’68 E OLTRE. SCUOLA E UNIVERSITÀ IN UN MONDO CHE CAMBIA: SFIDE ANTICHE IN UN MONDO NUOVO?

’68 E OLTRE. SCUOLA E UNIVERSITÀ IN UN MONDO CHE CAMBIA: SFIDE ANTICHE IN UN MONDO NUOVO?

Partecipano: Juan Carlos De Martin, Delegato del Rettore del Politecnico di Torino per la Cultura e la Comunicazione; Javier Prades López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid; Gianfranco Viesti, Professore Ordinario di Economia Applicata nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università “Aldo Moro” di Bari. Introduce Stefano Buongarzone, Studente all’Università Cattolica di Milano.

 

Ore: 19.00 Arena della Storia A5
’68 E OLTRE. SCUOLA E UNIVERSITÀ IN UN MONDO CHE CAMBIA: SFIDE ANTICHE IN UN MONDO NUOVO?

Partecipano: Juan Carlos De Martin, Delegato del Rettore del Politecnico di Torino per la Cultura e la Comunicazione; Javier Prades López, Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid; Gianfranco Viesti, Professore Ordinario di Economia Applicata nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università “Aldo Moro” di Bari. Introduce Andrea Scalia, Studente all’Università Cattolica di Milano.

ANDREA SCALIA:
Buonasera a tutti. Grazie a voi che ci siete, grazie innanzitutto ai relatori, capirete quanto è prezioso il tempo che ci stanno dedicando. “Anche se tutti ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti”, è il titolo dell’ultimo pannello della mostra che dialoga con questo spazio ma è anche il titolo di un cartellone che qualche mese fa alcuni ragazzi in Università Cattolica hanno appeso. Cito il testo per introdurre l’incontro, perché è nato proprio da lì, da questi studenti che a un certo punto si sono fatti delle domande: «Un’ora di lezione e un professore che risponde alle domande degli studenti; inizia così un appassionante dialogo sulla materia in questione. Un dialogo che nella pausa va a toccare un tema caldo: è difficile coinvolgere quando per un docente ci sono centinaia di studenti. Dalla condivisione di questo episodio nasce però una domanda. Che cos’è l’Università? Chi oggi ha un pensiero costruttivo sull’Università? Anzi chi oggi ha un pensiero sull’ Università? Abbiamo davvero studenti e docenti con queste domande o le sacrifichiamo alla paura, alla pura lamentela o all’efficientismo? A queste domande si può rispondere solo a partire da quello che c’è, non abbiamo bisogno esclusivamente di una risposta strutturale, abbiamo bisogno di uomini da cui imparare. In un mondo che ci spinge ad accontentarci, perché essere felici pare impossibile, in un mondo che non vuole farci credere niente, tantomeno nelle persone, noi crediamo che proprio dalle persone si debba ripartire. Fino a che ci sarà uno studente bisognoso di imparare e un docente desideroso di insegnare, forse ha senso parlare di Università». E poi conclude con delle domande: «Voi professori, perché siete professori? Che responsabilità vivete nei nostri confronti? C’è qualcosa che ci volete tramandare? Cosa vi aspettate da noi? Siete professionisti o maestri? E tu, studente, cosa vuoi dall’Università, vuoi solo skills o vuoi diventare adulto? Cosa cerchi in un professore? Una conferma rapida e indolore, un erogatore di servizi o un maestro? Ogni istituzione, infatti, è composta da uomini e la tensione alla persona e al mondo e responsabilità di tutti i soggetti coinvolti». Ecco come nasce questo incontro, dal desiderio di alcuni studenti di ritornare a mettere a tema il ruolo e il compito delle sfide che nascono nel luogo in cui viviamo tutti i giorni. È per questo che abbiamo deciso di invitare questi tre professori, che hanno deciso di rispondere alle provocazioni lanciate da questo cartellone, da noi studenti. Non è stato facile trovarli. Perché si parla tanto di Università, all’interno dell’Università, anzi al bar, negli uffici, con i docenti, ma c’è una disillusione di fondo perché il contesto in cui viviamo, politico e sociale, sembra considerare poco l’Università. La politica evita di parlare dell’Università, è un argomento difficile, l’abbiamo visto nelle elezioni del 4 marzo. La società la guarda a distanza, quasi un passaggio obbligato prima del mondo del lavoro. Ma cos’è l’Università? Ecco allora che ci sorprende e ci riempie di gratitudine incontrare tre docenti che invece hanno preso la sfida di rispondere alle nostre domande. Questo perché prima di tutto si sono interrogati su questo, soprattutto il professor Viesti e il professor De Martin che ringrazio infinitamente per la loro presenza. E poi, ultimo ma non ultimo, il professor Prades Lopez, che non abbiamo mai sentito parlare di Università e per questo gli facciamo queste domande, vogliamo sentirlo parlare di Università. Mi accingo quindi a presentare in modo veloce questi docenti, sarebbe molto più lunga la loro presentazione. Innanzitutto il professor Viesti, ordinario di Economia applicata all’Università Aldo Moro di Bari, ha lavorato molto su temi internazionali grazie a diverse collaborazioni con l’Ocse, la Banca Mondiale, l’Unido, cosa che lo ha portato a tenere diverse conferenze in tutto il mondo. È editorialista di diversi giornali, lo è stato del Sole 24 Ore, di Avvenire, lo è tuttora del Mattino, del Messaggero, fa parte del comitato di direzione della rivista Il Mulino e si interessa anche di attività politica. Perché l’abbiamo invitato? Lo abbiamo invitato grazie al suo testo di recente pubblicazione: La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria. È un testo che analizza e critica puntualmente l’Università, non è un discorso da bar, è un lavoro scientifico, il frutto di un lavoro scientifico che nasce da una serie di studi e di interventi che sono raccolti in un testo, questo sì, scientifico e non divulgativo, Università in declino, che ha avuto, ci raccontava il professore, un certo successo all’interno del contesto universitario. Presento poi il professore Juan Carlos De Martin, che è professore presso il dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino ed è delegato del rettore per la cultura e la comunicazione. Dirige il centro Nexta per internet e società, che ha fondato nel 2006. Dal 2011 collabora con il Berkman Center for internet e society dell’Harward University. Dal 2014 al 2018 ha collaborato in una commissione di studio sui diritti in Internet istituita dal presidente la Camera dei deputati e fa parte del comitato scientifico dell’Enciclopedia Treccani e di Biennale democrazia. È inoltre editorialista per il giornale La Repubblica. Lo abbiamo invitato perché l’abbiamo conosciuto grazie al suo testo Università Futura, tra democrazia e vita, che è una considerazione della società contemporanea alla luce della domanda: che cosa è l’Università? Non è una semplice critica al contesto universitario lacunoso ma ha l’obiettivo di formulare un’idea di Università che risponda alle problematiche del mondo contemporaneo. Anche di questo testo è interessante la genesi, perché è una genesi lunga di studio e di fatica, che nasce da una provocazione che nel 2007 il professore riceve da un altro docente dell’Università di Harvard, Charles Nesson, con cui collabora da almeno due anni e da cui sono nati tutta una serie di incontri ed eventi che formano questo testo. Ultimo, ma non ultimo, il professor Javier Prades López, che è il rettore dell’Università ecclesiastica di San Damaso a Madrid e docente di teologia dogmatica e fondamentale. È membro della Commissione teologica internazionale ed esperto della valutazione accademica, nominato dall’“Agenzia della Santa Sede per la valutazione e la formazione della qualità dell’Università e delle facoltà ecclesiastiche”. Lo abbiamo invitato dopo averlo sentito parlare ad un incontro al centro culturale di Milano “Dal Mediterraneo all’Europa la testimonianza in una società plurale”. Abbiamo sentito parlare il professor Prades dei problemi della società contemporanea ed essendo lui rettore ha molto a che fare con il mondo dell’Università. Abbiamo fatto questo nesso: chissà cosa dice il professore di questa Università e lo abbiamo invitato per chiederglielo. E quindi lascio a parlare i professori. Partirei da una domanda che rivolgo a tutti: In un contesto particolarmente avverso al mondo universitario, specialmente quello della politica e della opinione pubblica italiana, perché vale ancora la pena di scommettere sull’Università? Nelle vostre esperienze di docenti universitari, dove riscontrate una possibilità che vi sia valore aggiunto non solo per la formazione professionale del singolo studente ma anche per la sua crescita personale e in generale per la società in cui è immerso?

