AIDS, UN PROBLEMA CULTURALE

Partecipano: Rose Busingye, Responsabile Meeting Point di Kampala; Filippo Ciantia, Medico; Edward Green, Direttore dell’AIDS Prevention Research Project della Harvard School of Public Health and Center for Population and Development Studies. Introduce Marco Bregni, Presidente Associazione Medicina e Persona.

 

MARCO BREGNI:
Buon giorno a tutti. L’epidemia di aids che colpisce l’Africa è di proporzioni massicce, interessa la popolazione generale non singoli sottogruppi come in Europa o in un’altra nazione, i due terzi di tutte le infezioni del mondo avvengono in sud Africa, in alcuni paesi tra il 10 e 20% della popolazione è infetta dal virus Hiv, in particolare la fascia di età fra i 15 e i 49 anni. È una situazione che non ha eguali nel mondo. In un recente viaggio in Africa, il papa ha affermato che il condom non è il mezzo migliore per la prevenzione delle infezioni e queste dichiarazioni hanno scatenato delle reazioni furiose, da parte sia della stampa dei grandi mezzi di comunicazione sia dalla stampa scientifica, che hanno accusato il Papa di essere un assassino, che avrebbe dovuto scusarsi per le affermazioni che ha fatto. Con Medicina e persona abbiamo quindi organizzato su questo un incontro, a Milano, e in questo incontro, cui ha partecipato anche il dottore Ciantia, è risultato chiaro quello che il Papa diceva. La posizione umana che il papa esprimeva era la più ragionevole, la più scientificamente sensata per la prevenzione dell’infezione dell’Hiv. Un’altra conseguenza che abbiamo tratto da questa esperienza è che la prevenzione dell’aids non è solo un problema medico, ma è anche culturale, perché coinvolge tutti gli aspetti della persona e la visione che la persona ha della realtà e del suo destino. Per questo abbiamo deciso di fare questo incontro qui al Meeting di Rimini, perché ci sembrava importante che questa posizione, che prima di tutto è una posizione culturale, venisse spiegata e giustificata. Per questo abbiamo invitato il dottor Edward Green che è il direttore dell’AIDS Prevention Research Project della Harvard School of Public Health, il dottore Filippo Ciantia, medico responsabile Avsi della regione dei grandi laghi in Uganda e Rose Busingye, responsabile del Meeting point di Kampala e loro ci esporranno perché, ci esporranno fatti, ci daranno dei numeri, ci diranno delle realtà e ci diranno qual è il motivo per cui il Papa ha espresso questa posizione e perché alla fine è la posizione più corretta e umanamente giusta. Introduco quindi il dottore Edward Green e gli chiedo qual è la realtà dell’infezione dell’Hiv in Africa.

EDWARD GREEN:
Adesso parlerò in inglese. Lo scorso marzo quando il Papa è stato in Africa ha detto che, se gli africani non avessero adottato un comportamento sessuale corretto, il problema dell’infezione dell’Hiv non sarebbe stato ridotto. Possiamo vedere la diapositiva, la prossima, vediamo quale è stata la reazione della politica internazionale. La stampa ha detto che era uno scandalo, che il Papa era stato impreciso, che non aveva alcun credito, che viveva in un altro mondo, che andava messo in stato d’accusa, che era in una situazione di autismo totale, una persona alienata e ignorante. E’ stato chiesto il mio parere da un settimanale che si chiamava National Review e anche da Cristianity Today. Poi, dopo questi primi due organi di stampa, altri moltissimi settimanali, stazioni radiofoniche, televisive hanno chiesto il mio parere. Non mi hanno sempre citato con precisione, quindi ho deciso che avrei controllato meglio il messaggio se avessi scritto un articolo io stesso sul Washigton post e poi anche sul giornale medico il Lancet. Guardiamo la prossima diapositiva: mi ha colpito la vicinanza dei commenti del Papa con le più recenti scoperte scientifiche, soprattutto il fatto che un comportamento responsabile sessuale e una reciproca monogamia sono la migliore maniera di prevenire l’aids e per fortuna non si è parlato di una parola molto controversa, che è quella di astinenza. Non c’è alcuna prova del fatto che i preservativi abbiano funzionato per ridurre l’infezioni da Hiv su larga scala, soprattutto in casi di epidemie così estese come in Africa. È uno strumento che può funzionare per singoli individui, ma non necessariamente per popolazioni e nazioni. Perché? Il preservativo non funziona in Africa perché, innanzitutto, viene utilizzato irregolarmente, perché c’è una bassa richiesta, perché naturalmente riduce il piacere, perché implica una mancanza di fiducia all’interno della coppia e poi c’è la così detta compensazione del rischio. E adesso vediamo la prossima diapositiva: si tratta del fenomeno per cui il fenomeno utilizza il preservativo o utilizza lo schermo solare per ridurre il rischio, però poi compensa questa riduzione del rischio prendendo maggiori rischi, ad esempio, esponendosi di più al sole, oppure assumendo maggiori rischi sessuali perché utilizza il preservativo. Tutti questi principi sono immutabili e generali, non basta dire che tutti usano il preservativo sempre, perché questo non succede. Vediamo la prossima: la maggior parte delle infezioni dell’Hiv sono trasmesse sessualmente, ci sono altre epidemie che avvengono con lo scambio di aghi, però la maggior parte delle infezioni