60 ANNI DOPO. L’EUROPA CHE C’È GIÀ. L’EUROPA DA RIGUADAGNARE

60 anni dopo. L’Europa che c'è già. L’Europa da riguadagnare

Interviene Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo. Partecipano: Giorgia Covio, Studentessa in Marketing Management all’Università Bocconi; Enrico Letta, Presidente del Jacques Delors Institut; Lucio Rossi, Fisico, High Luminosity LHC Project Leader, CERN. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

 

GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno, benvenuti a questo incontro: “60 anni dopo, l’Europa che c’è già. L’Europa da riguadagnare”. E questo è proprio un tema che ha a che fare con il titolo del Meeting, perché l’Europa è sempre stata qualcosa di importante in tutti i Meeting: abbiamo avuto moltissimi ospiti europei, presidenti del Consiglio, presidenti del Parlamento Europeo, siamo stati europeisti dall’inizio, con l’idea, con lo slogan, “l’Europa dei popoli” e quindi crediamo profondamente in questo ideale. Questo prima della caduta del muro, dopo la caduta del muro, addirittura vi ricordate tanti anni fa il titolo “l’Europa dall’Atlantico agli Urali” che era un auspicio di un’Europa ancora più grande di quella che c’è? Certamente se c’è un tema che scalda gli animi e i cuori e divide è oggi l’Europa: c’è chi ci dice che l’Europa non va bene, che è l’origine dei nostri mali, che dobbiamo liberarci dell’euro. Noi rimaniamo europeisti, ma certamente vogliamo che gli ideali che hanno fatto l’Europa continuino ad andare avanti e che non sia semplicemente una forma che soprattutto i giovani sentono sempre più lontana da loro come un involucro vuoto che fa rinascere i nazionalismi. Siamo europeisti per tanti motivi, il primo, evidentemente è quello che abbiamo visto in questi giorni e di cui si è parlato anche ieri col Presidente Gentiloni: la lotta al terrorismo, la sicurezza, l’immigrazione. Se l’Europa è divisa, se si presenta divisa in Libia, in Medio Oriente, rispetto alla lotta al terrorismo, è un disastro. Abbiamo visto che molte delle gravi crisi che ci sono nella costa sud del Mediterraneo, nascono anche da una non unità dell’Europa. Penso prima di tutto a Israele e Palestina, poi all’Iraq, alla Siria, alla Libia. Ci vuole una unità europea per contrastare il terrorismo. Lo si capisce bene ormai anche rispetto alla sicurezza. Ma questa unità deve comprendere anche l’economia, lo sviluppo. Non può essere solo un’Europa che pensa a controllare il bilancio senza rilanciare lo sviluppo, il lavoro. Uno slogan di un po’ di anni fa di Enrico Letta, quando venne qui da Presidente del Consiglio, diceva “l’Italia era un Paese grande in un mondo piccolo, rischia di essere un Paese piccolo in un mondo grande”. Ci vuole un’unità europea. Allora abbiamo pensato che non potevamo evitare un incontro sull’Europa in questa occasione, ma abbiamo pensato di farlo a nostro modo, non partendo da un’analisi di quel che c’è e di quello che non c’è, ma partendo da un’Europa che c’è già. Perché chi attacca l’Europa si dimentica che c’è già qualcosa in atto. Cosa c’è? C’è un’Europa della ricerca, dello sviluppo che ha avuto grandissimi risultati sia sul piano della scienza, delle scoperte, che sul piano dei progetti spaziali. C’è un’Europa degli studenti che vanno in giro a studiare, per cui è normale che si studi nei diversi Paesi europei, sia durante gli anni del triennio che nella specialistica e nei dottorati. È normale come dimensione di molti giovani che parte del curriculum sia fatto a livello europeo. C’è l’Europa del lavoro, per cui il 9% degli studenti laureati italiani va all’estero a lavorare e non è detto che questo sia solo fuga, forse è anche un’opportunità per molti. C’è un’Europa della solidarietà, la possibilità di affrontare temi come quelli della solidarietà, ricordando che l’Europa consuma oggi il 58% delle spese per il welfare con l’8% di popolazione: da soli non ce la si fa più. C’è anche l’Europa dell’euro. Cosa sarebbe la crisi se non ci fosse stata un’unità monetaria che ha impedito crolli più grandi? Io sono convinto, avendo letto e studiato, che il disastro sarebbe stato infinitamente più grande. Allora le domande che vogliamo fare ai nostri interlocutori oggi vogliono partire da questi dati positivi, per chiedere come queste positività diventino ancora più grandi. Prima di tutto, però, vogliamo salutare i nostri interlocutori che più autorevoli di così non sarebbe stato possibile. Innanzitutto Antonio Tajani: conoscenza del Meeting da tantissimi anni, oggi l’accogliamo come presidente del Parlamento Europeo e poi Enrico Letta, che abbiamo salutato qui come presidente del Consiglio e oggi è presidente del Jacques Delors Institute, anche lui grandissimo amico del Meeting da tanto tempo. Dopo sentiremo i loro interventi su questi temi. Ma proprio per introdurre secondo le corde di quello che ho detto, abbiamo innanzitutto due interventi iniziali di esempi in atto. Il primo sarà quello di Lucio Rossi, che è Project Leader al Cern, un esempio atipico, ma fortissimo, di cooperazione europea nella scienza. Gli chiedo di prendere la parola.

