’68: UN’OCCASIONE PERDUTA?

Partecipano: Giovanni Cominelli, Responsabile Dipartimento Sistemi Educativi della Fondazione per la Sussidiarietà; Pietro Modiano, Direttore Generale Intesa Sanpaolo. Introduce Giancarlo Cesana, Docente di Igiene Generale e Applicata all’Università degli Studi di Milano Bicocca.

 

MODERATORE:
Allora cominciamo l’incontro di oggi dal titolo “’68 un’occasione perduta?”. Qui vedo che ci sono, oltre a persone più o meno della mia età, tanti giovani che probabilmente non sanno nulla o hanno un sentito dire confuso del ’68. Credo che oggi possa essere un momento in cui forse magari cominciare a chiarire la vicenda. Introduttivamente quello che io mi sento di dire è che il ’68 è un ombra sul presente, cioè non è finito, perché il ’68 ha introdotto delle caratteristiche fondamentali di quello che possiamo definire il costume italiano, il modo di essere italiano. Io lavoro in Università, ormai sono in Università da 42 anni e devo riconoscere che molta della mentalità sessantottesca è tuttora presente. Quello che avete visto alla Sapienza con il Papa era un fenomeno molto legato alla cultura sessantottina. Quindi un influenza molto significativa sull’Università, e secondo me anche una certa distruzione dell’Università, e l’Università fa l’elite di un paese, per cui il problema del nostro paese è un problema serio anche per questo, poi l’Università fa la scuola perché forma gli insegnanti, abbiamo dei problemi molto seri sulla scuola. Poi una spinta verso una socialistizzazione più marcata del paese, che era già iniziata prima, però da lì ha preso il via il gonfiamento della pubblica amministrazione, il debito pubblico eccetera. Quindi il ’68 non è qualcosa che è finito, è qualcosa che in fondo c’è ancora e per questo vale proprio la pena parlarne, per cercare di capire. Un ultima nota: Comunione e Liberazione è un movimento del ’68, per la verità è nato nel ’69, io non c’ero, perché io stavo dall’altra parte, stavo appunto con il movimento, insomma dopo ve lo dico alla fine dove…. Ma Comunione e Liberazione è un movimento nato nel ’69 ed è tipicamente sessantottino come impostazione, perché il nome, Comunione e Liberazione, è una risposta a che? Tutti gli altri dicevano che il cambiamento, la liberazione, la giustizia veniva dalla rivoluzione, dall’analisi sociale, eccetera. E invece quelli che rifondarono il movimento che era andato in crisi, molti quadri di GS erano passati appunto nell’ambito del movimento studentesco, appunto quelli che erano fedeli al movimento dissero no, la liberazione viene dalla comunione; però concettualmente il fenomeno è sessantottino. Adesso io darei la parola prima a Giovanni Cominelli, mio grande amico, che si è laureato in filosofia, nel ’68 per l’appunto, e si è sempre occupato di scuola, in particolare dopo aver militato nei movimenti extraparlamentari, dal ’85 al 2000 è stato responsabile scuola del PC, PDS, DS, e poi ha continuato a occuparsi della scuola fino a adesso con noi, qui nella Compagnia delle Opere. E’ collaboratore di Tempi, scrive sul Riformista, sul Foglio, su Avvenire, sul Sole 24 Ore e ha scritto un libro che ha presentato ieri. Poi abbiamo Pietro Modiano, anche lui ha cominciato la sua esperienza nell’ambito del Movimento studentesco, alla Bocconi di Milano. Dal ’77 l si è sempre occupato di banche, fino a diventare il Direttore Generale di Banca Intesa. Son due esperienze molto interessanti, anzi se loro riuscissero a contenere un primo intervento in un quarto d’ora, poi possiamo fare un altro giro e io magari faccio qualche domanda in più. Giovanni.

