in quasi tutti i paesi del mondo, compresi tutti gli altri paesi dell’area dell’Euro. Noi abbiamo vissuto male l’esperienza dell’Euro, per un insieme di motivi, due cose fondamentalmente ci penalizzano, al momento secondo me. Abbiamo perso negli ultimi 20 anni competitività, è diventato molto più convenente per chi investe andare a investire in altri paesi piuttosto che investire in Italia, perché il clima degli investimenti non è appropriato, per l’ Italia i costi sono elevati, ci sono un insieme di alte barriere di cui adesso parlerò, e poi, e questo faccio soltanto un breve accenno, è la fragilità della nostra situazione dei conti pubblici, noi abbiamo il secondo debito pubblico più alto nell’area dell’Euro, in rapporto al PIL, cioè rispetto alla dimensione dell’economia, più alto di noi ce l’ha soltanto la Grecia, ma la Grecia ha un piccolo vantaggio rispetto a noi, il debito della Grecia è detenuto dagli altri paesi europei fondamentalmente, non è detenuto dai mercati finanziari, non è detenuto da chi ogni mese decide: ma io reinvesto oppure no in titoli di stato italiani. Questa debolezza, questa fragilità ci espone a rischio di una crisi tipo quella che abbiamo avuto nel 2011, cioè una crisi di fiducia nella possibilità dello Stato di ripagare il proprio debito e di rimanere nell’Euro; quindi c’è un problema di finanza pubblica che deve essere risolto. Ma torniamo al tema della competitività e della produttività dell’Italia. Noi purtroppo siamo vincolati da un insieme di problemi che ci portiamo indietro da moltissimo tempo. Nel mio libro io parlo di evasione fiscale, di corruzione, di eccesso di burocrazia, di lentezza della giu-stizia civile, del crollo demografico che ha delle conseguenze sociali enormi e conseguenze eco-nomiche anche enormi, e poi del divario tra il Sud del paese e il resto del paese. Ora, non posso adesso per motivi di tempo entrare nei dettagli di tutti questi peccati, voglio soltanto sottolinearne uno perché penso che sia al tempo stesso quello che è estremamente dannoso, vincola moltissimo la crescita dell’Italia e al tempo stesso qualcosa che, volendo, politicamente si può risolvere perché non richiede l’uso di fondi pubblici – cosa che ci limita, l’abbiamo appena detto, abbiamo conti pubblici piuttosto in difficoltà: sto parlando della burocrazia. Burocrazia è quella cosa con cui noi viviamo ogni giorno – poi per me e per chi come me è stato negli Stati Uniti, che è un paese molto meno burocratico dell’Italia, tornando in Italia ci si accorge subito di questa differenza. La burocrazia è qualche cosa che costa moltissimo alle imprese italiane, prima di tutto. Noi la viviamo nella vita di ogni giorno, come cittadini, ma è qualcosa che costa enormemente alle imprese italiane, è un vincolo fondamentale all’investimento in Italia. Soltanto il costo di riempire moduli, e soltanto per le piccole e medie imprese in Italia eccede i 30 miliardi l’anno. Io incontro spesso imprenditori che mi dicono: “ma io ho 100 operai che fanno la produzione, e poi ho 20 persone che in ufficio riempiono scartoffie e adempiono obblighi burocratici”. Ora, è necessario un fondamentale cambio di passo nella riforma delle burocrazie in Italia. Finora, purtroppo, non c’è stato. E poi la burocrazia non è soltanto costo di riempire moduli, c’è anche un problema di lentezza: se io, per aprire un negozio, ci metto – questo me l’ha raccontato l’ex proprietario delle gelaterie Grom, che mi diceva: io per aprire i miei negozi in Giappone, a Tokyo, ci ho messo un anno; per aprirli a Roma sette anni! E allora vado a investire da qualche altra parte, allora l’Italia non cresce. Perché quello che bisogna fare è rendere l’Italia un posto dove gli imprenditore vengono a investire volentieri, invece di investire all’estero. E se chiedete agli imprenditori quali sono i motivi per cui non vengono a investire in Italia, ci sono essenzialmente tre cose: uno è il livello della tassazione, e per ridurlo però bisogna farlo in maniera credibile, risparmiando sul lato della spesa – magari torneremo su questo quando si parla di dove trovare risorse per lo sviluppo. Secondo, la burocrazia; terzo, praticamente a pari merito, la lentezza della giustizia. Poi io ci metterei anche la corruzione, il fatto che c’è evasione fiscale e tutte queste cose. Queste secondo me sono le priorità per rimuovere i vincoli alla crescita. Ultimissima cosa aggiungo, perché forse ci torniamo dopo: la necessità di investire in capitale, però non soltanto in infrastrutture. Parlare in questo giorno della necessità di investire in infrastrutture è abbastanza ovvio a tutti visto quello che è successo di recente; investire anche in capitale umano però è fondamentale. La scuola, la pubblica istruzione è una cosa fondamentale per il futuro del nostro paese. Grazie.

ALBERTO BRUGNOLI
Grazie, Carlo. Tommaso, Carlo ha introdotto appunto quelli che poi nel suo libro riprende come i sette peccati capitali dell’economia italiana, ne ha dato anche una graduatoria, li riprendo velocemente: l’evasione fiscale, la corruzione, la troppa burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud, la difficoltà a condividere con l’euro [31:14]. Anche tu ti sei appassionato da tempo, e recentemente ancora di più, a questo tema dei vincoli, poi lo stai affrontando anche da un punto di vista politico. Quali sono secondo te i principali vincoli che bloccano questo paese?

