“TORMENTATI DALLA GIOIA”. La CASA VOLANTE e L’IMPREVISTO, TESTIMONIANZE Incontro conclusivo della XXXIX Edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli

“Tormentati dalla gioia”. La Casa Volante e l’Imprevisto, testimonianze.

Tormentati dalla gioia

In apertura intervento di Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Partecipano: Anita e Martina de L’Imprevisto; Elena K., Elena Z., Irina e Tatjana de La Casa Volante. Introducono Silvio Cattarina, Fondatore e Presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto ed Elena Mazzola, Direttore del Centro di Cultura Europea Dante di Kharkov, Traduttrice.

 

Trascrizione non rivista dai relatori

Ore: 17.00 Auditorium Intesa Sanpaolo A3
“TORMENTATI DALLA GIOIA”. La CASA VOLANTE e L’IMPREVISTO, TESTIMONIANZE
Incontro conclusivo della XXXIX Edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli

In apertura intervento di Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
Partecipano: Anita e Martina de L’Imprevisto; Elena K., Elena Z., Irina e Tatjana de La Casa Volante. Introducono Silvio Cattarina, Fondatore e Presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto ed Elena Mazzola, Direttore del Centro di Cultura Europea Dante di Kharkov, Traduttrice.

EMILIA GUARNIERI:
Buonasera, grazie perché ci siete, grazie per questa settimana, grazie per l’amicizia, per la compagnia. Siamo arrivati all’incontro conclusivo di questa trentanovesima edizione del Meeting; abbiamo voluto chiudere con un momento che veramente rendesse ragione del titolo di quest’anno, in maniera, come dire, radicale perché l’incontro di questa sera rende ragione del titolo in maniera assolutamente radicale. Che cosa vuol dire che le forze che rendono un cuore felice sono le stesse che muovono la storia, cioè che spingono la persona a muoversi? Abbiamo invitato Elena Mazzola e Silvio Cattarina con tutti i loro amici de “La Casa Volante” e de “L’imprevisto” che ci faranno vedere che cosa vuol dire il titolo di quest’anno. Li abbiamo già accolti con un grande applauso ma penso che possiamo accoglierli ancora meglio. Sapete che questo è il momento in cui non facciamo il bilancio, però diciamo qualcosa che ci aiuti a rimetterci davanti agli occhi, velocissimamente e molto sinteticamente, che cosa è stato il Meeting di quest’anno. Tutto questo, poi, apre al Meeting del prossimo anno.
È stato il Meeting del messaggio di papa Francesco che ci richiamava con la domanda «chi salverà il desiderio del cuore dell’uomo?»; è stato il Meeting del presidente Mattarella «dalla consapevolezza che ciascuno arricchisce il nostro essere persona, nasce la possibilità di rendere davvero umano il mondo»; sono le differenze che rendono umano il mondo. È stato il Meeting del nunzio Pierre: «La vera rivoluzione è la rivoluzione del cuore: non possiamo costringere nessuno a credere se non attraverso la testimonianza della nostra vita». È stato il Meeting di Giobbe: in maniera evidente è stato il Meeting di Giobbe. Il Meeting che, attraverso la figura di Giobbe, ha rivolto lo sguardo alla contraddizione e al dolore. Contraddizione e dolore che non sono quelli del Giobbe biblico ma sono quelli del Giobbe di oggi, quelli che quotidianamente vediamo. È stato il Meeting del “Mare del desiderio”, del grande spettacolo con cui abbiamo visto come il destino del singolo, della persona e le forze che muovono la storia si uniscono in un misterioso disegno: lo spettacolo del centocinquantesimo anniversario della nascita di Claudel. È stato ancora una volta il Meeting del dialogo, del dialogo tra culture e religioni diverse. Queste due grandi presenze degli amici della biblioteca di Alessandria dove tra l’altro, come abbiamo detto, andremo a fare una giornata di Meeting nella seconda metà di ottobre e il grande protagonista di ieri che è stato il segretario generale della Lega Araba, Sua Eccellenza Al Issa. È stato il Meeting anche delle grandi questioni sociali, delle grandi questioni politiche. Dicevamo in un’intervista «non c’è formula o algoritmo che tenga: per contrastare il declino occorre puntare sulla persona». Dare spazio al racconto di chi diventa imprenditore di se stesso, favorire il dialogo tra persone di fedi e culture diverse, di orientamenti politici differenti così come è avvenuto nei due incontri dell’Intergruppo. Otto giorni di Meeting che hanno dimostrato come tutto questo sia una pratica e un contributo reale alla vita del Paese e non vivere in un mondo di sogni o in un mondo di utopie. È stato anche il Meeting di questa novità che quest’anno abbiamo voluto mettere in campo: il Meeting delle Aree, il Meeting delle Arene, il Meeting di questi spazi dove si sono svolti tantissimi incontri. Quest’anno, tra gli incontri nelle sale grandi e gli altri, abbiamo toccato i 234 incontri con 528 relatori: abbastanza direi. È stato il Meeting della mostra di Giobbe, lo dicevamo ma anche delle altre tredici esposizioni, dei diciotto spettacoli, delle trentadue manifestazioni sportive. È stato anche il Meeting del foundraising; quest’anno il foundraising ha toccato un nuovo record: si è innalzato, è decollato e sicuramente è diventato un fattore che potrà contare nella realizzazione delle esperienze dei Meeting dei prossimi anni. Ancora una volta, e vado a concludere, è stato il Meeting di tutti noi che abbiamo voluto scommettere; abbiamo voluto scommettere perché ogni anno è una scommessa. Ogni anno uno parte, dice: «Lo faccio, vado, ci lavoro, oppure vado e ci porto degli amici oppure vado e ci porto la famiglia, vado e ci vado io». È una scommessa perché uno in questa ultima settimana di ferie potrebbe fare tantissime cose, diverse che non lavorare al Meeting, che non venirci. È il Meeting di tutti noi che ci abbiamo voluto scommettere ancora una volta, scommettendo che lavorare e venire e costruire un luogo così, può valere la pena. È stato il Meeting di persone che hanno investito sul proprio desiderio di felicità e sul fatto che l’essere qui potesse essere un’occasione per camminare sulla strada di questo desiderio e di questa costruzione di sé.
Arrivati a questo punto una domanda, io credo, possiamo avere nel cuore ed è la domanda che ci sospinge verso il titolo di quest’altr’anno:
«Ma che cosa ci rende persone? Ma che cosa costruisce il nostro volto?»