avvengono tramite rapporti sessuali, omosessuali o eterosessuali. Vediamo la prossima: fino a poco tempo fa non sono stati fatti sforzi per scoraggiare dall’avere rapporti sessuali promiscui, c’è soltanto un’eccezione dell’Uganda, di cui poi Filippo parlerà in seguito. Vediamo la prossima: perché non è stato fatto nessun tentativo di cambiare il comportamento sessuale delle persone? Innanzitutto queste strategie sono state sviluppate negli Stati Uniti pensando ai gruppi più vulnerabili, cioè quelli più esposti all’infezione, quindi sessuali maschi, poi eroinomani e poi prostitute. Quindi le risorse per la prevenzione sono utilizzate soprattutto per la riduzione del rischio oppure per sviluppare soluzione mediche. Tenendo conto però dell’epidemia di tipo americano, questo modello è stato poi trasferito in tutti gli altri paesi in modo da controllare l’industria, imponendo questo schema indipendentemente da quello che erano le modalità di diffusione dell’epidemia. Per la prevenzione dell’Hiv da trasmissione sessuale si è utilizzato soprattutto il preservativo, test su base volontaria e la terapia di altre malattie veneree che possono facilitare la trasmissione dell’Hiv. Vediamo la prossima: in realtà non c’era alcuna prova del fatto che queste misure preventive abbiano ridotto la diffusione dell’Hiv, soprattutto in casi di iper-epidemia come in Africa. Sono stati usati anche microbiociti vaginali e altri strumenti come la disponibilità di farmaci antiretrovirali, ma nessuno di questi strumenti sembra aver funzionato in Africa. Però l’industria dell’aids mondiale ha impiegato molto tempo prima di riconoscere questa evidenza. Queste misure non funzionano, non funzionano perché non hanno un impatto a livello generale sull’epidemia. In realtà il mondo ha investito notevolmente su queste tecnologie, che però non implicano un cambiamento fondamentale del comportamento sessuale. Alcuni di questi interventi hanno funzionato in altri paesi come Tailandia, Cambogia, dove ad esempio l’Hiv viene trasmesso soprattutto tra le prostitute; quindi, se si fa utilizzare il preservativo ai clienti delle prostitute, si può ridurre l’impatto dell’infezione. Solo la fedeltà e la circoncisione maschile sembra aver funzionato in Africa. Abbiamo visto che c’è stata una riduzione dell’aids, in corrispondenza della diminuzione della promiscuità sessuale negli anni precedenti. Non abbiamo potuto far prove randomizzate e controllate sulla fedeltà, però l’abbiamo fatto ad esempio per la circoncisione maschile e in questo caso abbiamo visto che c’era stata una riduzione del 60% nella trasmissione dell’Hiv, tant’è che l’esperimento è stato concluso prima del previsto. L’Hiv è diminuita in Africa e diminuisce già da una decina d’anni. Non posso mostrare i dati paese per paese, ma dalle interviste abbiamo visto che uomini e donne dichiaravano di aver ridotto la promiscuità sessuale. Vediamo la prossima diapositiva: come mai finora l’impostazione utilizzata per la prevenzione dell’aids non ha richiesto un cambiamento del comportamento sessuale? Vediamo la prossima diapositiva: adesso vi parlo di quelli che sono gli antecedenti nel periodo 1985-1989. Negli Stati Uniti gli omosessuali e gli eroinomani erano considerati gruppi a rischio, molto spesso gruppi che erano stigmatizzati ed emarginati: se siete gay e tutte i vostri amici muoiono di aids, allora molti diventeranno attivisti. Però nessuno ha voluto lanciare un giudizio morale sulle abitudini sessuali, si trattava della sfera privata e quindi intoccabile. C’è stato un giornalista, che si chiama Gabriel Rotello, che ha scritto che i gay ritenevano di aver lottato per anni per aver la libertà sessuale e quindi volevano anche approfittarne. Quindi la prevenzione ha messo l’accento sull’uso del preservativo, senza dire invece che bisognava modificare il comportamento sessuale. Prossima diapositiva: abbiamo visto che c’è stata una diminuzione dell’incidenza dall’Hiv tra gli uomini gay ma non è stato detto perché. Perché sono morte le persone, le persone maggiormente a rischio? Perché sono stati utilizzati preservativi oppure perché c’è stato un cambiamento del comportamento sessuale? I gruppi attivisti gay hanno detto che era stato grazie all’uso del preservativo. Le istituzioni nel mio paese che si occupano, appunto, di prevenzione, hanno chiesto il parere di diversi esperti e nessuno all’inizio in questo periodo, a parte le comunità gay, sembrava avere interesse per questa malattia. A quel punto gli Stati Uniti hanno cominciato a lanciare dei programmi a livello internazionale (eiscom, eistec) e si sono chiesti quali erano le persone più interessate a collaborare; innanzitutto erano gruppi di attivisti gay e poi naturalmente gli esperti di pianificazione famigliare come me. Vediamo la prossima diapositiva: l’impostazione chiamata riduzione del rischio è molto attraente, è stata utilizzato soprattutto a San Francisco e a New York, ha avuto molto popolarità nei gruppi a maggior rischio e quindi è stata spedita anche in altri continenti e ha tenuto conto appunto di questo desiderio delle comunità gay di poter mantenere la propria libertà sessuale. Questo ha impedito che si proponessero cambiamenti del comportamento sessuale. Per quanto riguarda la tecnologia, sembrava