LUCIO ROSSI:
Intanto grazie agli organizzatori per questo invito a parlare di una cosa positiva: l’Europa che c’è. Innanzitutto che cos’è il “Sern”, il Cern, alla italiana. Il Cern è nato nel 1954 come Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare. È nato dalle macerie della guerra mondiale ed è, per capire, parallelo all’Europa di Bruxelles: noi non dipendiamo dall’Unione Europea di Bruxelles perché è una organizzazione intergovernativa. Gli Stati si mettono assieme forniscono delle direttive, forniscono i mezzi ma lasciano la comunità ad auto-organizzarsi. Il nostro presidente Vittadini direbbe che è la sussidiarietà del mondo scientifico. Sono i ricercatori che si auto-organizzano ed è nato nel ’54, dalle macerie della guerra, per merito di un gruppo di scienziati, tra cui il nostro Edoardo Amaldi, figura emblematica perché dopo il Cern andò a formare l’Esa, l’Agenzia Spaziale Europea. Il Cern parte essenzialmente da due spinte. Una più tecnica, di convenienza, dove la parola convenienza ha un valore positivo: la constatazione che nessun singolo Stato europeo, dopo la guerra, avrebbe potuto far fronte allo strapotere tecnico-scientifico dei due colossi del tempo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. È nato, quindi, con l’idea della sussidiarietà: mettere insieme i mezzi per poter fare qualcosa di più grande che non fosse limitante. Però c’è un altro aspetto che si vede benissimo nello spirito del Cern: il Cern è nato anche dal riconoscimento che gli scienziati europei, in quanto tali, erano una comunità non solo geografica, ma culturale. La libertà scientifica, il libero pensiero non per niente insieme allo spirito marcatamente pacifico, non pacifista ma pacifico, caratterizza la ricerca del Cern. E non è casuale che l’Europa l’abbia prodotto: una organizzazione nasce dalla conoscenza se nasce dal riconoscimento che la conoscenza ha un valore in sé. La conoscenza, la ricerca scientifica nasce, se c’è una convinzione profonda nella razionalità del reale, che il reale non è casuale e dalla sua conoscibilità. Questo è il tratto distintivo della ricerca scientifica e questo io penso sia uno dei tratti distintivi della nostra cultura, perché questo ci porta ad affermare che il valore della conoscenza ha un valore in sé e per sé e che quindi vale la pena conoscere perché qualcosa di vero c’è. Questa auto-organizzazione, questa sussidiarietà del mondo scientifico nasce da queste due spinte Oggi il Cern conta 22 Stati membri, tra cui uno che non è geograficamente europeo anche se lo consideriamo della nostra area come Israele, 2500 dipendenti, e tantissimi studenti. Sono circa mille gli associati tra cui studenti, borsisti, ecc. che sono al Cern, ma pensate 11mila scienziati che da tutto il mondo vengono al Cern a fare ricerca. Di questi 11mila circa il 60 per cento sono europei e il 40 per cento, quindi circa cinquemila sono non europei. Pensate che il Cern è oggi il più grosso laboratorio scientifico americano: 1.700 ricercatori ed ingegneri americani vengono al Cern a fare ricerca. Non è incredibile questo? Altro che fuga dei cervelli! Qui sono i cervelli di ritorno, è l’America che viene qui.
Oggi al Cern abbiamo fatto l’LHC che sta funzionando, è la nostra flagship, la nostra nave ammiraglia: 27 chilometri di alta tecnologia, tutti a cento metri sotto terra, basati sui magneti superconduttori che mi son permesso di illustrare qui un’altra volta. Nel 2012 col professor Bertolucci abbiamo parlato qui della scoperta del Bosone di Higgs, altre scoperte le abbiamo fatte, ma quella è certamente la più emblematica, la scoperta del Bosone di Higgs che è stata annunciata dalla nostra direttrice generale, allora responsabile dell’esperimento Atlas, Fabiola Gianotti. Il Cern è un centro forte, potente ed è diventato l’esempio per tutti, anche per altre organizzazioni, per altri progetti mondiali. Ma è forte perché? Solo perché ha i mezzi, solo perché abbiamo una buona organizzazione? Certo, avere una buona organizzazione conta, avere i mezzi anche, ci si lamenta sempre delle cose europee, ma forse oggi la ricerca ha più problemi ad essere finanziata a livello nazionale che a livello europeo. Questo è importante. Ma è forte perché ha un’identità. Il Cern tutti capiscono che è l’Europa al meglio e questo ce lo riconoscono, gli americani in primis, ma anche gli altri. Per ora il progetto che dirigo che si chiama LHC ad alta luminosità, è come un progetto ponte, che ci porterà fino al 2040. Ma cosa faremo dopo il 2040? Abbiamo già fatto dei nuovi progetti. I cinesi adesso ce li stanno copiando letteralmente. Io lo vedo solo come una cosa positiva. Il Cern e l’Europa non resistono solamente se si sentono come un Fort Alamo, se i nostri valori sono una cosa da difendere davanti agli ultimi invasori, cercando di difenderci in maniera chiusa. Il Cern resiste, solamente, lascatemi parafrasare papa Bergoglio, se diventa un Cern “in libera uscita”. Non importa difendere la cittadella Cern. Se il prossimo acceleratore da cento chilometri che progettiamo lo facciamo al Cern tanto meglio, perché no? Preferisco andare a Ginevra che da altre parti. L’importante, però, è portare fuori il nostro spirito, la nostra ricerca. La conoscenza è un valore in sé: questo è quello che abbiamo di più prezioso. Ma questo non lo difendiamo in un Fort Alamo, lo difendiamo se lo facciamo vivere e lo portiamo fuori. Io non so se l’Europa di oggi sarebbe in grado di fare un nuovo Cern – e qui mi rivolgo al presidente Tajani – mi chiedo se veramente l’Europa di Bruxelles oggi, se fossimo all’anno zero, saprebbe fare un nuovo Cern, con lo spirito degli anni ’50, quello di superare i nazionalismi in nome dell’idea di sussidiarietà. Mettersi assieme, certo per una convenienza, ma anche perché c’è un riconoscimento che si è già assieme, altrimenti non ci si può mettere assieme. Questo è lo spirito da portar fuori. Questa è la mia esperienza e questa è l’esperienza che vi ho portato. Spero sia stata utile. Grazie

GIORGIO VITTADINI:
Il secondo esempio positivo è di Giorgia Covio, studentessa, prima di Padova, adesso della Bocconi, che ci racconterà dei suoi studi avvenuti attraverso l’Erasmus in Europa.

GIORGIA COVIO:
Buongiorno a tutti. Inizio col presentarmi: mi chiamo Giorgia Covio, ho 23 anni, e sto frequentando il corso di laurea magistrale in Marketing management all’Università Bocconi. I miei anni passati sono però legati a Padova: è lì che sono nata, ho frequentato la triennale in Economia e management, ed è lì che ho avuto l’opportunità di partecipare al programma Erasmus e sono partita per la Francia. Più precisamente, ho trascorso l’intero terzo anno, in totale 8 mesi, alla Montpellier Business School e ho conseguito il Double Degree.
Al di là del risultato avuto, guardando indietro riconosco che l’esperienza dell’Erasmus è stato un grande passo di crescita per me, sia come persona che come studentessa. Cosa posso dire di aver visto?
L’esperienza dell’Erasmus, innanzitutto, ha aperto il mio sguardo verso il mondo.
In Università eravamo 4 italiani su circa 200 studenti stranieri (Europei e non) ed è stato quindi inevitabile scontrarsi con la diversità in tantissimi aspetti.
Ad esempio, è stato subito evidente come i nostri compagni avessero background teorici, modi di studiare e organizzarsi diversi da quelli a cui eravamo abituati noi, ed era una diversità che non si poteva eliminare. Diventare consapevoli di questo, e accettarlo, ci ha portati, non senza fatica, pian piano a uscire dal nostro “guscio” (era inevitabile che ce l’avessimo, perché fino a quel momento eravamo rimasti sempre nello stesso posto), ad allargare lo sguardo, portare in risalto i lati migliori di ognuno, arrivando quindi non solo a bei risultati, ma diventare anche amici! Da questa esperienza, ho potuto capire cosa vuole dire il valore della diversità, della multiculturalità e dell’integrazione negli ambienti di lavoro, di cui tanto sentivo parlare.
Questa apertura riguarda anche la vita extrauniversitaria: stando con questi ragazzi, è nata in me la curiosità di conoscerli di più, di conoscere la loro cultura, i loro modi di vivere. Esempio semplicissimo, organizzavamo delle cene per conoscere le cucine gli uni degli altri, ci raccontavamo le abitudini dell’uno o dell’altro paese.
Con questo intendo dire che se prima di partire mi sembrava strano anche solo mi sembrava di aver scoperto un mondo, e volevo (e voglio) scoprirlo tutto!
L’Erasmus è stata una spinta al momento giusto.
L’occasione data dall’Erasmus è molto preziosa, perché mi ha permesso di studiare all’estero, vedere una realtà diversa per un certo periodo, senza dover cambiare università o fare mille passaggi burocratici e amministrativi. Da matricola non sarei mai stata pronta a fare un passo così per l’intero periodo universitario, ma l’Erasmus ha “salvato” questa occasione! Al terzo anno ero più curiosa e più matura; ha permesso, diciamo, di fare un passetto di novità alla volta.
Inoltre, sono rimasta stupita di come lì veniva apprezzato il modo di lavorare di noi italiani, e di come l’Italia fosse un paese bello: tutti, e dico tutti quelli che venivano da lontano volevano a tutti i costi passare a visitare le città più famose! Il bello dell’Erasmus è anche questo: uno parte per un’opportunità, non per uno sfinimento o perché non ha alternative, ed è curioso, bendisposto verso ciò che lascia; vuole vedere, confrontare, ed è poi felice di tornare e portare ciò che ha imparato.
L’Erasmus mi ha fatto crescere. L’Erasmus è stata per me un’esperienza che mi ha messo alle strette. Sono partita con un pensiero: “Questi otto mesi non siano una pausa da quello che sto vivendo qui a Padova”. In questo contesto molte cose, in particolare i rapporti con i miei amici e i miei cari a casa, sono stati portati più all’essenziale, nella fatica della distanza sentivo l’urgenza di una compagnia vera, che mi sostenesse, in cui l’abitudine era scalzata fuori. E così anche per la vita in Francia: sono diventata amica non solo con i miei compagni, ma anche con altre persone che cercavo perché vedevo che la loro compagnia era un aiuto per vivere lì, per lasciarmi interrogare e a stare davanti alla fatica, anziché chiudermi in me. Per questo dico che l’esperienza dell’Erasmus è stata preziosa non solo per i risultati universitari, ma anche per me come persona.
Questo è un po’ quello che ho vissuto io, e ad oggi consiglierei a chiunque di andare in Erasmus. Mi sento di dire che, perché sia una realtà che contribuisca a formare noi, giovani adulti, è necessario un forte impegno su due versanti.
Il primo è questo: perché la proposta possa realmente essere fruttuosa per gli studenti è necessario che le mete possibili per i diversi corsi di laurea siano interessanti, coerenti col valore e con il percorso di studi dell’università di partenza, e che vi sia il più possibile coordinamento tra le università, altrimenti è ragionevole che un ragazzo si senta scoraggiato a partire
È poi necessaria la libertà, la voglia dello studente di prendere seriamente l’esperienza dell’Erasmus, sia nello studio che nella vita extra-universitaria; perché uno potrebbe sì andare in Erasmus, ma alla fine di tutto sprecare il suo tempo. Oltre l’Erasmus in sé, credo sia fondamentale che si mantenga viva nella vita di tutti i giorni questa voglia di scoprire, di incontrare l’altro, di conoscere sé e il mondo. Così, questa opportunità può diventare l’occasione di un arricchimento personale, e di una crescita comune.
Grazie a tutti.

