LA SOSTENIBILITÀ DEL WELFARE PUBBLICO E PRIVATO

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Due attori e un professore per uno scenario da Big Bang. E qualche provocazione. Che riguarda tutti perché “quando parliamo di welfare, e di sostenibilità del welfare, parliamo della nostra quotidianità”, ha precisato già dalle prime battute dell’incontro (alle 19.00 in sala C1) il moderatore Riccardo Bonacina, presidente e direttore editoriale del Gruppo Vita non profit. “E il welfare in Italia è sovrastato da due grandi ‘D’: debito pubblico e demografia”.
Lo scenario da Big Bang è stato evocato dal professore: Lester Salamon, direttore del Centro per gli studi sulla società civile alla Johns Hopkins University di Baltimora, negli Usa, uno dei massimi studiosi dell’economia civile, a cui si deve lo sviluppo del metodo di misurazione del valore del volontariato, metodo ora adottato anche nel nostro Paese dal Cnel. Sua la celebre affermazione: “Se non si riesce a contare qualcosa, questa finirà per non contare mai”.
“Siamo agli albori di una nuova finanza non profit, che io chiamo finanza non profit 3.1 – ha spiegato Salamon per motivare l’equiparazione di questo tempo ai primordi cosmici – Si è passati dalla finanza 1.0, la vera e propria filantropia privata, che però non è più sufficiente (negli Usa copre solo il 50% delle entrate delle organizzazioni non profit), alla finanza non profit 2.0, quando si è cominciato a rivolgersi allo Stato per colmare le necessità di cassa, ma anche qui ci sono dei limiti di intervento. Si è giunti quindi alla finanza non profit 3.0, che entra nel mercato e fa pagare i servizi agli utenti, ma ciò non basta a completare il capitale necessario e, inoltre, ha spinto le organizzazioni lontano dalla loro mission, l’aiutare i deboli. In sostanza, il terzo settore sta attraversando un momento di crisi finanziaria, tanto negli Usa che in Europa”. Qui si inserisce la finanza a scopi sociali 3.1, “che si rivolge al mercato non tanto per la gestione economica quanto per investimento, per attirare fondi verso il sociale. Gli strumenti sono molteplici, e ancora in divenire: aggregatori di capitale, mercati sociali, borse sociali. Attori nuovi, come nuovi nomi si affacciano al mondo della filantropia mediando la raccolta di capitale di investimento”, continua Salamon. “Ormai si va oltre i finanziamenti a fondo perduto, oltre ai lasciti per costituire le fondazioni, addirittura oltre le fondazioni stesse. Cosa quindi dobbiamo fare? Bisogna visualizzare quando sta accadendo ed esserne coscienti; fare pubblicità, impegnarsi perché ci si coinvolga in attività simili; investire e incentivare gli investimenti nel sociale, magari anche per legge; continuare a ragionare su questi strumenti”.
Dallo scenario mondiale alla situazione di casa nostra. Parla Marco Morganti, amministratore delegato di Banca Prossima, una banca particolare, spin-off, quattro anni fa, del gruppo Intesa Sanpaolo per servire esclusivamente enti ed organizzazione del terzo settore e delle chiese (di qualsiasi confessione). Perché questa scelta? “Non per buon cuore, ma per essere più efficienti, cioè per fare bene quello che altri istituti di credito non farebbero; per selezionare ciò che è sostenibile con criteri diversi; per garantire comunque all’azionista un ritorno dell’investimento nonostante si riesca ad abbassare il livello di inclusione dirottando una parte degli utili in uno speciale fondo di garanzia”. “Il risultato è che abbiamo incrementato i crediti del 50% e abbiamo provato che si possono fare prestiti anche in zone difficili, al Sud per esempio, e con ottimi risultati – illustra il banchiere –. Sapete qual è la qualità del credito dei nostri clienti? Il 99,6%, vale a dire che il terzo settore è 12 volte più regolare nei pagamenti dell’economia cosiddetta vera”.
“Il welfare in Italia ha tre velocità: al Nord è complementare, anzi – e qui parte la prima provocazione – quasi al limite dell’inutilità; al Sud è di sussistenza, non ci sono altri servizi. Lo Stato ha dimenticato i fondamentali e deve assolutamente cambiare il suo atteggiamento verso il terzo settore. Prima ti fa fallire e poi ti depenna dai suoi fornitori. Dei 37 miliardi di pagamenti arretrati della pubblica amministrazione, ben 25 sono sulle spalle del terzo settore, che è un luogo che produce ricchezza e occupazione, in particolare femminile e giovanile”. Cosa fare dunque? Risponde Morganti: “Credere nel terzo settore; avere più trasparenza; aiutare tutte le imprese ad essere sostenibili; fare sistema, devono diventare massa (in Italia sono 250mila organizzazioni ma si mostrano individualmente); affidare al non profit compiti speciali: asili nido, recupero drop-out scolastico, beni comuni (compresi quelli artistici: perché non far gestire Pompei, ad esempio?), gestione del microcredito. Infine alimentare il settore con forze giovani, magari facendo del servizio civile una grande scuola di impresa sociale. Ma di tutto questo, nell’ultima manovra finanziaria, ahimé non ce n’è traccia”.
“Il terzo settore non esiste quasi più”, mette subito in chiaro Johnny Dotti, amministratore delegato di Welfare Italia, una spa ‘sociale’ che eroga servizi di sanità leggera, e già cooperante sociale di lungo corso. “Quando nel Novecento il welfare è stato pensato, l’idea era assicurativa/rassicurativa, ma riguardava piccole porzioni di popolazione, ma a fine secolo, con l’allargamento della platea di destinatari, la pratica è diventata insostenibile. Ora è finito il tempo dell’uguaglianza bisogni-diritti. C’è bisogno di forme che contengano questi bisogni senza aver necessità di un terzo che li soddisfi”. “Inoltre – continua l’imprenditore sociale – il welfare è sempre stato concepito come un costo, e con questa idea non si va da nessuna parte. Il welfare, invece, è un produttore di ricchezza. Alcune proposte: trovare come contenere i bisogni e dare loro delle gerarchie, non tutti i bisogni sono importanti allo stesso modo; passare da costo a ricavo; intendere il welfare come un bene comune che, come tale, va conservato”. Non ci sono soldi? “I soldi ci sono, ma sono spesi male. Pensate che a Milano nel 2010 tra spese sociali del Comune (540 milioni di euro) e spese delle famiglie per le badanti (stima, 250 milioni) si spende circa un miliardo. Ma le persone non stanno meglio. Ma badate bene, è una ricchezza che va fuori del Paese: l’80% degli stipendi delle badanti va via come rimesse: questa è la più grande operazione di cooperazione internazionale messa in piedi dall’Italia, altro che ong!”, esclama Dotti. Che continua la sua provocazione: “Bisogna destatalizzare tutto socializzando. Alcuni punti: riprendere in maniera massiccia l’idea della mutua, dell’autogoverno dei bisogni; comprendere in questa operazione l’ambito educativo; rimettere in gioco la questione dei beni comuni per tutti, non solo per i poveri (su cui però il terzo settore non sta facendo nulla perché è schiavo della politica); affrontare il grande tema dell’innovazione industriale, che non potrà essere tecnologica ma sociale”.

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