che l’utilizzo del preservativo fosse più che logico e abbiamo iniziato quindi un’attività di monitoraggio valutazione. Inoltre si tratta di una tecnologia poco costosa e molto semplice, quindi la prevenzione dell’aids è diventata come la pianificazione famigliare, una sorta di business incentrato soprattutto sulla distribuzione di questi prodotti e ha avuto molta popolarità, perché era legata alla liberazione sessuale, legata quindi ai gruppi che sostenevano la libertà sessuale, che sostenevano moltissime altre politiche, quali per esempio quelle dei diritti umani. Quindi si è pensato che non bisognasse cambiare il comportamento sessuale, nessuno voleva ammettere, forse, di avere sbagliato nel proporre solo queste soluzioni tecniche. Allora, saltiamo adesso due diapositive, vediamo invece quali sono le sfide a quella che è la cultura dominante. Vediamo la prossima, la prossima ancora: l’Uganda ha dimostrato che un approccio all’aids, basato su un cambiamento comportamentale piuttosto che tecnologico, ha innanzitutto reso le persone più coscienti di un eventuale esposizione al rischio. E’ spiegato un lavoro: che bisognava innanzitutto avere un comportamento non promiscuo e ritardare l’età del primo rapporto sessuale. Vediamo la prossima. Come possiamo evitare dal punto di vista biologico la trasmissione sessuale dell’Hiv? Innanzitutto evitando l’esposizione, riducendolo oppure bloccando l’efficienza dell’esposizione stessa. Questo è quello che chiamiamo impostazione ABC: A – Abstinence (astinenza o lealtà), B be faithful, quindi essere fedeli e C circoncisione, utilizzo del condom e riduzione del carico virale. I primi slogan erano: amate nella fedeltà, uno slogan mutuato dalla chiesa, amate fedelmente, non andate a fare sesso in giro, quindi siate fedeli al vostro partner e mantenete sempre quella persona, quel partner. L’Uganda non ha autorizzato questa terminologia Abc, questa è stata adottata dopo, ma la politica utilizzata è oggi questa, fin dall’inizio. Secondo me i condom possono avere un ruolo importante per proteggere, soprattutto nelle coppie che sono sieropositive, ma non possono diventare il principale mezzo di prevenzione dell’ aids. Vediamo la prossima diapositiva. Qui vediamo uno dei primi depliant degli anni ’80, in cui non si parla mai del preservativo, se ne incomincia a parlare soltanto a pagina 43. Si diceva che l’aids la si può prendere anche se si usa il preservativo. Questo non è stato visto da nessun’altra parte, soprattutto la dove c’erano donatori importanti. Adesso devo saltare purtroppo qualche diapositiva. Prossima diapositiva: Vediamo qual è il modello dell’Uganda e i problemi relativi. Nel corso di 12 anni in Uganda la diffusione dell’Hiv è stata ridotta dal 50 al 5%; non vi posso parlare dei dettagli, però i programmi utilizzati sono costati 23 centesimi di dollaro per persona all’anno. Vediamo perché l’Uganda è diversa dagli altri paesi. Innanzitutto torniamo in dietro di un’altra, ancora un’altra diapositiva. Innanzitutto perché hanno considerato l’aids come un problema comportamentale, non soltanto medico; hanno cercato di avere un forte impatto sul comportamento sessuale, hanno cercato di evitare e non di ridurre il rischio, non hanno detto non bisogna o non si può cambiare il comportamento sessuale. Hanno utilizzato questa impostazione che vi ho fatto vedere, abc, e hanno anche cercato di spaventare le persone. Vediamo la prossima diapositiva. Nei primi anni hanno utilizzato dei poster come questo, che mettevano paura, ma l’hanno fatto in modo da non stigmatizzare le persone sieropositive. La prossima diapositiva. Qui vediamo un camionista e qui sul camion c’è scritto: non lasciate casa vostra senza portare i preservativi; sotto la didascalia è scritto: io vado direttamente a casa da mia moglie. Prossima diapositiva. Qui ci dice: per fortuna ho detto no all’aids, io resto con la mia famiglia. Non è un poster molto comune. Prossima diapositiva. Questo è del ministro dell’istruzione: si dice che bisogna essere sempre fedeli al proprio coniuge. Prossima diapositiva. Qui vediamo un uomo di mezza età che cerca di attirare delle studentesse con i soldi, problema grave nei paesi poveri, perché di solito sono uomini di mezza età che cercano di sedurre delle giovani. Questa è una diapositiva completamente diversa, viene dal Botswana: c’è una ragazza di 14 anni che ha un amante di mezza età, che dice che comunque usa sempre il preservativo. I gruppi religiosi e il governo e gli insegnanti si sono scandalizzati e questo poster è stato eliminato. L’ultima diapositiva: questo è il titolo del libro che ho scritto nel 2003; si tratta di mettere in dubbio il paradigma dominante, e dire che abbiamo un modello semplice che è stato adottato in Africa e che funziona bene. Mentre il nostro approccio di tipo tecnologico non sembra funzionare bene. L’Hiv nel mio paese, gli Stati Uniti sta aumentando, allora perché non andare in Uganda e imparare da loro? Grazie della vostra attenzione.

MARCO BREGNI:
Grazie a te. Abbiamo visto che è una posizione umana e non una tecnologia ad essere efficace e questo approccio sfida la mentalità corrente. Pippo tu sei stato 30 anni in Africa lavorando come igienista su questi temi. Ci vuoi raccontare brevemente la tua esperienza?