GIORGIO VITTADINI:
La parola a Enrico Letta

ENRICO LETTA:
Ho partecipato a tante edizioni del Meeting, l’ultima però è di ben quattro anni fa, quando venni qui in un’altra funzione e da allora non mi è più capitato di venire. Vi ringrazio di questo invito, posso dirvi che in questi quattro anni mi siete molto mancati. Sono particolarmente contento di essere qui per tanti motivi, ne aggiungo due: il primo motivo è di essere qui insieme a una persona di cui ho grande considerazione, Antonio Tajani, non soltanto per lui ma per l’incarico che oggi ricopre. L’Italia, Paese fondatore, fondamentale in Europa sempre, oggi finalmente, grazie ad Antonio, grazie al presidente Tajani, ha recuperato una mancanza di sempre: da quando il Parlamento Europeo era stato eletto direttamente dai cittadini, dal 1979, l’Italia non aveva mai espresso il presidente del Parlamento Europeo. Oggi abbiamo Antonio Tajani, lo sta facendo bene, è un grande vantaggio per il nostro Paese e per l’Europa. Il secondo motivo è il titolo che avete dato a questa edizione del Meeting. I titoli del Meeting sono sempre un’azione di cesello, di invenzione, di creatività. Quest’anno secondo me è il migliore che abbiate mai inventato in assoluto, perché il titolo giusto per questo tempo della storia del nostro Paese e dell’Europa. È il titolo che ci dice che cosa vuol dire la nostra responsabilità, come italiani innanzitutto e come europei. Noi l’abbiamo ereditata questa Europa, nessuno di noi che è qui ha fatto nulla per conquistarla, non abbiamo fatto la guerra, non abbiamo fatto la ricostruzione del dopoguerra, non abbiamo costruito noi fisicamente l’Europa, ce la siamo trovata regalata dai nostri padri che l’hanno costruita, che sono morti per l’Europa. Oggi noi siamo qui a riflettere sul titolo che avete dato per un motivo molto semplice: non sono le stesse ragioni che hanno spinto o con le quali i nostri padri hanno costruito l’Europa, non saranno quelle stesse ragioni quelle con le quali riusciremo a fare ri-innamorare oggi i cittadini italiani ed europei dell’Europa. Sbaglieremmo se pensassimo che dobbiamo semplicemente ripercorrere le strade del passato. L’ha detto Giorgio nella sua bella introduzione. Noi dobbiamo capire quello che sta succedendo e a partire da questa comprensione dobbiamo elaborare un discorso nuovo sull’Europa. Se non lo faremo, perderemo la più grande realizzazione che i nostri padri ci hanno dato e butteremo via la più grande delle opportunità. Perché dico tutto è cambiato? Lo sintetizzo in una sola considerazione diretta, semplice. Cos’è la vita, la durata della vita di una persona rispetto al tempo della storia? Niente, saremmo portati a ritenere. Eppure in una generazione, nel tempo della vita di una generazione, pensate al cambiamento che è avvenuto. Penso alla mia generazione, ho compiuto ieri gli anni, sono del ’66, cinquantuno anni. Diciamo a metà della vita di una generazione. Bene. Quando la mia generazione è arrivata su questa terra, questa terra era popolata da poco più di tre miliardi di persone. Quando la mia generazione lascerà questa terra, lascerà una terra popolata da dieci miliardi di persone. Nell’arco della vita di una persona, di una generazione, questa terra passerà da tre miliardi a dieci miliardi di persone e, prima conseguenza, la terra era una quando eravamo tre miliardi, quando siamo nati, e una la stessa sarà quando dovrà far vivere dieci miliardi di persone. In secondo luogo, quando siamo nati, di quei tre miliardi, sapete quanti eravamo noi europei? Eravamo un sesto di quei tre miliardi. Un sesto. Sapete quanti saremo di quei dieci miliardi quando la mia generazione lascerà questa terra? Da un sesto del mondo passeremo a essere un ventesimo del mondo. E non basta. Ho detto che da quando siamo nati tre miliardi, da quando lasceremo questa terra dieci miliardi. Sapete questi sette miliardi in più che si sono aggiunti da dove vengono? Non ce n’è uno che sia europeo. I sette miliardi in più che si sono aggiunti sono tutti asiatici, africani, americani. Io penso che basti questa sola considerazione per capire il senso della nostra responsabilità, di noi europei di questo tempo. È quella di fare l’Europa non per le stesse ragioni per le quali la fecero i nostri padri, De Gasperi, Adenauer, Schumann – c’è una bellissima mostra che parla di questo. Ma per delle ragioni che riguardano i figli e i figli dei nostri figli. Quando si parla di demografia, ogni tanto sbagliamo e parliamo di date, di cifre. Quando si parla di demografia e di futuro, bisogna avere sempre in testa gli occhi dei propri figli e dei propri nipoti. Quella è la demografia, non è “nel 2070 succederà questo” o “nel 2050 succederà quest’altro”, no. “Quando mio figlio avrà quarant’anni, questo sarà successo, quando mio nipote avrà quindici anni, questo sarà successo”. E allora se il mondo cambia così e noi europei dentro questo mondo cambiato saremo quello, qual è il senso del nostro essere nel mondo? Non potrà essere quello dell’inizio, di quando eravamo il centro di tutto. Di quando eravamo noi che davamo le carte su tutto, di quando il mondo si divideva tra il mondo che parlava francese, il mondo che parlava inglese, il mondo che parlava spagnolo o portoghese. Il mondo di domani sarà un altro. Se quei sette miliardi in più che si sono aggiunti sono tutti asiatici, africani, americani, noi europei abbiamo una grande responsabilità. Abbiamo una fortuna in questo momento, abbiamo un Papa che è il primo Papa non europeo della storia, che proprio in questo tempo ci richiama alla nostra responsabilità di europei. Proprio quel Papa che viene dalla fine del mondo, ci dice: “Voi europei, ricordatevi che quei valori che avete ereditato – e ci dice una cosa impegnativa – siete gli unici al mondo che li tenete tutti insieme e tutti insieme li applicate”. Riflettiamoci. La parità tra uomo e donna, i diritti dei lavoratori, il fatto che i bambini non debbano lavorare, debbano essere protetti. Il no alla pena di morte, la protezione dell’ambiente, della cultura, del paesaggio. Mettiamoli tutte insieme. Ci sono altre parti del mondo dove tutti questi valori sono teorizzati e applicati? Solo in Europa. Noi alle volte quando parliamo di questo non ci rendiamo conto della nostra responsabilità. Ne ho citati alcuni, potrei citarne altri. La gran parte di questi, metà del mondo, un terzo del mondo, non sa nemmeno che cosa siano. Quando io penso al futuro dell’Europa, e quando penso al futuro penso ai miei figli, mi chiedo “ma in che mondo vorrei che vivessero i miei figli? Vorrei che vivessero nello stesso mondo nel quale io ho goduto di un ambiente bello, puro, pulito, o vorrei che vivessero in un mondo nel quale le regole dell’ambiente le fanno Trump e i cinesi?”. Io non ho dubbi che vorrei che i miei figli vivessero in un mondo in cui le regole dell’ambiente fossero quelle fatte da noi europei, ma perché questo accada abbiamo da essere uniti e influenti. Se saremo divisi, pensando di essere ancora l’uno in concorrenza con l’altro, non saremo in grado di essere influenti nel mondo di domani. E questa grande responsabilità che abbiamo è la responsabilità più impegnativa, è la responsabilità dei nostri figli. Lucio Rossi e Giorgia Covio ci hanno detto una cosa importante. I giovani, gli studenti, la scienza, la ricerca. Noi abbiamo bisogno di muoverci sulla strada che loro hanno indicato e abbiamo bisogno accanto a questo di fare un grandissimo sforzo. Fare cioè dell’Europa quello strumento che dà a tutti i cittadini, a tutti i cittadini dei nostri popoli, quel senso di utilità, di positivo, di qualcosa in più. Io credo che questo sia l’elemento essenziale. Si parlava di Erasmus prima. Pensate quanto sarebbe bello se noi fossimo in grado di far fare a tutti gli studenti delle scuole secondarie superiori europee che devono andare a scuola per obbligo, tre mesi di Erasmus in un’altra città, in un’altra scuola, pagato dall’Unione Europea. Un’occasione che impedirebbe quello che oggi accade quando ci dividiamo tra i