TOMMASO NANNICINI
Intanto riprendo quello che diceva Carlo Cottarelli: sono molto d’accordo sul fatto che, oltre a porci il tema della sostenibilità della crescita, dobbiamo ritrovare le scintille di questa fantomatica crescita che abbiamo perso da un po’ di decenni, e questo era anche quando, nel periodo della crisi economica – una crisi economica che ha colpito duramente le nostre imprese, le nostre famiglie, distruggendo la capacità produttiva e il reddito disponibile degli italiani – però, in quel frangente così difficile mi veniva spesso da dire: non adagiamoci troppo in questa retorica della crisi, come se percepissimo la crisi economica solo come qualcosa che arriva dall’esterno. Ovviamente c’era: c’era una crisi internazionale che aveva colpito duramente il nostro sistema economico, però mentre per altri paesi uscire dalla crisi voleva dire tornare a crescere, per noi avrebbe voluto dire – come sta dicendo per il momento – tornare a una stagnazione degli investimenti, della produttività, quindi tornare a un sentiero della crescita che avevamo smarrito, e quindi quelle zavorre strutturali, quei vincoli alla crescita che però non venivano da fuori, che eravamo stati bravi a imbarcare da soli, quelle zavorre, come veniva detto, o le buttiamo a mare, o il sentiero della crescita non lo ritroviamo.
Secondo me – torno sul tema dei vincoli, così svelo la citazione che stavo facendo prima e che in verità mi sta molto a cuore, perché l’ho usata spesso parlando del rapporto tra politica e intellettuali, ma anche perché secondo me dovrebbe essere un faro rispetto a come ci si pone in termini di decisioni pubbliche e il tema dei vincoli, del limite che le decisioni pubbliche possono avere – perché io noto una strana schizofrenia rispetto al dibattito politico: c’è molta sfiducia nella politica, c’è molta distanza dalla politica, però sotto sotto c’è sempre questa assunzione che la politica può tutto, che lo stato può tutto. C’è una forma di “idolatria” per cui mi aspetto sempre qualsiasi risposta qui, ora, subito e gratis dalla decisione pubblica, dall’intervento pubblico. Questa idolatria, secondo me, è un aver perso il senso del limite, il senso dei vincoli che devono informare l’azione individuale e collettiva. La citazione che avevo anticipato prima è dell’allora cardinale Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, ve la leggo velocemente perché secondo me va al cuore del come la politica ha smesso un po’ di essere il cantiere del possibile e si è un po’ trasformata – spesso anche per leggerezza poi non solo di chi la fa, ma anche di chi ci si rapporta come militante o elettore – ha smesso di essere il cantiere del possibile ed è diventata il supermercato dell’impossibile, in cui appunto il tema dei vincoli viene messo sotto il tappeto. Scriveva Ratzinger:
“essere sobri e attuare ciò che è possibile e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile è sempre stato difficile. La voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale, il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo. Limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità, dell’uomo e delle sue possibilità. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.
Cosa vuol dire? Perché il tema dei vincoli? Perché resistere alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità, dell’uomo e delle sue possibilità vuol dire confrontarsi in maniera matura – come popolo, come cittadino elettore, come chi ha responsabilità istituzionali – con il tema di come aiuto un percorso di crescita e di sviluppo tenendo presenti quei vincoli e non mettendoli sotto il tappeto. Quali vincoli? È stato ricordato il debito pubblico: ovviamente, il debito pubblico è il più eclatante dei vincoli che abbiamo di fronte, però, anche lì, il debito pubblico non è qualcosa che piove da Marte. E’ il frutto di decisioni che si sono sedimentate nell’arco di decenni, che oggi qualcuno spera di poter cancellare tornando magari all’illusione di stampare moneta, per cui, se mi riapproprio della sovranità monetaria e stampo moneta questo debito pubblico magicamente scompare. Però ci sono dei vincoli che non hanno niente a che fare con la sovranità monetaria: se guardiamo la storia del nostro debito pubblico, prima ancora che il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo esplodesse negli anni Ottanta ci sono tutta una serie di scelte di politica economica, di scelte collettive – sistema previdenziale, costruzione del consenso con alcune decisioni di spesa – che sono ben prima degli anni Ottanta. Se guardiamo il rapporto tra quanto spendeva lo stato italiano rispetto al PIL dal ‘65 al ‘75, più o meno aumenta approssimativamente dal 30 al 40%: dieci punti di PIL in dieci anni prima dell’esplosione del rapporto debito/PIL, in cui la nostra spesa aumenta di dieci punti percentuali. Lo stesso avviene in Francia, Germania, quindi tutti gli altri paesi stavano facendo politiche redistributive e di irrobustimento dei sistemi di welfare, che portavano la spesa dal 30 al 40%. Qual è la differenza fra Italia, Francia e Germania? Che la tassazione negli altri paesi passava dal 30 al 40%, in Italia restava al 30, perché ci si illudeva di produrre consenso con politiche non redistributive, ma distributive, in cui spendo, distribuisco dei benefici e i costi li nascondo sotto il tappeto, ma non è che non ci sono: i vincoli ci sono, è che prima li monetizzo con la tassa d’inflazione, poi dopo il 1981, con il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, faccio la stabilizzazione monetaria – non posso stampare moneta per nascondere quel debito che stavo creando – e il rapporto debito/PIL esplode. Ma il rapporto debito/PIL che esplode negli anni Ottanta è il frutto di decisioni politico-economiche prese decenni prima, e il non fare i conti, come collettività, con un tema di contabilità, di compatibilità che non solo sono finanziarie ma sono anche responsabilità verso chi poi subisce i costi di scelte di politica economica non adeguate: di solito, i deboli e le future generazioni, che hanno un peso politico minore di fronte a quelle scelte. Chiudo – magari ci torno dopo parlando delle risorse – dicendo che però i vincoli di politica economica non sono solo vincoli finanziari – anche se per un paese come l’Italia il debito è un macigno rispetto ad alcune leve che possiamo azionare – ma ci sono vincoli demografici, vincoli legati all’aggiustamento strutturale della nostra economia, che ha una specializzazione produttiva che dobbiamo cambiare se vogliamo creare sviluppo e produttività, quindi vincoli che parlano alle scelte di tutti noi, dello stato ma anche delle nostre imprese e delle nostre famiglie, perché tutto si tiene: demografia, specializzazione produttiva, investimenti in capitale umano. Quei vincoli pesano adesso sulla nostra capacità di crescita ancora più del macigno del debito.