FILIPPO CIANTIA:
Va bene, cercherò di parlare… scusate se vi giro le spalle ogni tanto, tanto non vi vedo perché abbiamo le luci piantate negli occhi, e mi dispiace non vedere le vostre belle facce… .E allora questa è la mia presentazione che scarto, perché il tempo è scarso e allora seguirò le slide e quindi mi scuso…. Comunque vi ringrazio del tema che mi è stato dato, perché mi permette di dire che la saggezza deve pur fare i conti con l’imprevisto, perché l’Uganda, come ha descritto Ted (Edward Green), è un totale imprevisto nel quadro che lui ha così eloquentemente descritto. La prossima diapositiva. In fondo, le mie sono le confessioni di un comune operatore sanitario, ho fatto un po’ di tutto, perché ho vissuto in Uganda tanto quanto l’epidemia di aids. Avanti (diapositiva). Questo è il classico modo di presentare, di fare le presentazioni, si fa la lista di quello che vi va quindi si può procedere. Sono stato in Uganda con mia moglie Luciana per tanti anni, abbiamo lavorato insieme, abbiamo convissuto almeno 5 anni con questa malattia senza saperlo. Quando a metà degli anni ’80 abbiamo scoperto, si è scoperto che c’era questa malattia, che era una malattia trasmissibile, trasmissibile col sangue, la paura fu enorme. All’inizio le persone morivano senza alcuna speranza di una risposta adeguata, quindi la paura era enorme, lo spavento era grande; quello che Ted ha cercato di esprimere è stata la risposta straordinaria dell’Uganda, in cui il messaggio dato al popolo era molto chiaro, senza giri di parole. Se avete visto i poster che arrivavano prima, parlavano chiaramente, si tratta di una malattia fatale che può distruggere il nostro paese; ma era un messaggio che diceva anche che questa malattia può essere prevenuta e quindi possiamo fare qualcosa … Questa è la copertina che Ted ha presentato prima. Avanti (prossima diapositiva). Siamo nel 1987, era una campagna basata sul cambiamento dei comportamenti e delle abitudini sessuali, come una sola realistica modalità di rispondere all’epidemia. Allora non c’erano i farmaci, almeno per dieci anni non abbiamo avuto alcun farmaco adeguato a disposizione. E questo era un importante giudizio culturale, per questo è il tema dell’incontro di oggi, perché indicava che la causa dell’aids era nel cuore nell’uomo e che mostrava una fiducia e una speranza nelle capacità degli ugandesi, della società, tutta, di rispondere e di superare la tremenda sfida che poteva distruggere il paese. Prossima diapositiva. E nello stesso discorso, a mio avviso assolutamente straordinario, fatto proprio in Italia, a Firenze nel ’91, il presidente diceva che l’interesse che aveva in Uganda, era di invitare a ritornare all’approvata tradizione di rapporti, che non erano dettati dal piacere o dall’immediato guadagno, ma dettati dall’interesse per le altre persone e invitava soprattutto i giovani ad essere educati alle virtù dell’astinenza, della disciplina, soprattutto della rinuncia del piacere e a volte del sacrificio. Queste parole indicano una risposta eccezionale e come Ted ha detto prima, questo fu il risultato, il declino della malattia, da circa il 18%-20% fino al 5%-6% in pochi anni, perché era questo un messaggio che funzionava. Avanti (diapositiva). Quali sono stati i punti principali di questa storia, di questa grande esperienza, di questo grande successo degli ugandesi? Innanzitutto che la persona era messa al centro, il richiamo alla responsabilità personale, soprattutto una mobilitazione di tutti, come vedremo poi, per cui questo è stato il successo degli ugandesi e questo ha portato alla riduzione della diffusione della malattia. Avanti. E le pietre miliari di questa grande storia sono le persone che oggi abbiamo con noi: Rose del Meeting point, ce ne sono un sacco nella platea tra di voi, e la gente è stata la vera risposta. Qui abbiamo, in alto a sinistra, abbiamo Noerine Kaleeba, che è la fondatrice di una delle più grandi organizzazioni che combatte contro l’aids in Uganda, forse la prima, una delle prime nel mondo, una delle più grandi support, conosciuta come Taso (The Aids Support Organisation), che conosciamo bene. Noerine Kaleeba è una fisioterapista, ci abbiamo avuto a molto da fare per tanti anni. A destra, molto più austera, è Miriam Duggan, una suora irlandese che ha avuto come intuizione che la risposta all’aids non era in ospedale. Per questo lasciò l’ospedale per lavorare nella comunità e con lei nasce la Kamwokya Christian Caring Community, che è una community, cioè una comunità che si prende cura dei malati, si prende cura dell’educazione dei giovani, delle famiglie e degli orfani. È una delle persone che Rose ha conosciuto molto bene all’inizio della sua carriera come studentessa infermiera. Poi sotto abbiamo i coniugi Corti, Lucille Teasdale, grande chirurga canadese che prese l’aids lavorando in ospedale come chirurga, ferendosi durante un’operazione, e che fino all’ultimo aveva lavorato tra la gente. Questi sono i protagonisti, avanti, poi abbiamo foto d’archivio: a sinistra abbiamo Elly Ongee e sua moglie con la loro bambina Irene. Loro hanno fondato il Meeting point a Kitgum. Quando Elly ha scoperto di essere malato, insieme a sua moglie, c’è un bel libro che racconta tutta la storia, Gli occhi di Irene, leggetelo (faccio un po’ di propaganda anche ai sottoscritti), ha messo in piedi un gruppo di sostegno alla gente che aveva bisogno di trovare un posto dove essere ascoltata, dove conoscere di più, dove capire, un posto dove si può essere accolti nonostante lo stigma che colpiva tutti. A destra Philly Bongole Lutaaya, famoso cantautore africano, almeno in Uganda e nell’Africa orientale, che a un certo punto è uscito allo scoperto e quando ha scoperto di essere malato lo ha detto in pubblico, creando un’estrema commozione nella popolazione, ma dedicando tutto il resto della sua vita a insistere per un cambiamento di comportamento, come hai descritto tu prima. E bellissima è la sua canzone Alone, che descrive il fatto che la cosa più tremenda è essere soli di fronte la malattia e quindi l’invito al fatto che tu non sei più solo, c’è qualcosa con te che ti accompagna nella malattia. Voglio ricordare, qui metto due persone che possono essere l’opposto nella società. A sinistra Janet Museveni, che è la moglie del presidente che abbiamo citato in precedenza; Janet, impegnatissima sul fronte dei giovani, è stata anche