cosmopoliti, i cittadini europei abituati a parlare più lingue, a vivere l’Europa come una naturale opportunità e gli altri che, come si è visto in questa crisi, vedono l’Europa come l’Europa dei privilegiati. Ma l’Europa non è solo per i privilegiati. L’Europa soprattutto è per coloro che hanno meno, per coloro che hanno avuto meno, per coloro che vengono da famiglie che sono in grado di dargli di meno. Questa prospettiva ci deve far fare un passo in più anche sul tipo di Europa che vogliamo organizzare. Io sono fortemente convinto che i valori del Meeting, in particolare è stato citato prima il valore della sussidiarietà, sono in Europa troppo teorizzati e troppo poco declinati. Sapete quanto io sia europeista, ma io penso che l’Europa noi dobbiamo debruxellizzarla. Dobbiamo fare sì che l’Europa torni ad essere l’Europa delle tante capitali europee, dei tanti territori europei, delle tante regioni europee, delle tante città europee, non soltanto l’Europa di un unico centro, di un’unica capitale. Non funziona, se l’Europa è quella di un unico centro e di un’unica capitale. E per fare questo noi abbiamo bisogno di qualcosa di più. Abbiamo bisogno del protagonismo di tutti i singoli Stati. La Francia, che è uscita da una crisi molto profonda e rischiava di avere una presidente totalmente antieuropeo, che avrebbe fatto uscire la Francia dall’Unione Europea e dall’euro; la Germania che si vedeva sfidata dai partiti anti euro, cioè i due Paesi più grossi, che dopo l’uscita della Gran Bretagna giocano un ruolo molto importante, sono sicuro che dopo le elezioni tedesche, a breve quindi, rilanceranno il percorso di integrazione europea. E qui si gioca per noi italiani una partita fondamentale. Ci saremo noi italiani in quella partita oppure la vedremo come spettatori? L’Italia è sempre stata protagonista dei passaggi essenziali. Non dimentichiamoci mai che i Trattati di Roma non sono stati fatti a Roma per motivi turistici o climatici. Sono stati fatti a Roma per un motivo politico e storico. L’Europa parte franco-tedesca, il carbone e l’acciaio che si mettono insieme, poi i francesi affossano nel 1954 l’Europa della difesa, perché non vogliono cedere la sovranità in materia di difesa, sicurezza e militare e tutto si ferma. È grazie all’iniziativa italiana innanzitutto che il processo di unione è ripartito. Non è un caso che il primo momento della ripartenza avviene attraverso l’iniziativa dell’allora Ministro degli Esteri Martino, a Messina, nel 1955. E poi sulla base di questa ripartenza i Trattati di Roma con l’Italia protagonista. Non dimentichiamocelo mai quando pensiamo al nostro Paese, pensando di essere sempre gli eterni Calimero che devono sempre chiedere scusa per qualcosa o che pensano di avere sempre qualcosa da farsi perdonare. Sappiamo però che in questo rilancio dell’Europa che avverrà nei prossimi mesi, o noi ci saremo o lo faranno senza di noi. Se lo faranno senza di noi sarà peggio per l’Europa e per noi. Cosa dobbiamo fare per esserci? Dobbiamo innanzitutto valorizzare al massimo coloro che ci rappresentano in Europa e nella nostra storia non c’è mai stata una presenza italiana così importante in Europa. Ho citato Antonio Tajani, potrei citare, naturalmente lo farò con grande piacere, il presidente della Banca Centrale Mario Draghi, che sta facendo l’interesse dell’Europa e allo stesso tempo l’interesse dell’Italia. Se l’Italia è in piedi, lo dobbiamo in gran parte a Mario Draghi e io credo che dobbiamo tributargli da qui un ringraziamento e un sostegno forte e convinto. E allo stesso tempo dobbiamo ringraziare la ministra degli Esteri europea, l’Italia non ha mai avuto quella responsabilità, Federica Mogherini, un’altra responsabilità importante in un altro dei campi per noi importanti. Innanzitutto valorizzare le nostre rappresentanze e la nostra presenza lì, e poi essere in grado, noi italiani, di fare la nostra parte. Io penso che questo sia il tempo per il nostro Paese di lasciare da parte divisioni e personalismi e di scegliere la strada dell’unità e della riconciliazione. Questo è tempo di unità per il nostro Paese. Non è questo il tempo di continuare a perseguire personalismi divisivi che non porteranno da nessuna parte, renderanno il nostro Paese più debole e incapace di essere dentro questa partita a giocare fino in fondo le sue carte. A questo riguardo penso positivamente a partire dall’esperienza che ho fatto in questi ultimi tre anni. Un’esperienza in cui una volta dimessomi dal Parlamento e impegnato dentro una attività professionale con gli studenti, in un’Università nella quale ci sono anche tanti studenti italiani a Parigi e parallelamente impegnato a far nascere una scuola di politiche nella quale tanti di voi hanno potuto partecipare, iniziativa totalmente benevola e gratuita per tanti giovani italiani, mi sono reso conto di una cosa. Sappiamo tutti che l’insegnamento è cambiato, sta cambiando. La lezione frontale, come eravamo abituati noi che abbiamo fatto l’Università negli anni Ottanta o anche prima, non c’è più, non ha più senso. C’è un terribile concorrente alla lezione frontale. Il terribile concorrente è questo (mostra l’Ipad): Google o Wikipedia. Se arriva il professore e semplicemente pensa di passare informazioni agli studenti, c’è sempre un’informazione che non avrà magari memorizzato bene e ci sarà uno studente che alzerà la mano e dirà: “Guardi Professore, ho controllato, non è 53 milioni, è 48 milioni”, facendo fare immediatamente al Professore la figura di uno che…
Non è sostituendosi a Google e Wikipedia che si fa l’educazione oggi, ma è sfidando Google o Wikipedia su ciò per cui Google o Wikipedia sono per forza perdenti: il trasferimento dei punti cardinali della bussola della vita. Non c’è Google o Wikipedia che vi trasmetterà i punti cardinali della bussola della vita. E quei punti cardinali, quella bussola hanno bisogno della trasmissione dell’esperienza. Ecco perché stiamo cercando di trasformare l’insegnamento e fare sempre di più un insegnamento basato su cosa? Simulazioni per esempio, simulazione di negoziati.
E mi diverto sempre a fare gruppi di studenti, gli diamo un problema, poi mentre fanno la simulazione, a tradimento, gli cambiamo un dato del problema, e questi gruppi di studenti, c’è il gruppo degli americani, c’è il gruppo dei cinesi, vengono dal professore e i primi, un po’ rudemente, i secondi, i cinesi, molto più rispettosi dell’autorità, ma insomma sostanzialmente ti dicono la stessa cosa, ti dicono: “Professore lei non è corretto, ci ha dato un problema e poi ha cambiato un dato essenziale del problema in corso d’opera, non è corretto questo!” E tu gli rispondi: “Guardate, è la vita che non è corretta, sarà la vostra vita lavorativa che non sarà fatta di cose lineari in cui nulla cambia, dovete abituarvi a vivere la vita come una sequenza di crisi, non come un qualcosa che è tutto uguale a prima”.
Io vi assicuro di una cosa: se in quel gruppo c’è un italiano, quell’italiano avrà trovato la soluzione perché sarà riuscito ad applicare il suo spirito di adattamento, di creatività, di flessibilità che altri rispetto a noi non hanno. L’italiano avrà risolto quel problema, non è un caso, veniva detto prima, che gli italiani siano i più ricercati nel mondo, siano i più ricercati per trovare soluzioni, manager, giovani, studenti, professori. Eppure noi che abbiamo questa forza in più, questa capacità in più, questa flessibilità, questo spirito di adattamento che è perfetto per il tempo di oggi, quando passiamo da essere un italiano a essere l’Italia, se è l’italiano, l’italiano ce la fa, se è l’Italia, l’Italia non ce la fa.
Noi dobbiamo interrogarci su questo punto e dobbiamo darci una risposta che è la risposta esattamente alla domanda che voi ponete oggi. È una risposta impegnativa, difficile, ma chi avrà dato la risposta a questa domanda, avrà fatto forte di nuovo il nostro Paese. Chi avrà fatto forte il nostro Paese avrà fatto forte l’Europa e avrà dato la risposta che vogliamo dare ai nostri figli. Grazie.