GIANFRANCO VIESTI:
Buon pomeriggio e grazie a voi per l’invito, per questa accoglienza così calda e folta. Io userò il mio tempo per rispondere alla domanda ma anche per raccontarvi che cosa ci faccio qui, perché io mi occupo di economia, di sviluppo economico e mi è capitato un tre anni fa di incrociare, come oggetto di studio, il sistema universitario italiano. Il sistema universitario, e dunque la dotazione di un paese o di una regione di cittadine e cittadini con livelli distruzione più alta, è un elemento fondamentale dello sviluppo. L’istruzione è una delle poche armi che abbiamo per combattere le disuguaglianze. Viviamo in un paese con una disuguaglianza tignosa, persistente, nel quale i figli dei ricchi hanno sempre molto più chance dei figli dei poveri e dunque l’apertura dell’istruzione universitaria è uno dei tentativi che si possono fare per avere una società più giusta, una società più dinamica, che premi le persone per quello che fanno. C’è una relazione strettissima tra Università, istruzione superiore e sviluppo economico. C’è sempre stata, ma attenzione, c’è molto di più oggi rispetto a vent’anni fa e ci sarà molto di più fra trent’anni rispetto ad oggi, perché viviamo in un mondo digitale, in un mondo con tanta automazione, nel quale le città, le regioni, i paesi che camminano, fra cui non c’è l’Italia, sono quelli che hanno una forza lavoro che ha un livello elevato di istruzione. L’Università non è tutto, l’istruzione formale non è tutto ma è importantissima, è una condizione necessaria anche se non sufficiente. Con queste idee in testa mi è capitato di incrociare la fondazione Res di Palermo, (che non esiste più al momento, è stata chiusa dopo poco perché ci mettiamo sempre tanto nel non sostenere le iniziative di politica culturale in questo paese, allora presieduta da Carlo Trigilia che forse qualcuno conoscerà, che è un sociologo italiano molto importante) e abbiamo fatto questa ricerca sull’Università italiana. Come è fatta l’Università italiana? Che sta succedendo nell’Università italiana? Quali politiche stiamo facendo per l’Università italiana? Devo dire che da allora mi sono molto appassionato, perché il tentativo è stato quello di uscire dal tecnicismo; l’Università è un tema che può essere di una noia sconvolgente, è pieno di norme giuridiche e amministrative, di aspetti interni, progressioni di carriera e invece ha degli aspetti politici, che dunque interessano tutti i cittadini, straordinari. La fortuna è stata di iniziare in un periodo di profondo cambiamento dell’Università italiana, un cambiamento che io giudico in maniera fortemente negativa ma che è un tema rilevante. Come dirò alla fine, è anche una metafora della politica più in generale. Quali siano le idee di ognuno di noi, a me sembra che l’Università italiana negli ultimi dieci anni sia stata totalmente abbandonata dalla politica, non si è discusso cosa farne, come cambiarla, c’è stato un vuoto molto forte di idee, e dunque si è trasformata in modo molto discutibile, si è trasformata per l’azione di alcune persone, di tecnici illuminati che avevano probabilmente un loro disegno ma un disegno che non è mai passato per le Camere, non è mai passato attraverso l’opinione pubblica. Veniamo al merito. Come era l’Università italiana nel 2008? Più che discreta, è la mia risposta sintetica. Naturalmente non era priva di problemi; aveva una parte del personale docente non sufficientemente qualificato, entrato per fenomeni di clientelismo, di nepotismo, aveva un grado di internazionalizzazione relativamente modesto, però, per tutti i dati che io riesco a vedere, se la giocava abbastanza bene, L’Italia aveva ed ha un buon posizionamento nella ricerca internazionale e soprattutto era Università piccola, molto più piccola di quella della Francia, della Spagna che aveva fatto una rincorsa straordinaria, della Germania e degli altri paesi. Dunque i risultati della nostra Università erano a mio avviso più che soddisfacenti rispetto alla sua dimensione. Era un po’ il prodotto del modello di sviluppo italiano, fatemi fare l’economista, cioè un modello nel quale servivano molto i meccanici e i sarti e meno gli ingegneri e i laureati in generale; un modello nobilissimo, figuratevi, qui siamo a Rimini, lungo la via Emilia abbiamo costruito la ricchezza del nostro paese con i periti industriali. Però un modello che, come purtroppo ci mostrano i dati dell’economia, ha cominciato a mostrare la corda, nel quale dobbiamo portare più conoscenza. Cosa abbiamo fatto della nostra Università? In primo luogo l’abbiamo resa molto più piccola di prima. Era piccola ed è diventata molto più piccola. In dieci anni ha perso circa un quinto della sua dimensione, in termini di studenti, anche se c’è stato un po’ di recupero negli ultimi anni, di docenti, di corsi di studio e, soprattutto, di finanziamento. Noi siamo abituati ad avere degli scarti con gli altri paesi avanzati europei, però bisogna capire quanto è lo scarto. Per capire quant’è lo scarto universitario non possiamo che ricordare che oggi destiniamo all’Università italiana risorse pubbliche per circa sette miliardi, la Germania per circa trenta miliardi; quindi non è un 40% in più è un 400% in più, è quattro volte; e non è solo la Germania, perché anche la Francia ha un 24%. Come si fa ad operare un taglio così grande al finanziamento dell’Università, di circa il 20% in termini reali? Lo si fa nell’unico modo e cioè bloccando il turnover, perché le spese dell’Università, in Italia come in altri paesi, sono prevalentemente lo stipendio dei docenti e dunque che cosa abbiamo fatto? La cosa a mio avviso più scellerata di tutte, abbiamo chiuso le porte dell’Università a un’intera generazione di studiosi. Abbiamo detto loro: se vuoi venire, vieni precario e sottopagato, senza prospettive di carriera, con un approccio classista, perché solo i figli dei ricchi possono permettersi tanti anni sottopagati senza prospettive, i figli dei poveri hanno necessità di lavorare e vedere retribuito il proprio lavoro. Altrimenti vattene, e tantissimi se ne sono andati. Quelli che sono rimasti, oggi fanno una parte notevole della didattica delle nostre Università, senza prospettive o con pochissime prospettive di carriera. Abbiamo regalato al resto d’Europa una parte della nostra migliore gioventù, li abbiamo fatti andare fuori. Dopodiché che altro è stato fatto? Bloccato il finanziamento pubblico, si è aumentato il finanziamento privato. Io sono molto laico nel ragionare, non vado per posizioni ideologiche estreme, non trovo nulla di male che ci sia un cofinanziamento privato all’Università, è molto importante che l’Università lavori con le imprese, ma naturalmente bisogna stare attenti, perché nell’ingegneria si lavora molto di più con le imprese, nella filosofia molto meno; in Lombardia si lavora molto di più con le imprese, in Sicilia molto meno. Dunque, l’apertura al privato va molto bene se incrementale rispetto ad un finanziamento pubblico di base, che invece non c’è più. L’altra cosa che abbiamo fatto è aumentare moltissimo le tasse universitarie. Siamo diventati il paese dell’Europa continentale, insieme all’Olanda che però è molto più ricco, con le tasse universitarie più alte. E dunque abbiamo operato anche qui una selezione per molti versi classista, perché nel nostro paese storicamente il diritto allo studio, cioè borse di studio e simili, è stato molto più piccolo che negli altri paesi. Anche qui 250 milioni in Italia, due miliardi in Francia. Anche qui, al posto di provare a colmare questo gap, l’abbiamo lasciato in quanto tale. Abbiamo costruito un ibrido nel quale abbiamo messo, come dire, la composizione per competenze: le discipline ingegneristico-scientifiche sono molto importanti nel mondo d’oggi, ma anche le discipline umanistiche sono fondamentali nel mondo di oggi; abbiamo bisogno di più ingegneri e chimici? Certamente ma non abbiamo bisogno di meno filosofi, di meno insegnanti, abbiamo bisogno di salire molto anche perché, come molti di voi sapranno e come ho dimenticato di dire all’inizio, siamo il paese dell’Unione Europea con la più bassa percentuale di giovani laureati, non sull’intera popolazione, cosa che sconta il ritardo di sviluppo del nostro paese, sui giovani di 30-34 anni; la nostra percentuale di 30-34enni con la laurea è la più bassa dell’Unione Europea insieme a quella della Romania. La percentuale è