GIOVANNI COMINELLI:
Il ’68 è diventato nella storia di questo paese un mito, prima prevalentemente positivo, adesso prevalentemente negativo. Secondo alcuni era tutto merito del ’68 se la società italiana è migliorata, secondo altri, al momento, è colpa del ’68 se la società italiana è peggiorata. Io assumo un altro punto di vista che è il seguente: io penso che sia necessario fare per il ’68, l’operazione che è stata fatta in questi anni sulla Resistenza. Quando noi stavamo nelle Università, negli anni ’60, venivano a parlare da noi i partigiani. La Resistenza era stata presentata da Togliatti come secondo Risorgimento. Poi invece studiando, incrociando le testimonianze, si è scoperto che la Resistenza non era poi quella cosa lì soltanto, era una cosa più articolata, per cui nella Resistenza c’era certamente una dimensione di lotta di liberazione nazionale, ma c’era anche una dimensione di lotta di classe e c’era anche la faccia della Resistenza come guerra civile, al punto che in alcuni posti di questo paese, l’Emilia Romagna ma anche a Milano, in particolare nella zona di Lambrate, sotto il nome di Volante Rossa, i resistenti continuarono a operare e a sparare anche dopo il 1945. Mi pare che a Milano i morti siano stati 200 più o meno. Poi Togliatti si incazzò fortemente, alla vigilia delle elezioni disse ai segretari delle federazioni del PC: “O li cacciate voi o io li denuncio ai carabinieri”. Parte di loro sono finiti poi nei paesi dell’Est e nei servizi segreti dell’Est. Analoga operazione di demitizzazione del ’68 io credo che sia venuto il tempo di fare; è ora di toglierlo dal mausoleo e di seppellirlo. Voi sapete che ci sono tre persone eccellenti ancora nei mausolei: Lenin a Mosca, Ho Chi Min a Hanoi, Mao Tze Tung a Tienanmen. Quando sono stato in Vietnam, mi hanno spiegato che il povero Ho Chi Min lo devono mandare tre mesi all’anno in manutenzione a Mosca, perché altrimenti si decompone. Ora è giunto il momento di fare un’analisi seria e seppellire il ’68, toglierlo dalla mitologia, riconsegnarlo alla storia di questo paese e quindi analizzarlo con gli strumenti tipici della storiografia: l’economia, la sociologia, l’antropologia… Questo diciamo come compito fondamentale, che le forze della cultura, intellettuali e anche i testimoni, come noi, dovrebbero avere in questo paese. Allora io nel giro di un quarto d’ora farò brevissimi accenni sull’universo ’68. Innanzitutto i confini cronologici: il ’68 nasce ufficialmente con il 16 Novembre 1967, con l’occupazione dell’Università Cattolica contro il raddoppio delle tasse deciso a Luglio dal Senato accademico e chiude, come movimento sociologicamente definito, il 12 Dicembre 1969, con la strage di Piazza Fontana. Dopo quella data il cosiddetto movimento, dopo quello shock il movimento si frantuma in tanti partiti e partitini, si polverizza, una parte viene egemonizzata dal Partito Comunista che guardava lontano e sperava attraverso il ’68 di reimmettere giovane sangue normanno nelle strutture burocratiche un po’ obsolete del partito, e soprattutto alla sinistra del partito comunista nascono dei partitini. Li posso elencare: Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia, Movimento studentesco perché io e Modiano eravamo ambedue del Movimento Studentesco, ma non era più quello scritto con la minuscola, era scritto con la maiuscola, come un partitino di fatto, più l’UCML, il PCD e via sigle varie, Avanguardia comunista a Roma che aveva come simbolo la falce e il fucile invece del martello, per dire l’idea. Poi dal ’69 si riuniva a Milano – non so se tu…, no tu eri troppo giovane – il Collettivo Politico metropolitano, dove c’eravamo in parecchi, Curcio compreso, che cominciò a parlare di lotta armata. Proprio alla fine di quell’anno Curcio e altri andarono all’ Hotel Stella Maris, di proprietà della curia di Chiavari e lì fondarono le BR. Si sviluppa quindi anche la linea del partito armato, che conoscerà due versioni: la versione vetero resistenziale, che sostanzialmente diceva: “siccome viene avanti il fascismo di nuovo occorre tornare alla resistenza armata”, e poi invece una versione diversa, che partirà dopo le elezioni del 20 Giugno ’76, che diceva: “Il comunismo viene avanti, bisogna facilitarlo e quindi bisogna abbattere in fondo al tunnel l’ultimo freno”, quindi non la maturità del fascismo, ma la maturità del comunismo. Anche i due tipi di Partiti Armati sono diversi, perché il vecchio partito BR nasce all’incrocio fra l’ala vetero resistenziale di una parte del PC, quella che teneva ancora i fucili nei fienili e una parte del sindacalismo cattolico, un po’ di FGC di Reggio Emilia e dintorni ed è organizzato proprio nella clandestinità totale, tipo appunto la Resistenza; mentre invece il secondo partito armato per così dire, Prima Linea principalmente, non è in clandestinità, i suoi uomini stanno, vivono nel mondo come tutti gli altri e puntano a questo: non a sparare ai fascisti ma a sparare a quegli uomini che minacciano di fare arrivare a buon fine l’operazione riformistica, soprattutto dentro il Partito Comunista, la Democrazia Cristiana, donde l’uccisione di Moro e poi ingegneri, avvocati, giornalisti e così via. Sparavano sull’ala riformista del Paese, perché temevano che avrebbe in qualche modo ingabbiato il Comunismo che stava maturando. Che cosa è il movimento di massa negli anni ’67, ’68? E’ per dirla in pura politologia un grandissimo casino, nel senso che c’è dentro di tutto, ci sono dentro molte anime, molte culture. Usando San Girolamo, è “un desiderio ribollente di desideri” o per citare Paolo VI in un recentissimo manoscritto, che è stato pubblicato per la prima volta il 2 Febbraio di quest’anno sul Giornale di Brescia, “il movimento del ’68 è un fenomeno di sazietà e di fame”, di sazietà verso la società che veniva avanti, che cominciava a essere piena di consumi e quindi venivano fuori domande di senso, e di fame cioè voglia di partecipare alla costruzione del Paese, dividere anche i benefici del welfare, insomma cambiare la struttura. Quindi non era rivoluzionario, con il linguaggio di oggi diremmo che il movimento del ’68 è un movimento riformista, con una prima contraddizione, riassunta nella frase che il nuovo avanza sempre con i vestiti linguistici del vecchio. Infatti noi, quando cercammo di interpretare la nostra posizione nel mondo, la nostra posizione rispetto allo stato, la società, le persone, andammo a cercare il lessico nella cultura degli anni ’30, nella cultura del vocabolario intellettuale e nobile degli anni ’30. Allora io mi soffermerei brevemente su questo: quali sono le culture fondamentali? Innanzitutto, questo però lo dico con il senno di poi, perché all’epoca non me ne sono accorto molto, pur essendo dentro. Il ’68 è all’inizio al 70% fenomeno che proviene dal mondo cattolico. Innanzitutto il Concilio Vaticano II, che sulla Chiesa italiana – io ero un cattolico praticante, credentissimo, eccetera – agisce come un detonare, soprattutto l’ala che all’epoca i giornali definivano innovatrice o progressista, dove c’era il Cardinale Frings che aveva un consigliere teologico di tutto rispetto, il Professore Joseph Ratzinger