ALBERTO BRUGNOLI
Grazie Tommaso, molto interessante. Abbiamo parlato della visione e della concezione di sviluppo. Abbiamo parlato dei vincoli allo sviluppo in Italia. Parliamo delle risorse. Su quali risorse possiamo contare? Quali sono oggi le risorse per lo sviluppo di questi Paese.

TOMMASO NANNICINI
Ovviamente prima parlavate di investimenti (e abbiamo bisogno di investimenti), di attrarre investimenti e di creare circuiti positivi per investire sulla creazione di posti di lavoro, sulla produttività, investimenti produttivi, investimenti infrastrutturali. Però oltre che capitale economico, fisico, infrastrutturale io penso che gran parte di quei vincoli di cui parlavo prima rispetto alla nostra capacità ci crescita di cui parlava prima anche Carlo Cottarelli, hanno a che fare con il capitale istituzionale e con il capitale umano. Non possiamo dimenticarci di questi due fattori della crescita, ormai c’è una letteratura molto ampia in economia sulla importanza del capitale istituzionale e della qualità delle istituzioni e del capitale umano rispetto alla possibilità di un Paese di crescere e di creare sviluppo e sviluppo sostenibile. Che vuol dire capitale istituzionale? Vuol dire istituzioni efficaci, che rispondono ma che anche sono chiamate a rispondere delle proprie scelte, ove c’è responsabilità delle scelte è chiaro che vi è chi ha la responsabilità di una scelta, non c’è uno scaricabarile per cui se succede qualcosa il governatore della Regione dà la colpa al governo, il governo dà la colpa al governatore della Regione, su twitter andiamo a trovare una convenzione di quattro anni fa, chi l’ha votata, chi non l’ha votata… Quindi la complessità istituzionale e la scarsa qualità del nostro assetto politico istituzionale vuol dire deresponsabilizzazione, deresponsabilizzare la politica rispetto alle scelte che fa e rendere spuntata l’arma che ha il cittadino, l’elettore di chiamare chi ha fatto quelle scelte ad assumersi una responsabilità, vuol dire non avere un assetto politico istituzionale dentro il quale la politica può provare a gettare il cuore oltre l’ostacolo per fare delle scelte lungimiranti, per cui ci sono dei costi di breve periodo, se ho la capacità di spiegare alla mia collettività, a chi mi vota, che quelle scelte che hanno dei costi di breve periodo hanno dei benefici di lungo periodo magari riesco a farle passare. Prima si parlava di burocrazia. I due temi sono legati. Il fatto che in questo Paese non si sia mai fatta una riforma vera che abbatta gli oneri impropri della burocrazia su famiglie e imprese ha molto a che fare su una politica cha ha lo sguardo corto, ha lo sguardo miope perché comunque fare quelle riforme non è vero che sono a costo zero, quelle riforme hanno dei costi nel breve periodo perché rimuovono delle rendite, mettono a rischio dei posti di lavoro nel pubblico, nel privato poi noi ovviamente nei nostri convegni li chiamiamo rendite ma chi ci vive le vede come un mezzo per sbarcare il lunario, quindi ristrutturare la macchina pubblica vuol dire fare una riorganizzazione aziendale e dite a un manager di un’azienda privata che deve riorganizzare un’azienda ma non può toccare l’unico input sul quale si basa quasi tutto il suo bilancio, che è le risorse umane, è complicato. Quindi è complicato fare queste scelte che possono avere dei benefici e li hanno, di lungo periodo, su tutti noi, sulla nostra capacità di creare crescita se non c’è una politica che può avere il coraggio di assumersi i costi del malcontento anche iniziale nel breve periodo, rispetto a scelte di un certo tipo.

ALBERTO BRUGNOLI
Scusa Tommaso. No, ti interrompo solo un secondo, perdonami. No, siccome hai impostato la risposta in termini appunto di capitali, no, qui ti stai soffermando molto sul nesso tra capitale umano e capitale istituzionale

TOMMASO NANNICINI
…perché è un po’ legato ai tormenti degli ultimi anni della mia esperienza.

ALBERTO BRUGNOLI
… dell’ultimo periodo. Però questo tema dei capitali: capitale umano, capitale sociale, capitale infrastrutturale – citava Carlo prima -, capitale ambientale, no, fino al capitale economico, le imprese… il capitale istituzionale. Cioè: perché vedi oggi così importante questo nesso tra il capitale umano e il capitale istituzionale? Cioè, come sei partito con la risposta… e aggiungerei anche col capitale sociale.