infima nelle regioni del sud, nelle quali ci sarebbe per motivi civili, per motivi di disuguaglianza e dinamica sociale, per motivi economici, un fortissimo bisogno di una popolazione con un livello più alto di istruzione. Il ritardo d’istruzione nel mezzogiorno è colossale. Nella mia regione, la Puglia, oggi, se prendete la forza lavoro, meno della metà ha il diploma, una percentuale che è circa tre quarti nell’Europa più avanzata, e poi tante volte ci chiediamo come mai le regioni del sud rimangono così indietro, per tanti buoni motivi ma anche e soprattutto per questo, perché c’è una fuga dell’istruzione a tutti i livelli, una quota molto ampia di persone che abbandonano la scuola secondaria, una quota più bassa che passa all’Università, un numero di laureati molto piccolo. L’ultimo aspetto che voglio sottolineare, prima di andare a concludere, di questa politica dell’Università e che è stata costruita in modo molto selettivo territorialmente. Qui potremmo aprire una discussione che vi inviterei a fare nei prossimi mesi, anni, e soprattutto nei prossimi mesi, in maniera esplicita, anche perché non è una discussione semplice. La mia idea è questa: è che l’Italia non crede più nei grandi servizi nazionali, crede che ne debbano avere di più chi vive nelle regioni a reddito più alto e di meno chi vive nelle regioni a reddito più basso. Stiamo per assistere, incidentalmente, a un possibile trasferimento di competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia Romagna, ennesimo tema per cui il discorso è assolutamente trasversale rispetto alle forze politiche, che potrebbe ancora potenziare questi aspetti. Ma certamente, se di una cosa ha bisogno il mezzogiorno, questa è l’istruzione. Le Università del Mezzogiorno non sono particolarmente cattive, sono più giovani, sono meno forti delle aree di punta di quelle del nord, questo non c’è dubbio, motivo per poter potenziarle. Ci sono fenomeni di clientelismo? Motivo per mandarci persone da fuori, per far venire più giovani. Si è fatto questo? Assolutamente no, si è fatta una politica selettiva, nella quale sono state un po’ tutelate, ma anche lì sono diminuite le risorse, le Università della Lombardia, del Veneto, dell’ Emilia e il Politecnico di Torino, Università assolutamente eccellenti. Invece si sono punite fortissimamente tutte le Università del Centro-Sud, da Firenze in giù e si sono sostanzialmente smantellate le Università della Sicilia e della Sardegna. Questo è avvenuto attraverso un processo assolutamente oscuro. Da un lato è stato messo nella mani degli alti burocrati del ministero, e dei ministri tecnici delle Università, che venivano dalle Università e che le hanno privilegiate nelle loro scelte politiche; dall’altro è stato fatto con un uso, sul quale non posso dilungarmi, molto politico della valutazione. La valutazione delle politiche pubbliche è importantissima, estremamente positiva, perché serve a dare conto ai cittadini di come sono spesi i soldi, serve a misurare e migliorare le politiche pubbliche che si fanno.
La valutazione delle Università non ha mai avuto questi fini, e ha avuto sempre e soltanto il fine di spaccare il sistema universitario aumentando le diversità; tra l’altro, è stata compiuta, anche questo è un tema politico molto interessante, con dei giudizi di valore molto discutibili. Per esempio oggi l’universitario bravo è un universitario super-specialista, che non deve mettere il naso fuori dalla sua disciplina. A me non piace, perché penso che il docente universitario debba fare un grande sforzo di serietà verso la propria disciplina e di apertura verso le altre discipline. Trovo molto difficile capire di economia, senza capire di storia e di sociologia, ma ormai sono molto in minoranza, perché oggi per diventare bravi economisti bisogna capire solo di matematica, bisogna produrre degli studi formalmente ineccepibili, anche se non hanno alcun contenuto utile per la società e il progresso delle conoscenze. Tutto questo cambiamento è stato profondissimo, avrà delle conseguenze profondissime, ha favorito in modo netto la migrazione studentesca, che è molto importante, è un fenomeno di libertà degli studenti, ma al tempo stesso ha degli effetti territoriali molto importanti, perché se voi prendete i giovani più forti del Sud e li mandate tutti a Milano o a Bologna, e non create alcun meccanismo di circolazione delle persone, aggravate notevolmente gli squilibri territoriali del nostro paese, e sto parlando di Milano e di Bologna, perché Genova, Udine, Ancona, sono scese anch’esse in serie B, si è creato un sistema territorialmente molto coeso. Tutto questo è avvenuto senza alcun dibattito parlamentare, senza che alcun partito politico abbia preso posizione, in un totale vuoto pneumatico, nel quale abbiamo imitato in maniera dilettantesca il sistema anglosassone, che è un sistema molto forte, può piacere o meno, ma è un sistema molto forte. Negli Stati Uniti e in Inghilterra c’è un dibattito violentissimo su pregi e difetti di quel sistema; il sistema americano è un sistema molto elitario, molto censuale, noi l’abbiamo preso per buono; non vi è stato alcun interesse dell’ opinione pubblica, perché la narrazione sull’ Università nella stampa, sulla televisione, è sempre una narrazione fortemente episodica. L’atteggiamento della grande stampa nazionale è stato sempre e solo quello di mettere il dito su alcuni punti specifici.
E infine, non si è discusso a sufficienza del grande tema che è il rapporto fra pubblico e privato, tema rilevantissimo, dal ponte di Genova alle condizioni dei nostri ospedali, della nostra sanità. Non è facile, l’ideologia non aiuta, bisogna essere molto pragmatici, ma questo pragmatismo deve nascere da uno scontro, da un confronto di idee politiche, di dove vogliamo portare questo paese. Questo è venuto totalmente a mancare, con effetti molto forti fra cittadini, fra regioni. Il declino dell’ Università del Centro Sud è fortissimo e sta dando un notevole contributo alle difficoltà di sviluppo di quell’area. L’Italia non riprende il suo cammino, che è stato glorioso nel Novecento, assai stentato in questo secolo, con un numero di laureati così basso, e con un numero di laureati tutto concentrato in poche sedi. La Germania, paese che a volte ci irrita, ma verso il quale è necessario prestare grande attenzione e grande ammirazione, è un paese forte perché è un paese coeso, perché quando hanno cominciato a ricostruire la Germania Est hanno cominciato a ricostruire soprattutto le Università, l’Università tecnica di Dresda, l’Università di Lipsia, di Berlino. L’Università di Palermo, quelle della Calabria e quelle della Basilicata sono state completamente abbandonate al loro destino. È un tema interessante, ho provato a completare questo rapporto di ricerca con un testo, per sollecitare la discussione, ma non ho ottenuto un grande risultato, perché fra gli italiani e l’Università c’è un rapporto particolarmente difficile, viene vista come un corpo estraneo, e poi, di questi tempi, bisogna gridare contro le élite, contro i privilegiati, non sono tempi facili per chi vuole ragionare, e per chi vuol capire. Però insisto, perché è un tema troppo importante per l’Italia di oggi e soprattutto per l’Italia fra venti, trent’anni. Un ragazzo della mia città che ha, a malapena, finito la seconda o la terza superiore, e poi è diventato un Neet, ha delle prospettive molto grame di vita e di lavoro. Il modo di oggi e il mondo del futuro è il mondo di chi sa, di chi riesce ad aggiornare nel tempo la propria conoscenza. Una società italiana, come a me personalmente piacerebbe, più coesa, meno disuguale, è una società fatta di cittadini più liberi, perché messi in grado di conoscere di più. Per questo credo che, al di là delle mille noiosissime questioni burocratiche e formali, il tema valga la pena essere perseguito e discusso, perché quello che stiamo facendo è di andare nella direzione opposta di quella che sarebbe stata opportuna. Ognuno ha le sue idee, ma quantomeno discutiamone, perché stiamo lasciando le grandi infrastrutture di questo paese esposte alle intemperie, le stiamo lasciando deperire. Ci sono meno soldi, forse meno pubblico, parliamone, discutiamo, perché un paese forte è un paese che cura le sue grandi infrastrutture, e quella della ricerca e della formazione come quella dell’ Università è di una straordinaria importanza. Grazie.

ANDREA SCALIA:
Passerei al prof. De Martin: vista la situazione attuale, come guardare al futuro, all’Università futura?

JUAN CARLOS DE MARTIN:
Grazie per l’invito, è la prima volta che partecipo al Meeting, che mi permette di ascoltare un collega come Viesti, che quando sento parlare, vorrei rinunciare al mio tempo per dargli agio di parlare più estesamente del tema.
Provo a raccontare perché un ingegnere informatico scrive un libro come quello che vi ha brevemente introdotto il moderatore, cioè un libro su un’idea di Università. Un’ idea di Università che mi ha fatto molto piacere sentire fosse al centro degli interessi degli studenti che hanno organizzato questo incontro, e mi fa molto piacere, perché mi fa sentire meno solo. Il tema dell’ Università, che cosa è, a cosa serve, chi è il professore universitario, chi è lo studente, chi è il rettore che siede qui al mio fianco, sono un tema straordinariamente poco discusso nella storia culturale italiana. Benché gli studenti che cominciano a ragionare ci arrivino immediatamente, l’accademia italiana, i professori italiani, nel corso della storia, l’hanno dato per scontato, e anche la società italiana l’ha dato per scontato. In altri paesi, ho particolarmente presente gli Stati Uniti, ma anche l’Inghilterra e la Germania in momenti diversi, la riflessione di cosa è l’Università, tenendo fermi alcuni punti fissi, serve ad educare, in questi ultimi 150 anni serve a fare ricerca, ma a parte questi fondamentali, queste invarianti, chiedersi a cosa serve l’Università in questo periodo storico, in altri paesi è una riflessione costante, continua. Negli Stati Uniti, che è il caso che conosco più da vicino, è una riflessione che nasce addirittura prima della nascita degli Stati Uniti d’America, in particolare con Thomas Jefferson, poi è continuata ininterrottamente. L’Università americana ha riflettuto su se stessa, anche persone esterne si sono interrogate su cosa è l’Università, dopo la guerra civile, dopo la prima guerra mondiale, dopo la seconda guerra mondiale, arrivando fino a oggi, con scaffali di libri che costantemente escono chiedendosi cos’è l’Università nell’ epoca dell’ intelligenza artificiale, che è l’espressione di moda in questi mesi. In Italia no. Sapere che un gruppo di studenti s’è posta questa domanda, queste domande fondamentali, che sono domande filosofiche, mi fa molto piacere e spero sia l’inizio di una conversazione. Vi dico perché un ingegnere informatico si è occupato di questo tema. Le motivazioni sono due, una ovviamente è la tecnologia. Io mi occupo di digitale, di internet e la tecnologia nel corso di questi ultimi venticinque anni almeno, rimanendo alle cose più visibili, ha mutato profondamente alcune cose della nostra vita, molti ambiti produttivi, sta modificando la politica, sta modificando l’informazione, quindi mi è sembrato naturale, una decina d’anni fa chiedermi: cosa sta facendo la tecnologia, internet, alla mia professione, alla mia istituzione? C’era già stata una prima fiammata di interesse per l’utilizzo di internet nell’educazione a distanza (2000-2001), sull’ e-learning, scomparsa senza lasciare traccia, ma si vedeva già arrivare all’orizzonte una seconda ondata, che è quella dei Moocs, questi corsi massivi online aperti, e quindi ho cominciato a chiedermi, dopo aver ragionato di industria discografica, di informazione e di democrazia, la tecnologia cosa sta facendo? Può fare qualcosa di utile? Può essere un pericolo per il lavoro che faccio io, per la mia professione, per la mia istituzione, che mi sta molto a cuore? La seconda motivazione che mi ha indotto a iniziare questo percorso di ricerca è stato vedere sulla mia pelle quello che avete sentito raccontare dal prof. Viesti e altro ancora. Il prof. Viesti si è concentrato su degli indicatori molto importanti, riassunti molto bene sul suo libro La laurea negata, cioè la riduzione del numero dei docenti. Lui non ha detto il numero assoluto, ma 18500 docenti di ruolo non ci sono più. Avete presente quanti corsi, quante tesi di laurea, quanti dottorati, quanti progetti con le aziende seguono 18500 professori? Ecco non ci sono più. Quei numeri sono importanti, li vedevo sulla mia pelle, nella mia attività quotidiana, vedevo il ridursi delle opportunità, il ridursi del finanziamento, il ridursi delle opportunità per i giovani, però vedevo una cosa anche più insidiosa, un mutamento dell’ anima dell’ Università. L’Università, che dai manuali di sociologia dell’ organizzazione viene indicata come esempio di organizzazione di tipo normativo, come la chiesa, come le organizzazioni di volontariato, come i partiti politici, un’organizzazione a cui si aderisce per una condivisione di valori, di principi, di visioni del futuro, sta diventando un’altra cosa, né migliore né peggiore, cioè un’ organizzazione di tipo utilitaristico. L’esempio più classico è l’impresa, che è una nobilissima invenzione umana, che però è un’altra cosa, perché un’organizzazione di tipo utilitaristico è organizzata in modo diverso, c’è un do ut des, io vi lavoro, vi aderisco perché ne ho bisogno, ed in cambio ottengo un salario, che mi permette di vivere. Nobilissimo, importantissimo, ma è diverso.
Ho visto, in questi anni, che l’applicazione di tecniche di management che derivano dal mondo delle imprese, ha impresso una direzione nuova all’Università, una direzione dove quello che scrivo veramente, quello che dico nel mio libro, non ha alcuna importanza per la mia carriera personale o per il mio dipartimento o per la mia Università. Un libro pubblicato in italiano, da un rispettabilissimo editore torinese scientifico, vale completamente zero. La più difficile e impegnativa attività scientifica, a cui ho dedicato la mia vita fino a questo momento a 52 anni conta zero. Questo è un eclatante esempio, ne parlava anche il pro. Viesti, della direzione in cui sta andando il nostro sistema universitario. In altri paesi non è così estremo, in Italia è particolare. Parlavo con colleghi francesi e americani e mi guardavano straniti, quando dicevo loro quello che vi ho appena detto. La tecnologia da una parte e una mutazione dell’ anima della mia professione mi hanno indotto a provare a chiedermi cosa è l’Università in questo preciso momento storico, in questo specifico contesto economico e politico. In che modo dovrebbe declinare le sue missioni fondamentali, che sono fare ricerca e fare didattica? Perché le può declinare in modi completamente diversi: potete fare didattica con lo specifico obbiettivo di preparare le persone al lavoro e basta, o potete invece, come è stato molte volte in molti posti, un completamento della formazione di una persona, il completamento della fase formale dello sviluppo della sua personalità. Sicuramente ci sono i passaggi precedenti in un percorso educativo, ma l’Università è ancora un importante passaggio, e in Italia, per vari motivi, questa sensibilità sul coltivare e incoraggiare la formazione della personalità e la formazione di un cittadino proattivo, è presente nei discorsi di inizio anno, nei discorsi dei ministri, ma è difficile trovarne un’ evidenza concreta nell’ offerta formativa, particolarmente nell’ ambito tecnico scientifico. Da dove viene la parola studente? L’italiano ha la fortuna di avere le parole “studioso” e “studente” quasi identiche, perché hanno la stessa radice e rappresentano i professori e gli studenti. Ebbene, cosa nasconde questa etimologia comune? Nel libro, liberamente scaricabile, trovate la risposta. Di idee di Università ce ne possono essere più di una e tutte legittime, il mio è un tentativo di favorire una conversazione. Con chi? Non con la politica. Le mie esperienze mi hanno indotto a rinunciare alla politica, mi rivolgo direttamente ai miei colleghi, ai miei studenti, alle loro famiglie. Il libro è pensato soprattutto per loro e per qualunque cittadino interessato a riflettere sull’Università. Questo libro, partito dalla tecnologia, dalla domanda su cosa succederà con i Moocs, se rimpiazzeranno i professori, se gli studenti studieranno tutti a casa davanti ad uno schermo, se quella sarà l’esperienza universitaria del 2020, mi ha invece indotto a riflettere su un’idea di società, su quale società auspichiamo, e poi su quale Università per questa società, e infine sulla tecnologia come ancella per raggiungere questi obbiettivi sociali, questi obiettivi valoriali. Un’inversione, perché per un ingegnere informatico è stato un parto difficile, complicato, riconoscere un ruolo della tecnologia all’interno di un quadro più ampio. Mi ero preparato tutta una serie di riflessioni sul ruolo della tecnologia nel processo educativo. Il ruolo della tecnologia con l’educazione è un ruolo millenario, l’educazione da almeno 2500 anni ha a che fare con la tecnologia, perché la scrittura è già una tecnologia. L’educazione si è interrogata sul ruolo della tecnologia almeno dal Fedro di Platone, si è interrogata su che impatto ha la scrittura sull’ educazione, sull’ apprendimento, sul rapporto docente – discente, maestro e allievo, e da allora ha sempre continuato a riflettere in modo contrastato.. Il libro stampato, ragionando con la mente di alcune persone di oggi, avrebbe potuto indurre la fine dell’Università, perché a questo punto chiunque può avere i libri, si studino i libri e non c’è più bisogno del docente. Qualcuno ha detto: il libro è il primo Mooc, è il primo corso massivo, perché basta leggerselo autonomamente. Così non è stato. E poi arrivando alla modernità abbiamo visto che ogni nuova tecnologia della comunicazione (la fotografia, le registrazioni sonore, il cinema, la televisione, la radio) è stata annunciata come tecnologia che avrebbe radicalmente modificato il processo educativo, addirittura soppiantandolo completamente nei pensatori più estremi. Così non è stato, e dovremmo chiederci: perché non è stato così? Perché non è ancora così? Perché nel 2018, quindi 150 anni dopo i primi entusiasti che decretavano che l’invenzione del grammofono avrebbe sostituito i docenti, esistono ancora i docenti, i maestri, i professori? Esistono perché l’educazione è un rapporto interpersonale fra un docente e un discente e fra i discenti tra di loro. Questo è il cuore di un processo educativo e questo va assolutamente difeso in tutti i modi. Ciò detto, e chiarito questo e difeso questo – e difeso per tutti, perché come diceva John Dewey dobbiamo dare la stessa educazione che viene data ai ricchi all’ultimo dei bambini, solo così un paese può definirsi civile – difeso questo per tutti, la tecnologia tutta, dalla fotografia in avanti, fino ad arrivare ai computer e a internet, può avere un ruolo? Certo che può avere un ruolo, ma non si tratta, come alcuni vorrebbero, di paracadutare tablet nelle aule, installare software educativo e ridurre i docenti ad assistenti di aula. No, visto che l’educazione è un rapporto interpersonale, dobbiamo mettere al centro di tutto il docente, che è un professionista che ha scelto quella professione per vocazione, il quale deve essere consapevole degli strumenti che ha a disposizione, deve saperli usare, però poi, una volta che li conosce e li sa usare, deve essere pienamente libero, a seconda dell’argomento, a seconda delle ragazze e dei ragazzi che ha davanti, di decidere cosa fare: una lezione puramente verbale, usando solo la sua voce, il suo corpo, la sua capacità recitativa, oppure i gessetti alla lavagna, oppure i tablet, oppure un video, oppure un software, oppure mille altre cose che dobbiamo ancora in parte esplorare, capire. Il modo giusto da mettere in campo lo deve decidere lui o lei, in totale autonomia. Questo è rispettare il docente e vale a tutti i livelli, dalla scuola elementare fino al livello universitario. Quindi sì alla tecnologia, va benissimo il digitale, figuratevi se non può essere così per un ingegnere informatico, ma con questa premessa. Grazie.

JAVIER PRADES LÓPEZ:
Innanzitutto voglio ringraziare gli organizzatori, il Meeting, che mi permette di recuperare una delle esperienze più belle in assoluto dell’estate, che è poter condividere questo luogo e queste persone. Faccio due premesse, poi vado su quello su cui vorrei soffermarmi. Che cos’ è una Università ecclesiastica è un enigma; dico velocemente: sono quelle Università create proprio dalla chiesa, dalla chiesa cattolica, dove noi ci dedichiamo a certe discipline umanistiche, (filosofia, diverse filologie classiche e orientali, diritto, teologia, scienze religiose) per capacitare le persone al servizio direttamente della missione della chiesa. La nostra è una realtà molto giovane (adesso abbiamo fatto il settimo compleanno, per cui siamo quasi nella culla ancora), però con una bella prospettiva davanti, è piccola come dimensioni, i nostri studenti sono altamente motivati, e questo ha un vantaggio, quindi mi sento privilegiato, non abbiamo problemi di disciplina, non devi stare dietro al giovane di vent’anni che quando ti giri alla lavagna ti fa… o fuma o fa quel cavolo che vuole. Parlare di Università non è facile, abbiamo appena aperto dei vari filoni e tutti sono imprescindibili. Teniamo presente che le realtà universitarie sono molto diverse, non solo in Italia, come si è descritto efficacemente. A me impressiona molto che la parola Università copra delle realtà molto diverse: a fine luglio ero a un convegno internazionale di Università cattoliche dove c’erano allo stesso tempo seduti lì, diciamo a pari titolo, le Università dal budget miliardario degli Stati Uniti e la appena nata Università di Erbil in Iraq, messa in piedi in una povertà estrema come segno di speranza perché i giovani non lascino un paese devastato dalla guerra. Secondo me è molto importante, quando ragioniamo sulla vita universitaria, in genere sulla vita umana, renderci conto che l’Europa è un piccolo angolo della realtà mondiale, e che a noi sembra molto importante e molto decisiva, ma è una parte di una realtà più complessa. Noi in Europa siamo veramente in un atteggiamento – quello che sentivo dire dell’Italia lo sento anche in Spagna – di fatica riguardo al presente e al futuro della istituzione universitaria ed è molto importante che noi universitari siamo i primi a fare il riconoscimento critico della nostra realtà: dove siamo, dove vogliamo andare, cosa sentiamo essenziale per il futuro dell’Università. Ciò che non è essenziale va via, prima o dopo va via, solo rimane ciò che appunto deve essere presente per poter dire: questa è una Università. I titoli di libri recenti che hanno fatto un po’ di impatto sull’opinione pubblica in Spagna – uno intitolato Addio all’Università di un docente che andava in pensione, ma approfittava per giocare col secondo senso dell’espressione, L’Università assediata e via dicendo – e veramente non mancano motivi, non mancano ragioni per dire che il giudizio potrebbe essere ed è molto critico, perché di rilievi ne possiamo fare ad ogni livello della vita universitaria. La descrizione della dimensione normativa, strutturale, organizzativa è decisiva, perché è importante sapere cosa ti consenta di avere finanziamenti, quando i titoli hanno un certo valore o non ce l’hanno. Adesso le leggi universitarie della chiesa stanno pian piano aprendosi alla sfida tecnologica, per tutti noi nelle nostre Università è adesso una realtà assolutamente urgente: capire cosa può dare, cosa non può dare, per cui sono molto interessato a queste dimensioni. La mia riflessione, quella che sento più mia, la definirei radicale nel senso etimologico della parola (radice) e cioè io mi farei e mi faccio la domanda che a me più interessa sulla vita universitaria: ha a che fare con il sapere? Sapere è una parola che non può essere estranea alla riflessione sulla vita della Università, e del sapere con alcune delle sue caratteristiche che io ritengo più decisive, e cioè l’esigenza di totalità del sapere, l’esigenza di unità del sapere. Sono termini questi che sembrano un po’ fuori posto nei dibattiti pur imprescindibili che spesso sviluppiamo, ma ritengo che siano molto importanti per scegliere la strada che consenta alle Università di sopravvivere e di crescere e maturare tra vent’anni oppure di rimanere lì in stato vegetativo oppure di scomparire. È molto interessante accorgersi di una cosa: non sempre nella storia dell’Europa è stata l’Università l’istituzione a sviluppare la conoscenza e la ricerca. Noi tutti potremmo citare le radici gloriose delle Università medievali, fare i nomi della Sorbona, di Bologna, di Salamanca, ma ci sono stati anche periodi dove la punta più viva della ricerca e della preoccupazione per acquisire conoscenze sono state per esempio le Accademie. Che cosa non è stata l’Accademia francese, l’Accademia spagnola, cosa non è stata le Royal Society. Ci sono altri spazi che possono offrire la conoscenza. E allora che cosa caratterizza la vita universitaria come tale? Mi sembra decisivo che possiamo porci noi stessi la domanda: c’è ancora una istituzione uni-versum, universitas studiorum (sicuramente i sigilli della Università di Bari, che non conosco, dell’Università di Torino, se sono in latino, avranno ancora quella dicitura, Universitas studiorum taurinensis, piuttosto che le altre). Cosa vuol dire questo? Al di là di una espressione del passato, serve ancora a domandarsi se è possibile o meno che ci sia una conoscenza che abbia una esigenza di universalità, di unità e di totalità. Io la sento un’esigenza profondamente umana e per questo la difendo; non sarei più in Università, – e ci ho dato la vita, ho dato la vita per questa istituzione – me ne andrei domani se fossi convinto che sono in un posto sbagliato, cioè in un posto che nega o rende impossibile una delle esigenze che da uomo veramente ho, la tensione a conoscere, fin dove capisco, fin dove arrivo, con l’intelligenza e con le qualità che ho e con i miei colleghi per non rinunciare ad un orizzonte veramente largo. Sembrerebbe a prima vista che la cosa oggi sia diventata impossibile, e avremmo una prima obiezione che si può capire, per così dire: la complessità e la varietà delle diverse discipline umanistiche e scientifiche renderebbero impossibile, di fatto, una tale immagine di sapere unitario. Ma addirittura si potrebbe obiettare che sarebbe una questione proprio de iure, che sarebbe impossibile e non desiderabile: non c’è e non può esserci più una modalità di uso della ragione umana che permetta di entrare in tutte le affascinanti e complesse, complessissime dimensioni del reale fino a interrogarsi su una possibile spiegazione tendenzialmente ultima, che sia in grado di accogliere anche le istanze di significato del vivere. Nelle scienze umanistiche, che mi sono un po’ più vicine delle altre per mestiere, per storia, anche lì si può oggi sorprendere nella vita accademica una giusta opposizione di discipline, ognuna occupata nel suo ambito, dove si fanno delle ricerche veramente eccezionali, che fanno progredire la conoscenza negli specifici settori. Potremmo essere in una fase in cui la frammentazione del sapere sia ritenuta una condizione inesorabile e inevitabile della vita accademica presente e futura. Ecco, io ritengo necessario riaprire la domanda sul significato, sul possibile significato unitario del reale, perché mi sembra che ognuno di noi se la porti dentro, esplicita o implicita che sia. Noi non possiamo sapere di tutto, non sto dicendo questo, quello che dico è che noi tutti quello che sappiamo lo vediamo in rapporto, esplicito o implicito, con le altre conoscenze e con una ipotesi che traiamo dalla nostra socialità o che proviamo a recuperare allargando l’uso della ragione, ma in un qualche modo sentiamo di voler dare ragione di ciò che abbiamo davanti. Che la cosa non sia talmente ridicola da escluderla, lo dice il fatto che oggi è usuale sentire in ogni foro accademico parlare di interdisciplinarietà. Io sarei molto contento di poter comprendere veramente quali sono le condizioni di possibilità di una vera interdisciplinarietà del sapere, che non sia una giustapposizione o una combinazione. A quali condizioni si potrebbe veramente dire che gli specialisti di diverse discipline possono approdare insieme verso una conoscenza che si arricchisce del contributo di tutti? Questo, secondo me, pone per la istituzione universitaria una questione molto importante: possiamo dire noi che le nostre Università stanno favorendo dei modi di usare la ragione che, oltre che la specializzazione massima, aiutino anche ad allargare l’esercizio della ragione, verso quello che un importante universitario dell’Ottocento inglese, Newman, chiamava un philosophical habitus mind, un atteggiamento, una disposizione dell’uso della ragione in grado di trovare i legami, i nessi e andare alla ricerca del fondamento del sapere? Onestamente mi sembra che questo ridarebbe alla filosofia un ruolo che probabilmente oggi ha perso, perché anch’essa è diventata una specialità fra le specialità e si aprirebbe – ma oggi non possiamo aprire tutti i file nello stesso tempo – un dialogo sul rapporto ragione-religione, che è una di quelle questioni scottanti che noi occidentali europei non vogliamo più toccare, perché il passato a volte è troppo polemico, troppo difficile, la nostra storia europea è molto faticosa su questo particolare, e pensiamo che ce la siamo cavata bene perché abbiamo diviso e messo una cosa di qua, l’altra di là (secondo me la soluzione è provvisoria e imperfetta, però ci vorrà del tempo e serve tutta quest’altra pedagogia prima). Dovremmo pure educare ad un rispetto e ad una valorizzazione dell’esercizio della ragione che mostri come l’oggetto nelle varie discipline richieda un metodo particolare. Dobbiamo favorire l’insegnamento e la ricerca curando al massimo nei particolari la capacità che ha la ragione umana di andare fino in fondo alla conoscenza di un dato oggetto, secondo la proprietà del metodo adeguato a quell’oggetto e non demonizzare e escludere altri metodi razionali per conoscere altre dimensioni del reale e così allargare l’esercizio della ragione. Ma non solo, dicevo, Newman chiedeva questo philosophical habitus mind, l’ha fatto anche la filosofia continentale cercando una scienza delle scienze. Secondo me, se noi non riapriremo questi problemi nell’istituzione universitaria, tra poco saremo un’agenzia per dare lavoro alle persone, che non è poco, ed è una delle dimensioni irrinunciabili di una crescita proporzionata e che curi l’uguaglianza nelle nostre società, ma secondo me l’Università deve fare questo secondo la sua propria natura e originarietà. La frammentazione non è capitata così perché è caduta dal pero, ma ha a che fare con noi soggetti universitari, perché quella frammentazione oggettiva del sapere riguarda un indebolimento soggettivo nostro, nella nostra modalità di esercizio del mestiere, del nostro compito. Dico solo velocissimamente alcune fatiche che io sento molto come sfide nel mio percorso universitario, per esempio quella che io chiamerei intellettualismo, che secondo me è uno dei fattori a monte della nostra frammentazione dei saperi. Cosa intendo dire quando dico intellettualismo? Intendo una modalità di conoscenza che non ha a che fare col soggetto che la propone e tanto meno coi soggetti che la ricevono. Questa modalità, veramente perversa a mio giudizio, di inerzia universitaria, siamo noi universitari a doverla affrontare, perché un sapere che non c’entra col docente e che non c’entra con lo studente, è sterile, isterilisce la ragione e ti rende un burocrate. Non ci siamo, ad una cosa così non voglio dare la vita, noi abbiamo bisogno di docenti coinvolti, veramente coinvolti con ciò che insegnano, perché solo così si potrà avere degli studenti che possano anche loro essere studiosi coinvolti con le materie che ricevono. Un secondo tratto di debolezza nostra universitaria è l’individualismo. Anche nella stagione del lavoro di squadra, ci può stare sotto sotto l’individualismo di chi comanda, del capo, dei miei interessi, della gelosia fra uomo e donna, fra docente e docente, tra ordinario e ordinario. Che cosa serva per un percorso accademico non individualistico e di esperienza comune, di condivisione della conoscenza così faticosamente acquisita, son domande aperte. Io ho iniziato un po’ di anni fa per una chiamata. Detta più degnamente: per una vocazione. Non penso ci sia uno che sogni di diventare docente e non abbia un briciolo di vocazione. Perché il percorso in Italia, secondo me, è peggiore che in Spagna. Chi comincia il percorso accademico fa una corsa ad ostacoli, non farà carriera, la farà uno su dieci. Ma chi te lo fa fare? Chi te lo fa fare il docente? Per guadagnarsi la vita magari c’è altro, se non c’è l’intuizione che quella roba c’entra con te, e questa è una dimensione che tu a devi vedere nel docente, perché ti venga la voglia di restarci. La vita universitaria è affascinante, è bellissima. Io avevo un vecchio docente che diceva «la vita dello studente universitario è da Dio, ce n’è soltanto una migliore, quella del docente». Io mi dico «la prima nostra responsabilità universitaria, è vivere e curare questa vocazione».