che adesso ha cambiato ruolo, è passato di ruolo pieno, e poi Alfring, König, per citare diciamo quelli che, con tutti il loro seguito di teologi della teologia francese, della teologia tedesca, per primi, molto prima dei nostri teologi italiani, avevano fatto i conti con il linguaggio moderno, con i fenomeni di secolarizzazione e così via. Quindi i cattolici dentro ci sono: la Teologia della morte di Dio, c’è un famoso libro di Harvey Cox che cerca di andare incontro all’incipiente fenomeno di eclissi del sacro nella società industriale, a cui dedicò un libro Acquaviva; poi la Teologia della liberazione, Gutierrez in particolare, che ne è il fondatore, che ho sentito con le mie orecchie a Firenze fare una dichiarazione che, mi scuso della volgarità, è poco teologica, però dice così: “Se la Chiesa non diventa merda, è una merda di Chiesa”, volendo dire ovviamente, ma questa è l’espressione che ha usato lui, se la Chiesa non sta con gli ultimi e con i poveri, non ha senso che esista. Poi c’è tutto il cristianesimo fra virgolette rivoluzionario, Padre Girardi che scrive “Marxismo e Cristianesimo”, dove sostiene che fra il Marxismo e il Cristianesimo in effetti non c’è molta differenza. Solo più tardi ho capito anche in che senso, perché voi non so se ricordate, ma Marx nella Questione ebraica dà due definizioni della religione del Cristianesimo: il Cristianesimo è il fiore che adorna la catena dell’oppressione, e il Cristianesimo, la religione, è il sospiro della creatura oppressa. La prima totalmente negativo, quindi la religione oppio dei popoli, la seconda più positivo, perché dice che il cristianesimo è una forma di volontà di liberazione. Però poi ho scoperto che la stessa definizione valeva anche per il comunismo, cioè che anche il comunismo è l’oppio dei popoli. Poi, oltre a questi filoni cattolici, Don Milani è stracitato, però chi lo leggeva in un paio d’ore, si rendeva conto dell’energia, si rendeva conto delle nervature, delle strutture di classe della società italiana e della scuola italiana e veniva preso quindi da grande rabbia di voler cambiare questo sistema che teneva fuori i poveri. Poi c’è tutto il filone Marxista di sinistra, che però è minoritario in quegli anni. C’è il vecchio PCI di Togliatti, che puntava molto sui processi riformistici dell’Est europeo. Col suo Memoriale di Yalta dell’agosto, scritto prima di morire nel 1964, dà un appoggio cauto ai movimenti di riforma nell’Est europeo, mai ai dissidenti questa speranza verrà bruciata con il fallimento della Primavera di Praga e questo spiega perché sulla Primavera di Praga si impegnarono soprattutto i Comunisti Riformisti di sinistra e non il Movimento, perché il Movimento si faceva poche illusioni sulla possibilità che il Comunismo potesse riformarsi dall’interno. Poi c’era l’ala Maoista. che in Italia era sostenuta da gruppi Marxisti Leninisti compreso Brandirali, mi pare, no? che accusavano il vecchio PC e anche l’Unione Sovietica di revisionismo, in nome della purezza del messaggio marxista leninista. Poi c’era anche una versione rivoluzionaria del maoismo, che era la rivoluzione culturale, che a noi venne venduto come una grande rivoluzione libertaria e la Rossana Rossanda e gli altri ancora adesso non hanno il coraggio di dire che hanno preso una topica pazzesca e ce l’hanno fatta prendere anche a noi, presentando una ferocie rivoluzione mongola come una rivoluzione comunista libertaria. Quando sono andato in Cina e ho conosciuto quelli della rivoluzione culturale di allora, mi hanno detto: “Guarda che qui il fiume delle Perle a Canton era pieno di cadaveri e di sangue”. Gli studenti cinesi avevano un modo molto speciale di fare la rivoluzione nelle scuole, salivano al primo piano, prendevano il Professore e lo buttavano giù dalla finestra, quindi c’era anche un certo ricambio che non è pensabile di applicare in Italia, nonostante abbiamo 250.000 insegnanti in più. Ma il filone più importante dal punto di vista del ’68 marxista è il filone cosiddetto operaista. Bruno Trentin, nel 1962, all’Istituto Gramsci, convocò un bellissimo convegno sulle tendenze del neocapitalismo italiano e lì fecero comparsa per la prima volta gli operaisti. Che cosa sostenevano gli operaisti? Cioè Tronti, Asor Rosa e chi altro? Cacciari è venuto un po’ dopo. Sostenevano questa tesi: che la contraddizione fondamentale secondo i classici del marxismo, che è la contraddizione fra capitale e lavoro, tra forze produttive e rapporti di produzione, non era più vera. Quindi era finito il conflitto tra padroni e operai, e quindi sindacato, partito operaio e così via. Perché ormai la potenza del neocapitalismo era tale che le forze produttive avevano inglobato i rapporti di produzione e quindi la contraddizione era scomparsa. Allora bisognava cercare il protagonista delle lotte della rivoluzione fuori dal circuito classico partiti sindacati, padroni, sindacati, operai eccetera.. bisognava puntare su quello che Tronti chiamava la razza pagana, gli operai, che poi erano i contadini venuti dal Sud che erano stati buttati nella fornace di una fabbrica, non si adottavano ai ritmi di lavoro e tendevano a essere indisciplinati. Ecco, loro si fondarono su questa resistenza antropologica a un passaggio dalla campagna alla città, alla fabbrica, dicendo che erano i semi del comunismo. Queste cose verranno fuori dopo e infatti il pensiero operaista è alla base teorica, ideologica del Partito armato di seconda generazione. Io penso di avere già esaurito più o meno i miei tempi, dirò solo una cosa: che cosa ci faccio qua? perché è un po’ il punto. Allora io, dopo tutto questo giro, il ’68, il PCI, l’area riformista del PCI, un pezzetto perfino di area radicale, sono arrivato alla seguente conclusione, che io sono sicuro che voi tutti trovate banali queste cose e cioè che la storia dell’uomo non zampilla né dallo stato, né dall’economia, né dai partiti, né dai soggetti collettivi. La storia dell’uomo zampilla dal cuore dell’uomo, inteso in tutta la sua potenza semantica di significato, ciò che fa la storia è quella roba lì. Per cui lo slogan che noi avevamo, che bisogna prima cambiare le strutture per cambiare l’uomo, andava e doveva essere ed è rovesciato e rovesciabile. Del resto lo diceva Gandhi: il cambiamento che voi volete fuori sia innanzitutto dentro di voi. L’altra cosa e concludo, è che ho capito che il comunismo è stato per me, per noi, il sostituto della religione, il moto di rivoluzione, perché avevamo pensato, io e la mia generazione cattolica di quegli anni, che la Chiesa stava tradendo l’umanità. Se in un primo tempo pensavo che la Chiesa fosse la schiuma dell’onda, dell’umanità e che valesse la pena di gettarci la vita se necessario, poi invece, ho realizzato che i nostri parroci, con la Chiesa italiana e così via, erano un’altra cosa, quindi sono scivolato verso il comunismo come istanza di liberazione. Ma infine ho capito questa cosa molto semplice, che il comunismo non è, come dice la new age di Bertinotti, una bellissima idea che in questo mondo imperfetto si realizza imperfettamente, il comunismo è una pessima idea ma realizzata perfettamente e dì lì in avanti… Oh basta!

