’68 E OLTRE. DESIDERIO E IDOLO

’68 E OLTRE. DESIDERIO E IDOLO

Interviene Pier Alberto Bertazzi, Medico e Docente all’Università degli Studi di Milano, nel ’68 Responsabile di GS-CL. Introduce Margherita Bertani, Studentessa all’Università Cattolica di Milano.

 

Ore: 12.30 Arena della Storia A5
‘68 E OLTRE. DESIDERIO E IDOLO

Interviene Pier Alberto Bertazzi, Medico e Docente all’Università degli Studi di Milano, nel ‘68 Responsabile di GS-CL. Introduce Margherita Bertani, Studentessa all’Università Cattolica di Milano.

MARGHERITA BERTANI:
Buongiorno a tutti, io sono Margherita Bertani. Benvenuti a questo incontro di dialogo legato alla mostra del ‘68, incontro dal titolo: “Desiderio e idolo”. Abbiamo la fortuna di essere qui con Pier Alberto Bertazzi che nel ‘68 frequentava la facoltà di medicina a Milano, poi è diventato medico e professore universitario di Medicina del lavoro all’Università Statale di Milano e dal ‘63 partecipava a gioventù studentesca e fu uno dei primi giovani all’origine della nascita del momento di Comunione e Liberazione. L’incontro con lui, che è durato da un anno a questa parte, ci ha permesso di entrare nella ricerca storica del percorso che poi potrete vedere nella mostra. Poi è stato importante perché una delle domande che ci bruciava e ci brucia tuttora è appunto: cosa vuol dire cambiare il mondo, che contributo noi, con la nostra vita, possiamo portare al mondo? E questa è stata una delle domande al centro dei nostri dialoghi. L’incontro con lui è stato importantissimo e prezioso perché ha illuminato un aspetto inedito, cioè che è inutile cambiare il mondo perdendo se stessi. Per questo la prima domanda che volevo porti era: perché la tua generazione inizia a scoprirsi inappagata, e inappagata da cosa?

