“Amor de caritate”. L’uomo innamorato di Dio

Letture poetiche in piazza a cura di Orazio Costa Giovangigli, per le voci soliste di Anna Miserocchi e Massimo Foschi.
Brani tratti da: Iacopone, Dante, Michelangelo, Teresa D’Avila, Giovanni della Croce, Verlaine, Dylan Thomas, Gertrud Von Le Fort, Testori, Elena Bono, Mario Luzi.
Traduzioni di Giorgio Agamben, Ariodante Marianni e Bruno Sacchini.

Accompagnamento musicale a cura del gruppo “Zafra“.
Coro di attori: Mirella Bordoni, Susanna Livi, Anna Lucheroni, Elisiana Romagnoli, Anna Maria Torniai; Pietro Bartolini, Salvatore Ciulla, Cesare Lanzoni, Paolo Lelli, Piero Mazzeschi, Niccolò Rinaldi, Gianluigi Tosto.
Coro e musiche: Marina Valmaggi, Guya Valmaggi, Rossella Bilancioni, Anna Siciliano; Daniele Donati, Franco Gabellini, Marco Balestri, Manuela Ricci, Franco Alaimo, Carla Agostini.

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“Amor de caritate…”: come in un sigillo medievale le parole della lauda di Iacopone che aprono la raccolta sembrano riassumere l’essenzialità, se non la totalità, del tema: solo la carità può essere amata veramente, solo la carità può
amare come nessun altro amore sa. Solo la carità, cioè, sa amare e conoscere l’infinito, quell’infinito di cui l’uomo moderno sembra esser tornato a nutrire una nostalgia indomabile oggi.

Ma cos’è carità se non la prosecuzione ed il culmine di quella generosità virtuosa (le virtù cardinali, come si diceva una volta) in cui l’uomo assetato di verità, bellezza e giustizia precipita in nome di una eroicità che d’altra parte è ciò che viene richiesto quotidianamente dal suo stesso bisogno di assoluto?

In questo inseguire l’orma del suo destino l’uomo, da solo, diventa si eroe, ma viene anche sconfitto, fallisce.

“Morte dell’eroe”, dunque, come recitava il titolo delle letture in piazza del Meeting dell’anno scorso: senonché Ettore, a ben guardare, non muore, e non solo perché il suo ricordo resta.
Ettore non muore perché non è la morte il destino ultimo dell’esistere suo e degli altri, uomini o eroi che siano.

Non è la disperazione, lo scetticismo, il nulla della ragione e l’elefantiasi del sentimento, non è la noia o il suicidio del cuore ciò cui l’uomo va incontro.

Ciò che realizza quello che s’intende comunemente per uomo, senza di cui non si dà sintomo d’umanità se non nelle sue forme più ridanciane o perverse, è una libertà di morire (a sé) per l’ideale che inevitabilmente prelude ad una totalmente impreveduta capacità di vivere, anzi di rivivere.

Da questo punto di vista il mistico che per risorgere deve prima morire in Cristo (ciò di cui qui si parla appunto) non è una bizzarria nell’iter evolutivo dell’homo sapiens, ma è lui, infine, eccolo, l’uomo, nella totalità delle sue dimensioni (con buona pace di ogni ideologia della scelta religiosa che fa di Dio un problema talmente privato e personale che non si capisce perché, tutto sommato, non se ne possa soprattutto oggi fare a meno).
Non è un caso che gli autori trattati (da Iacopone a Dylan Thomas, da Giovanni Della Croce a Mario Luzi) siano solo in parte dei mistici “di professione”, né cristiani per obbligo, pur parlando tutti di e con Cristo.
Ma è il modo con cui ne parlano che ha consentito di costruire una struttura “a scrigno” di tutto lo spettacolo in cui la lauda di Iacopone, intarsiata di versi altrui, apre e chiude la scelta degli altri brani che finiscono per apparire come la prosecuzione del suo stesso discorso.

La musica di accompagnamento figurando come una sorta di espressione popolare, anzi popolana e plebea, di quella stessa effusione mistica di cui i pezzi letterari costituiscono l’espressione più raffinata; e la musica di rincalzo un abbraccio commovente e “basso”, ma solo nel senso della sua umiltà.

Né sorprende che di Cristo appunto tutti gli autori citati si nutrano nella congestione di un rapporto che conosce l’estasi della beatitudine, ma anche la bestemmia della maledizione.

Ma chi può essere maledetto (e benedetto: il segno positivo e negativo cambia solo la modalità dell’interiezione, non l’energia della prossimità), se non un Dio scandalosamente presente e bene in carne, un Dio che giunga a corrodere ogni presunzione di estraneità con cui l’uomo disperatamente difende il recinto della propria, moderna, pallida titubanza?

Di ben altro parla l’uomo quando è uomo.

Di ben altro parla l’uomo che si rivolge a Dio.

Di ben altra pasta è l’uomo testimoniato qui.

Data

24 Agosto 1983

Ora

21:15

Edizione

1983

Luogo

Piazza Cavour
Categoria
Spettacoli