GIORGIO VITTADINI:
Allora la parola al Presidente Tajani e nel dargli la parola mi associo a quanto diceva Enrico Letta riguardo all’importanza che noi diamo al Parlamento Europeo, perché di tutte le istituzioni crediamo soprattutto in quelle che nascono democraticamente e che spero crescano d’importanza in Europa.

ANTONIO TAJANI:
Grazie caro Giorgio, grazie al Meeting per l’accoglienza che mi ha riservato per l’ennesima volta, è con grande piacere che sono qui con voi per discutere del problema dei problemi, che è quello che riguarda il nostro futuro. E voglio ringraziare in modo particolare Enrico Letta per le belle parole che mi ha rivolto. Devi sapere, Enrico, che la stima è completamente ricambiata, non soltanto perché sei un uomo di grande cultura, non soltanto perché sei stato presidente del Consiglio di questo Paese con il quale ho collaborato come commissario europeo, pur non essendo stato indicato dal tuo governo, perché siamo stati colleghi al Parlamento Europeo. La mia considerazione nei tuoi confronti è alta soprattutto perché tu sei una persona onesta e per bene e questo conta più di tutto il resto.
Enrico Letta nel suo intervento raffinato, colto, intelligente ha messo in risalto quelli che sono i valori fondanti della civiltà europea. I nostri valori: libertà, centralità della persona, sussidiarietà in tutti i vari campi della nostra vita.
Vedete, se noi non partiamo da questi valori, non riusciremo a studiare una strategia che permetta all’Europa di dare risposte concrete ai propri cittadini e quindi di essere protagonista nel mondo di oggi ma anche in quello di domani. Senza le radici, senza una identità, tutto è terribilmente più complicato, perché non ci può essere leadership politica se non ci sono donne e uomini che credono in quello che fanno, per realizzare e trasformare in fatti concreti i loro valori.
L’ambizione personale, che peraltro è legittima, tutti quanti siamo ambiziosi, non può essere l’elemento prevalente, perché a un certo punto ti arrendi. L’interesse economico non può essere l’unico elemento, certo bisogna vivere bene, ma non può essere quello l’unica chiave. Bisogna credere in qualche cosa perché è quella cosa che ti permette di combattere per realizzare degli obiettivi da quando hai l’età della ragione a quando concludi la tua vita. E noi abbiamo bisogno di leader che credano, non possiamo soltanto vivere nel ricordo dei leader padri fondatori della Unione Europea, che sono nel nostro album di famiglia insieme a tanti altri, andando anche indietro nei secoli, perché la nostra civiltà, la nostra identità non nasce dopo la seconda guerra mondiale, nasce con l’antica Grecia.
Dobbiamo avere dei leader, oggi, capaci di permettere all’Europa di andare avanti. Certamente questa Europa ha fatto molte cose, ma oggi deve essere cambiata. Cambiano i tempi, cambia la realtà con la quale ci confrontiamo e allora abbiamo bisogno di leader che siano in grado insieme, non basta soltanto averne una di leadership. Dobbiamo averne di più, perché l’Europa è variegata, dobbiamo avere donne e uomini che decidano di guidare i loro Paesi non pensando soltanto al piccolo interesse di bottega, l’elezione comunale o l’elezione regionale che hanno di fronte, ma che guidino i propri Paesi con il consenso delle istituzioni verso obiettivi concreti e lo stesso compito devono svolgere coloro che hanno responsabilità nelle istituzioni comunitarie.
Io ho avuto l’onore e adesso anche un po’ l’onere di guidare il Parlamento Europeo, che è l’unica istituzione europea democraticamente eletta da tutti i cittadini dell’Unione Europea. Noi, come Parlamento, abbiamo il dovere di far capire ai cittadini che le istituzioni non sono soltanto i grigi uffici di Bruxelles, ma sono qualcosa di ben più importante, che le istituzioni proteggono questi cittadini, danno risposte a questi cittadini, non danno soltanto norme spesso di non grande utilità. Danno risposte. E noi non possiamo cambiare questa Europa che abbiamo il dovere di difendere, perché non abbiamo scelte alternative, perché è la nostra civiltà, la nostra storia, la nostra identità. Saremmo troppo piccoli noi italiani se volessimo affrontare le tempeste mondiali da soli. Dove andremmo? Con che coraggio i politici potrebbero dire “andiamo da soli” nella grande tempesta mondiale, nell’era della globalizzazione? Possiamo farlo se siamo tutti europei, tutti insieme. Conservando le nostre identità. Quando qualcuno mi dice: “Ah ma tu sei europeista”, “sì sono europeista”, ma questo non significa rinunciare all’amore per la propria patria. Io poi sono figlio di militari, sono cresciuto in caserma, figuriamoci se non sono attaccato alla patria, se non sono attaccato alla bandiera!
Ma sono anche attaccato alla patria europea, alla bandiera europea, perché anche loro sono la mia identità. Tre sono le grandi sfide che abbiamo oggi per compiere un passo in avanti e cambiare l’Europa.
La prima si chiama terrorismo, la seconda si chiama immigrazione, la terza si chiama lavoro.
Terrorismo è la ferita che ci ha lacerato in questi ultimi giorni, anche nostri compatrioti sono morti o sono rimasti feriti in Spagna, in Finlandia, o prima ancora in Germania. Ma cosa bisogna fare per vincere il terrorismo? Bastano le dichiarazioni, bastano le promesse? Serve combattere insieme, perché l’attacco è al nostro modello di civiltà. Chi vuole colpire l’Europa vuole colpire la nostra libertà. Vedete, non sparano contro il poliziotto, contro il militare, neanche più contro il politico, seminano il terrore fra la gente comune, per far cambiare modello di vita. E quindi la prima risposta è politica: non cambiamo il nostro modello di vita, ma per non cambiare il nostro modello di vita, la politica deve dare quel senso di protezione, di garanzia ai cittadini. E allora dobbiamo collaborare meglio fra europei. Ci sono ancora troppe piccole gelosie: ma chi se ne importa se un segreto che detiene un servizio di intelligence di un paese poi lo dice ad un altro, quando si tratta di salvare vite umane? Spesso sono burocratiche piccinerie che fanno vincere chi odia gli essere umani. E allora serve una vera intelligence europea, l’ho detto anche prima in conferenza stampa, serve una FBI europea come c’è un’Europol che funziona e il Parlamento ha contribuito a migliorarla.
Serve maggior collaborazione tra i giudici, serve una grande prevenzione. L’Italia per fortuna fino ad oggi ha avuto ferite meno gravi rispetto ad altri Paesi, perché evidentemente le nostre forze di polizia, i nostri servizi di intelligence sono stati abili nella prevenzione. Vi ricordate quando fermarono quei terroristi che venivano dal Kosovo che volevano colpire a Venezia?