TOMMASO NANNICINI
Sì. E provo a chiudere sinteticamente, perché ovviamente questa aprirebbe molte altre riflessioni. Ma sono partito da lì perché io continuo a pensare anche rispetto ad altri paesi – io penso alla Francia, alla Germania che quello sia una delle zavorre che ci portiamo dietro, quella della qualità delle istituzioni, più di altri – capitale sociale è un tema anche quello importante, ma è un tema di lunga durata, un tema che ha molto a che fare con i corpi intermedi, con come si crea un comune sentire di una collettività e le ragioni di uno stare insieme, temi molto di lunga durata, il capitale umano – e chiudo – invece è senz’altro un asset di sviluppo e di crescita sul quale dobbiamo investire molto e di più, un po’ ripensando il nostro sistema di welfare. In fondo l’ossessione del primo welfare dello Stato sociale novecentesco era la garanzia del reddito, quindi dalla culla alla tomba dare una garanzia del reddito. Io penso che l’ossessione del nuovo stato sociale, dello stato sociale che sa confrontarsi coi mutamenti che il progresso tecnologico impone alle relazioni tra le persone, tra pubblico e privato, ma anche ai rapporti nel mondo del lavoro debba essere quello di mettere l’istruzione e la formazione al centro, dalla culla alla tomba, quindi avere un sistema di attivazione e di investimento in capitale umano che non è un silos separato novecentesco, in cui ho la parte della vita in cui studio, poi prendo il diploma, saluto la parte in cui lavoro… finito, saluto e prendo la pensione. Questo sistema-silos non regge più di fronte ai cambiamenti sociali, economici che abbiamo. Dobbiamo avere un sistema di welfare molto più attivante, un welfare delle opportunità, che accompagna tutti in un percorso di cambiamento continuo, e quindi sì.. mettendo capitale umano, investimenti in capitale umano, istruzione e formazione al centro di tutta la traiettoria, dalla culla alla tomba. Questa è la sfida enorme di ripensamento del nostro sistema di welfare che, secondo me, abbiamo di fronte, per questo capitale istituzionale e capitale umano sono le due leve dalle quali partirei per cominciare a buttare a mare un po’ delle zavorre che ci portiamo dietro.


ALBERTO BRUGNOLI
Grazie. Carlo, avete lavorato tantissimo anche voi al Fondo Monetario su questo tema delle risorse, ci sei stato trent’anni… Cosa dici di queste, partendo anche da queste osservazioni di Tommaso…

CARLO COTTARELLI
Allora, partendo da un’osservazione di Tommaso, cioè il fatto che occorre prima di tutto, occorrono risorse politiche prima di tutto! Il fatto che ci vogliono dei governanti, se mi consenti di usare questo termine, che abbiano il coraggio di avere una visione di lungo termine perché alcune di queste riforme comportano comunque dei costi di diverso genere per una parte della società. Poi però occorrono anche delle risorse in miliardi, in soldi! Per fare cosa: beh, vi ho detto che per rendere l’Italia un posto dove si investe più volentieri probabilmente è necessario attualmente abbassare il livello, il peso della tassazione piuttosto elevato in Italia. Vi ho detto che c’è necessità di rafforzare prima la tassazione; secondo, c’è la necessità di rafforzare le finanze pubbliche italiane, fare in modo che il debito scenda e per questo sono necessarie risorse. Terzo, Pubblica Istruzione. Pubblica Istruzione: io ho fatto il Commissario per la Revisione della Spesa per un anno e ho fatto suggerimenti di risparmi di spesa in quasi tutte le aree con due eccezioni: una è la Pubblica Istruzione, e l’altra è il quarto punto per cui servono risorse, che sono le Infrastrutture. Poi vi dirò brevemente da dove queste risorse possono arrivare – non è facilissimo – ma fatemi dire alcune cose ancora su questi due punti, Pubblica Istruzione e Infrastrutture. Anche prima di arrivare in Italia, quando stavo al Fondo Monetario, avevamo fatto gli studi, il mio Dipartimento aveva fatto gli studi che facevano vedere che l’unica forma di spesa pubblica, perlomeno la prima forma di spesa pubblica che è più saldamente legata alla crescita economica è la Pubblica Istruzione, prima ancora delle Infrastrutture. Poi io sono venuto in Italia, ho fatto il lavoro da Commissario, ho fatto confronti tra l’Italia e gli altri paesi europei, confronti fatti in modo appropriato perché alcuni fanno confronti dicendo: “Ma l’Italia spende il 2% del PIL per quest’area, gli altri in Europa spendono il 2% del PIL: siamo in linea. No, in realtà noi dobbiamo tener conto che abbiamo dei vincoli di bilancio più forti, più stringenti, per il nostro debito pubblico. Ecco, facendo dei confronti internazionali che tengono conto anche dei vincoli che l’Italia ha per esempio in termini di debito pubblico, viene fuori che se c’è un settore dove noi non spendiamo troppo è la Pubblica Istruzione e la Cultura. Quindi, sulla base dei lavori fatti dalla mia esperienza al Fondo Monetario, sulla base del lavoro che ho fatto come Commissario, io credo che la Pubblica Istruzione e la Cultura non sia un’area da dove possono derivare delle risorse per la crescita, ma casomai bisogna mettere ulteriori risorse. Immettere ulteriori risorse, collegandomi col concetto di uguaglianza nelle opportunità di cui ho parlato prima in tutte le parti del paese, perché non possiamo soltanto avere buone scuole in qualche regione del Nord, ma in tutto il paese deve avere delle buone scuole. Infrastrutture: la stessa cosa. Le infrastrutture rimangono molto importanti. Una cosa che vorrei sottolineare, qui lo faccio sempre: quello che conta non è soltanto la quantità di spesa per le infrastrutture. Noi attualmente, nonostante tutti i tagli che ci sono stati e alle spese per investimenti fissi pubblici, attualmente spendiamo rispetto al PIL tanto quanto la Germania. Il problema è che noi storicamente abbiamo avuto una bassa qualità nella spesa per infrastrutture, quindi noi dobbiamo purtroppo ancora adesso imparare a spendere meglio e questo ha molto a che fare con attività, con problemi di corruzione che ancora esistono nel settore delle opere pubbliche. Quindi dobbiamo imparare a spendere meglio, dobbiamo imparare a spendere in modo più rapido, dobbiamo imparare a usare meglio i fondi europei che servono a costruire cose e infrastrutture. E’ questa la cosa ancora più importante rispetto alla quantità della spesa. Ma comunque è necessario trovare anche risorse per le infrastrutture. Quindi servono risorse per cercare di ridurre la tassazione, per mettere a posto i nostri conti pubblici, per rafforzare la Pubblica Istruzione, per rafforzare le Infrastrutture… Da dove vengono queste risorse? Io son d’accordissimo con Tommaso: non possiamo credere all’illusione che basta mettere in atto la macchina da stampa… Stampare i soldi non è una politica che – questo quello che ci insegna la storia economica, anche se qualcuno adesso non ci crede – non è la cosa che può creare risorse. Occorre fare allora nell’ambito un esame di coscienza nell’ambito dei conti pubblici italiani e vedere da dove possano arrivare le risorse, dove si può risparmiare. Allora, qui ci potrei parlare per settimane, ovviamente basandomi sul lavoro che ho fatto come Commissario per la Revisione della Spesa, ma cercherò di riassumere. La spesa pubblica al netto degli interessi è fatta soltanto di tre cose: uno, sono gli acquisti che lo Stato fa, dal computer alle automobili, alle divise per i carabinieri, per la polizia, per l’Esercito, le armi e così via…mettiamoci pure anche in quest’area gli acquisti per spese di investimento. Acquisti: lo Stato acquirente. Poi c’è la spesa per i dipendenti pubblici: lo Stato che è datore di lavoro. La prima voce sono circa 150 miliardi, la seconda voce più o meno, un po’ di più: 165 miliardi, lo Stato che paga stipendi. La voce più grossa sono i trasferimenti: lo Stato che stacca assegni e che dà a famiglie soprattutto e a imprese. Allora, dove si può risparmiare in queste tre mega aree. Spesa per beni e servizi: bisogna imparare a comprare a prezzi più bassi. Questa è l’unica riforma tra quelle che io ho raccomandato come Commissario per la Revisione della Spesa dove si sta facendo qualche progresso, anche se pur-troppo molto lentamente. Si compra all’ingrosso, si risparmia un po’, ma si potrebbe fare molto di più. Secondo: gli acquisti sono fatti dai prezzi, dalle quantità… Ecco, allora bisogna magari cercare di comprare cose, evitare di comprare cose che non servono. E questo riguarda tutta la struttura, l’organizzazione dello Stato. Evitare per esempio che ci siano due Enti che fanno la stessa cosa e che quindi consumano gas, elettricità, spese per affitti e così via… questo riguarda chiudere uffici che non sono necessari. Questa è una cosa di lungo termine, importante ma è qualcosa di lungo termine. E’ una cosa che ha costi. Perché se io dico: “Io chiudo un Ente inutile”, tutti dicono: “Ma dottor Cottarelli, quali sono gli Enti inutili, perché non si chiudono…” Eh, se io chiudo un Ente inutile risparmio sì in elettricità, gas eccetera, però risparmio anche in personale e allora mi devo occupare di che cosa fare col personale in eccesso. Il che mi porta alla seconda area: le spese per il personale. Anche qui si tratta di… la spesa per il personale è: si moltiplica gli stipendi pro capite con il numero dei dipendenti. Stipendi pro capite: io credo che negli ultimi.. dieci anni fa gli stipendi dei dipendenti pubblici erano troppo alti rispetto a quelli del settore privato. Dopo sette anni, otto anni di blocco dei contratti adesso più o meno siamo a un livello per lo meno confrontabile col resto dell’Europa. C’è un problema di dirigenti pubblici che, secondo me, ancora, soprattutto ai livelli elevati e in certi settori, soprattutto nei Ministeri, hanno stipendi troppo elevati rispetto ai loro colleghi francesi, tedeschi, inglesi… e così via. E’ poi c’è la questione della quantità, il numero dei dipendenti pubblici. Io credo che lì ci possa essere ancora una riduzione. Noi abbiamo ancora, rispetto a quello che ci possiamo permettere un numero eccessivo di dipendenti pubblici, naturalmente non dappertutto, in certi settori…oppure si può cercare di avere lo stesso numero di dipendenti pubblici, ma allora facciamo fare cose ai dipendenti pubblici attuali che attualmente lo Stato compra dall’esterno. Vi faccio soltanto un esempio: in molti tribunali i servizi di sicurezza sono forniti da Guardie Giurate, quindi dal settore privato, e lo Stato paga Guardie Giurate per fare un servizio che, se magari si riesce a riordinare le forze di Polizia in maniera efficiente potrebbe essere svolto da poliziotti. Ecco, si risparmia, senza ridurre l’occupazione ma riducendo gli acquisti, la prima voce: lo Stato acquirente, gli acquisti fatti dal settore privato. Questo, e di fare tutto questo è difficile. E’ ancora più difficile politicamente: senz’altro tecnicamente no, non è difficile, ma… Queste cose che vi ho detto sono anche tecnicamente difficili, perché andare a ristrutturare gli uffici dello Stato e così via è complicato.
La terza area, lo Stato che stacca assegni, lo Stato che trasferisce soldi, tecnicamente è facile, basta cambiare una legge: il signore qui davanti riceve un assegno ogni mese dallo Stato, io faccio una legge che dice che il signore qui davanti non lo riceve più. Questo tecnicamente è facile; politicamente ovviamente è molto difficile. La cosa forse – e qui ci sono cose di cui si parla, e io son diventato piuttosto impopolare parlando di certe cose – un’area che non si può secondo me trascurare è quella della spesa per le pensioni, questi… Sul totale dei trasferimenti, che grosso modo siamo oltre i 400 miliardi che lo Stato fa a famiglie e imprese, 330 miliardi circa sono trasferimenti fatti dagli Enti Previdenziali, di cui il grosso sono spesa per pensioni. Lì la difficoltà politica, adesso se ne sta riparlando: “Andiamo a rivedere le pensioni in essere, chi in passato è andato in pensione e riceve pensioni che sono superiori a quello che sarebbe giustificabile sulla base dei contributi pagati”. Questa è un’area politicamente molto difficile e io, come Commissario per la Revisione della Spesa – non potevo trascurare quest’area – ho fatto le mie raccomandazioni. E poi ci sono i vari trasferimenti che lo Stato fa a un insieme di entità di natura privata o quasi privata che secondo me dovrebbero essere riconsiderati, e lì la cosa di nuovo è molto complessa. Come Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani noi in settembre usciremo con una nuova analisi dei trasferimenti dello Stato alle imprese. Le imprese non sono genericamente, solitamente imprese manifatturiere: si parla di un mucchio di cose, compresa l’ippica, i giornali, le televisioni, le radio… Ognuna di queste voci sono piccole: mettendole insieme però si arriva su… l’autotrasporto… si arriva a voci piuttosto ampie. E lì si tratta di vedere se sono… e questo vale in generale sulla questione dei trasferimenti. Il criterio fondamentale è: lo Stato sta dando soldi a qualcuno che ne ha veramente bisogno oppure no? Noi viviamo in un Paese che vuole essere un Paese civile e quindi ci deve essere una rete di protezione per chi è in difficoltà. Allora la domanda è: stiamo davvero dando soldi a chi è davvero in difficoltà o stiamo dando soldi a gente che non ne ha davvero bisogno, si lamenterà lo stesso in questo senso si può parlare rendita, magari continueranno a fare le stesse cose, continuerebbero a farle anche senza il sussidio, allora vuol dire che i sussidi che vengono dati sono inutili. Questo riguarda tutti questi trasferimenti, riguarda quell’altra enorme area, che nel bilancio dello stato appare sul lato della tassazione ma è come un trasferimento, mi riferisco alle così dette spese fiscali, le taxes expenses, cioè quei sussidi, quei benefici, deduzioni, detrazioni che in parte sono giustificate, ma che in parte sono difficili da giustificare e che nel corso degli anni sono andate sempre aumentando, perché a ogni bilancio c’è qualcuno che si sveglia e dice: “noi quest’anno per far vedere che lo stato è generoso introduciamo un nuovo beneficio, faccio un esempio, che faccio spesso perché è qualcosa che ho visto, che ho vissuto personalmente, io quest’anno essendomi trasferito a Milano ho preso l’abbonamento al trasporto pubblico locale a Milano, ho pagato per un anno, per tram autobus metropolitano, meno di 300 euro, che già di per sé questo è un sussidio, che viene dato a me Carlo Cottarelli che potrei permettermi di pagare molto di più per il trasporto locale e lo farei comunque volentieri perché se io uso il trasporto locale è perché prendere il taxi è più scomodo ecc. ecc. e lo farei lo stesso, anche se il prezzo è più elevato. Questo è il sussidio che mi viene dato. Poi nel momento in cui ho fatto quest’anno il pagamento dell’abbonamento ai trasporti pubblici di Milano mi viene detto che grazie a una norma introdotta nella scorsa legge di bilancio, io posso avere indietro, in sede di dichiarazione dei redditi tra i 50 e i 60 euro.
Io ho un reddito piuttosto elevato, non ho bisogno di 50… che lo stato, io non farò richiesta, ma sono sicuro che c’è un mucchio di gente che comunque dice “a me non costa niente, chiedo indietro 50-60 euro dallo stato” per un qualcosa che è comunque già sussidiato perché il trasporto pubblico, in tutti i paesi il trasporto pubblico è sussidiato, ma in Italia, anche qui c’è una nota recente al nostro osservatorio, è molto più sussidiato che all’estero. E il sussidio viene dato anche a chi si potrebbe permettere di pagare un prezzo superiore, allora uno si deve mettere la mano sulla coscienza e dire: “questi soldi che noi riceviamo dallo stato servono davvero, o magarti rinunciando a questi i riesco ad abbassare le tasse, io riesco ad avere una pubblica istruzione migliore, e queste sono le cose che noi dobbiamo fare se vogliamo tornare a crescere. Grazie.


ALBERTO BRUGNOLI
Grazie Carlo, che giustamente ha preso un po’ di tempo perché ha accorpato la terza e la quarta domanda che era sui percorsi per lo sviluppo, cioè vista la concezione di sviluppo, visti i vincoli, viste le risorse, quali percorsi per lo sviluppo in Italia. Carlo li ha affrontati soprattutto dal punto di vista della spending review, la stessa domanda a Tommaso, quali sono i percorsi per lo sviluppo in Italia? Ovviamente appoggiandoti dove ritieni su tutte le ricche osservazioni di Carlo, ma anche andando magari sui tuoi terreni più noti.
Come valorizzare i capitali di cui parlavi prima? Permettimi anche questa domanda magari, in termini sintetici: la cultura sussidiaria alla quale tanta parte di questo paese è affezionata, può essere ancora oggi di aiuto per l’individuazione di percorsi di sviluppo per il paese?
TOMMASO NANNICINI:
Beh, intanto io sono molto d’accordo sul tema qualità quantità della spesa, anche rispetto ad alcuni odierni negazionisti del tema dei vincoli, io penso che in questo paese il problema non è che abbiamo speso poco, è che abbiamo speso male. Detto questo il passato è il passato, quindi non voglio aprire un tema su come andare a riprendere o fare scelte punitive rispetto alcune platee che hanno avuto più spesa pubblica. Chiudiamo.
Però guardando avanti magari poniamoci il tema di spendere un po’ meglio: se ho delle risorse pubbliche, se ho 5 miliardi, esempio a caso, e devo decidere se questi miliardi li devo investire per togliere il legame tra spesa previdenziale e demografia, mandando in pensione prima 50.000 persone che lavorano, non disoccupati, perché per chi ha perso il lavoro a 63 anni o fa lavori gravosi è giusto che ci siamo degli ammortizzatori sociali dei redditi ponte che ti aiutano e ti accompagnano all’età di pensione, è anche legittimo che chi lavora a 63 anni, pur non essendo in difficoltà, magari ha un impiego non particolarmente gravoso ma vuole andare via prima.
Però se io ho delle risorse pubbliche che non giustificano in termini di equità attuariale, in termini di quanto dovrò pagarti la pensione e quanto hai pagato di contributi il mandarti 3 anni prima, questi 5 miliardi li devo spendere per mandare prima 50.000 persone o magari li devo spendere in istruzione per fare in modo che gli studenti nella formazione professionalizzante o gli istituti tecnici di questo paese che sono solo 9000 contro i 700.000 della Germania arrivino ai livelli tedeschi?
Questo vuol dire scegliere, vuol dire una politica che fa delle scelte perché le risorse sono limitate e queste scelte devono essere fatte in maniera trasparente, non piove la manna dal cielo, il tema di cui parlavamo prima, la politica deve avere il senso di responsabilità ma anche l’orizzonte per metterci la faccia e essere giudicata su queste scelte.
Se io avessi quei 5 miliardi o più responsabilità di governo preferirei investirle sia per ammortizzatori sociali robusti per gli over 63 ma soprattutto per istruzione, istruzione, istruzione. Non per spendere di più in previdenza e pensioni anticipate per tutti, per quanto possa essere una domanda politica che capisco, però la politica deve fare delle scelte che guardano il più possibile al futuro dal mio punto di vista.
Lo stesso rispetto ad alcune scelte di spesa pubblica o di razionalizzazione della spesa, di nuovo più che – questo tema della revisione della spesa, viene sempre vissuto come un tema contabile di caccia agli sprechi, non è solo questo, a volte ci sono anche gli sprechi – ma ci deve essere una politica che fa una previsione delle priorità che decide dove investire le risorse pubbliche.
Prima si parlava di sanità, il mio primo incontro con la politica è stato in prima elementare quando un mio compagno di prima elementare mi ha detto: “ma perché tuo padre è così cattivo – faceva l’assessore – ci vuol portare via l’ospedale”. C’era un tema di chiudere il piccolo ospedale del mio comune e fare un ospedale di area più ampio. Il tema della razionalizzazione della spesa in sanità non è solo un tema di ridurre gli sprechi, è il tema di aumentare la qualità dei servizi, perché i piccoli ospedali hanno una rischiosità maggiore perché non c’è casistica e tutti gli indicatori di rischio clinico sono maggiori nei piccoli ospedali. Una politica che ha lo sguardo lungo va oltre i veti della politica del no che guarda all’orticello di breve periodo, ci mette la faccia, come hanno fatto i grandi partiti di massa anche nella nostra democrazia, cerca di intermediare, parlare con la società, costruire consenso su delle scelte che hanno lo sguardo lungo e che cercano di dare delle priorità di sviluppo e di crescita ad un paese. Quindi la revisione della spesa per me è il cuore della politica perché è la scelta delle priorità, è il cuore delle scelte pubbliche, io politica indico delle priorità a una collettività e su questa scelta di priorità mi assumo responsabilità e mi gioco la battaglia del consenso non nascondendo vincoli sotto il tappeto ma assumendomi la responsabilità delle mie scelte di fronte ai cittadini elettori.

ALBERTO BRUGNOLI
Grazie Tommaso, ci siamo riproposti di rimanere dentro i 75 minuti, ci stiamo riuscendo, un’ultimissima domanda, quasi lampo, i giovani: quale destino per i nostri giovani così indebitati se pensiamo al debito pubblico, da un certo punto di vista, quindi quale destino per il futuro, tu hai scritto un saggio interessantissimo “Perché essere ottimisti sul futuro dell’Italia”, comunque quale futuro per i giovani così indebitati e una parola sintetica da offrire loro in conclusione di questo momento, Tommaso.

TOMMASO NANNICINI
il saggio era del 2011 però non ho perso l’ottimismo, giusto per contestualizzare, l’ottimismo è sempre, soprattutto per la volontà, un capitale sul quale investire. Beh il tema dell’equità intergenerazionale in questo paese è enorme, nel senso che molte di quelle cattive scelte di spesa hanno avuto poi ricadute anche in termini di equità intergenerazionale e quello che mi preoccupa molto in termini di equità nei rapporti delle generazioni non è soltanto i giovanissimi che comunque si affacciano in un mondo nuovo e lo fanno con voglia di futuro e una generazione che in Italia continuiamo a chiamare giovani, un po’ più giovane della mia ma ormai non più giovanissima, neanche quella, che proprio si è trovata schiacciata tra le politiche distributive che premiavano altre corti che hanno partecipato al banchetto della spesa pubblica e del debito pubblico, e poi si è trovata invece con gli anni ‘90, l’aggiustamento dei conti, e poi la crisi economica e la riduzione delle opportunità si è trovata schiacciata tra i due mondi.
Non ancora abbastanza forte per competere nel nuovo mercato del lavoro che si sta aprendo, non sostenuta dalla spesa pubblica facile delle generazioni precedenti. Purtroppo queste generazioni hanno avuto molte difficoltà e ancora fanno fatica nel mercato del lavoro.
Io penso che quello che dobbiamo lanciare come messaggio, chiudendo sulla nota ottimistica, è che la speranza è un rischio da correre, che quando parliamo di investimenti è difficile parlare di investimenti senza parlare di rischio. Purtroppo il grave limite di quelle politiche pubbliche, di quel debito, è stato quello di privare intere generazioni del diritto a sognare, del diritto a inseguire i proprio desideri, del sapere che se mi impegno abbastanza ho una probabilità di raggiungere il mio obiettivo, di dare corpo al mio desiderio indipendentemente dal cavallo giusto, indipendentemente dalla relazioni familiari, indipendentemente dal reddito che mi può fornire una rete di relazioni e che se non ce la faccio, c’è comunque un welfare universalistico che mi aiuta a rialzarmi e a riprovarci. Quindi noi dobbiamo traghettare questi limiti in uno scenario in cui incentiviamo il rischio, incentiviamo la voglia di mettersi in gioco, ma costruiamo veramente un welfare universalistico che da una rete per tutti e quella stessa rete, quella rete di sicurezza cementa e da forza e da ali alla voglia di rischiare e di mettersi in gioco e appunto provare a inseguire i propri desideri e a crederci che da davvero la speranza è un rischio da correre.

ALBERTO BRUGNOLI
Grazie Tommaso. Carlo.

CARLO COTTARELLI
I giovani sono indebitati, allora sul debito una cosa che spesso si fa notare è che due terzi, il 70% più o meno del debito pubblico in realtà è detenuto dagli italiani, per cui quando noi lasciamo in eredità il debito lasciamo per 70% in eredità anche il credito. Quello che però, a parte il debito estero, però è soltanto una parte di un terzo, un po’ meno.
Quello che però lasciamo in eredità di negativo ai nostri figli è l’eredità di fare delle scelte difficili, cioè quando noi lasciamo un debito pubblico elevato, in futuro vuol dire che la generazione corrente non è stata in grado di prendere le decisioni che sarebbero state necessarie per ridurre il rischio del paese. Questa responsabilità noi la passione ai nostri figli, noi non ci siamo preoccupati, la passiamo in avanti sperando che nel frattempo non ci sia un’altra crisi. Questa cosa è una cosa che dobbiamo sempre tenere in mente, noi dobbiamo essere noi responsabili e prendere noi le decisioni per non lasciarle in eredità ai nostri figli.
In un altro senso i giovani attualmente sono stati svantaggiati dalle nostre scelte, la crisi negli ultimi dieci anni è stata pagata per lo meno dai non giovani, è stata pagata dai giovani e da tutti gli altri ma non dagli anziani. Non è una cosa popolare questa da dire, ma se guardiamo la distribuzione del reddito il reddito si è spostata a favore, la distribuzione del reddito si è spostata a favore degli anziani. Non perché gli anziani negli ultimi dieci anni sono diventati ricchi ma sono stati in qualche modo protetti attraverso vari meccanismi, più dei giovani, degli effetti della crisi economica che è iniziata nel 2006, 2008 2009, poi si è approfondita nel 2011 e nel 2012. Quindi anche questa cosa bisogna è da tenere in considerazione, anche su questo c’è una nota con cui uscirà un gruppo di giovani studenti che lavora con me alla Bocconi, il gruppo Tortura, che hanno scritto una nota per far vedere che i poveri, i veri poveri sono più frequenti tra i giovani che tra gli anziani.
Quindi dobbiamo fare qualcosa per i giovani, uno dei motivi per cui i motivi contano di meno è che ce ne sono di meno; è un dato di fatto che le nuove coorti comprendo circa 500.000 persone all’anno quando le vecchie coorti erano fatte di un milione di persone all’anno, quindi dal punto di vista politico è molto più, premia molto di più fare qualcosa a favore degli anziani perché ce ne sono di più, o di chi ha un’età intermedia rispetto ai giovani.
Se noi vogliamo avere a cura il futuro dell’Italia dobbiamo noi come genitori, come nonni prenderci cura del futuro del giovani anche se sono di meno delle coorti degli anziani. Lo si fa appunto con una pubblica istruzione migliore e poi direi anche cercando di dare ai giovani, si è parlato di capitale sociale, la costruzione di un capitale sociale parte dalla scuola ma parte anche dalla famiglia. Io ho certi valori, credo in certe cose perché me le ha insegnate mia mamma, me le ha insegnate mio papà. Dobbiamo prenderci anche noi questa responsabilità di creare un capitale sociale nei nostri giovani, non lasciare tutto allo stato.
Un ultimo pensiero conclusivo, questo è uno slogan politico che sto per usare, si è parlato molto di reddito di cittadinanza negli ultimi tempi come misura a favore dei giovani, giovani disoccupati del sud, ecco io credo che più per un reddito di cittadinanza e tornando al tema delle opportunità di cui ho parlato prima bisogna dare ai giovani una opportunità di cittadinanza. Grazie.

ALBERTO BRUGNOLI
Bene, grazie veramente a Tommaso e a Carlo, penso non ci sia nulla da aggiungere, solo una parola veramente per ringraziarvi perché secondo me ci avete offerto una testimonianza di come realmente sia possibile ragionare in termini adeguati, con una prospettiva di medio lungo periodo sana in termini di sviluppo in questo paese oggi e ci avete anche segnalato dei possibili percorsi per questo sviluppo. Grazie ancora veramente di essere stati con noi.

Data

20 Agosto 2018

Ora

15:00

Edizione

2018

Luogo

Sala Neri UnipolSai
Categoria
Incontri