ANDREA SCALIA:
Ho tutti gli appunti tra le mani, cerco una sintesi, sinceramente non riesco a trovarla, nel senso che si è aperto una vaso che sta esplodendo, di intuizioni veramente interessanti. Abbiamo preparato un paio di domande innanzitutto per il professor Viesti, se vogliamo provare a farle.

DOMANDA:
Buonasera, vorrei che approfondisse se da una parte l’Università possa essere motore di ripartenza per il meridione e dall’altro quali sono le riforme che a suo parere possano essere occasione di rilancio per il sistema universitario italiano nel suo complesso. Grazie

ANDREA VIESTI:
Facciamo due battute di risposte? Allora la prima è molto facile, l’Università è un motore di ripartenza per l’Italia innanzitutto e per tutti i paesi che vogliono giocare un ruolo importante e dare maggior benessere ai propri cittadini. Vedete io sono antico, anziano e antico, mi rendo conto che per la maggioranza dei nostri concittadini abolire i vitalizi è il tema cruciale per diventare un paese civile e tenere 170 disperati che scappano dalla guerra bloccati nel porto di Catania ci rende molto più civili. Io non sono d’accordo. Io credo che quello che ci rende più forti è l’istruzione, la diffusione dell’istruzione, che è stata una cosa condivisa nel nostro paese. Naturalmente questa è una cosa importante per tutta l’Italia, diciamo, la così forte e orgogliosa Lombardia zoppica nei confronti delle regioni più forti europee. Si fa bella perché Roma è un disastro, perché le altre regioni ancora peggio. La Lombardia ha bisogno di un impulso di istruzione e di ricerca molto più forte, questo è poi decisivo nelle regioni più deboli. Nella tanto vituperata prima repubblica, con molti motivi per essere vituperata, quando ci fu la rivolta di Reggio Calabria si decise di contrastare il tremendo sottosviluppo della Calabria mandando Beniamino Andreatta e Paolo Silos Labini a creare un’Università a Cosenza. Quell’Università rimane eccellente e il suo effetto di lotta al sottosviluppo, innanzitutto criminale ma anche economico e civile della Calabria è stato molto, molto importante. Naturalmente, come dire, bisogna bilanciare sempre l’autonomia responsabile con la costruzione di un’infrastruttura nazionale di diritti di cittadinanza. E dunque bisogna trovare dei metodi per i quali chi riceve sia autonomo ma anche responsabile. Ma le politiche che vengono fatte bisogna che siano fatte in maniera omogenea per l’intero paese e non soltanto per chi è già più forte. Cosa bisognerebbe fare? Discorso molto lungo, innanzitutto diciamo cominciare a pensare, perché noi, come tutti i paesi, siamo un paese molto spaventato, abbiamo paura e ci guardiamo indietro, ci guardiamo i piedi e non guardiamo avanti. Molti paesi europei non sono così, guardano avanti, litigano sulla strada da intraprendere, discutono sulla strada da intraprendere ma guardano il futuro. E dunque per l’Università mi basterebbe semplicemente questo e cioè che si cominciasse a pensare, diciamo da qui a vent’anni, a trent’anni come debba essere il nostro paese. Le faccio solo due esempi e le restituiscono immediatamente il microfono. Diciamo c’è questa litania sulla circostanza che l’Università vale solo se professionalizza. Questo è assai discutibile, bisogna trovare un buon equilibrio tra un elemento di professionalizzazione e un elemento di formazione. L’Università deve formare dei cittadini molto più consapevoli e in grado di apprendere lungo il loro intero arco della vita. Perché chi si laurea oggi avrà delle conoscenze tecniche che probabilmente tra dieci anni saranno totalmente obsolete e fra vent’anni farà un mestiere che oggi non c’è. Per cui l’Università deve dare molto più gli strumenti della conoscenza insieme alla professionalizzazione. Secondo esempio il rapporto tra tecnica e politica. L’Università italiana negli ultimi anni è stata governata dai numeri, nell’illusione che i tecnici siano meglio della politica e che il governo dei numeri sia un governo trasparente ed equo. Non è così, non è così. Nei numeri dell’Università italiana c’è stato da un lato un processo assolutamente particolaristico, che ha visto come protagonisti i ministri e i dirigenti apicali del ministero. Pensate che le Università sono in una parte molto importante finanziata attraverso dei fondi cosiddetti premiali, per i quali il ministero stabilisce le regole dopo aver avuto a disposizione i numeri. Cioè ogni anno sono state stabilite le regole per cui il politecnico di Torino, l’Università di Bari, venivano premiati con una gara che cominciava quando il ministro e il dirigente stabilivano quali erano le regole per l’anno che si era concluso. Ma l’agenzia di valutazione dell’Università è uno strumento ancora più pericoloso, perché i suoi dirigenti sono persone convinte di essere meglio degli altri, di essere più onesti degli altri e dunque producono loro i numeri che plasmano il sistema senza che sull’una o sull’altra cosa ci sia dibattito pubblico, ci sia confronto di idee. Quanto deve valere pubblicare un articolo tecnico su una rivista scientifica, che è una cosa importantissima e quanto deve valere per un docente dell’Università della Calabria partecipare ai gruppi anti ‘ndrangheta e al dibattito civile della sua città? Questi due elementi vanno bilanciati e questo può avvenire soltanto attraverso una discussione pubblica. Non solo siamo un paese intristito e incattivito ma siamo anche un paese che oscilla un po’ troppo tra la contestazione dal basso a tutto quello che è privilegio e posizione in alto e una fiducia naif nei tecnici, in coloro che hanno il potere nei numeri a disposizione che ci possono risolvere i problemi. L’Università italiana ricomincerà il suo percorso, quando in Italia tornerà la politica e cioè quando si capirà che le regole certosine che disciplinano l’Università, che sono appunto cosa da chierici, vengono dopo una discussione politica e non al posto della discussione politica, che è purtroppo il lascito più brutto che abbiamo dall’ultimo decennio.

ANDREA SCALIA:
Ancora uno spot velocissimo. Professor De Martin e quindi qual è il valore aggiunto di questi rapporti personali all’interno dell’Università?

JUAN CARLOS DE MARTIN:
Recenti studi fatti in Usa hanno messo in evidenza, ed era la base della mia affermazione, il fatto che i rapporti personali sono la cosa in assoluto più importante. Gli studi arrivano a dire, a dimostrare che il rapporto con un docente, anche soltanto una volta, anche soltanto di un’ora, può essere la cosa più importante dell’intera esperienza universitaria di una persona. Quindi il rapporto personale, anche limitato, può avere un enorme impatto e sempre gli stessi studi trasversali e ripetuti indicano che anche la qualità del contatto tra studenti ha un’importanza enorme. Il rapporto studenti-docenti, secondo i dati dell’Ocse, in Italia è tra i peggiori in assoluto. Quando abbiamo davanti 400 studenti in un’aula, come mi capita nel mio corso di informatica, che rapporto personale volete che abbia con loro? Non posso neanche avere quell’ora di conversazione che mettono in evidenza gli studi americani. Quindi da questo punto di vista aver perso 18.500 professori in otto anni vuol dire che si riduce la possibilità di avere un rapporto personale docenti-allievi.
Quindi mettere al centro le persone e i rapporti tra le persone è il punto da cui partire.

DOMANDA:
Io faccio il dottorato in filosofia e nella mia esperienza la ricerca è uno studio estremamente specialistico. Allo stesso modo però desidero che sia un’esperienza che mi allarghi a tutti i confini del mondo, diciamo così. Però mi rendo conto che per quanto studiare mi entusiasmi, a volte c’è come un impaccio per cui ciò che per me è interessante, difficilmente è comunicabile e nasce, a volte, il sospetto che non sia quindi veramente concreto, che non incida davvero. Quello che voglio chiedere è se la passione per lo studio porti con sé qualcosa di vero per tutti e in qualche modo possa servire alla costruzione del mondo.

JAVIER PRADES LÓPEZ:
Io rovescerei la questione chiedendomi se c’è qualcosa che non essendo di utilità particolare per uno, possa esserlo per tutti. Sai, perché lì siamo già succubi di una storia di pensiero che è abstracta, nel senso etimologico della parola, che ci slega dalla concretezza del reale che è sempre singolare. Quello che tu studi, quello che studio io come può essere vero, in modo che riesca a muovere tutti se non muove te che lo fai? È impossibile. Prova a capire, vedendolo tu in azione, se le cose che studi, il percorso che fai, nella misura in cui diventa per te un esempio di questa visione unitaria integrale della ragione che ti coinvolge, possa avere una risonanza negli altri. Hai a tuo favore tutta la storia della cultura umana. Perché Shakespeare è contemporaneo? Perché Platone è contemporaneo? Perché fa risuonare, partendo da sé, cosa c’entri tu con la Grecia, con l’Atene del secolo quinto prima di Cristo. In un certo senso niente ma che cosa c’è dentro quell’esperienza, quel discorso critico sull’esperienza che ti fa oggi pensare? Ecco, si riapre la questione su quale sia la vera universalità del sapere, perché se togli di mezzo il soggetto singolo che contribuisce con la sua esperienza, ti troverai solo con delle espressioni quantitative che, appunto, sembrano a una certa modalità di pensiero essere più universali. Giocati.

ANDREA SCALIA:
Non tento sintesi perché sarebbero impossibili e perché non ne abbiamo il tempo. Noto soltanto un fatto, se nel ‘68 vedere la condizione attuale e guardare a quello che potrebbe essere genera spesso rabbia e risentimento. Il fatto che noto è che invece a me genera in questo momento la gratitudine, perché per la prima volta forse vedo, con così tanta potenza, la possibilità di ragionare su una cosa che mi interessa così tanto, che è l’Università. Gratitudine che vuol dirÈaccorgersi di quel che è successo e sperare che questa cosa vada avanti. Innanzitutto è quindi un ringraziamento ai relatori che si sono prestati in questo dialogo che magari potrà proseguire e a voi che ci avete ascoltato. Poi un grazie al Meeting.

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Arene