PIER LUIGI BERTAZZI:
Grazie e grazie anche a voi di essere presenti, perché io non credo di aver tante cose da dire, da chiarire, da insegnare, da analizzare, però l’incontro in cui viene messa a tema, che io voglia o no, una fase, un momento, una svolta importante della mia vita mi sembra particolarmente utile per prendere coscienza di me stesso, della mia storia, ma nel senso di quello che mi fa essere ancora oggi quello che sono e che mi fa, ancora oggi, desiderare di essere così come sono stato dentro il mondo e dentro le situazioni. Quindi è l’occasione di un dialogo che per me è sempre una gratitudine. Per venire alla questione che hai posto, io credo che c’entri molto con il titolo generale del Meeting. Perché? Perché secondo me (non ho fatto degli studi di analisi, sociologici, culturali, filosofici) ma quello che ho compreso, vivendo, discutendo, guardando, essendo amico di certa gente, quel che ho compreso, è che lì si è posto veramente il problema: io non posso pensare alla mia felicità senza pensare alla felicità del mondo! Ciò che rende felice me, non può non avere a che fare con ciò che può rendere felice il mondo. Questa forza, perché necessariamente è una energia, qualcosa di potente, se esiste, e io ne sento l’esigenza perché voglio essere felice, è profondamente implicata, c’entra con ciò che rende e può rendere il mondo felice. Questa è la grande questione che si pone per ogni generazione; e nel ‘68 è stato particolarmente clamoroso sia come la questione si è posta, sia come la questione è stata risolta. Purtroppo, attraverso un idolo che non era l’energia, la forza, la potenza che poteva dare felicità né a me né al mondo intero. Questo, se vuoi, come osservazione generale sul perché anche nel ‘68 la generazione dei giovani si è sentita inappagata ma anche perché si è sentita inappagata in maniera particolarmente occulta e però la clamorosità dell’evento è stato che la risposta ha pensato di trovarla in qualcosa che si è rivelato un idolo. E l’idolo è quello che non dà la risposta vera al tuo cuore. Non faccio un’analisi ma do tre elementi di risposta. Direi tre elementi che spiegano questo inappagamento. Il primo sembra contraddittorio: io non ero inappagato. Perché? Perché io questa potenza di desiderio, per me e per il mondo, e di corrispondenza a questo desiderio, l’avevo vissuta, qualche anno prima, incontrando la realtà del Movimento verso la fine del mio liceo. Ripensandoci, mi son venute in mente delle cose che sono state fondamentali per questo incontro e che sarebbero state fondamentali anche per il ‘68, ma non le hanno viste, purtroppo! Queste tre cose che ho incontrato, questa umanità così nuova, perché il movimento è una umanità nuova perché profondamente umana, non è che aggiunge qualcosa all’umano, ti fa vedere cos’è l’umano. Come diceva ieri sera nel suo incontro il cardinale Scola parlando della testimonianza: quali erano queste caratteristiche dell’umano, che poi ripensandoci nel ‘68 è stato molto importante avere incontrato? La prima, non esisteva più la paura, ma non nel senso della tranquillità. La paura nel senso del non doversi difendere da niente! Io mi sentivo a casa mia dappertutto, nell’Università, dove c’erano quelli che pestavano (cosa che non sono mai riusciti a fare con me, anche perché avevo anche io le mie risorse a diciotto, vent’anni, soprattutto), ma da lì, ai primi del terzo mondo che arrivavano in Italia, al trovarmi di fronte un momento di liturgia che sembrava spiegare tutto. Ero in casa dovunque, non c’era da nessuna parte un disagio, tantomeno di fronte a dei giovani che pur violentemente si ribellavano. La seconda cosa importantissima che mi è venuta in mente da quella esperienza è che dava speranza. In che senso? Nel senso che la speranza vuol dire la non paura del futuro ma anche l’apertura e l’attesa, che mi erano date da qualcosa che avevo già, che avevo incontrato nel presente. Ho incontrato una frase di Václav Havel, uno dei più importanti della primavera di Praga, è stato anche primo ministro, che fa vedere benissimo la differenza tra speranza e ottimismo, dice: «La speranza non è sicuramente la stessa cosa dell’ ottimismo; la speranza non è la convinzione che qualcosa possa riuscire ma la certezza che qualcosa abbia senso indipendentemente dalla sua riuscita». Stupendo! Uno in una situazione così è un leone dovunque, non ha paura, lavora, si dà da fare e capisce, questa è la terza cosa, che diventa capace di costruire anche se lo legano, come diceva Guareschi, anche se lo ammazzano. Per queste tre caratteristiche, per cui anche tutto quel che facevi capivi che serviva a quel desiderio di verità e di autenticità che sentivi intorno, non ero inappagato. Però c’era chi era inappagato. Delineo due tipologie, sempre attraverso persone che ho conosciuto. Un certo tipo di persone, di ragazzi della mia età, della mia Università, vivevano una sensazione di appagamento perché si era (questo la vedete molto bene anche nella mostra) in una situazione in cui sembrava che la società si fosse come compiuta, fosse a posto. Ma l’esigenza che bruciava