Bisogna andare avanti lungo questo percorso: il Parlamento Europeo ha deciso di dar vita ad una Commissione speciale parlamentare non che indaghi ma che prepari una serie di proposte da dare agli Stati membri perché insieme possano colpire il terrorismo. Dove ci sono le falle, dove ci sono le mancanze, cosa bisogna fare per prevenire? Perché la prevenzione non è soltanto di tipo militare o di polizia, è anche di tipo culturale. Siamo capaci noi di far capire ad un bambino, che è europeo soltanto di seconda generazione, che è una fortuna per lui vivere in Europa? Siamo in grado di fargli conoscere tutti i valori applicati alle cose concrete, di cui parlava Enrico nel suo intervento? Perché se noi siamo deboli e non siamo capaci di far conoscere a questo bambino cosa significa essere europei, al di là del passaporto, al di là del vantaggio, se non si ritrova in questa identità, quel bambino quando diventa adolescente o maggiorenne ne cercherà un’altra. E a volte quella identità può essere negativa, perché magari trova il cattivo maestro, come lo hanno trovato quei ragazzini di diciotto anni, terroristi forse per gioco, manipolati da un quarantacinquenne, che ha usato il loro entusiasmo per seminare morte.
Forse a questi ragazzi bisogna anche avere la forza di dare una identità, dimostrare a questi ragazzi che la nostra società non cade a pezzi, che non è fatta soltanto di euro, di banche, di soldi, di divertimento, ma che ci sono anche dei valori che caratterizzano lo scandire delle ore della nostra vita. Non è togliendo il crocifisso dalla classe che si integra il giovane di un’altra religione. Se lo mantieni quel crocifisso, sei in grado di integrarlo ancora meglio, perché non hai paura dell’altro se sei forte dentro di te. Ho avuto l’opportunità l’altra sera di essere a cena con padre Vinicio Albanese, un sacerdote che conosce molto bene l’Africa, e mi raccontava che alla fine di un incontro in Africa, in un paese mussulmano con dei notabili mussulmani molto duri, ha chiesto loro il permesso di poter celebrare la Messa. Sapete cosa è successo? Che gliel’hanno fatta celebrare, hanno partecipato alla Messa anche i notabili intransigenti mussulmani, perché hanno visto in quel prete qualcuno che credeva nei propri valori. Anche se loro lo avversavano, lo hanno rispettato. L’integrazione è anche una questione di rispetto. Noi dobbiamo rispettare gli altri ma dobbiamo anche farci rispettare. Anche con l’esempio, soprattutto con l’esempio. E quindi la lotta al terrorismo deve essere accompagnata da un’azione per risolvere il problema dell’immigrazione. Le cifre date da Enrico Letta sono la fotografia della realtà. L’Africa nel 2050 avrà 2 miliardi e mezzo di persone, nel 2100 avrà 5 miliardi di abitanti. Possiamo pensare di risolvere il problema dell’immigrazione e dei flussi dall’Africa verso il nord con 10 motovedette? Dobbiamo oggi risolvere il problema dei flussi dalla Libia, certamente! Con rigidità, con serietà, con spirito umanitario, mettendo in campo i nostri valori. Ma dobbiamo anche pensare a quello che l’Europa dovrà fare per aiutare l’Africa, non con l’occhio del colonizzatore o del neo colonizzatore, non con l’occhio del business che è l’occhio che hanno i cinesi oggi in Africa, ma con l’occhio di chi vuol essere il primo interlocutore, il primo amico del Continente africano. Dobbiamo aiutare quel Paese a crescere. Il Parlamento Europeo ha approvato qualche settimana fa un finanziamento di circa quattro miliardi, che avranno un effetto leva di quaranta miliardi per l’Africa. Tanto? No! Servirebbero investimenti di quaranta miliardi per avere effetto leva di quattrocento miliardi. Perché ci sono dei fenomeni, terrorismo, cambiamento climatico, crescita demografica, carestia, siccità, guerre che spingeranno queste persone verso il nord del mondo. E allora noi, anche attraverso la diplomazia economica, dovremo intervenire per far crescere quel Continente. Anche il nostro sistema industriale imprenditoriale ha un ruolo importante da giocare.
Agricoltura, piccole medie imprese, industria estrattiva: certamente ci sono anche nostri interessi in Africa, le materie prime. Non possiamo pensare che un Continente industriale come l’Europa possa far decidere sempre e comunque per l’eternità i prezzi delle materie prime alla London Stock Exchange o dai cinesi.
Quindi serve una strategia per l’Africa, essere l’interlocutore principale dell’Africa. E anche qui serve una volontà politica. L’Europa può andare avanti se sul tema del terrorismo e sul tema dell’immigrazione ha la volontà politica di fare delle scelte, insieme. Abbandonando egoismi che rischiano di farci rimanere fermi. Come egoismi rischiano di farci rimanere fermi nella lotta contro la disoccupazione: noi abbiamo percentuali ancora alte, nonostante la crisi sia in una fase conclusiva. In Italia, in Francia, in Spagna ci sono percentuali di disoccupazione giovanile troppo alte: i nostri figli rischiano di perdere la speranza se noi non interveniamo.
E come si costruisce occupazione? Si costruisce occupazione se l’Europa è in grado di darsi una vera politica industriale. Serve una vera rivoluzione industriale in Europa per dar vita ad un sistema produttivo moderno, rispettoso dell’ambiente, che permetta di creare occupazione. Senza industria, senza impresa in Europa non si crea lavoro.
Io sono stato critico nei confronti di alcune scelte fatte dalla Francia sulla vicenda dei cantieri navali, ma non per amor di patria italiana. Ci sono state tante altre occasioni durante le quali i francesi hanno acquistato in Italia, non ho mai polemizzato, perché questo è il mercato interno. Ma noi non abbiamo bisogno di campioni nazionali a livello industriale quando la sfida è globale. Abbiamo bisogno di campioni europei, in grado di creare lavoro e occupazione, di competere con i grandi campioni: cinesi, americani, russi. Altrimenti il nostro sistema industriale sarà spazzato via.
Vogliono acquistare la Fiat: sarebbe un errore clamoroso dal punto di vista politico, non possiamo cedere il know how italiano ed europeo, la più grande industria italiana agli altri. Ma non per protezionismo, ma perché non possiamo non avere una politica industriale, una politica della crescita.
E mi associo alle parole di Enrico su Mario Draghi. Se Mario Draghi non avesse fatto la scelta a favore del quantitative easing, l’industria europea, in modo particolare, il sistema industriale imprenditoriale italiano, di fronte alla crisi, avrebbero subito gli effetti di una scossa altissima di terremoto. Grazie al quantitative easing abbiamo salvato milioni di posti di lavoro in Europa e dobbiamo riflettere anche sui tempi che la Banca Centrale Europea deciderà di avere per tornare al sistema precedente. Già se ne è parlato e abbiamo visto che l’euro si è rinforzato nei confronti del dollaro, con rischi anche per le nostre esportazioni.