MODERATORE:
Ricordo che Don Giussani, incontrando uno dei ragazzi della CL di allora, di GS che faceva l’Università e che stava partecipando a una occupazione gli domandò: “Cosa fai qua?” E lui gli rispose: “Partecipo al Movimento che fa la storia”. E Giussani di rimando: “Il movimento che fa la storia è il movimento che fa il cuore del mondo!”.
Modiano.

PIETRO MODIANO:
Alla domanda che ci faccio qui con cui conclude Cominelli, dovrei cominciare. Io avevo 16 anni nel ’68 e 16 anni sono pochi, eran pochi anche allora. Il mio ’68 che è diverso dal ’68 di Cominelli, dal ’68 di Cesana anche per motivi di anagrafe, perché allora come oggi avere 16 anni è diverso da averne 25. Io non mi sono accorto di niente, niente di quelle tendenze culturali, di quelle divisioni che stavano sotto quel movimento che nasceva e che poi a posteriori si possono rintracciare e che Cominelli rintraccia. Io non me ne sono accorto, non avevo letto abbastanza libri, avevamo letto appena i giornaletti a 16 anni. La storia di allora per me non è una storia di divisioni. Il movimento per definizione è una cosa che unisce, cioè la bellezza e la forza dei movimenti non è che fan la storia, i movimenti non fanno la storia, i movimenti sono onde che qualche volta nella storia si formano e poi a volte creano grandi disastri, a volte finiscono nella risacca, ma non fanno la storia, la storia è altro, è il quotidiano. La storia noi siamo abituati a identificarla in numeri,per cui ogni 10 anni si parla del ’68, ma i movimenti non fanno la storia. Io non credo che la storia di Italia, di oggi, abbia a che fare con quella storia lì, di quel movimento; non lo credo, non lo vedo in me, poi possiamo discuterne, ma non lo credo, non lo vedo in me. Perché quella è una storia diversa, del movimento visto da un 17ennne, 18enne,19enne, forse 20enne di allora che non aveva la divisione, non aveva letto i Quaderni rossi, non sapeva di Mao Tze Tung, andava in Chiesa come tutti noi, praticanti eccetera.. Era una storia di unione. La cosa bella del ’68 è che ci siamo uniti, che si è unita una generazione, altrimenti non si spiega perché ancora ci si emoziona a parlarne. Ci siamo uniti nonostante, ma ci siamo uniti, ci siamo uniti su qualche cosa di importante. Il ’68 mio non è cominciato con l’occupazione di Palazzo Campana del ’67 a Torino, che tutti gli storici del ’68 dicono essere l’inizio del ’68 italiano; chi se ne frega. Il ’68 mio, se devo mettere una data, comincia il 23 agosto del ’63, quando ci fu la grande manifestazione a Washington per i Diritti Civili, quella di “I have a dream”, era quella roba lì. Il nostro ’68, quello europeo, nasce da una situazione mondiale in cui una generazione ha cominciato a pensare che i grandi conflitti lasciati irrisolti dalla guerra non potevano che essere risolti e non potevano che essere risolti pacificamente, perché ce ne erano le culture e le risorse materiali. Era nato così: il dopoguerra, il benessere, il senso dell’ingiustizia, la ferocia dell’ingiustizia in un mondo che invece cominciava a creare benessere, l’inaccettabilità dell’ingiustizia. Questa nasce dai cuori, non nasce dai libri, e ognuno di noi ha le sue icone: per me è quella lì. Poi me lo sono rivisto, rivisto a colori, ma ce lo siamo visti a colori, perché noi si vedevano i telegiornali e poi si andava a letto dopo Carosello, che i giovani che sono qui non sanno nemmeno che cosa sia, ma era quella roba lì: telegiornali in bianco e nero che vedevamo perché ci colpivano queste cose, i ghetti neri che esplodevano, violenza e non si capiva. Poi abbiamo un sogno, dove c’erano i reduci dal Vietnam, ti ricordi no? Le donne, i neri, i bianchi che avevano aiutato i neri, gli studenti e “I have a dream”. Non è che voglio fare la rivoluzione e il dream è il dream americano, il sogno americano più la giustizia. Questi eravamo noi. I cuori sono quella cosa lì, questa è una cosa che è nata tutta dal cuore e poco dall’intelligenza, quindi era molto unitaria, molto semplice. Abbiamo semplificato il mondo e ci siamo uniti e abbiamo fatto un sacco di scemenze. Perché abbiamo fatto un sacco di scemenze? Perché ognuno faceva per conto suo, perché nella singola scuola ognuno faceva per conto suo; a Milano quel che facevamo al Manzoni, al Parini, all’Università era diverso. Ognuno si inventava una roba: c’era quello che aveva inventato Che Guevara, bisognava fare cento, mille Vietnam e io mi ricordo un corteo interno contro una sventurata Professoressa di Chimica, che insegnava male però, che si chiamava Basso, corteo interno e si diceva “la Basso sarà il nostro Vietnam”. Eravamo la seconda liceo di un liceo di Milano, facevamo le nostre scemenze ma tutte all’interno del nostro sogno: quella arrivava in ritardo, spiegava male, ci stangava, avevamo visto che l’aria che tirava permetteva di ribellarsi contro quelli che insegnavano male e abbiam fatto quella roba lì. Mi ricordo un’assemblea del Manzoni, feroce, divertentissima. Prima c’era un giorno di ferie, a l’anniversario della vittoria del ’15 -’18, il 24 Maggio credo, e noi volevamo abolirla perché eravamo pacifisti, e abbiamo occupato la scuola durante le vacanze, non abbiamo voluto fare la vacanza, coi professori più o meno costretti a insegnare, facendo seminari più o meno assurdi, perché ce li gestivamo per conto nostro, sull’orrore della guerra e studiavamo. Non volevamo andare in vacanza, no, si tiene aperta la scuola. A scuola nel 1968 ci si fermava coi programmi di letteratura a Giovanni Verga, prima del ’15 -’18 in storia e la storia dell’arte si fermava prima degli Impressionisti. Noi dicevamo che volevamo studiare, non dicevamo non vogliamo studiare, avevamo occupato la scuola alle 7.30 di mattina per studiare gli impressionisti. Sembran scemenze. L’aula magna piena del Manzoni, piena alle 7.30 di mattina. Uno si sveglia un’ora prima, con il professore di storia dell’arte: questa era una forma creativa di lotta del ’68, e Quaderni rossi, le guardie, non c’entravano ancora niente, c’era ancora GS. Però mettete insieme l’idea che ribellarsi era possibile e la marea montante di quello che vedevamo in televisione e leggevamo male sui libri, è venuta fuori quella roba. Che era una cosa straordinaria perché era una cosa unitaria, ha ragione Alberoni, era come l’innamoramento, era tutto di cuore, e ci si divertiva pure. Non ci si divertiva perché c’era il libero amore, addirittura non mi sono accorto, neanche tu credo, spinelli, hai mai visto uno spinello?
Hai mai visto uno spinello? Io non ho mai visto uno spinello, mai. Quello è venuto dopo, dopo, dopo, dopo. Picchiavamo quelli che partecipavano alle assemblee, che facevano le occupazioni con la canna, via. Eravamo bravi ragazzi, di buona famiglia alcuni, alcuni menati dai genitori. Ho fatto l’occupazione del Manzoni, sono tornato, mi ha portato via un poliziotto enorme, avevo appunto 16 anni, il poliziotto ci ha trattato bene, ma mio padre me ne ha date un sacco e una sporta. Però poi torni in classe e sei un eroe. Questa è stata la cosa bella, piena di buone cose. E non c’erano i cattivi, non è che c’erano i fascisti. Poi ho scoperto che c’erano anche a Roma, state tranquilli. I fascisti erano quelli che volevano che i negri fossero picchiati nei ghetti. Stavano zitti. I liberali, GS, erano tutti insieme. Avevo un amico sionista, gli piaceva Israele, diceva io sono Davide contro Golia, e noi siamo Davide contro Golia. La cosa bella è che noi ce la siamo fatta, ce la siamo organizzata, non ce la siamo scelta. E’ dopo che i giovani hanno scelto se schierarsi o no. Io mi schieravo ogni giorno, sceglievo. Decidere se alzare una mano in assemblea o intervenire in un modo o nell’altro era una scelta personale. Poi litigavi con i tuoi compagni di classe, etc. Questo è il movimento del ’68 che ci ricordiamo. I movimenti finiscono, normalmente finiscono male, perché è tale la carica di aspettativa, di speranza, di energia, che la storia non la contiene. E lì comincia il problema vero. La storia non la contiene tutta. Non c’è una storia che la contiene tutta. La storia individuale è un altro discorso. In Italia il movimento si è fratturato troppo presto e troppo male, questa è la mia idea. E Giovanni Cominelli dice una cosa verissima, quel movimento è finito con piazza Fontana. In Francia il movimento era più solido. Hanno occupato la Sorbona, la polizia ha circondato la Sorbona, gli studenti hanno circondato la polizia che circondava la Sorbona. De Gaulle dice: per uscire dall’assedio sparate pure. Il prefetto di Parigi ha detto io non sparo, e anzi li ritiro. Hanno ritirato la forza pubblica, ed è stata una grande festa a Parigi. Questo ha rilanciato un po’ il ’68, ma ha disinnescato una bomba spaventosa. Noi in quegli anni non abbiamo avuto il nemico, lo dicevo prima. Il 12 dicembre abbiamo visto che il nemico c’era. Era un nemico brutto, era quello che aveva ammazzato Kennedy, quello che vuole male agli uomini, che ha ammazzato Martin Luther King etc. E si è manifestata la cattiveria. Lo scontro. E li ci siamo fratturati. Fra comunisti, estremisti, etc etc.
Lì abbiamo perso la verginità e abbiamo perso il movimento. Siamo diventati cattivi. Mario Capanna racconta di questo slogan: quelli di prima sono stati formidabili, dopo non lo sono stati più. Io credo che il potenziale per renderli un po’ meglio ci fosse, se non ci fossimo scontrati con un nemico strano, oscuro, cattivo. Quel movimento poteva crescere meglio. Giovanni Cominelli ed io ci ricordiamo, dopo le bombe di piazza Fontana, l’Italia era sotto shock, perché è stato lo shock collettivo più grosso d’Italia, era tutto grigio, buio, avevamo paura tutti. La polizia mise in galera uno studentello del Manzoni, anarchico, e capite che cosa succede in una scuola. Bravissimo figliolo, in galera, 16 anni, 17. Proibite tutte le manifestazioni. Avevi visto Zeta di Costa Gavras, e c’erano i colonnelli in Grecia, non è che era per finta. E noi abbiamo detto siamo lì, e di fronte a quel siamo lì, per la verità il movimento degli studenti, quello con la minuscola, ha reagito molto bene. Io sono di Milano. I funerali di piazza Fontana sono stai la prova che l’Italia ce la poteva fare. E le manifestazioni le abbiamo fatto due mesi dopo. Però ci siamo divisi. Lì ci siamo divisi. Ci siamo incattiviti, servizi d’ordine, tutta l’esperienza da un certo momento in poi è stata tutta negativa. Poi ognuno ha preso la sua strada. Io sono andato a lavorare in banca. Io sono andato militare. La mia frattura personale è avvenuta quando hanno ammazzato Roberto Franceschi, amico nostro. E sappiamo perché. Io me ne sono andato soldato perché non ne potevo più, cioè non riuscivo a rimettere insieme i cocci del paradiso perduto e di un itinerario che non mi portava da nessuna parte.
Io ho alzato le mani, come tanti di noi. Resta nella vita anche dei cinquantenni quel sogno di prima. E’ buono o cattivo? E’ buono. E guai se si pensa che fosse cattivo. Perché quel sogno era buono. E se si pensa che fosse cattivo, pensateci due volte. Perché vuol dire che non c’è speranza che si possa creare qualche cosa tutti insieme, al di la delle sigle e delle appartenenze, in nome di un progetto collettivo in cui riconoscersi. Perché quello è stato il momento in cui ci è sembrato possibile. Il fatto che ci sia sembrato possibile, che per un certo momento sia stato possibile, o si sia creduto possibile in tutto il mondo, è un valore in sé, ingenuo, ma secondo me che fa bene, che migliora, più di quanto non sia l’alimentazione di rimorsi che non hanno giustificazioni. Io credo che quella parte di noi sia la parte migliore.

MODERATORE:
Grazie. Mi sa che l’unico che era in università nel 1968, sono io.

GIOVANNI COMINELLI:
No c’ero anch’io, e facevo l’assistente.

MODERATORE:
Eri gia in università?

GIOVANNI COMINELLI:
Assolutamente sì.

MODERATORE:
Siamo in due. Anche noi a medicina abbiamo occupato nel novembre, ma una cosa importante che ha detto Modiano è che il ’68 è cominciato negli anni precedenti, cioè è la maturazione di un processo del dopoguerra. Lui fa riferimento appunto al ’63, a tutto il movimento americano, al movimento contro la segregazione razziale. E’ stato questo mondo, questo mondo di ribellione fondamentalmente giovanile, di fronte ad una tradizione che non riusciva più ad essere presente, non riusciva più ad essere la tradizione della Chiesa, la tradizione dell’Accademia, la tradizione della cultura. Giustamente è stato detto, eravamo tutti ragazzi per bene, che andavano a Messa: non teneva più. E quando la tradizione non tiene più qualcuno si ribella, soprattutto si ribella se gli sembra di avere uno strumento per ribellarsi. L’ideologia fu questo strumento. Il fatto che ci sia stato il PCI in Italia non è assolutamente secondario. Io mi ricordo di ragazzi del PCI che mandavano in università durante l’occupazione per cercare di coordinare diciamo l’avanzamento, poi questi qui passavano al movimento studentesco e lasciavano lo stesso PCI. Questo era il problema che loro avevano.
Ecco io, siccome dentro questa ribellione, dentro questo tentativo di riprendersi, c’è, come è stato detto, una tensione positiva, io la domanda che farei a loro due, Modiano ha gia in parte risposto, però forse magari si può dettagliare un po’ di più, è che cosa è rimasto di positivo, perché noi del ’68 siamo i padri dei giovani di oggi. Che cosa dobbiamo dire a loro di quello che noi siamo stati?

GIOVANNI COMINELLI:
Ho letto il sesto rapporto sulla condizione giovanile in Italia, pubblicato da dell’Istituto IARD a novembre dell’anno scorso, che esamina appunto la condizione giovanile. Intanto dice: i giovani sono quelli che hanno dai 15 ai 34 anni.
Secondo: sono disperati, sono chinati sul presente. Ma se voi leggete il sondaggio Gullop, commissionato dall’Unione Europea, che confronta la condizione dei giovani italiani, che è stato pubblicato il 20 agosto, cioè qualche giorno fa, vedete che i giovani italiani sono i più pessimisti e non vedono futuro e dunque sono chinati sul presente, che consumano in maniera compulsiva e nichilistica. Dunque, noi avevamo una speranza che abbiamo riposto prima nella Chiesa; io mi ricordo gli anni ’50, la colonna sonora della mia prima infanzia e prima adolescenza era il Christus Vinci, Christus Regnat, Christus Imperat, le processioni del Corpus Domini, l’ostensorio d’oro, i preti che tiravano fuori tutte le cose d’oro, il popolo che seguiva, le Figlie di Maria e quelle di Gesù. Dopo di che abbiamo scoperto che sotto questo trionfalismo della Chiesa neocostantiniana di Pio XII c’era il nulla. Allora abbiamo cominciato a dire: ma se la religione non mi dà uno sguardo più limpido e più forte sul mondo, un’intelligenza maggiore del mondo e una capacità di amare l’uomo e di fedeltà alla terra, a me di questa religione non me ne frega. E quindi siamo passati verso lì. Però anche passando al comunismo, o a quella roba lì che chiamavamo comunismo, ma nessuno sapeva esattamente cosa fosse, era l’altro nome del cristianesimo. In realtà, noi avevamo la speranza di cambiare il mondo, poi chi lo cambiava il mondo sia se stessi o viceversa, ma comunque c’era questa idea. Allora qual è il punto adesso per queste giovani generazioni che abbiamo davanti? Io non credo che le giovani generazioni di adesso siano peggiori di noi. Non credo che siano senza speranza. Questa ideologia per cui abbiamo davanti una generazione perduta, nichilista, scettica, infantile eccetera, è una proiezione della mancanza di speranza della generazione adulta di adesso. Non so se avete presente Bertold Brecht, immagino che non è la vostra lettura principale, però Bertold Brecht ad un certo punto descrive questa scena: il compagno del partito comunista della DDR che va da Ulbricht e gli dice: compagno, il popolo non è d’accordo col Comitato Centrale, e Ulbricht risponde: cambiate il popolo.
Allora, molti di noi, anche nelle scuole e non solo, credono che il problema sia non cambiare strutture obsolete, corporative, la difesa dello stato esistente, credono che sia necessario cambiare le generazioni. Invece, la classe politica e dirigente di questo paese deve smetterla di stare chinata sul presente, perché la loro, la sua mancanza di speranza diventa diseducativa per le giovani generazioni. Per cui io penso questo, in breve, insomma, dall’alto degli anni, dell’esperienza, della vita, eccetera. Bisogna che noi, ciascuno di noi, torni ad essere testimone di speranza presso gli altri. Testimoni, non avanguardia. A suo tempo, io pensavo di essere una avanguardia, cioè di quelli che vedono la verità e dicono al popolo: corri, vienimi dietro. Adesso sono passato alla tesi che mi piace molto di Ratzinger. Avete presente, quello lì vestito di bianco, ecco. La minoranza creativa. La minoranza creativa non è un’avanguardia, non è uno che crede di aver percepito la verità, di avere la chiave dell’episteme, della storia. È uno che vede e che cammina. Più si moltiplicano le persone che vedono e che camminano e che cambiano, secondo me, più è possibile cambiare questo paese e quindi cambiare anche il futuro delle giovani generazioni, perché, alla fine della fiera, di questo si tratta.

MODERATORE:
Pietro.

PIETRO MODIANO
No, niente, chiude Giovanni perché io sono d’accordo con quello che ha detto Giovanni. Credo che sia la cosa giusta, l’unica cosa che chiedo ai giovani e ai meno giovani, e ai miei colleghi quando mi succede, che mi viene dal ’68, e che è vero che c’è una responsabilità di chi ha responsabilità, ma c’è anche una responsabilità di chi non ne ha o ne ha di meno. E la nostra forza, non ne avevamo di responsabilità, è di prendercele, non aspettare che qualcuno ce le dia. Io mi sono scoperto a una riunione grande come questa, con i direttori di filiali nostri, dicendo una cosa che mi è venuta da qua: guardate che da noi l’obbedienza non è una virtù, e l’ho detto io, che faccio il direttore generale di una banca. Peraltro Bertold Brecht è lo stesso che dice: è meglio rapinare una banca che dirigerla.
E io ho detto ai miei colleghi, guardate che l’obbedienza non è una virtù, ma lo è la disciplina, l’assunzione responsabile e disciplinata delle responsabilità, dei compiti e dei ruoli. Ma l’obbedienza non è una virtù. Questo è un valore. Noi abbiamo bisogno di disobbedienti, perché senza disobbedienza non cresce nulla. La chiesa è un dogma, la chiesa è un corpo vivo, i partiti sono burocrazia, i partiti sono corpi vivi, le istituzioni sono oppressive se non c’è il diritto che tutti individualmente si assumono a dissentire, a non rassegnarsi. E io credo che questo diritto di non rassegnarsi è un dovere, e non va delegato, perché il non rassegnarsi dipende da uno sforzo che ognuno singolarmente, da solo, deve fare. Guardate, io mi sono visto la mostra delle carceri di Padova: Dio mio, questi non si rassegnano mica. Cioè l’energia viene dall’individuo, e io sono d’accordo con te. Viene dal cuore individuale, non si delega. Il progresso delle comunità viene dagli individui che ne scelgono liberamente di farne parte.

GIOVANNI COMINELLI:
Abbiamo accettato di essere marxisti, caro compagno Modiano.

PIETRO MODIANO
E se ne fanno parte, ne fanno parte in nome di un progetto che, di volta in volta, verificano dentro di sé e con quelli che hanno delegato a guidarli. E disobbediscono. Perché l’obbedienza non è una virtù e il dissenso è il sale del mondo e lo fa vivere. Il dissenso fa vivere i progetti in cui, di giorno in giorno, si sceglie, ma si sceglie, di essere parte. Io credo che voi siete un pezzo che ragiona così e mi dà qualche speranza in più, grazie.

MODERATORE:
Grazie. Per concludere dico, appunto, dove ero io. Io ero su un tragitto che partiva, per le ragioni che dicevo sopra, dall’inconsistenza della tradizione. Io sono della Brianza, famiglia operaia, se non si andava all’oratorio il prete non telefonava, perché non c’era il telefono, passava a casa ad avvertire, quindi il controllo sociale ed ecclesiastico era assoluto. Ma mi ricordo che quando andavo a catechismo, avevo cinque anni, la suora non voleva che andassi con i calzoni corti, perché davo scandalo. Siccome mia mamma era un’anticlericale accanita, mi mandava sempre con i calzoni corti, e la suora mi metteva uno straccio sulle gambe, oppure ci mettevano le calze bianche per andare in processione. Questo è il mondo in cui appunto siamo cresciuti, che ai dodici anni non teneva più, ai tredici anni, insomma nell’adolescenza, non teneva più. E io ero sul cammino che si distaccava sempre più, senza diventare atei, eccetera. E nel ’68, appunto, partecipai anch’io ai moti. Lui dice che è cominciato con l’occupazione della Cattolica, secondo me abbiamo occupato prima Medicina.
Occupammo Medicina, perché vennero quelli degli anni alti alla lezione di Anatomia, dove c’eravamo noi matricole – e andavamo tutti a lezione, dovete pensare che una volta alla lezione universitaria, il professore faceva la sua lezione e alla fine c’era l’applauso, perché era una lezione accademica. Noi eravamo lì tutti, e all’esame di Biochimica ne avevano bocciato, che ne so, novantotto su centosei, per cui l’occupazione dell’università. Io sono uscito dall’università sei anni dopo, era ancora occupata. Quindi figuratevi come ho studiato, e come abbiamo studiato per tanti anni. E comunque, partecipando ai moti mi è successa una cosa che ho già detto tante volte. Mi sono innamorato di una che aveva un grandissimo difetto: non ci stava. Per cui, lottando per la giustizia, io ero l’oggetto della più profonda ingiustizia, perché dipendevo totalmente dalla libertà di un altro. Io sono andato in crisi su questo, perché ho cominciato a pensare che i casi sono due: o io sono fatto in modo sbagliato, o ci deve essere una risposta che mi deve essere data e che non dipende da me, io non sono capace di darmela. Questo mi fece incontrare don Giussani e il movimento. E mi fece capire, a poco a poco, quello che ha letto il vescovo di Rimini dell’Introduzione al Cristianesimo di Ratzinger, in cui Ratzinger dice che noi pensiamo che la felicità, che la nostra felicità dipenda da quello che facciamo, mentre la nostra felicità dipende soprattutto da quello che riceviamo, perché essere amati è un atto di libertà di un altro. E in questo sta la consistenza del nostro essere: essere voluti. Ecco, io ho capito questo, e l’ho capito poi a fondo con don Giussani, nel movimento. Perché don Giussani che cosa fa? Don Giussani, anche lui era critico nei confronti della tradizione, ma bisogna intendere bene il concetto di critica, perché il concetto di critica che noi abbiamo, in genere, è un concetto distruttivo, mentre critica, in greco, vuol dire vaglio, cioè tra le cose che non vanno vedere quelle che vanno. Questa è la critica, non vedere le cose che non vanno, perché vedere le cose che non vanno sono capaci tutti. Ecco, don Giussani era fortemente critico, e che cosa fece? Praticamente, ha rifatto il cristianesimo per essere cristiano, cioè non ha mollato la tradizione, non ha mollato quello che è dato, ha cercato di rendere ragione a se stesso e agli altri di quello che gli era stato dato, perché tutto questo patrimonio non poteva essere buttato via. La ragione per cui Comunione e Liberazione, l’unico movimento del ’68 che c’è ancora adesso, è questa. Non abbiamo buttato via il passato, abbiamo vissuto il passato, abbiamo, come si chiama, abbiamo guardato al passato dentro un incontro presente, dentro qualcosa di presente. Per cui per me sono stati anni affascinanti, di tutto un altro ’68, non quello di cui hanno parlato loro. Quando voi leggete i libri di don Giussani sull’Equipe, cioè sui momenti di conduzione della realtà universitaria di Cl, vi rendete conto che sono stati anni affascinanti, perché abbiamo praticamente ripensato tutto, con la pressione di loro addosso. Per cui noi, per poter dire una cosa, dovevamo assolutamente rendere ragione. E questo, ragazzi, è il massimo della vita, e la ragione per cui la chiesa dice che nel martirio, cioè nel rendere testimonianza, la chiesa si costruisce. Rendere ragione di quello che si è, non di quello che si era, di quello che si è adesso, senza buttare via niente di quello che c’è stato. Questa è la nostra forza, e la ragione per cui noi siamo quello che siamo.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008

Luogo

Salone D7
Categoria
Incontri