dentro, di verità, di giustizia, capivi che non reggeva di fronte alle spaventose contraddizioni che esistevano. Vi faccio qualche esempio. Stati Uniti d’America, leader, locomotiva della nuova civiltà uscita dalla guerra; bene, negli anni Sessanta i neri non potevano sedersi sullo stesso autobus dei bianchi, non potevano sedersi nella stessa zona del bar dei bianchi! J.F. Kennedy, eletto nel ‘61, è stato il primo presidente, esponente di una minoranza in qualche modo discriminata, anche se la cosa può stupirvi, costituita dai cattolici negli Stati Uniti. Eletto nel ‘61 l’hanno ammazzato nel ‘63, e poi in quegli anni gli Stati Uniti stavano vivendo la perdita di decine di migliaia di giovani per una guerra lontana, in un paese e tra un popolo sconosciuto, un popolo già diviso e oppresso che tuttavia li avrebbe umiliati con la sconfitta. Ora voi capite che in una situazione così uno dice: ma cosa abbiamo costruito? Per non parlare dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti, perché negli Stati Uniti a questo punto, alla domanda è stato possibile tentare una risposta, e i giovani nei campus delle Università americane hanno cominciato a manifestare, e a manifestare in maniera pacifica, a cercare un altro modo di vivere. E lo dico al di là degli esiti. Per non parlare dell’Unione Sovietica, dicevo, e dei paesi satelliti dove, appunto, la costruzione della società perfetta sembrava avvenire a scapito della libertà, dell’iniziativa e della vita stessa della persona. Ma allora mi stai costruendo un sarcofago perfetto, non una società perfetta. E purtroppo questo fu qualcosa che in Occidente non fu compreso, ma magari lo accenniamo dopo. Da noi, nei nostri paesi invece, le contraddizioni di fronte a cui ci si rivoltava erano in qualche modo più immediate e più concrete. Per esempio, il maggio ‘68, mitico nel senso proprio del termine, che sembra la più grande rivoluzione della storia, – il maggio del ‘68 era stato una dimostrazione di studenti contro il progetto governativo di riforma dell’Università. Solo che come sono scesi in piazza, è come se il cuore fosse esploso e hanno detto: ma a noi non ce ne frega niente del progetto di riforma dell’Università, noi vogliamo, e lì tutti quegli slogan: vogliamo tutto, l’unica cosa che ci può accontentare è l’impossibile, ecc., ecc., ecc. Ma anche da noi la prima Università occupata, la Cattolica, nel novembre ‘67, perché l’hanno occupata? Perché avevano aumentato le tasse, semplicissimo, e ancora tutte le occupazioni che sono seguite, sono seguite perché c’era un progetto di riforma, la famosa legge Gui, che non passò mai, (Gui tra l’altro era una persona e un politico molto serio). La protesta era contro il disegno di legge, però questo gruppo di giovani di fronte alle contraddizioni della società dicevano no, quello che vogliamo non ce l’abbiamo ancora, e all’inizio dicevano dobbiamo ricercarlo, dov’è? Guardiamoci in giro e cerchiamo.
Poi c’era un terzo gruppo che erano, secondo me, la maggioranza. Erano quelli il cui inappagamento era dovuto semplicemente all’irrequietezza del cuore e dell’anima all’età che avevano. Erano quelli che a un certo punto si sono resi conto non tanto delle contraddizioni della società, delle cose non risolte, della società del benessere dove il benessere non bastava, quanto di essere in una società basata sul formalismo, dove le cose non avevano autenticità, lo studio per esempio. Io l’ho vissuto tutto in Università il ‘68, e all’inizio quello che si è cercato di fare era trovare il modo per studiare meglio. Non altro. Come ricordava di recente il cardinale Scola parlando di quegli anni, anche l’educazione cattolica era tutta basata sull’educare ad un impegno, i cui valori erano la generosità, il formalismo e il moralismo. Questo non bastava, e purtroppo tutta la società era così. Di questo si è accorta molto bene una persona che quasi tutti conoscete, una grande filosofa del secolo scorso, Hannah Arendt, che ha scritto un libro sul ‘68 dove dice: «L’invulnerabilità dell’intero sistema si è rapidamente disintegrata davanti agli occhi attoniti dei giovani ribelli».
Io ci ho ripensato e ho detto: è vero! Perché all’inizio, almeno ciò che ho visto io, non era un progetto distruttivo, si cercava qualcosa, ma appena ci si è mossi è come se l’edificio fosse crollato, e uno è rimasto attonito di fronte a questo crollo. È quello che è stato detto anche da papa Benedetto XVI, e nella mostra su papa Francesco quando si ricordano i 10.000 gesuiti che se ne andarono in quegli anni. Proprio perché è stata una crisi che non è stata causata dai giovani, ma di cui i giovani si sono trovati ad essere la miccia o il comburente. Questo desiderio lì dentro uno non lo sentiva appagato, e questo forse riguardava la maggioranza delle persone, perché io ricordo benissimo nell’aula di anatomia all’Università di Milano, in via Mangiagalli, c’erano dei fascisti dichiarati, dei comunisti e noi che cercavamo di ripensare come doveva essere lo studio universitario per diventare dei medici, dei protagonisti della società a misura del desiderio che avevamo dentro.