Io credo che noi in futuro, se vogliamo avere un’Europa che conti, un’Europa che abbia un ruolo da svolgere, che meglio possa tutelare i propri cittadini, dovremo cominciare a rivedere nei Trattati il ruolo della Banca Centrale Europea. Perché Mario Draghi si è mosso entro limiti angusti e ha fatto il meglio del meglio, però se la Banca Centrale potesse svolgere il vero ruolo della Banca Centrale – giuridicamente non sono assolutamente d’accordo con l’iniziativa della Corte tedesca, perché da un punto di vista del diritto comunitario, Mario Draghi e la Banca Centrale Europea hanno rispettato le regole – quindi sono convinto che alla fine la Corte di Giustizia darà ragione alla Banca Centrale. Quindi, anche da questo punto di vista serve nel momento di crisi iniettare moneta nel sistema. Questo non significa che dobbiamo far aumentare il debito pubblico, non significa sperperare il denaro, significa che l’impresa deve essere aiutata nel momento di difficoltà. Significa che serve più moneta. Poi bisogna risparmiare. Lo Stato deve cominciare a tagliare, ma se aumentano i consumi, i soldi arriveranno diversamente e quindi si potrà anche ridurre la spesa pubblica. Enrico ha sollevato un problema che io considero fondamentale: l’Europa di domani, e noi non possiamo farne a meno, che tipo di Europa dovrà essere? Abbiamo detto i valori, perché senza i valori una società si sfalda, non è in grado di affrontare le emergenze immigrazione, non è in grado di integrare nessuno. Ma questa Europa non può essere soltanto l’Europa con una leader che io ammiro e stimo, perché è un’Europa sbilanciata quella dove ci sono soltanto gli interessi tedeschi ad emergere ed essere tutelati.
E vi dico, Enrico Letta potrà testimoniarlo, i risultati che ottengono i tedeschi, li ottengono perché se li meritano, perché sono presenti, perché combattono, perché tutelano i loro interessi. Sarà sufficiente aggiungere alla Germania la Francia? Certo, l’asse franco-tedesco riequilibra una situazione germanocentrica, ma io non credo che sia nell’interesse dell’Europa un accordo franco-tedesco. Due Paesi hanno il dovere di essere protagonisti in questa fase insieme alla Francia e alla Germania. E questi Paesi sono l’Italia e la Spagna. Ecco, un accordo a quattro, non per escludere gli altri, ma per fare un po’ come nelle corse ciclistiche, i quattro ciclisti più volenterosi tirano il gruppo, non per allontanare gli altri, ma per fare andare il gruppo più veloce. Quindi ben vengano, nell’accordo fra questi quattro anche gli altri Paesi. Non deve essere una conventio ad excludendum ma deve essere uno strumento per andare avanti. Pensiamo alla politica della difesa, noi abbiamo bisogno una difesa comune europea. È una scelta che abbiamo fatto, rinnovando, a sessant’anni dalla firma dei Trattati, nel Documento Programmatico per il futuro l’impegno che era di De Gasperi, cioè di dar vita ad una industria della difesa comune, finalizzata poi a dar vita alla difesa comune europea.
Non si può fare una politica estera europea se non si ha anche una difesa comune. Ma per fare tutte queste cose è indispensabile la presenza dell’Italia. È indispensabile considerare i nostri orizzonti politici un po’ più larghi dei confini del Brennero o dell’isola di Lampedusa. La politica ha il dovere non soltanto di occuparsi delle piccole cose o dei piccoli interessi. Se noi non siamo in grado di contare in Europa, a pagare il dazio saranno tutti i cittadini italiani, perché gli altri lo faranno, è inutile lamentarsi della Merkel.
Angela Merkel fa il cancelliere tedesco e vincerà le elezioni, perché ha fatto bene il cancelliere tedesco. Il problema è nostro: dobbiamo noi tutelare l’interesse italiano per avere una Europa equilibrata, non per fare la guerra agli altri. Io sono ben lieto quando per dar vita ad una politica industriale europea la Confindustria italiana si incontra con la BDI (Bundesverband der Deutschen Industrie), che è la Confindustria tedesca a Bolzano. Ecco, l’Italia che conta, dialoga con gli altri, partecipa, non subisce, ma se tu non fai niente, subisci, sei condannato a subire. Se tu non sei protagonista, se tu non sei presente, sei condannato a subire, e non è vero che ce l’hanno tutti quanti con noi.
All’ultimo ballottaggio per l’elezione del Presidente Europeo eravamo due italiani: il presidente del gruppo socialista Gianni Pittella e il sottoscritto; insomma 100 per cento di possibilità che il presidente del Parlamento sarebbe stato italiano, perché abbiamo fatto delle scelte, perché ci siamo impegnati. Serve più Italia a Bruxelles ma non soltanto per una questione di posti, ma per dare equilibrio all’Europa, perché dopo l’Italia verrà la Polonia, dopo l’Italia verranno altre realtà.
Dovremmo affrontare per la prima volta anche l’uscita del Regno Unito, non sarà facile, ne stiamo parlando poco in questi giorni, perché la violenza del terrorismo ha distolto la nostra attenzione, ma sarà un’uscita non indolore. Certamente molto dolorosa per il Regno Unito, errore clamoroso a mio parere, ma dovremo innanzitutto tutelate gli interessi di tre milioni e mezzo di cittadini europei, fra i quali seicentomila italiani che vivono nel Regno Unito e che dovranno avere domani gli stessi diritti che hanno oggi. Dovremo pretendere dal Regno Unito che paghi tutto ciò che deve all’Unione Europea, né un euro di più ma neanche un euro di meno. Dovremo garantire che ci sia la pace in Irlanda e questo non significa essere sul piede di guerra nei confronti del Regno Unito.
Io sono convinto che una volta risolta la questione dell’uscita, la Gran Bretagna sarà un nostro interlocutore, soprattutto nella lotta contro il terrorismo. Può lasciare l’Unione Europea ma non può lasciare geograficamente l’Europa. L’Europa c’è ma la politica deve contare di più. Contano troppo tanti funzionari di Bruxelles, che prendono troppe decisioni in nome e per conto non si sa di chi, ma questo è anche per colpa nostra, perché quando la politica è assente, la burocrazia si trasforma in politica e non fa quello che dovrebbe fare, cioè mandare avanti la macchina. La politica deve dare la rotta e la burocrazia deve mandare avanti in maniera efficiente la macchina. Queste sono le cose che secondo me noi ci troviamo ad affrontare.
Dobbiamo cambiare qualcosa anche nei Trattati, perché le cose non vanno bene, pensiamo al Regolamento di Dublino, ecc. la Banca Centrale Europea. Però, se vogliamo lasciare ai nostri figli un’Europa che sia all’altezza di quella sognata dai nostri padri, diversa, con sfide diverse da affrontare, non possiamo rinunciare ai nostri valori. Perché potremo fare di tutto, potremo anche avere della buona politica, potremo ottenere dei buoni risultati economici, ma se dietro a tutto ciò non ci saranno i valori, tutti i risultati che otterremo o saranno scadenti o saranno di breve durata. Io ringrazio il Meeting di Rimini perché sul tema dei valori costringe tanti di noi a riflettere e a prendere degli impegni. Per quanto mi riguarda, io quest’oggi lo prendo di fronte a voi. Vi ringrazio.