nostra ospite un po’ di volte, e Jenet ha detto: “la nostra è una generazione spiritualmente analfabeta”, per descrivere come il dramma fosse proprio il cuore dell’uomo, fosse proprio lì l’origine della malattia. Dall’altra parte c’è forse una delle persone più umili che abbiamo conosciuto e si chiama Akumu Rose (l’Uganda è piena di rose, fiori profumati). Akumu è la mia segretaria che dopo aver scoperto di essere malata ha incontrato Elly Ongee e lì ha capito che poteva dedicare tutto il resto della sua vita a fare compagnia, a stare con le persone che erano malate; quindi mi chiese, mi ricordo perfettamente il giorno, se poteva, durante l’intervallo del pasto nell’ufficio, mettere fuori l’avviso e invitare le persone che fossero interessate a parlare della malattia, della loro situazione, se poteva fare questo per poter dedicare il suo tempo libero alle persone. Poi è morta, dopo una lunga lotta, nonostante un disperato tentativo terapeutico con l’Azt, nel maggio del 1992. Non bastò, in sei mesi morì, offrendo se stessa per la salute di Don Gius, mi ricordo. E dopo di lei Akumu passa il testimonial a Rose e Viky, che sono state ospiti al Meeting, che sono ospiti ancora, la sentirete dopo, però vi consiglio di acquistare e vedere il video Greater. Avanti. Io descrivo l’aids, l’epidemia dal punto di vista della sanità pubblica, come una malattia ad ondate: c’è la prima ondata, lo tsunami, un’onda anomala di malati; poi un’onda anomala di morti; un onda anomala, uno tsunami, di orfani, perché vengono distrutte le famiglie, muoiono soprattutto gli adulti, quindi ci sono tutti questi bambini, ma l’onda anomala più potente è stata l’onda della solidarietà della gente. Scusate, oggi ci troviamo di fronte alla nuova sfida, quella del trattamento, perché abbiamo milioni di persone sieropositive, probabilmente 350mila-400mila devono al momento essere curate e abbiamo medicine per 200mila. Per ricevere i farmaci bisogna affrontare una responsabilità spaventosa, enorme, un’altra onda anomala, che bisognerà cercare di affrontare. Però – questo spiega lo tsunami – la cosa importante che lega tutte le persone che vi ho presentato, quelle facce, mi piacerebbe vedere tutte quelle facce ma non riesco, tutte quelle facce che raccontano una storia hanno solo un filo conduttore, un elemento che le lega, cioè che c’è qualcuno che si è messo insieme agli altri, che si è piegato sugli altri, che si è commosso, si è deciso ad avere un rapporto con le persone che avevano bisogno, perché essi stessi avevano bisogno. Infatti nessuno, e noi lo sappiamo, nessuno avrebbe forza per affrontare il problema della malattia, una difficoltà di lavoro, una difficoltà familiare senza degli amici. Di questo abbiamo bisogno. E questo è il filo conduttore di tutta la storia che Green ha descritto così sapientemente. Avanti. E voglio aggiungere solo un’osservazione molto importante: come avete visto, Ted è stato molto combattuto, tra l’altro il suo programma verrà chiuso, il suo programma verrà chiuso quest’anno all’università di Harvard, perché è scomodo dire la verità sulla storia ugandese, perché alla radice di questa controversia con Ted Green ci sta il fatto che non ci sono elementi politici, economici come lui ha descritto, ma solo una concezione dell’uomo, per questo è un problema culturale. Avanti. Io, con Luciana e altri amici, sono potuto andare a Bangkok alla conferenza internazionale e mi ricordo che ci fu il dibatto che vide Ted, (you remember the debate about abc vs cnn?) protagonista. Lunedì 12 luglio ebbe luogo infatti l’interessante dibattito “ABC contro CNN”: Steven Sinding dell’IPPF discusse con Green e l’ugandese Onaba l’efficacia della campagna ugandese basata sull’ABC, a fronte del modello occidentale CNN. Venne attaccato duramente perché era un attacco contro quello che era successo in Uganda come modello teorico. A Toronto accade la stessa cosa.
Erano presenti i “due Bills” (Clinton e Gates), ma mancavano o avevano limitatissimo spazio l’Africa in generale, dove si trovano la maggioranza dei malati, gli orfani, che pure sono oltre 10 milioni e le realtà della società civile, forse colpevoli di “troppo” impegno nei programmi di cambiamento di comportamento sessuale.
Nel 2008 la conferenza si tiene per la prima volta nell’America latina, a Città del Messico, ed è dominata dai temi (pur importanti) della lotta all’omofobia e alla discriminazione dei lavoratori e lavoratrici del sesso e dei transessuali. Quasi ci si dimentica dei tantissimi bambini che ancora non hanno accesso ai farmaci antiretrovirali; poco si dice dell’aumentato rischio delle resistenze che il virus sviluppa contro i farmaci e del fallimento dei microbicidi e dei vaccini, quasi fossero argomenti secondari
Quest’unilaterale e parziale approccio alla problematica dell’Aids è confermato dagli attacchi editoriali della rivista medica Lancet prima a Papa Wojtyla e poi a Papa Ratzinger. A Benedetto XVI sono dedicati due editoriali molto critici, tra il gennaio 2008 e il marzo 2009: in entrambi i casi il Papa viene condannato perché contro la scienza e fuori dalla realtà.
Ma la realtà ci ha invece mostrato che è necessario che la prevenzione basata sull’evidenza abbia il sopravvento sulla prevenzione basata sul consenso. Quest’ultima è applaudita a tutti i congressi e ha il sostegno dei maggiori donatori.
Come hanno brillantemente dimostrato e descritto Ted Green e il suo gruppo di lavoro, l’approccio indigeno ugandese (1986-1995) ha funzionato meglio di ogni altra iniziativa eppure è sotto attacco. La prevenzione deve assolutamente scoraggiare le relazioni sessuali contemporanee e multiple! La fedeltà e la riduzione dei partners sessuali a rischio emergono come i fattore essenziali per una efficace prevenzione nelle epidemie generalizzate. In ogni singola nazione africana dove si è registrato una riduzione della diffusione dell’HIV, essa è stato preceduto da una riduzione dell’attività’ sessuale con più partners. Tuttavia interferire con il comportamento sessuale (che non sia proporre il preservativo) è un taboo nella prevenzione americana ed europea. Perché? Come mai tanti scienziati e medici possono sbagliarsi così gravemente in una materia talmente importante. L’ideologia della “riduzione del rischio” (per sé una solida misura in sanità pubblica) si è sviluppata nella filosofia di “nessuna interferenza nei comportamenti sessuali”!