MARGHERITA BERTANI:
La seconda domanda riprende un po’ un aspetto che hai messo in evidenza prima, quando ti riferivi per esempio all’Unione Sovietica piuttosto che agli Stati Uniti. Studiando ci siamo resi conto di come il ‘68 sia stato un fenomeno globale, e questo ci ha molto colpito. Volevo chiederti: voi a cosa guardavate nel mondo? E perché?

PIER ALBERTO BERTAZZI:
Io non sono qui come il sessantottino medio, quindi, come ho fatto prima, ti dico cosa guardavamo noi e cosa guardavano gli altri, anche perché avendo studiato un pochino di statistica so, come molti sanno, che la media è una mentitrice perché non ti dice gli elementi, te li appiattisce.
Io cosa guardavo te l’ho detto prima, ed è quello con cui sono poi entrato senza problemi nella condivisione iniziale del ‘68. Sotto l’aspetto della situazione internazionale c’era la coscienza che si trattava di un fenomeno globale, questa coscienza c’era e sembrava che fosse un momento in cui i popoli oppressi stessero trovando la capacità e la strada per affrancarsi. In giro per il mondo c’erano tante esperienze che si chiamavano “di liberazione”, e il ‘68 guardò moltissimo a questo, perché sembrava che fossero degli esempi da poter seguire, perché erano persone che si trovavano sotto l’oppressione, o comunque sotto l’ingiustizia, e stavano liberandosi. E c’erano alcune di queste situazioni che avevano anche “un alone romantico” in qualche modo, che ancora rimane, pensate alla figura di Che Guevara, o a un po’ di frati che diventarono terroristi, lotta armata, ecc. C’era l’applicazione della teoria marxista-comunista di Mao in Cina che sembrava innovativa, la rivoluzione permanente come qualcosa che potesse rinnovare, poi c’erano tanti gruppi che seguivano una cosa fredda, gelida ma efficace, come quella che derivava dal leninismo e poi dall’Unione Sovietica, intendo gelida in senso negativo. Si guardava un po’ a questo, ma guardando in giro per il mondo non si è tenuto conto di cosa in realtà quelle ideologie avessero già generato nella nostra Europa. È stato come una specie di “glaucoma”, come se davanti agli occhi ci fosse una parte di campo visivo che non vedi. Era la falsità di quelle risposte già documentate nelle società dell’est europeo, dove il ‘68 ci fu, e fu molto più potente del nostro ma non come esito, come impeto e come verità. Tant’è vero che ci furono i due più importanti leader del ‘68 europeo, il francese Daniel Cohn-Bendit e il tedesco Rudy Dutschke, che qualche anno dopo ammisero questo e dissero: «In prospettiva l’evento davvero importante del 1968 non è stato Parigi (perché del ‘68 il “top” era il maggio francese) ma Praga, solo che noi non siamo stati capaci di vederlo». E questo è già un elemento che ti fa vedere come quell’impeto che muoveva da un desiderio vero aveva già i piedi nel fango, non era solido. Nell’est europeo c’era stata nel ‘56 a Budapest, in Ungheria, una premessa finita nel sangue a causa dei carri armati sovietici, ma nell’agosto del ‘68 a Praga c’era stato quel tentativo, che coinvolse anche il primo ministro di allora Dubček, in quella che fu chiamata “la primavera di Praga”. Questo fu un tentativo grandissimo, da non dimenticare, e anche la manifestazione di una verità di partenza di tutti; loro che erano sotto l’oppressione hanno fatto capire come in realtà ci si doveva e ci si poteva muovere. Per darvi un esempio, in quei giorni di agosto, dopo che anche a Praga nel ‘68 arrivarono i carri armati sovietici, un ragazzo di 19 anni che si chiamava Jan Palach si diede fuoco in piazza san Venceslao a Praga, e morì, seguendo un po’ l’esempio di quello che avevano fatto i Bonzi in Vietnam qualche tempo prima. Io lo ricordo, nelle Università, se andavi da qualcuno, dai cosiddetti rivoluzionari, cos’è che ti dicevano? Sì, sì, sì, ma in fondo forse era un fascista. Purtroppo queste sono piccole cose, ma che danno l’idea del perché anche l’incontro di oggi se non sbaglio si chiama proprio “desiderio e idolo”. Quindi il contesto internazionale era chiaro. Il secondo passo dopo il primo, da questo punto di vista, è stato purtroppo molto selettivo, e si è indirizzato verso qualcosa che non poteva che fallire, ma che meno male che è fallito diciamo senza assumerne le dimensioni che ha assunto nell’Europa dell’Est. Dove guardavamo noi, e finisco, dove guardavamo noi a livello internazionale? In quegli anni il movimento era già presente in Brasile, aveva incontrato gente di tutto il mondo, ma soprattutto il primo convegno che fece GS, nel 1959, il primo grande convegno pubblico, si chiamava “Vivere le dimensioni del mondo”, perché don Giussani lo motivò così: «Le prospettive universali della chiesa sono le dimensioni normali dell’esistenza del cristiano». Uno se è cristiano, se segue Cristo, vive al cuore del mondo, ma non in senso spirituale, quello che accennavo prima, sente tutto suo! Centra con tutto, è a casa sua dappertutto, incontra, costruisce, è certo, è forte! Ecco, noi guardavamo il mondo come il posto in cui vivevamo e in cui ci piaceva vivere e in cui volevamo stare.

MARGHERITA BERTANI:
Grazie! Quando ho iniziato a studiare il ‘68, ho iniziato a farlo perché avevo un grande mito alimentato da questa domanda di autenticità, di vivere una vita più vera, di vivere in una società più giusta, che era dappertutto. Però tu, ad un certo punto, non hai voluto condividere la strada che il movimento studentesco ha preso. Perché? Che cosa hai trovato in Gs, che in un certo senso ti ha permesso di non partecipare alla forma della contestazione?

PIER ALBERTO BERTAZZI:
Si, devo dire è stato molto facile non partecipare alla forma della contestazione, non solo perché ci inseguivano coi randelli, ma anche perché era chiaro che si stavano dirigendo su una strada che era di distruzione di sé, e adesso la esplicito, prima ancora che degli altri. Per me la cosa è stata anche molto personale, perché io in quel frangente lì, ho perso anche i miei amici più cari, che se ne sono andati dal Movimento, degli amici per i quali avrei dato, in senso letterale, la vita, anche quel giorno lì, in cui mi hanno detto «noi, Gs va bene, la Bassa, ma qui… bisogna cambiare il mondo, e secondo noi bisogna buttarsi nella lotta politica». Cinque minuti prima, se uno mi avesse chiesto: i tuoi amici vanno via, tu cosa fai? Vado! Io questa gente non l’abbandonerò mai! Quando me l’hanno detto, invece, sono ancora sorpreso quando ci ripenso, ho detto «no! io non vengo per quello che ho incontrato stando con voi!». Questo per me è stato il passaggio personale del non finire di là, ma questo è stato un aspetto dolorosissimo per me. Però non mi son mai pentito, veramente mai, anzi ho sempre ringraziato Dio che in questo modo prego sempre anche per questi miei amici. Ma, al di là di questa parentesi personale, è stato molto chiaro che la strada che si stava per prendere era distruttiva, e come m’hai posto la domanda, è un po’ la dinamica da cui poi è nato anche il nome di Comunione e Liberazione. Perché appunto sia io che gli altri del movimento che c’erano in Università, non potevamo non condividere quel tipo di domanda, di desiderio, di tensione, soprattutto perché avevamo avuto l’esperienza che quella era la strada giusta per trovare la corrispondenza, però bisognava tenerla aperta, mentre loro la stavano chiudendo dentro un’ideologia. E io, avendo questa domanda senza neanche saperlo, mi trovavo in una vacanza sciistica e ho trovato qualcosa che m’ha detto: ma questa è l’umanità, questo è essere uomini, questo è essere ragazzi, questa è la vita, io ci sto. Quindi noi eravamo profondamente solidali con questa esigenza di liberazione, ma noi eravamo tanto di più, appunto, perché sapevamo che questa era la strada da tenere aperta per trovare la risposta, e noi l’avevamo trovata non come risposta che chiude, ma come corrispondenza che la teneva viva. Dove? Nell’esperienza della comunione. Quindi tanto più uno desidera la liberazione, tanto più si appassiona di quello che ha incontrato, perché è quello che gli ha fatto capire che a quel desiderio c’è risposta. Quanto ci vuole? Non lo so, ma non me ne importa, perché è la dinamica con cui il bello viene per ogni giornata, capisci? Quindi c’era una forte consonanza con la loro domanda, ma ci era quasi subito chiaro che appunto si stavano dirigendo verso un idolo, cioè qualcosa che non dà una risposta vera, che dà una risposta illusoria. E insisto, condividevamo questa loro esigenza di liberazione in quanto noi avevamo avuto l’esperienza che una risposta c’era, quindi era importantissimo tenerla aperta, ma tenerla aperta, loro la stavano chiudendo sul maoismo, sul leninismo, su Trotzkij… Tra l’altro c’è una bellissima citazione di Paolo Vl che diceva proprio questo: «Non saremo noi a contestare del tutto questa contestazione, questo bisogno di rinnovamento che per tante ragioni e in certe forme è legittimo e doveroso». Paolo VI ha cercato come di avvicinarsi, di capire, di comprendere, di abbracciare questa esigenza dei giovani. Don Giussani, ma questo molti di voi l’hanno già letto, parla di un’esigenza di autenticità che all’inizio ha mosso il ‘68, di autenticità a livello della vita sociale. Però, dicevo la strada presa per rispondervi, lo si è visto presto in maniera clamorosa, è stata una strada di distruzione di sé prima ancora che degli altri, perché migliaia di ragazzi, nell’accorgersi che non andavano da nessuna parte, sono finiti nella droga, tantissimi sono rimasti schiacciati. Io ho presente nomi e volti di amici, di conoscenti, alcuni sono nomi pubblici, altri no, schiacciati da questa disillusione od di altri che sono rimasti uccisi letteralmente dalla generosità tradita. Vi voglio solo leggere un pezzo di una lettera di un ragazzo, anzi dell’amico di un ragazzo che si è suicidato, comparsa sul giornale Lotta Continua, che era uno dei gruppi più grossi, era anche uno di quelli da un certo punto di vista meno violenti come organizzazione, soprattutto perché poi avevano un giornale su cui hanno dato spazio al dialogo, alla comunicazione di questa crisi. E sentite cosa dice questo ragazzo, sono una decina di righe: «Scrivo queste righe perché un nostro compagno si è suicidato, purtroppo fatti come questo sono sempre più frequenti, non fanno neanche più notizia. Ce l’avevamo immaginata diversa la morte di un nostro compagno, ucciso dai fascisti, dalla polizia, e noi in piazza a gridare la nostra rabbia, a sfogare il nostro dolore. Certo, anche Roberto è stato ucciso dal nemico, dal più malvagio di tutti, da questa sporca società in crisi, ma morire così, da solo, in una giornata d’agosto, in un’auto piena di gas di scarico, no. Anni fa pensavamo che la rivoluzione fosse lì dietro l’angolo ad attenderci, cortese e sorridente, si avanzava decisi verso lo scontro decisivo. Questa morte non è un frutto del caso, Roberto è morto anche perché siamo stati disumani, tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica. Disumano è stato mandare allo sbaraglio i compagni davanti alle fabbriche, è stato il modo con cui si sono trattati i compagni silenziosi che non parlavano quasi mai nelle riunioni, gli stupidi, perché quando parlavano dicevano male due o tre cose che parevano banali; disumani sono stati i piccoli e grandi leader depositari del sapere e del potere, disumani sono stati i rapporti ai cancelli con gli operai che per noi erano di volta in volta o fonte di notizie o lettori dei nostri volantini o persone a cui spiegare la rivoluzione, ma tra i tanti motivi che ci spingono a modificare il nostro comportamento politico e personale c’è anche il desiderio che nessun compagno sia costretto più ad andarsene così. C’è un desiderio che la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra squallida pratica quotidiana, non si lasci più aperto un varco così grande dove un uomo possa perdersi». Ecco, questa mi sembra, al di là di analisi o dei numeri, una testimonianza che spieghi purtroppo cosa è successo seguendo l’idolo. È quel vuoto, quello iato tra il vivere quotidiano e la nostra splendida teoria. Era questo che per me si era saldato nell’incontro con l’esperienza di Gs. Quindi che il rischio è una cosa lieta, si poteva tentare, si era pieni di speranza, e il quotidiano era il luogo dove tutto questo avveniva, e quindi non c’era questo vuoto. Questa è la gratitudine grandissima che ho verso questa esperienza che, come forse accennavo già all’inizio, è quello che è mancato ai ragazzi del ‘68.

MARGHERITA BERTANI:
Grazie. Io non aggiungo altro, se non che mi sembra che il punto centrale sia la domanda con cui anche la nostra mostra inizia e finisce, cioè «quale vantaggio ha l’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso?». E, prima di salutarci, vi do due avvisi: il primo è che domani, venerdì 24 agosto, alle ore 19, in Salone Intesa San Paolo A3, interverrà Muhammad Bin Abdul Karim Al Issa, segretario generale della Lega Musulmana Mondiale, la più importante autorità islamica rappresentante mondiale di oltre cinquanta paesi islamici. Sottolineiamo l’assoluta eccezionalità dell’evento in quanto il Meeting ospita il primo intervento in Italia del segretario generale Al Issa. E poi il Meeting è un evento gratuito e per questo ci tengo a dire che c’è la possibilità per ciascuno di partecipare a questa grande storia senza la quale il dialogo di oggi non sarebbe potuto accadere e per questo trovate in giro i punti “Dona ora” nei quali ciascuno può dare il suo piccolo o grande contributo. Vi ringrazio e ringraziamo Pier Alberto Bertazzi.

(trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2018

Ora

12:30

Edizione

2018
Categoria
Arene