GIORGIO VITTADINI:
Vorrei brevemente fare una sintesi di questo incontro partendo con una battuta un po’ ironico-polemica rispetto a quelli che dicono che ormai ci va bene tutto e non abbiamo identità. Non è vero che ci va bene tutto, perché l’identità non è uno schieramento. Chi ripete questa cosa e ci chiede lo schieramento, è vecchio bacucco, qualunque mestiere faccia, è vecchio bacucco anche se pensa di essere giovane. È il vecchio che avanza, è il vecchio che non ha riguadagnato nulla del suo passato e ripete sulle sue pagine cose che abbiamo letto vent’anni fa, dieci anni fa: si adegui! Perché adesso cercherò, traendo le fila di quest’incontro, di dire che cosa ci va bene e che cosa non ci va bene e perché non è uno schieramento quello che fa un’identità.
Prima di tutto ci vanno bene le istituzioni e questo oggi è strano perché tutti fanno il gioco di buttare giù tutto dalla torre: non va bene il Parlamento, non vanno bene i politici, non va bene l’Europa. Oggi non va di moda dire che va bene un’istituzione, dire che il Parlamento Europeo ci interessa, oggi va di moda l’opposto, oggi va di moda dire che l’istituzione fa schifo, che bisogna ricominciare, perché fa comodo dire “piove, governo ladro”, anche quando c’è il sole. No! Noi invece diciamo che crediamo ancora in un’istituzione come il Parlamento Europeo perché crediamo nell’Europa dei popoli. Questo non va di moda, questo lo dicono in pochi, noi invece diciamo che va di moda, che bisogna credere in questo perché gutta cavat lapidem. Oggi questo è stato detto in modo impopolare! Si adeguino! Non ci piace il talk show in cui chi urla di più vince, perché questo accade allo stadio con i tifosi delle curve sud, va bene allo stadio o forse alla curva sud. Nella vita non va bene, bisogna capire i cambiamenti. Prima cosa allora, le istituzioni, crediamo che debbano contare di più e che il Parlamento Europeo debba diventare il primo luogo di decisione anche rispetto ai Governi. Questa è la prima questione.
Secondo: abbiamo anche detto, lo hanno detto Tajani e Letta, che le istituzioni devono essere istituzioni sussidiarie. Noi pensiamo che le istituzioni debbano essere non di capi di governo che arrivano a ribadire l’importanza nazionalistica dei loro Paesi, perché questo è il ritorno all’Ottocento, è l’Ottocento del nazionalismo che ha portato alle due guerre mondiali. Oggi in Europa non si fanno le guerre, si fanno però le guerre economiche, si fanno le guerre in Asia o in Africa. No, noi crediamo che le istituzioni debbano avere tanti luoghi sussidiari, dove l’Europa conta ma dà spazio ai vari luoghi. L’esempio del Cern, l’esempio dell’Erasmus, l’esempio dell’Università sono esempi in cui le istituzioni danno spazio a luoghi di autonomia. In Italia l’Università è autonoma. Noi vogliamo che l’Università, l’Agenzia Spaziale, il Cern e tante altre cose siano autonome, luoghi che non siano decisi dai capi di stato e dai consigli dei ministri, ma diano spazio agli europei. Questa è una certa immagine di Europa che non è altra da un’Europa sussidiaria. Fuori dal Parlamento italiano si può andare a manifestare, ma andate a manifestare davanti al mausoleo che è Bruxelles, vi mandano via dopo cinque minuti, non c’è neanche l’usciere che vi sta ad ascoltare. E noi vorremmo invece dei luoghi dove qualcuno ascolti qualcun altro, e questa è un’Europa sussidiaria.
Terzo passaggio: abbiamo sentito, ed è la cosa più importante, che il mondo sta cambiando: dieci miliardi di persone, ma voi capite che, se non abbiamo persone che ragionano rispetto ad un mondo che cambia, si va avanti solo a slogan?
Per dire cosa ci piace ci vogliono uomini che ragionano e che rispetto a temi complessi non banalizzano, ma si interrogano e arrivano a soluzioni. Ci vuole del tempo per capire, tutta l’argomentazione di Letta e Tajani ci dice questo. In questi giorni, per esempio, sono state fatte giustamente indagini dai giornali su cosa pensa il popolo del Meeting sullo ius soli. Risultato interessante: ognuno la pensa diversamente qua. Ma chi la pensa diversamente non dice sì, no come certi leader politici che vogliono usare dell’immigrazione per fare bottega, ma argomenta, ragiona e arriva a soluzioni arcobaleno: 100, 85, 90, 95, 80, 75. Bisogna arrivare a soluzioni trovando questo arcobaleno, perché il bianco e nero andava bene alla televisione prima, quando c’era il sistema Pal e il sistema Secam, trentacinque anni fa, quaranta anni fa. Quelli giovani non sanno neanche che c’è stata una televisione in bianco e nero. Vogliamo analizzare un problema in bianco nero: immigrazione sì, immigrazione no? O vogliamo usare l’immigrazione a colori, vogliamo usare la piccola industria a colori, vogliamo usare il problema del bilancio a colori? Cioè arrivare a soluzioni conseguenza di ragionamenti? Qui si vogliono fare ragionamenti per trarre conclusioni che nascono alla fine della ragione. La ragione arriva non in un giorno, arriva in due giorni, in tre anni, in quattro anni, perché per arrivare a soluzioni complesse non in modo banale, ci vuole un ragionamento e abbiamo sentito qui che questa Europa che deve integrare, deve arrivarci ragionando, ponderando, avviando un dialogo.
Questa non è una perdita di tempo, noi non vogliamo più leader politici che ci dicono è così, ho risolto il problema che il cretino di prima non ha risolto. Ma chi ci crede più? Chi ci crede è scemo. Noi vogliamo politici che arrivano alle soluzioni pian piano, ragionando, perché – quarto e ultimo importante passaggio – in fase di cambiamento d’epoca, i problemi si arrivano a risolvere, la ragione si usa guardando testimonianze, guardando fatti in atto. Chi dice no all’Europa, deve parlare con i suoi figli, che magari hanno fatto l’Erasmus e gli dicono: “Senti papà, va a raccontarlo fuori, a me l’Europa serve perché ho bisogno dell’Erasmus”. O deve raccontarlo a suo figlio che è un po’ più grande ma intanto è andato a lavorare in comunità scientifiche. O magari deve parlare con qualcuno che ha fatto imprese che sono già multinazionali, che siano piccole o grandi. Allora voi capite che guardare le testimonianze è il modo per fare l’Europa, perché allora, come abbiamo detto all’inizio e abbiamo sentito dall’impostazione di Tajani e Letta, le testimonianze sono qualcosa di più dell’esempio omiletico, agiografico, parrocchiale di sessanta anni fa. Sono qualcosa che insegna un metodo. In un mondo che cambia il metodo parte da testimonianze che s’allargano e diventano modelli. D’altra parte anche Newton, quando ha scoperto la legge della gravitazione universale, è partito da un esempio, cioè da una mela che gli è caduta sulla testa. Mentre quelli di una volta, quelli dello schieramento avrebbero detto: “Grave attacco di una mela a Newton”. Lui ha fatto un esempio che è diventato un modello, noi vogliamo fare degli esempi che diventano modelli. Questo è il lavoro che dobbiamo fare. Quindi, alla faccia di chi vuole tornare a uno schieramento per renderci efficaci, noi useremo tutto il tempo che ci vuole per guardare insieme ai Letta e ai Tajani testimonianze che diventano modelli. Ci vorrà un anno, due anni, tre anni, noi saremo crepati ma i giovani che abbiamo visto protagonisti di questo Meeting, no, e quindi vedranno questa Europa che cambia. Noi aspetteremo questo e lo vedremo dal cielo, perché crediamo anche che il cielo ci sia. Quindi andiamo avanti in questo Meeting, ringraziando personaggi come Tajani e Letta che ci rappresentano questa nuova modalità di essere presenti anche come politici e per questo diciamo anche che è possibile contribuire alla costruzione del Meeting attraverso donazioni, perché, anche alla faccia di quelli che continuano a vedere quali sono i nostri amici economici, visto che non abbiamo più politici, rispondiamo con il “Dona ora”. Noi vogliamo aiutarci innanzitutto con le nostre tasche, sempre di più, perché i primi amici di noi siamo noi stessi e tutti gli amici che vogliono contribuire dal basso a fare questo Meeting. Quindi vi invitiamo presso i desk dedicati, dove sarete accolti dai volontari, con la maglietta verde, a partecipare a questa nuova modalità di ridisegnare il passato. “Dona ora”, dai i tuoi soldi perché più daremo i soldi più saremo liberi di dire quello che pensiamo e non quello che vogliono farci dire. Grazie.

Data

21 Agosto 2017

Ora

17:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri