Da dove nasce la speranza? L’incontro con Julián Carrón

Agosto 2020
Image

Da dove nasce la speranza? Non bisogna barare. Con gli altri, ma innanzitutto con se stessi. È l’unica ma non negoziabile condizione per recepire con profitto quanto emerso nella colloquiale intervista di Bernhard Scholz a don Julián Carrón, di giovedì sera, al Meeting di Rimini. Loro non hanno barato neanche per una sfumatura. Non il sacerdote presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, nelle sue risposte; e non il presidente del Meeting nelle sue domande. Con grande garbo, e con teutonica tenacia, l’intervistatore non ha glissato su nessuno dei possibili scogli contro cui la speranza può cozzare; e il suo interlocutore non ha mai svicolato nella risposta cavata dal pensiero astratto, ma ha sempre messo in campo l’esperienza. La sua esperienza, attraverso cui si è costruita la sua consapevolezza e la sua fede. E quella dell’ascoltatore, di ognuno di noi, ripetutamente invitato a rendersi conto della propria esperienza e a cavare da essa ogni convinzione. Guardare, vedere, intercettare sono i termini più frequenti; nel mio quaderno non risultano appuntate parole tipo studia, deduci, pensa, escogita.

Speranza. E poi risveglio dell’umano, che è il titolo di un recente libro di Carrón. Come fai a parlare di risveglio dell’umano, attacca Scholz, in un momento così drammatico come questo della pandemia? Un tempo, viene in mente, mesi e mesi e fino a quando chissà, in cui mezzo mondo è paralizzato, irretito, impaurito, bloccato dalle regole. Ecco il primo “guarda” di Carrón: «Eccolo qui il risveglio dell’umano, sotto i nostri occhi; anzi lo stiamo vivendo: questo Meeting che nessuno credeva possibile e che invece è stato ricreato nuovo e vivo qui e in centoventi città del mondo». Ma da dove la speranza? L’intervista principia e finisce con questa domanda che è il tema della serata. Nel mezzo si sviluppa un percorso per cui la risposta finale non è appiccicata ma pertinente alla reale esistenza. La prima risposta si appoggia a Pavese, e accosta la speranza all’attesa, connaturate all’essere umano e inestirpabili: «Nessuno ci ha promesso nulla, e allora perché aspettiamo?». La risposta finale... dopo.

Primo scoglio, o primo mezzo imbroglio è identificare la speranza all’ottimismo. Carrón fa rispondere il Candido di (quell’anticlericale di) Voltaire, che si beffa della smania di sostenere che “va tutto bene” quando la realtà non è così. Perché la realtà «è implacabile, e tutta la nostra chance consiste nell’avere o meno un punto d’appoggio che regga agli urti». Diversamente, «finiti i tentativi di cavarcela da noi stessi, addio speranza». Un modo assai frequente, suggerisce Scholz, di attutire il colpo di questa incapacità è quella di mettersi in standby, starsene passivi ad aspettare che il brutto periodo finisca. Illusione, secondo la guida di Cl, perché «alzarsi alla mattina avendo come unica ragione che passi la giornata, non allevia un bel niente ma rende ancora più insopportabile la situazione». E dunque? È la volta di una citazione di Montale: «Un imprevisto è la sola speranza». Sì, ma quale punto di appoggio per sperare anche quando la realtà non ci corrisponde o ci appare ostile? Detta papale papale, come facciamo non lasciarci ingannare da false speranze? (ognuno può fare mente locale su quelle con cui in un modo o nell’altro si è imbattuto come un pinocchio con il gatto e la volpe, ndr.). Ecco l’altro poderoso “guarda” di Carrón: «Ognuno guardi in se stesso che cosa lo fa essere se stesso. Ognuno può testare che cammino ha fatto nella vita e in queste circostanze di Covid: se si è accorto che le difficoltà sono state una provocazione alla sua intelligenza e alla sua libertà, occasione di crescita. O se è successo quanto paventato da Eliot, che ha perso la vita vivendo».

Carrón attinge parecchio dalla sua esperienza di insegnante ed educatore. Ripete quanto spiegava ai ragazzi per fargli capire che la speranza nel futuro appoggia su qualcosa che accade nel presente, secondo la definizione di don Giussani. Diceva ai ragazzi spagnoli: «Se avete una persona cara ammalata gravemente, tanto che lascia poche speranze, e venite a un certo punto a sapere che dall’altra parte del mondo un’altra persona con lo stesso morbo è stata guarita, questo cambia, e come!, il vostro sguardo sul futuro». Solo un accadimento ora, una presenza, fa essere ragionevole e possibile la speranza nel futuro. Non una presenza qualsiasi, però. «Certo che no. Non ogni presenza sa dare sicurezza nella tempesta come quella di Gesù sulla barca con i suoi discepoli. Ma lì si vede che la speranza poggia sulla fede, sulla fiducia che noi come i discepoli poniamo o meno in quell’uomo eccezionale, che è stato ucciso e che avevano visto risorto, vivo». Alla fine tutto si condensa in questo: se è possibile che accada, anzi se accade oggi quello che succedeva duemila anni fa sulle rive del mare di Galilea. La risposta è: accade. Non per magia: per l’incontro con certe persone, cambiate da quell’evento e di esso testimoni».

Al Meeting c’è stata, il primo giorno, una bellissima documentazione di un’esperienza del genere. Quella autobiografica dell’intellettuale spagnolo Mikel Azurmendi, che incontra prima una voce in radio che dice cose “diverse”, poi un suo amico, poi un altro, tutti con una normalissima vita straordinaria, da essere desiderabile, e la cui unica spiegazione è Cristo presente.

Nell’ultima parte del colloquio con Scholz, Carrón ha modo di illustrare come questa posizione non è né oppio dei popoli, né ritirata spiritualistica, ma fa mettere con entusiasmo, intelligenza e generosità le mani in pasta, nel tentativo di costruire forme sociali più giuste di vita per l’uomo. Nemmeno è una posizione che le la cava rinviando tutto all’aldilà. La verifica non è nella felicità eterna, ma nel centuplo quaggiù. Qui si apre un vastissimo campo di lavoro in tutte le pieghe e le strutture del vivere. E si definisce un reale percorso di educazione e di crescita dei giovani. A cominciare dal rapporto genitori-figli, o comunque educatore-discepolo. Questa: introdurre alla realtà come grande fucina di opportunità e di suggerimenti, accettando il rischio; e non cercare di risparmiare ai ragazzi l’impatto con il reale, percepito come minaccia da cui proteggersi, “iniettandogli la paura nel sangue”.

Alla domanda iniziale - da dove nasce la speranza? – ora la risposta più compiuta e non appiccicata è dunque: “Da un dono eccezionale e imprevisto che ci raggiunge attraverso un incontro carnale e che ci fa compiere noi stessi”.

(Maurizio Vitali)