L’esperienza dell’AIDS nei Paesi del Terzo mondo mostra in primo luogo che lo sviluppo produce salute non quando riversa sul pubblico i suoi prodotti tecnico-scientifici, per quanto avanzati, ma quando quello sviluppo ha un popolo, e non una casta (sia essa scientifica, economica o politica), come protagonista. Un popolo, cioè persone portatrici di una storia e di un ideale di bene. Le “moltitudini” sono artificiali, i popoli sono reali.
La seconda lezione è che ci si deve basare sull’evidenza, e non solo sull’applicazione di principi ritenuti a priori efficaci. Di ciò che è successo in Africa con il programma ABC ben poco si è detto e tantissimo si è taciuto. È comprensibile: i punti A e B hanno ben pochi vantaggi economici da portare alle grandi corporate. Ma c’è dell’altro. Ed è l’atteggiamento di esclusione dalle dinamiche dello sviluppo di fattori e protagonisti non “abilitati”. Che cosa può venire di realmente utile in campo medico-sociale da Paesi ancora in via di sviluppo, da culture “popolari”, non ossequienti alla vulgata dominante? Come può essere credibile un approccio basato su qualcosa di diverso da preservativo e farmaci? Eppure, dovremmo essere in tempi di evidence-based medicine, cioè di sviluppo e diffusione di pratiche e di misure di prevenzione e terapia sulla base dell’evidenza della loro efficacia non a priori, ma in specifici contesti.
La terza caratteristica da considerare con attenzione è che si è trattato di un approccio rivolto alla persona e alla sua responsabilità, non alle masse. Un approccio che della persona coltiva e valorizza la capacità di riconoscere il bene, per sé anzitutto e per la società in cui vive, e di agire e costruire coerentemente a esso. Sfortunatamente, invece, il giudizio più diffuso è che l’AIDS trovi facile terreno nel fatalismo endemico degli africani, e che perciò la lotta alla malattia sia essenzialmente un dovere morale dei governi occidentali. Quest’atteggiamento è non soltanto odioso, ma anche inefficace, come il programma ABC ha messo in luce. L’efficacia è inscindibilmente connessa alla valorizzazione della responsabilità, cioè alla capacità di diventare protagonisti della ricerca e della realizzazione, anche in campo sociale, di quel bene che urge nel profondo di ciascuno.
Il programma ABC ha avuto inaspettatamente (per molti) successo proprio perché legato alla vita dei popoli, dove si è svolto, sostenuto dalle loro risorse, da una concezione del vivere, anzitutto, adeguata al contesto di applicazione e capace di rispettare i diritti umani nel senso più profondo: le attese e i desideri presenti nei loro cuori.
Voglio ringraziare in pubblico Ted Green che è mio maestro e mi ha fatto scoprire tante cose che avevo intuito ma delle quali mi ha dato la ragione e di questo lo ringrazio perché per me conoscerlo è stato un avvenimento. Poi voglio particolarmente ringraziare tutti i miei colleghi: io adesso sono rientrato dopo 29 anni dall’Uganda con mia moglie e ho chiuso con l’Uganda. Siamo rientrati in Italia, faccio un altro lavoro, ho lasciato l’Uganda ma voglio ringraziare tutti i miei colleghi, soprattutto mia moglie che avuto cura di me in tutti questi anni e voglio ringraziare in particolare le persone malate che ho conosciuto, perché sono e sono state una lezione di vita per me e sono tantissime tra di voi, le guardo in faccia e sono contento. Grazie

MARCO BREGNI:
Grazie Pippo, tu ci hai detto che l’educazione è la grande risorsa dell’uomo e che la cosa più tremenda è essere soli nella malattia. Rose tu ci hai detto invece nel film Greater che la persona vale più della malattia, ci vuoi raccontare …

ROSE BUSINGYE:
Saluto tutti. Quando ho letto che l’Aids è cultura, pensavo che invece la cultura non si conosce attraverso l’Aids, la cultura si conosce sapendo che cos’è l’uomo, bisogna conoscere chi è l’uomo, e di che cosa è fatto. Di che cosa sono fatto io? Perché per sapere che la persona è al centro, devo sapere dove sono io in questo centro, che cosa desidero io, allora ciò che desidero, ciò di cui sono fatto è ciò che l’altro uomo è. Per capire l’uomo devo guardare e scoprire me, devo scoprire di che cosa sono fatto io, allora conoscerò che quell’uomo è fatto come me. E’ una concezione nuova della vita, un criterio nuovo di rapportarsi con la realtà, con la scuola, con la malattia, con i figli e con la tua casa, con tutto ciò che vuoi. E’ un modo nuovo di trattare sé stessi e gli altri. Io non sono un particolare, perché affrontando l’uomo non bisogna partire da un particolare che è l’Aids, la cultura viene da un uomo che sa chi è. Il problema è che non basta un’ indagine scientifica, non basta neanche un’ indagine esistenziale, perché questo non ci fa uscire dalla confusione che caratterizza la giornata, che caratterizza anche il mondo di oggi, e non fa emergere un volto e non fa neanche guarire nessuno, anche chi deve guarire. Questa confusione comincia dal trattare l’uomo come un particolare, l’uomo non è una malattia, l’uomo non è sesso. Non possiamo dire abbiamo risposto al sesso e allora abbiamo risposto all’uomo o pensare che partendo dall’aspetto sessuale dell’uomo abbiamo risolto il problema, dando il preservativo o anche dicendo se sei incinta, abortiamo e abbiamo risolto tutto. Si parte proprio dall’interezza dell’uomo, il gusto della vita non è negato da chi sbaglia, ma chi non ha nel proprio rapporto con l’infinito l’onda infinita di idealità e di generosità che caratterizza le mosse di un uomo che sia veramente uomo. Io sono andata nel carcere di Padova, che sembrava un carcere di massima sicurezza, tutti criminali, arrivando dentro ho incontrato questo gruppo di uomini che nonostante ciò che hanno fatto non sono definiti dai loro errori. Ho incontrato Giovanni e Franco che sono condannati per centonovanta anni, ma Giovanni mi ha detto: “guarda per me Gesù mi basta, io non sono definito da questi sbagli”. Ho visto che nel suo sguardo questo uomo era contento, era vero quello che diceva e vedendo le donne di Kireka, le mie donne del Meeting Point, devo dire che questo è vero, che non sono definite dal fatto di essere malate, anzi vanno in giro dicendo a tutti che a loro non dispiace di aver preso questo virus, perché attraverso il virus hanno scoperto veramente chi sono. E vanno in giro dicendo che la vita ha un valore, perché quando scopri che la vita ha un valore lo proteggi. Se mi dici io ti amo veramente e mi dici anche che il preservativo ha uno 0,001% di possibilità di passare un virus, io non posso rischiare su una persona che amo. Infatti in Africa una donna malata che dice a suo marito andiamo a giocare a football, è tabù, perché una donna deve stare sotto l’uomo, fare figli, accudirli, fare tutto. Ma uno che si alza e dice, non per dire, sono uguale all’uomo, trova che ha un valore più grande e tutto ciò che tocca diventa bello, riesce a dire al marito andiamo a vedere una cosa bella, può dire al marito vado a giocare a calcio e il marito dire prendo un bambino. Può sembrare una cosa banale ma è come se fosse cambiato il modo di vivere. Nel posto dove lavoriamo, quando le donne fanno una gita, i mariti rimangono a casa accudendo la famiglia. Anche quest’anno abbiamo fatto la partita con l’università di Usa e tutti, vedendo queste donne giocare a calcio, dicevano: ma queste sono donne malate, come se le donne malate dovessero andare in giro con un muso un po’ disperato per la malattia. Invece è solo apparentemente che, di fronte alla malattia, di fronte alla povertà, l’uomo sembri niente. L’uomo sembra definito dalla sua condizione, dalla sua povertà, da ciò che si trova intorno. Invece il mondo c’è perché c’è questo uomo. Il mondo, tutto ciò che facciamo, deve essere al servizio di questo piccolo uomo, così com’è! Il problema dell’Hiv-Aids è un problema come tutti, è un problema della vita che provoca e sollecita a scoprire la piena dignità della vita umana, che è l’amore. Se siamo sinceri, se partiamo dalla posizione umana, dobbiamo chiederci: di che si tratta? Qual è il significato della vita e dell’amore, del sesso e della morte? Nessuno può dire che questa cosa non mi riguarda. Tutto è per scoprire il significato della condizione umana e per trovare l’energia per affrontare la realtà in modo giusto. Senza questo, senza questa coscienza, non possiamo aiutare nessuno, neanche noi stesse, tanto meno dare un aiuto reale agli altri. Invece di aiutare e aiutare noi stessi, continueremo ad accusare gli altri, ad offrire loro soltanto la compassione e pur rispondendo – perché uno non può non rispondere qualcosa, la sua dignità, il suo essere qualcuno è rispondere – inganniamo. La tendenza o la visione del mondo di oggi sull’uomo è dividere l’uomo, nei cui segmenti o frammenti il mondo di oggi produce un’immagine, un modo di sentire le persone come un aggregato di segmenti e di frammenti e ogni frammento ha la sua legge. E se ogni frammento ha la sua legge, costruiamo la legge di ogni piccolo frammento. Una legge per il rapporto affettivo, una legge per il divertimento, per lo sport, per il riposo, per l’amore, per il rapporto tra marito e moglie o per i figlie ecc… Ma da tutto questo viene una situazione di confusione e contraddizione, dove la persona umana è ridotta a quello che possiamo manovrare. Come quello che dice Dante, il vostro poeta, che è un “gran ruina”, come dopo un terremoto, dove la casa e tutto è sfasciato. Quelli dell’ Aquila, penso che lo sappiano bene, dove tutte le case sono sfasciate, a terra, dove tutti i mattoni sono ognuno per conto suo e ogni pezzo è in lotta contro l’altro. E così anche la persona umana è spezzata: negli ospedali, dove tutto è riconducibile alla precisione tecnica, l’uomo è trattato come una cosa, come un tavolo con una gamba rotta a cui sostituiamo la gamba. Se ha male all’occhio si cura solo l’occhio, si ha di fronte solo l’occhio, non l’uomo intero con i suoi occhi. L’uomo invece è una totalità, con tutti i suoi fattori, infatti se tocchiamo a una persona i suoi capelli, questa si volta interamente, non si volta solo una sua parte. È viva. È tutta la persona che reagisce, quanto più il fenomeno appartiene alla vita, tanto più toccando un punto viene implicata la totalità dell’ organismo. Nell’uomo questa unità di riferimento è al massimo, perciò un otorinolaringoiatra non tratta solo il naso del paziente, ma una persona nel suo naso. Non è di fronte a un naso, è di fronte a una persona con il suo naso. Quello che voglio dire è che non si cura un pezzo di uomo, si cura un uomo. Questo è vero anche nell’animale fino ad un certo punto, ma nell’ uomo è totalizzante. Sentendo Green, sentendo Pippo, pensavo che dobbiamo essere vigilanti, non solo a causa dell’Aids, perché la battaglia è nei confronti di ciò che va contro il valore dell’uomo, la dignità della sua persona. Il lavoro è favorire la consistenza stabile della personalità umana. Se siamo vigilanti la nostra umanità è un’avventura nella ricerca del suo significato, del suo valore. Per esempio, le mie donne che vanno a curare le altre donne, non le curano dicendo: poverina hai l’Aids, allora muori, ma le curano dicendo che il problema è trovare il significato di tutto e trovare il senso di tutto. Quando trovi il senso puoi proteggere veramente, quando trovi il valore puoi dire: questo lo proteggo! Però questo valore non puoi scoprirlo se non l’hai scoperto in te. I ragazzi, dopo che hanno incontrato Carrόn, dicono che il programma dell’Hiv non è un problema di sesso, ma è il problema di trovare per chi si vive. Gli uomini di Naguru non sono malati ma sono venuti al nostro centro e hanno detto: le vostre donne, anche se sono malate, sono più contente di noi; anche noi vogliamo stare qui, anche se non siamo malati. Infatti abbiamo trovato che gli uomini sono lì, non vogliono niente, non sono malati ma vogliono stare lì. Prendono il tamburo, danzano e quando le donne giocano a calcio vanno ad insegnare loro come si tira il pallone. Ma questo è proprio perché uno ha trovato il per chi si vive, un significato più grande che va al di là di un particolare. Quando intravedi un significato per la tua vita, è come se una luce illuminasse tutto, cominci a scoprire la verità della tua vita e da qui comincia un’attrattiva, una affezione, una tenerezza per la tua stessa vita e per la vita degli altri. Così anche di fronte alla malattia, alla sofferenza e alla morte l’uomo desidera qualcosa che dà significato e senso a tutto questo. L’infelicità non viene perché hai l’Aids, l’infelicità viene quando uno rinuncia alla ricerca del significato di sé e pensa che è impossibile essere felici. Se l’uomo non coglie il significato delle cose, il significato per sé…, per esempio sento tanti che mi chiedono: ma perché uno deve vivere, perché deve avere figli? Ma che peso, perché uno deve impegnarsi in un rapporto matrimoniale? I ragazzi vogliono divertirsi fino che c’è la vita, ma stare per sempre con una ragazza, per un ragazzo è una rottura… Quando perdiamo il valore di noi stessi, scompaiono anche il valore e il senso di tutte le altre cose e poi ci trattiamo come cose, come strumenti. Quando non scopri un valore per te, non puoi essere responsabile, non puoi costruire una cultura, non puoi neanche vedere il valore negli altri e non li curi bene. Tutte le misure scientifiche e la sola scienza non possono portare un cambiamento nelle nostre abitudini e nei nostri comportamenti. Ci vuole una ragione adeguata per il cambiamento della vita. Questo non avviene per la paura di prendere l’Hiv, non è per paura, perché la paura non è un sentimento naturale dell’uomo. Il don Gius diceva che il primo sentimento della persona umana è l’attrattiva. La paura nasce quando tu percepisci il pericolo di perdere quella attrattiva. Prima di tutto, in ogni cosa c’è l’attaccamento all’essere, alla vita. Appartenere a questo essere fa sparire la paura. In Uganda avevano scritto questo slogan contro l’Aids: ama con attenzione, ama fedelmente, sta attaccato a uno solo. E ancora: se veramente non ce la fai, usa il preservativo. Io non posso usare gli slogan legati alla paura, la ragionevolezza viene dallo stupore per la presenza di una persona che mi ha attratto e così viene fuori in me la ricerca. È bello, è meraviglioso essere amato e amare ma voglio che questo amore sia per sempre, non per togliere la mia solitudine o soddisfazione o per i miei istinti. Queste persone hanno un valore. Io non posso usarle male per i miei interessi. Don Gius diceva che non c’è niente di più dolce, di più aderente alla persona umana che essere posseduto in una dipendenza originale, cioè essere amato. Il problema è che non amiamo neanche la nostra stessa vita. Stiamo solo attaccati alla nostra opinione e agli istinti. Per esempio, quando stavamo facendo la conferenza con la moglie del presidente, Janet, gli uomini stavano dicendo: se non usiamo il preservativo moriamo. E lei: smettetela di comportarvi come cani e gatti che non possono astenersi. Sono i gatti e i cani che non possono astenersi! Ma se noi ci guardiamo come uomini, come persone, cessiamo di usarci con timore, perché le persone che amo hanno un valore. Invece adesso è come se vivessimo in una civiltà che sembra finire, perché la rivoluzione di una civiltà è tale nella misura in cui è favorito il venire a galla e il chiarirsi del valore del singolo. È un tempo dove l’identità della persona e dell’io è messo quotidianamente in crisi. E si vede nell’ incapacità d’impegnarsi anche solo in un rapporto. Invece l’aspetto che il Papa propone, è un aspetto più acuto e umanamente più persuasivo di un modo nuovo e bello di vivere. È una coscienza nuova di rapportarsi anche con la tua propria moglie, o amante se volete. Il Papa è un uomo cosciente, un uomo che guarda le cose consapevole del loro significato. Un uomo così genera la mentalità e genera una cultura. Il problema degli Africani non è solo l’ Aids, come avete visto, è per questo che ci vuole un uomo che viva la fede. La fede è qualcosa che deve penetrare gli estremi profondi dell’umanità, che deve arrivare là dove si formano i criteri di percezione delle cose. Per creare la cultura c’è bisogno di questo, c’è bisogno non solo di comportarsi, di decidere di comportarsi in un modo diverso, ma proprio di vivere la fede, di vivere il valore per cui sei fatto. L’uomo che ha passione per l’Africano, deve rispettare la sua persona. Quando si vive questo nella vita, nel lavoro, allora si può sostenere una resistenza fino ad arrivare a rompere gli schemi e costruire una cultura. Ma c’è bisogno di qualcosa che investa la modalità della nostra reazione, che generi un vero soggetto, solo così uno impara a trattare l’altro. L’oggetto del mio lavoro dev’ essere il rapporto con un amico, è questa precisa posizione che fa lottare e crea una posizione nuova anche dentro gli schemi.

MARCO BREGNI:
Grazie Rose, grazie Ted, grazie Pippo. Voglio solo dire che un luogo come quello che Rose descrive, per educare soprattutto, per educare noi come operatori professionali, c’è. E’ l’associazione Medicina e Persona, e se vi capita di passare dal nostro stand troverete l’ultimo numero della nostra rivista, in cui molti dei temi che sono stati ripresi e discussi oggi vengono trattati. Grazie a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A2
Categoria
Incontri