C’è solo la strada – Incontro di mezzanotte col “Sig. G”: Giorgio Gaber

Gaber al Meeting

ha partecipato Giorgio Gaber. Introduce Massimo Bernardini

 

Un incontro inconsueto, tra il Meeting Giorgio Gaber.
Dietro al titolo, una canzone e uno spettacolo: “C’è solo la strada”, nata oltre dieci anni fa per uno spettacolo che si chiamava “Anche per oggi non si vola” e “Il sig. G.”, del 1970. Che legame può esserci tra un “lupo solitario” come Giorgio Gaber e il pubblico del Meeting? Sicuramente la curiosità, che negli anni si è andata approfondendo,fino a creare le condizioni per un rapporto, le occasioni per un dialogo. Poi, alcune suggestioni comuni, prima fra tutte “la strada”: “C’è solo la strada su cui puoi contare dice la canzone — la strada è l’unica salvezza, c’è solo la voglia, il bisogno di uscire, di esporsi nella strada, sulla piazza, perché il giudizio universale non passa per le case e gli angeli non danno appuntamenti e anche nelle case più spaziose non c’è spazio per verifiche e confronti”. Non uno spettacolo di Giorgio Gaber al Meeting, dunque, ma un incontro quasi intimo, raccolto, nel tentativo di conoscersi attraverso le parole, le domande, le canzoni. Questa tensione è emersa evidente durante la serata, negli interventi del pubblico e nelle repliche di Gaber che si sono alternati all’esecuzione di 12 canzoni.
Riportiamo qui una sintesi delle parole pronunciate da Giorgio Gaber dietro l’affettuosa e pressante sollecitazione delle domande rivolte gli dal pubblico, sottolineando come dall’incontro sia emersa una rilettura critica, spesso involontaria, degli ultimi quindici anni vissuti dalla nostra cultura.
La prima domanda chiede a Gaber di confrontarsi con l’espressione “Vivere è appartenere”.
GIORGIO GABER:
“Vivere è appartenere” è già una bella affermazione. Per quanto mi riguarda, purtroppo, questo senso di appartenenza l’ho sempre avuto molto poco e ho sempre diffidato delle aggregazioni. Anzi, alcune volte mi è capitato di dire che la gente, quando si aggrega, si comunica il peggio, come se ci fosse proprio il bisogno di una conquista della propria solitudine, come se l’aggregazione nascondesse proprio l’incapacità di stare soli.
Le uniche aggregazioni che mi piacciono sono quelle in cui la gente va, non per aggrapparsi, non perché è bisognosa, ma perché ha voglia di stare insieme e di scambiarsi le cose.
La vostra affermazione “vivere è appartenere” ha qualche cosa, evidentemente, in comune con il discorso della strada, che è per me soprattutto un fatto poetico, perché il più delle volte viene da chiedersi: “si è nella strada ma a fare che?” E io dico: nella strada comunque, non pragmaticamente, ma come tendenza, come desiderio, come voglia, con la sensazione che nella strada ci siano molte cose da fare e che comunque sia sempre molto difficile farle. Io sono venuto qui questa sera perché, al di là di una fiducia nelle verifiche e nei confronti che forse non ho, so no molto curioso, lo sono sempre stato e questo raduno di Rimini è un fatto grosso, di cui mi pare che anche la stampa si sia accorta, magari con un po’ di ritardo.
Nei miei spettacoli ho visto spesso gente di Comunione e Liberazione, gente comunque legata al mondo cattolico e ho avuto anche delle conversazioni molto piacevoli. Poi magari qualcuno mi dice va: “sono cattolici”, “va bé” dico io “sono cattolici, si può anche parlare”. Quindi, questo tipo di curiosità nei vostri confronti c’è sempre stata e mi piacerebbe sapere anche cosa ha incuriosito voi nella mia attività di questi anni.
Ho preferito un incontro un po’ più piccolo rispetto a una platea allargata, anche perché certi discorsi non sono abituato a farli: ho sempre temuto i dibattiti, anche quando erano per la sinistra una medicina indispensabile. Ritenevo che il più delle volte lo spettacolo avesse un impatto emotivo con la gente, che si diluiva poi in dibattiti noiosi.
Ora, qui, l’incontro è un po’ diverso: io ho una chitarra, quindi dei limiti nella presentazione delle cose. Sono un autore che il più delle volte agisce anche aiutandosi con la recitazione e qui naturalmente questo non avverrà: attraverso l’incontro di questa sera dovremmo cercare, non dico di capirci, ma almeno di conoscerci un po’ di più…
Polli d’allevamento” rappresenta effettivamente lo spartiacque di due versanti diversi e per me è stato una tragedia: quasi ogni sera venivo insultato violentemente. Sono rimasto sotto choc per un paio di anni in cui non ho fatto nulla, perché tutto sommato l’attore è narciso, gli piace essere applaudito.
Devo dire che questo spettacolo era piuttosto violento nei confronti di un certo nuovo conformismo, se vogliamo di una certa inerzia. Ero molto “incazzato” soprattutto con il movimento del ‘77, per fare un minimo di riferimento storico. Ecco, dicevo prima che mi è sempre stato molto difficile appartenere….
Forse una certa mia curiosità nel venire qui dipende proprio dal ritrovare, seppure con differenze, una certa ansia di capire, di conoscere, che allora era molto forte, tanto da coinvolgermi, sempre, però, fino a un certo, limite. Non ho usato quasi mai il “noi”, ma sempre l”io” ed il “voi”.
In “Polli d’allevamento” rivendicavo la mia unicità e il mio isolamento nei confronti di una razza che non mi piaceva più, che comunque era cambiata, in cui non mi riconoscevo: non avevo più la percezione del “brusio delle masse”, non c’era più, bene o ma le, un rapporto fra quello che ci arrivava e quello che noi restituivamo. Ecco, qui è avvenuto un salto….
“Io se fossi Dio” rappresentava uno sfogo assolutamente personale; è una canzone alla quale io sono veramente molto affezionato, perché, al di là di quello che diceva, era anche una specie di miracolo tecnico, quindici minuti su due accordi, un modo di cantare e parlare molto interessante. Non è canzone politica, ma uno sfogo personale, dove la politica ti è entrata dentro e tu a un certo punto la butti fuori, la rivomiti. Questa canzone fa parte di una seconda fase, in cui tu praticamente parli per tuo conto e non sei portavoce di nessuno….
….C’è stato un momento in cui si parlava di compagni di strada, c’era questo modo di dire come se, bene o male, ci fosse della gente con la quale il percorso era comune, anche se poi magari le strade portavano a punti diversi.
Io non ho mai saputo dove porta va la mia strada. Mi sembra che tutto sommato come gruppo siate qualcosa di più che compagni di strada, e che il vostro senso del l’appartenenza sia legato all’idea del Cristianesimo.
Il mio non era sicuramente legata all’idea del marxismo. Quando a un certo punto ho detto “noi”, per un attimo mi è sembrato di appartenere, ma immediatamente sono stato preso a pernacchie: una vicenda, dunque, un po’ alterna.
.Credo che i miei spettacoli non siano mai stati politici. Io non ho mai pensato di propagandare, attraverso gli spettacoli, un’idea precostituita…
Con grande rispetto, ma anche come critica, devo dire che Fo fa del teatro politico, lui ha un’idea e attraverso lo spettacolo la diffonde e convince la gente a pensarla in un certo modo.
Ecco, non credo che i miei spettacoli abbiano mai avuto quel tipo di indirizzo precisamente politico, credo però che qualche danno lo si faccia sempre, quando si dicono le cose in maniera affermativa…
“C’è solo la strada” ha un linguaggio polivalente, che può dire tante cose, o che è molto largo, una specie di slancio poetico. “Libertà è partecipazione”, invece, si presta veramente ad una serie di fraintendimenti: non ne sono molto orgoglioso….
A quel tempo noi inseguivamo un’ipotesi di democrazia diretta, c’era Mario Lodi che faceva cose molto interessanti, c’erano dei comuni, naturalmente piccoli, che si reggevano sulla partecipazione di tutti i cittadini: era molto bello perché le decisioni venivano prese da tutti nell’assemblea generale della città.
Eravamo quindi immersi in quell’ipotesi di libertà e partecipazione
Mi dicono che sembra una canzone di Comunione e Liberazione, questo è grave! Vedi, dopo averla fatta, avrei voluto dire: “Guardate che partecipazione non vuol dire qualsiasi cosa, partecipazione a cosa?” Avremmo voluto usare un termine più appropriato, “Libertà è spazio di incidenza”, ma era una rima un po’ difficile. Dopo aver fatto “Libertà è partecipazione” diversi partiti durante la campagna elettorale l’hanno usato come slogan….
Ho fatto tantissima televisione, anche con Clericetti, e devo dire che la televisione è una cosa molto violenta, dove tu indossi la faccia delle cose che non ti rappresentano, dici frasi che non ti piacciono, per cui a un certo punto questo lavoro, anche quando dà molti soldi, molta popolarità, molto successo, è un lavoro infelice. Non credo sia possibile muoversi sempre sul piano della misura della propria felicità, penso però che a volte bisogna tenerne conto. So di aver fatto questo tipo di scelte soltanto perché mi parevano più belle, più divertenti, più stimolanti, più arricchenti. Anche più vere, perché se riesci a porre delle condizioni e dici a un pubblico: “Mi interessa parlare di questo” e non: “Vi canto Goganda così vi divertite”, il rapporto cambia: chiedi di più e se il pubblico ti risponde sei pagato maggiormente in termini di soddisfazione….
…Mi chiedi poi cosa mi spinge, che è come dire: “Tu hai parlato di Dio in questi ultimi tempi…”
E vero, la parola è venuta fuori esplicita.., ho tentato di par lare di una sorta di rigore, di qual cosa dentro che qualcuno ha e molti hanno sempre meno, una cosa insita nell’uomo, una spinta a conoscere. Credo sia molto legata alla voglia di arricchire la nostra esperienza…
Voi avete parlato di movimento: per me non esiste un concetto di staticità nell’avvicinamento alla verità…. E una spinta. Ecco, io credo che nella nostra vita, da quando nasciamo a quando moriamo, ci si sposti di poco, nel senso che non si cambia molto ma è nel desiderio del movimento che risiede la voglia di vivere, di cambiare, di conoscere.
Ecco, non credo di essermi spiegato benissimo, ho fatto uno spettacolo intero su questa cosa e non si è capito nulla….
…A un certo punto si è detto sì a una cosa, no ad un’altra, si è detto la famiglia, la strada, la comune, i rapporti…
…Mi è sembrato che questo tipo di affermazioni fossero prive di senso e che la crisi che viviamo oggi consista proprio in questa perdita totale del senso delle cose, per cui affermarne una in contrapposizione ad un’altra sembra diventato impossibile.
In questa canzone d’amore e forse anche nel mio modo di pensare, ultimamente, è subentrata una cosa nuova, il “come”: “come” si fanno le cose, “come” si dice una cosa, “come” uno è fatto.
La canzone è polemica con un certo modo molto disinvolto di affrontare il sesso e l’amore: credo che il nostro modo di sentire sia abbastanza malato.
Abbiamo una sempre minor capacità di sentire, di arricchirci tramite le emozioni.
Proprio per questo ci illudiamo di innamorarci moltissimo e, in effetti, siamo spesso preda di brividini vanitosi. C’è l’impressione di una grande capacità di amare che sottende un’impotenza.
La canzone nasce anche da una polemica sulla fedeltà: il mon do in cui viviamo dice che non bi sogna tradire, però è molto accondiscendente e benevolo con questo tipo di trasgressione. Quando uno trasgredisce per amore in genere è perdonato, perché l’amore “oltre passa tutto”. Questo tipo di scusante fa sì che, tutto sommato, a noi sembri più nuovo un attacca mento alla fedeltà piuttosto che la finta rivoluzionarietà della libertà in amore…

Data

25 Agosto 1985

Ora

23:00

Edizione

1985

Luogo

Cinema Jolly
Categoria
Incontri