“NACQUE IL TUO NOME DA CIO’ CHE FISSAI”

Questo è il titolo della quarantesima edizione del Meeting.
Prossimo anno: 18-24 agosto.
Vi ringrazio ancora di tutto e ringrazio gli amici che sono qui che adesso vi racconteranno cosa vuol dire avere un cuore felice.
Grazie Elena, grazie Silvio e grazie a tutti gli amici.

SILVIO CATTARINA:
Partendo dalla mia estrema destra: Liena, Tania, un’altra Liena (sono due Elene ), Ira, le quattro ragazze de “La Casa Volante”; c’è chiaramente anche una quinta ragazza Elena e questa esperienza bellissima, questa grande esperienza di amore e di verità di KharKov ce la racconteranno loro. Cosa può nascere anche da un internato, da un orfanotrofio (come lo chiamano là: internato), quando tutto manca. Tutta l’Ucraina, quella parte, è un grande fatto, una grande novità. Io ci vado spesso, anche noi de “L’Imprevisto”, ma tante altre persone e lì c’è un grande entusiasmo molto coinvolgente per l’incontro fatto. Alla mia estrema sinistra: Anita e Martina de “L’Imprevisto”.
Noi de “L’Imprevisto” ci dobbiamo un po’ ridurre, per far esaltare ancora di più la bellezza de “La Casa Volante”. Non mi è mai successo, fino ad adesso, di lavorare più per un’altra esperienza che per la nostra e riconoscere la grandezza di altri. Vi chiediamo una grande attenzione perché ci siamo chiesti cinque minuti a testa. Vedete che siamo tanti e condensare la testimonianza di storie così speciali e così drammatiche in cinque minuti non è facile e quindi anche una sola parola è molto importante. Ma era stato detto – non so se è stato fatto – che sulle seggiole veniva lasciato, dalla casa editrice Itaca, la pubblicità di un nuovo libro che noi de “L’imprevisto” abbiamo fatto; si intitola appunto L’imprevisto: giovani perduti e ritrovati, mi hanno detto che ha già venduto tantissimo al Meeting. C’è una bellissima introduzione del professor Eugenio Bosna, grande psichiatra, grande maestro nel nostro campo e c’è anche una lettera e un augurio tutto speciale, tutto per noi di Vasco Rossi. Quindi più ne comperate anche in queste ultime ore del Meeting, più passate alla libreria, più ci fate contenti e ci fate felici. Ultima cosa: sotto lo sguardo, spero benevolo, del mio vescovo, dell’arcivescovo di Pesaro, mons. Piero Cozza, entriamo in medias res. Un uomo, un uomo vero: ecco chi devo essere, chi voglio essere. Non sono nato per fare comunità terapeutiche, per aiutare gli altri. Così ho fatto per tanti anni ma così non andava bene: occorre partire dal bisogno di felicità, di amore del mio cuore. Prima di tutto devo guardare il mio cuore, io il mio, voi – dico ai ragazzi – il vostro cuore. Non siamo qui per la droga, non siamo qui perché ci mancano mani e braccia e gambe. Siamo qui per il nostro cuore. Siamo qui perché vogliamo conoscere la gioia, la gioia piena. Il mio cuore vuole tanto, vuole tutto: questo è quello che diciamo sempre ai nostri ragazzi. Non vorrò mai di nessuno che arrivi prima di me, che arrivi a Dio prima di me, che lo ami prima di me, che ami la vita più di me. Noi cerchiamo tutti i giorni, domandiamo e cerchiamo una grande cosa, la cerchiamo perché c’è. Desideriamo incontrare un avvenimento continuo e grande, il più grande del mondo. Solo un avvenimento infinito ed eterno può rispondere alla voragine, al grido del mio cuore. I problemi, i bisogni della vita, le mancanze, le paure e l’insicurezza si curano incontrando delle persone con le quali intraprendere un cammino di amicizia, di vicinanza, di educazione. Di educazione alla vita, alla parola, al coraggio, alla forza. L’incontro con persone, ma con persone che danno e che ti danno più di se stesse, molto più di se stesse. Se tu che stai con me, se tu che mi aiuti mi dai solo te stesso, è troppo poco. Tu, educatore, tu, insegnante, tu, sacerdote, sei un poveretto come lo sono io, ma io voglio tutto, io voglio tanto, io voglio Dio. Se tu stai con me, se mi aiuti, tu mi devi dire che in questo mondo ci sono due cose, due realtà che sono le più belle, le più importanti e preziose. La prima realtà è la mia persona. Tu mi devi dire che io, che la persona di ognuno di noi è il fatto, la presenza più bella in assoluto. E che la seconda presenza più importante è la realtà. La realtà, perché, oltre che avere me, ha dentro un invito, ha dentro un incitamento, una forza, una promessa sicura e grande, ha dentro una presenza, un volto. Tu che mi aiuti, mi devi dire tutti i santi giorni che il bene è sempre più grande di qualsiasi grande male. Fammelo vedere. Mi devi dire che io sono sempre stato amato, che sono sempre stato voluto, anche quando ero solo, abbandonato, quando tutto mi crollava intorno ed ogni cosa era contro di me. Tu mi devi saper dire e spiegare che io sarò sempre amato, per sempre, che Dio non mi ha mai abbandonato, che è sempre stato con me. Non è il passato, non è il male la cifra della vita, della mia persona. Il punto, il centro, il valore della vita è la gioia, l’unità di misura è la gioia, non il dolore (come tutti ci inducono a pensare in questo povero mondo). Tormentati dalla gioia, anche, perfino, soprattutto il dolore, la croce, la morte diventano gioia. Essere felici si deve, si può, anche quando si è pieni di dolore, anche quando tutto va male. La vita è un canto, una lode: insegnami questo. Tu, che dici di aiutarmi, insegnami questo. Non guardare solo il mio dolore, guarda il bisogno di vita, di felicità, di amore che ho, che il mio intimo grida a tutto il mondo. Grida insieme a me, vedi che sono piccolo, povero, vedi che sono tutto chiuso in me stesso, tutto rattrappito dentro di me. Insegnami a gridare, aiutami a far esplodere tutta la gioia che mi urge in petto, dai voce, parola, suono, canto al grido del mio cuore. Dai voce alla mia carne. Il male non è l’abbandono, la rinuncia, la sconfitta, la malattia. Il male vero è non avere un’anima che grida, che vuole tutto il bene del mondo per sé. Sì, io sono piccolo, povero, sono misero, sono senza famiglia, sono profugo. Profugo come quelli veri, ma anche quelli nostrani: il campo profughi più grande che c’è in Italia è la sua gioventù. Sì, io soffro, dunque mettimi al centro della tua vita, di te che mi aiuti, di te educatore. Mettimi davanti a te, affinché io possa davvero chiamarti e richiamarti al vero senso della vita, al giusto atteggiamento del cuore. Il piccolo, il povero, se lo sappiamo guardare, se ci permettiamo e ci aiutiamo a guardarlo, ci fa vedere l’essenziale, il cuore delle cose, la straordinaria bellezza del cuore, la profondità degli accadimenti. Il piccolo, il povero ci dicono, ci invitano continuamente a guardare la grandezza dell’Essere, il significato del tutto. Il piccolo, il povero riesce a comunicare in modo convincente, commovente quanto è invisibile, ineffabile, inspiegabile, imprevisto. Come sanno guardare Dio i piccoli e i poveri è davvero ammirabile. Abbiamo bisogno dei piccoli e dei giovani, che guardano tutto con occhi così semplici e limpidi, con quello speciale fremito dell’anima. Ci fanno vedere e capire che la logica della vita non è la riuscita, il successo, la conquista delle mie mani. Ci dicono, invece, che la vita è un incontro, un dono, una grazia. La vita è testimonianza dell’incontro fatto, dell’incontro ricevuto. La persona è l’incontro, si può dire. Ecco cosa desidero, cosa chiedo che diventino i nostri ragazzi: testimoni di una grande cosa. Giovani coraggiosi, fieri, che danno la vita per la vita degli altri. L’altro, non come oggetto di consumo, come oggetto per scaricare le mie violenze, ma come presenza piena di domanda, piena di un dolore che vuole trafiggere il mio cuore. Oh, come sappiamo, come sentiamo e vediamo, che la condizione per vivere la gioia è la croce! Io che sono piccolo, io che sono povero dico a te, educatore, a te, insegnante, a te, genitore: «Non vedi, non capisci che ciò che desidera veramente il mio cuore è dare la vita per un altro? Offrire, dare la vita, sacrificarsi per gli altri! Non vedi, non hai capito che il vero senso del dolore, della sofferenza è questo? È per il bene del mondo, per essere offerto al mondo! Allora insegnamelo, spiegami, aiutami, insegnamelo. Io voglio che la mia croce, così come l’altra famosa, fatidica Croce, sia storia, faccia storia, costruisca la storia, mia e del mondo. Non può essere che ho tanto sofferto e non serve a niente e a nessuno!». Ma da dove ci viene questo grido, questa domanda continua? Da dove ci viene questo bisogno di povertà, di essenzialità? «Dove si è conosciuta la gioia per desiderarla così tanto?», dice sant’Agostino con una frase bellissima. Dove si è conosciuta la gioia per desiderarla così tanto? Dove? In quale altro mondo, in quale strano paradiso dell’essere abbiamo già incontrato la gioia per desiderarla così straziantemente? Sì, da una coscienza profonda, da una voce antica e sempre nuova, da nostro padre e nostra madre, dal costante richiamo dei fatti, dalla realtà, dal soffio leggero del vento che passa, dal bisogno di giustizia e di amore. Da dove ci viene? Da Cristo. Da Te, o Cristo. Da Te, Cristo, che parli, che chiami per bocca dei nostri ragazzi. Da Te, o Cristo, che vieni con il volto dei nostri ragazzi, con il bellissimo e struggente volto dei nostri ragazzi.

ELENA K.:
Ciao a tutti, mi chiamo Elena, io sono nata e cresciuta in un orfanotrofio in cui non c’era amore, per questo nel mio cuore l’amore era assente, e durante l’ultimo anno che ho passato a scuola avevo una domanda, dove sarei dovuta andare dopo l’orfanotrofio, ma il mio desiderio era più delle possibilità di aiuto che mi venivano offerte per decidere. E perché era così? Perché nell’orfanotrofio i desideri che avevano i bambini non interessavano a nessuno. E quindi quando i bambini uscivano dall’orfanotrofio andavano a finire di fatto nel nulla. Perché per i responsabili dell’orfanotrofio l’unica cosa che era importante era che noi fossimo sistemati da qualche parte. Il programma di istruzione che ci davano in orfanotrofio era molto dispersivo, e quindi non ci permetteva poi di passare gli esami di ammissione all’università. Ma fortunatamente, degli amici hanno iniziato a venire a trovarci in orfanotrofio, Aleksandr Filonenko, Inna, Lali, e Nastia. E grazie a loro io ho potuto prepararmi in modo intensivo per passare gli esami di ammissione. In un mese sono riuscita a recuperare tutto il programma che di solito si studia in un anno intero. I primi tre mesi che mi sono trovata a studiare fuori dall’orfanotrofio per me sono stati moto difficili. Anche perché in quel periodo è morta una persona, la persona che in qualche modo è riuscita a imprimere nel mio cuore la parola amore. A imprimerla in modo talmente forte che ormai non riesco più a liberarmene. Questa persona si chiamava Vasilij Sidin ed era il direttore, il responsabile, il regista di un teatro per ragazzi, il teatro Timur, una persona che avevo conosciuto quando io avevo dodici anni. Da piccola io ero la bambina più disobbediente di tutta la scuola, facevo molto spesso casino e non mi piaceva abbracciare le persone né essere abbracciata. Perciò non avevo rapporti stretti con nessuno. Ma Sidin mi ha invitata ad un campo estivo che è durato tre settimine e in quelle tre settimane è riuscito a farmi cambiare idea. Cioè è riuscito a farmi capire che gli abbracci sono una cosa meravigliosa. Ma come ho fatto a capirlo? L’ho capito dopo che lui, tutti i giorni, riusciva a trovare il tempo di venire ad abbracciarmi. Questa cosa all’inizio non mi piaceva per niente, ma quando è finito il campo estivo e sono tornata a casa, mi sono accorta che avevo molta nostalgia di quei suoi abbracci così forti. La cosa di lui che mia aveva colpita di più era il suo sguardo. Lui aveva uno sguardo sincero, uno sguardo pieno d’amore, uno sguardo puro, uno sguardo con cui vedeva la bellezza nei particolari. Una volta abbiamo avuto questo dialogo, io gli ho chiesto «ma lei perché è così felice?» e lui mi ha risposto «tutto grazie a Lui, a causa Sua». E io di nuovo gli ho chiesto «ma grazie a chi, a causa di chi?» e lui «grazie a Dio, è Lui che mi dà tutto e io sono felice». Sinceramente io non è che proprio capissi di cosa stava parlando Sidin, perché nelle sue parole ripeteva sempre la parola Dio. Per me quel Dio era un tiranno, perché mi aveva creata invalida e in più non mi aveva nemmeno dato una famiglia. Ma nonostante questo lo sguardo di Sidin non riusciva a uscirmi di testa, perché anch’io volevo essere così felice come lui. Durante gli ultimi anni di scuola sono quasi sempre stata ricoverata in ospedale perché mi hanno fatto moltissime operazioni alle gambe e probabilmente in molti sapete cosa vuol dire un’operazione e tutto quello che si deve sopportare in quelle circostanze. Chiaramente in quei momenti tutte la mia attenzione era concentrata sul dolore fisico che provavo e non avevo voglia di pensare a niente di bello. Ma allora mi è ritornato in mente quello che mi aveva detto Sidin e ho deciso di mettermi a cercare la bellezza e di mettermi a cercare Dio. E ho iniziato ad accorgermi che la bellezza ce l’avevo sempre accanto, ero io semplicemente che non volevo vederla, non volevo guardarla. Ho iniziato ad accorgermi delle azioni che la gente faceva per me e a riconoscere nelle loro azioni Dio. Ho iniziato a sorridere più spesso e il mio dolore alle gambe, pian piano, è iniziato a scomparire. Il pensiero di Dio per me è diventato come un antidolorifico. E così ho iniziato a vedere Dio molto più spesso, soprattutto questo è accaduto dopo che ho incontrato delle persone meravigliose, persone che non solo amano Dio ma che Gli hanno dato la vita. Poi io, come tutti i ragazzi che uscivano dall’orfanotrofio, avevo il problema di dove andare a vivere, Come studentessa universitaria mi avrebbero offerto uno studentato ma non era adeguato alle mie possibilità fisiche, allora Filonenko mi ha detto «creeremo una casa dove tu e Tania potete andare a vivere». Io non gli ho creduto finché dopo un mese hanno aperto “La Casa Volante”. Che cosa era accaduto prima? C’era stato un dialogo tra Sidin e Filonenko. Sidin aveva detto a Filonenko «salva Liena», dai a questi ragazzi una casa dove possono vivere, studiare ed essere felici. E dopo quel dialogo Filonenko ha dovuto cambiare i suoi piani, i suoi progetti di vita. È venuto in Italia, dove in vari incontri, anche qui al Meeting, ha iniziato a raccontare di noi e ha portato da noi in Ucraina, dall’Italia, una giovane famiglia, Filippo e Leda, con cui io e Tania siamo diventati molto amici. Sono stati loro a dare il primo contributo con cui hanno pagato l’affitto del nostro appartamento. Poi dopo un anno, in Italia sono state fatte le tende di Natale di AVSI a cui hanno partecipato moltissime persone che hanno raccolto dei soldi per la nostra casa. A me ha colpito moltissimo il fatto che il desiderio e l’amore di così tante persone che non ci conoscevano abbia avuto la forza di realizzare una casa vera, reale e di cambiare il nostro destino. È già da un po’ di anni che agl’incontri della nostra comunità, che si chiama “comunità volante”, io incontro molte persone, persone stupefacenti, attraverso le quali vedo in modo distinto il grande amore e la bellezza di Dio, e grazie a queste persone ho iniziato a scoprire una nuova “me”, tanto che negli ultimi tre anni mi sono accorta che mi accade una cosa strana: le mie gambe non hanno la forza di percorrere tanti chilometri, ma quando nel mio cuore nasce un desiderio grande di vedere la bellezza, ad esempio di vedere le montagne, di vedere l’oceano, di vedere gli amici, io mi dimentico del dolore fisico che provo alle gambe e vado dritta allo scopo, e quando mi trovo lì, sento che il mio dolore è sovrastato dalla bellezza. E allora non mi rimane altro da fare se non ringraziare Dio nella preghiera per il fatto che Lui mi è vicino e per il fatto che io sono la persona più felice del mondo. Grazie per l’attenzione e la vostra presenza.

SILVIO CATTARINA:
Tra le tantissime cose belle che ha detto Elena, mi sembra bellissima la sottolineatura che la vita è fatta di nomi e cognomi, pensate a quante persona ha nominato, e poi questo regista che dice a Filonenko: «Salva Elena!»; mi colpisce così tanto (ci ho riflettuto un po’, ci ho messo un po’ a capirlo) perché tutti abbiamo avuto una persona che per ognuno di noi ha detto: «Salva! Salva Silvio, salva Elena!». L’abbiamo avuto tutti. Certo, lei in modo così speciale, così emblematico, così profetico per tutti, ma tutti l’abbiamo avuto, per questo ci commuove così tanto. Tania.

TATJANA:
Io sono nata in una famiglia disagiata; i miei genitori avevano tre figli, ho due fratelli più grandi di me. Io e mio fratello di mezzo siamo nati con una forma di invalidità, tanto che fino a quando avevamo sette anni non potevamo neanche camminare e il papà e la mamma non andavano a lavorare, perché dovevano occuparsi di noi. Quando io ero piccola, vedevo in modo molto chiaro che i miei genitori soffrivano molto: mio papà molto spesso beveva e mia madre scompariva da casa per lunghi periodi, ma nonostante questo, loro mostravano di volermi bene, con le loro carezze, con i loro abbracci, quando mi prendevano in braccio. Un grande dolore per me è stato il suicidio di mio padre, che è accaduto quando io avevo cinque anni, e io sono molto triste per il fatto che lui non abbia incontrato delle persone buone, persone che potessero aiutarlo a liberarsi dalla dipendenza dall’alcool. Poi dopo due anni è morta anche la mamma e mi hanno mandata in un orfanotrofio. Adesso io capisco che l’orfanotrofio è stato un posto che mi ha dato una certa tranquillità e che mi ha salvata, nel senso che in orfanotrofio ci davano tutto quello che era indispensabile per vivere, e quel luogo per me è stato una scuola di vita, lì io ho imparato a essere indipendente. Nel tempo libero frequentavo un gruppo di teatro, e a me il teatro piaceva, perché rendeva la mia vita più luminosa. Ho incontrato Dio attraverso la stessa persona di cui parlava Elena, ho partecipato anch’io a quel campo estivo e ogni giornata che passavamo lì era luminosa, particolare, era piena di gioia. La cosa più importante che ci hanno insegnato lì è a essere umani, a vedere il bisogno degli altri e a cercare di aiutare gli altri, e in questo l’esempio fondamentale per noi era Sidin, da lui io ho imparato in modo molto chiaro che la fede è un’azione, perché io prima di incontrare lui non avevo mai visto una persona che potesse amare un bambino di estranei come se fosse un figlio suo. Per molti dei ragazzi del nostro teatro, il teatro Timur, Sidin era come un padre. È attraverso di lui che ho visto che cos’è l’amore e lui ci ha mostrato che il mondo non è così crudele, ma che esistevano delle persone che avevano bisogno di me, a cui io ero necessaria; per Sidin vedere un bambino sorridere faceva sorridere anche lui e per lui era molto importante, quando vedeva un bambino disperato, stargli accanto. Io, dopo che sono uscita dall’orfanotrofio, per un mese ho vissuto nello studentato del college che avevo iniziato a frequentare, poi si è aperta “La Casa Volante” e io e Elena abbiamo iniziato a vivere lì. In quella casa Inna mi ha insegnato a far da mangiare, a fare la lavatrice, ad apparecchiare e a preparare bene per accogliere gli ospiti a casa, a essere ospitale, accogliente, perché tutte queste cose io prima non sapevo farle, perché in orfanotrofio non me le avevano insegnate. Adesso nella nostra casa vivono cinque ragazze, ognuna di noi è stupefacente, la nostra è una casa molto allegra, perché a ognuna di noi spesso capitano cose strane e divertenti, e quando noi raccontiamo quello che ci succede, gli ospiti muoiono dal ridere. Ognuna di noi ha le sue capacità: per esempio in cucina io so preparare bene le minestre, le zuppe, Lena sa cucinare bene la carne, l’altra Lena prepara bene la Kaša, che qui non c’è, prepara bene le crèpes e le frittelle, Ira sa preparare il latte col cacao. Se penso alla nostra casa, posso dire con certezza che ognuno degli incontri che ci sono accaduti è stato pensato e voluto da Dio. Tutti i venerdì invitiamo a casa nostra altri ragazzi che vengono dal mio orfanotrofio e anche da altri orfanotrofi, ragazzi che hanno bisogno di essere sostenuti, aiutati e i nostri educatori riescono sempre a trovare parole per confortare ciascuno dei nostri amici e tutte le persone che vengono a casa nostra. Io mi sono sempre chiesta: ma a queste persone da dove viene tutta questa luce, tutta questa gioia, e vedendo, guardando come vivevano loro, mi è nato il desiderio di vivere anche la mia vita così. Allora quando mi imbatto in difficoltà, in situazioni che mi sembra non abbiamo via di uscita, mi ricordo di mio papà, perché mio papà non ha avuto persone così che lo aiutassero. Io ringrazio Dio per ogni persona che si coinvolge con la mia vita, perciò ho deciso che io devo essere ogni giorno felice e grata a Dio per l’amore che mi dona attraverso le persone che mi circondano. Grazie mille.

SILVIO CATTARINA:
È sorprendente come, anche nel dolore più grande, ci sia immediatamente e sempre un grande aiuto, come un grande appiglio, un’ancora, un soccorso subito. Dalla testimonianza che abbiamo appena sentito viene fuori questo. È vero che accade un grande guaio, ma immediatamente l’aiuto c’è, spesso siamo noi che non vediamo o che non lo vogliamo.

ELENA Z.:
Ciao a tutti, io mi chiamo Elena Z., sono nata nella città di Zaparozhye ma ho passato la mia infanzia in un orfanotrofio che si trova nella città di Kherson. Purtroppo sono nata in una società che propagandava un’immagine di uomo sano e forte, e perciò quando nascevano bambini invalidi i medici convincevano i genitori a rifiutarli. A me questa sorte non è stata risparmiata, ed è così che sono finita in orfanotrofio, perché i miei genitori mi hanno rifiutata. La mia vita in orfanotrofio non è stata semplice, è stata complessa, ci portavano a fare delle gite, organizzavano per noi delle feste, ci facevano dei regali ma non ci mostravano nessun tipo di amore, e nel rapporto con noi mantenevano sempre una distanza. Anche quando ci punivano lo facevano senza amore, e questo non portava a nessun tipo di risultato, perché sia i bambini che gli educatori rimanevano sulla loro posizione. Io sono rimasta in orfanotrofio fino all’età di 17 anni, la mia vita era vuota e noiosa e non aveva un senso perché ero offesa. Mi facevo delle domande, mi chiedevo «perché io sono nata così? Perché i miei genitori mi hanno rifiutata?». Quando ho frequentato l’ultimo anno di scuola dell’orfanotrofio hanno iniziato a venire a trovarci delle persone, delle persone che erano cristiane. Io ho conosciuto queste persone e siamo diventati amici, hanno iniziato ad invitarmi a casa loro e ho iniziato a frequentare la loro casa in modo regolare. I rapporto tra noi sono diventati sempre più stretti, abbiamo iniziato a fidarci gli uni degli altri, finché loro non mi hanno accolta nella loro famiglia, ed è in quella famiglia che è accaduto il mio incontro con Cristo. Prima io sapevo qualcosa di Dio, a volte andavo in chiesa ma avevo molto spesso dei dubbi, mi chiedevo «ma esisterà davvero?», e visto che avevo tante domande da fare a Dio, pregavo spesso ma non ricevevo risposte. A un certo punto semplicemente mi sono arrabbiata ed ho iniziato a vivere senza di Lui, e tutte le persone credenti che venivano a trovarci in orfanotrofio ci dicevano «bambini, Dio vi ama» ma per noi questo era totalmente indifferente, non ci faceva né caldo né freddo, perché noi non avevamo un esempio di questo amore. In quella famiglia mi hanno mostrato un esempio dell’amore di Cristo, dopodiché in me sono nate la speranza e la fede. Attraverso di loro il Signore mi ha mostrato che c’è qualcuno per cui io posso essere necessaria e posso essere interessante e la mia vita è completamente cambiata. Dopo l’orfanotrofio sono andata a studiare in un college e sono diventata operatore sociale, e poi volevo continuare, prendere una laurea sempre in questa specializzazione, però ero spaventata perché avevo paura di andare a vivere da sola. Non avevo una casa, non avevo un lavoro e non avevo soldi, fortunatamente Dio mi ha mandato Tanja che mi ha fatto conoscere l’organizzazione Emmaus. Lì ho incontrato dei buoni amici, che mi hanno aiutata a passare gli esami di ammissione in università e mi hanno invitato a vivere a “La Casa Volante”, perciò io adesso sto frequentando l’università all’Accademia umanistico-pedagogica nella specializzazione di Educatore sociale e sto imparando a vivere in modo autonomo. Dopo la laurea il mio sogno è quello di aprire una mia Ong per aiutare i ragazzi come me. Io sono grata a tutte le persone che ci aiutano e che partecipano a questo progetto e che si coinvolgono con la mia vita. Con il vostro sostegno rendete la mia vita migliore. Grazie

SILVIO CATTARINA:
Rendete la mia vita migliore, cioè utile, feconda per il mondo. Lei lo ha spiegato bene. È bellissimo quando dice «mi accorgo che sono importante per le persone che mi aiutano, sono io che do, non sono innanzitutto io che ricevo ma adesso riesco a dare». Interessantissimo questo passaggio. Irina.

IRINA:
Ciao a tutti, mi chiamo Ira, il terzo giorno dopo che sono nata mia mamma mi ha rifiutata e la ragione è perché sono nata invalida, ma io vi chiedo di non giudicare mia mamma, perché da giovani tutti noi facciamo degli errori per mancanza di esperienza o anche semplicemente per paura e io ho perdonato mia mamma semplicemente perché è una persona e non è in niente peggiore di tutte le persone che sono sedute qui oggi. Ho passato la mia infanzia in una piccola cittadina nella regione ucraina di Cherson, cioè non lontano dal mare e in un orfanotrofio, un internato per bambini orfani e invalidi. Ho passato in questo orfanotrofio quattordici anni. Potete capire tutti che cosa sia un orfanotrofio e che la vita lì non è proprio rose e fiori, ma attraversando le fatiche, le difficoltà di quegli anni, io sono riuscita a diventare migliore. Lì mi hanno dato una istruzione e ho smesso di aver paura e a fare dei passi avanti. Mi hanno insegnato molto che poi mi è stato utile nella mia vita successiva. In orfanotrofio io cercavo di prendere dagli adulti tutto quello che potevo, tutto quello che loro mi davano. Ma perché lo facevo? Perché io avevo paura che poi nel mondo così grande da sola non sarei riuscita a sopravvivere. I nostri educatori ci dicevano continuamente: il mondo è crudele e voi siete inutili, non servite a nessuno; questo pensiero mi si è fissato in testa quando avevo solo quattro anni. Quando sono uscita dall’orfanotrofio mi sono prefissata uno scopo, di non fidarmi mai di nessuno perché avevo paura di essere ingannata. Nel periodo in cui studiavo al college, ho incontrano Inna, Lali, Aleksander Filonenko e mi sono sembrate delle persone meravigliose, perciò il mio rapporto con loro era più caloroso rispetto al rapporto che avevo con gli altri, passavamo insieme del tempo in modo allegro, parlavamo delle cose più diverse, ci incontravamo spesso e così siamo diventati amici. Quando poi ho finito la scuola al college mi sono sentita un po’ persa, non sapevo cosa avrei dovuto fare dopo e chiaramente per prima cosa ho condiviso la mia ansia con i miei nuovi amici e non mi sarei mai potuta immaginare di trovare persone che desiderassero accompagnarmi, accompagnarmi in quelli che erano i miei piani. Invece loro mi hanno aiutata a scoprire quali esami di ammissione avrei dovuto sostenere e mi hanno trovato anche subito insegnanti di ripetizioni, perché io potessi passare gli esami e fare l’università che volevo fare. Quando ho saputo che avevo passato gli esami di ammissione, mi è venuta la domanda successiva, dove andare a vivere, perché anche per me vivere in studentato fisicamente sarebbe stato difficile e anche in questa questione questi amici mi hanno aiutata, così che, come sapete, adesso io vivo a “La Casa Volante”. In questa casa c’è sempre qualcuno che mi aspetta e lì ho iniziato a sentire la mia vita in modo un po’ diverso, in modo più positivo e con gratitudine e io sono contenta che nella mia vita le cose si siano messe proprio così. Tutto questo tempo, da quando vivo lì, ho conosciuto e incontrato persone nuove, ho incontrato le persone del Movimento e queste persone oggi sono i miei amici. Allora io non capivo perché fossero proprio quelle persone, quelle che io volevo sempre vedere, non capivo perché volessi sempre abbracciarle, né perché quelle persone mi volessero bene. Chi erano quelle persone? Perché io dovevo incontrare proprio loro, a che scopo? E io, come tutti, avevo più domande che non risposte e tante di queste domande in realtà ce le ho ancora in testa, solo che ora inizio un po’ a capire qual è l’essenza di questa amicizia. C’è stato un periodo recentemente in cui con tutte queste mie domande sono andata in confusione ed ero arrivata a far fatica a capire come andare avanti a muovermi, avevo voglia di star da sola, di non pensare a niente per riuscire a riflettere, a capire, così la vigilia del mio compleanno, ho fatto apposta, ho preso e sono andata via di casa, sono andata a Cherson, dove c’è il mio posto preferito, il posto dove mi tranquillizzo e mi carico di energia e lì ho incontrato una donna che veniva a trovarci quando ero in orfanotrofio, quella donna veniva e ci parlava di Dio, ci faceva leggere insieme la Bibbia e io mi ricordo molto bene che da piccola io avevo pregato con lei per chiedere a Dio la mamma. Lei ci diceva sempre «Dio ci ama a Dio può tutto», perciò io tutto quello che chiedevo era la mamma e quando ho compiuto dieci anni mia mamma è venuta a trovarmi; allora quando questa volta sono andata a Cherson e ho incontrato questa donna lei mi ha detto «Ira il tuo guardo è cambiato» e io non capivo cosa volesse dire, ma esattamente lei mi ha detto queste parole: «Ira, quando hai compiuto dodici anni e tua mamma è morta, tu hai indossato una maschera per il dolore. Io mi ricordo il tuo dolore, io mi ricordo che tu ti chiudevi in camera, non volevi più ascoltare i racconti della Bibbia solo perché Dio ti aveva tolto quella mamma, quella mamma che tanto a lungo tu avevi atteso di conoscere. Tutto quello che mi ricordo di te da quel momento è che non ti sei più tolta di dosso quella maschera, ma io desideravo tantissimo che tu iniziassi a vivere una vita vera, avrei desiderato che tu non controllassi le emozioni sul tuo volto, nessuno ti avrebbe picchiata se ti fossi messa a piangere o a ridere forte, io volevo rivedere la Ira di prima, quella vera, quella che era capace di sorridere, volevo che tu non avessi paura di mostrarti così come sei e io ho pregato Dio, ho chiesto a Dio che ti donasse delle persone davanti alle quali tu potessi tranquillamente toglierti di dosso quella maschera, ho pregato perché Dio ti donasse degli amici veri, che tu potessi amare e che ti fossero sempre vicino». È solo dopo aver incontrato questa signora che io ho cominciato a capire di quale sguardo parlava, ho iniziato a capire quali erano gli amici che, questa signora Natascia, aveva chiesto a Dio, io potessi incontrare. E io sono grata agli amici che, adesso, mi sono accanto, vi ringrazio, perché mi accogliete così come sono, nonostante tutti i miei difetti. Vi ringrazio per la possibilità di essere qui, e di condividere con voi la mia storia. Io sono grata per la casa in cui vivo, e sono grata per le persone che mi sono accanto, adesso non potrei immaginarmi la vita senza di voi, amati amici. Anche se a volte viviamo lontani, gli incontri con voi sono sempre più belli per me; io vi sono grata perché mi fate scoprire me stessa dal di dentro, vi sono grata perché siete sempre pronti a venire ad aiutarmi, vi sono grata perché mi mostrate la bellezza, perché siete pazienti con me e il vostro cuore è sempre aperto. Per me è sempre stato molto importante trovare qualcuno che di me avesse bisogno, e che mi facesse sentire amata, voi avete realizzato quello che il mio cuore desiderava da molto tempo, grazie.

SILVIO CATTARINA:
Una frase che detto: «Così che, come sapete, grazie a loro adesso vivo a “La Casa Volante”, una casa dove sono sempre attesa». Questo è molto bello, è già tanto «ma sono attesa per cose grandi». Non è solo una questione di affetto, di cura, di vicinanza, ma è un compito, una responsabilità. Il nostro cuore si muove veramente, quando uno si sente atteso per fare grandi cose, «grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente».

ANITA:
Sono in comunità da un anno e undici mesi per problemi di tossicodipendenza, la mia storia con sostanze ha avuto inizio da quando avevo tredici anni, partendo dalle cosiddette droghe leggere fino ad arrivare a quelle più pesanti, ma le droghe erano solo una conseguenza di quello che avevo provato fin da piccola. Quando avevo cinque anni i miei si sono separati, ed io sono andata a vivere con mia madre. Mia madre ha sempre avuto problemi di alcolismo e di conseguenza si occupava poco di me, io soffrivo molto per questa cosa, non mi sentivo accettata e voluta né da lei né dai miei coetanei, che mi prendevano in giro soprattutto per il mio aspetto fisico. Alle superiori ho cominciato a girare con gente sempre più grande e sempre più messa male. Tutto questo per contenere la rabbia e il dolore che avevo nei confronti della mia storia. Poi un giorno, il 18 aprile 2016, mia nonna è venuta a mancare, lì mi è crollato il mondo addosso, quel mondo che mi ero costruita si stava disintegrando, non bastavano più le sostanze a placare quel male, e così tornata a casa una sera tardi, ho parlato con mia madre, lei mi disse che la nonna, prima di morire, le aveva detto di tenermi d’occhio, che secondo lei c’era qualcosa che non andava in me, e così, piangendo, le ho raccontato tutto, le ho detto che dovevo farmi aiutare. Siamo andate al Sert, e subito mi hanno parlato della comunità e mi hanno organizzato un colloquio. Il 20 settembre 2016, sono entrata a “L’Imprevisto”, mi ricordo ancora l’ora, chi mi ha accolto, e quello che ho percepito fin da subito: una grande gioia di stare insieme. All’ inizio non riuscivo a capire come ragazze che non si sono scelte fra di loro, desiderassero così tanto vivere, ma poi, andando avanti con il tempo, ho capito che è la lotta che facciamo ogni giorno che ci tiene unite. In comunità ho imparato a vivere con l’essenziale, senza dovermi nascondere dietro al trucco o al telefonino, ho imparato, grazie alle assemblee quotidiane, che sono i rapporti a farci crescere, che stare in relazione con gli altri è fondamentale. Anche il fatto che ci siano degli operatori, ci fa capire che è la relazione con l’adulto che ci serve, perché nel passato eravamo abituate a fare tutto da sole, ma da sole siamo andate a cadere sempre più in basso. Ora, dopo quasi due anni, sono rinata, ho recuperato i rapporti con i miei genitori, e ho speranza per il mio futuro, mentre prima, l’unica speranza che avevo, era che questa mia vita finisse in fretta. Ora posso dirmi di sentirmi viva senza il bisogno di sopprimere le mie emozioni con le sostanze, e senza dover nascondere il mio passato, perché è grazie a ciò che è stato che ora sono davvero me stessa. Sì, la vita è stata dolorosa, ma è sempre bella; sì, io sento di valere, di essere io, di poter dare tanto, come sto facendo ora. Chi l’avrebbe mai detto di essere qui a parlare? Sì, io sono di questa esperienza che mi ha fatto, de “L’Imprevisto”!.

SILVIO CATTARINA:
Avete visto, anche lei ha messo sul chi vive la mamma, c’è sempre un grande aiuto, c’è sempre una grande presenza, la luce c’è sempre.

MARTINA:
Mi chiamo Martina, e faccio parte de “L’Imprevisto” da due anni. La mia esperienza parla di un desiderio, un desiderio che ha sempre dimorato nel mio cuore, e per quanto fosse bramoso, in un certo periodo lo ha anche divorato. Perché gli avevo dato il nome sbagliato, la forma sbagliata. Ho iniziato a drogarmi a quattordici anni, un po’ perché mi sentivo sola e abbandonata, soprattutto dalla vita, un po’ perché non trovavo il reale motivo per impegnarmi e convivere con tutto ciò che sono. Per vari problemi familiari, a tre anni e mezzo, sono andata a vivere in una comunità, nella quale sono cresciuta, fino ai miei quattordici anni, momento in cui sono andata a vivere da mio padre. Il tradimento, per me, era stato troppo grande, un ulteriore abbandono, un’ulteriore ferita, e mi sono ribellata, a tutto e a tutti. Decisi, in maniera molto fredda, che nessun adulto avrebbe mai più avuto un ruolo nella mia vita. Quando cresci in modo autoreferenziale, devi attuare delle strategie per restare a galla di fronte alla tua inadeguatezza. Io avevo le sostanze, e una buona dose di presunzione, a 19 anni ero disperata; una sera in lacrime mi dissi: «Ho bisogno di risentirmi a casa», così la scelta della comunità, unico luogo che nella mia vita ho sentito come tale, Ma “L’Imprevisto” è stato diverso, avevo sempre inteso casa come un luogo affettivo, consolatorio, qui ho scoperto che casa è dove il cuore riposa, dove non ti viene tolta tutta la fatica che porti, ma viene guardata e portata insieme. Finalmente puoi essere tutta la piccolezza che sei, sentendoti comunque grande. In questa comunità mi sono state tolte tutte le maschere, tutta la mia apparenza da intoccabile. Io di fronte a questo sono scappata, anche fisicamente, più di una volta. Non è stato facile accettare la verità più profonda di me stessa, ma soprattutto accettare che io possa realmente conoscermi solo attraverso gli occhi di qualcun altro. Grazia, la responsabile, fa sempre un esempio che, secondo me, rende benissimo l’idea: io, in questo momento, sto parlando ma siete voi che mi vedete, siete voi a darmi un volto. Io ho sempre creduto che ognuno dovesse farcela da solo, con il proprio sforzo, questo per me era essere forti, essere liberi. Oggi sto sperimentando, per la prima volta, cosa sia davvero la libertà, poter scegliere di vivere oltre i miei limiti ed insufficienze, consapevole che ci sono, ma sapendo che sono il trampolino di lancio per attendere che tutto arrivi, perché sono la conferma che il mio essere limitata è proprio il presupposto per cercare cose grandi. Ho scoperto che siamo tutti sulla stessa strada, giovani, adulti, anziani, tutti abbiamo lo stesso compito: essere felici. Può sembrare banale dirlo ma è essenziale, perché se entrambi sappiamo che desideriamo trovare un punto di luce oggi, allora possiamo aiutarci a cercarlo insieme. Ho scoperto che tutto è una continua ricerca perché è ciò che mi tiene in movimento e quindi in vita. Ad oggi posso dire che la gioia per me è proprio quello da cui sono sempre fuggita, un rapporto, sentirmi responsabilizzata da Grazia, sentirmi lanciata da Silvio, essere ripresa da Giancarlo, sentirmi chiamata da un operatore o una compagna, guardare la commozione di mio padre nello stare insieme. Ho finito, queste sono le forze che hanno mosso la mia storia e automaticamente il mio cuore, perché ho scoperto che tutto è stato ed è tutt’ora per me, il mio vissuto, queste persone, tutto ha avuto un significato ed io non posso fare a meno di vedere quanto bene mi stia portando. Mi piace usare il termine scoprire perché vale a dire che questa verità c’è sempre stata, bisognava solo togliere il velo che la copriva.

SILVIO CATTARINA:
Tant’è che una delle cose che noi diciamo sempre, spesso, ai ragazzi è appunto questa, dall’intervento di Martina si capiva benissimo: non guardate noi, guardate dove guardiamo noi. Questo è il punto. Elena Mazzola.

ELENA MAZZOLA:
Buonasera, io mi chiamo Elena e da poco più di anno vivo in Ucraina, a Kharkov vicino a loro, dove mi sono trasferita dopo aver passato quindici anni in Russia, a Mosca. Di lavoro faccio la traduttrice e mi occupo di letteratura, dirigo un centro di cultura che è strettamente legato all’opera Emmaus di cui “La Casa Volante” è uno dei progetti. La cosa che ci tengo a dire stasera è la stessa che ha dello Silvio all’inizio, che anche per me la questione non è che io mi occupo di ragazzi che hanno dei problemi, anche io non sono nata per quello, anche io in quello che mi occupo e che faccio è per trovar ciò che rende felice me, che rende felice il mio cuore. È questo quello che è a tema tra me e le ragazze de “La Casa Volante”, è questo quello che mi ha fatta diventare amica di Silvio e dei ragazzi de “L’Imprevisto”, ed è questa la ragione per cui li abbiamo trascinati in Ucraina e continuiamo e continueremo a trascinarli da noi in Ucraina. Noi vogliamo imparare ad essere felici come loro, vogliamo scoprire quello che è il loro segreto e vogliamo addirittura superarli. Vogliamo essere noi quelli che gridano e rispondono alla domanda di San Benedetto, che Papa Francesco ci ha ricordato nel messaggio che ha mandato al Meeting, «chi è l’uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?», noi vogliamo con i nostri ragazzi imparare a gridare “io”, non importa se siamo piccoli o grandi, ricchi o poveri, sani o malati. Qui si tratta di un’altra cosa, si tratta della nostra natura di uomini. Io voglio vivere ed essere felice, sono le parole che ci ha detto il Papa, questo è il tema della nostra vita, il cuore, il desiderio, il compimento, la felicità possibile. Un imprevisto che accade e prende la vita rendendola finalmente umana. I nostri ragazzi, sia quelli de “L’imprevisto” che le nostre ragazze (credo che oggi l’abbiate intuito) hanno delle storie durissime. Quando le raccontano nei particolari sono storie strazianti, disumane. Liena oggi l’ha detto con una semplicità disarmante, quando ha introdotto il racconto del suo incontro con Sidin, ha detto «per me Dio era un tiranno, mi aveva creata invalida, non mi aveva dato una famiglia». Poi però ha detto «ma lo sguardo di Sidin non potevo togliermelo dalla testa, perché anch’io volevo essere così felice». Incontrare un uomo felice, che ti abbraccia così come sei e che ti imprime nel cuore la parola amore, che ti aiuta a trovare il coraggio di toglierti la maschera di dolore o di misura che hai indossato. Noi abbiamo incontrato degli uomini felici, siamo diventati o stiamo diventando come loro e, come ha detto prima Tanja, abbiamo deciso che vogliamo essere felici, perché siamo tormentati dalla gioia che ci è accaduta in questi incontri, e che ci ha contagiati. È in questi incontri, profondamente umani, che il nostro bramoso desiderio di felicità diventa una forza di bene, una forza che costruisce il mondo, anche questo oggi l’hanno detto le ragazze. Mi ha colpito moltissimo il fatto che il desiderio e l’amore di tante persone che non ci conoscevano abbia avuto la forza di far nascere una casa reale, e di cambiare il nostro destino. È una realtà, uomini resi felici che muovono la storia. Queste ragazze hanno sofferto tanto, tantissimo, e quindi su di noi hanno un vantaggio: a loro ben difficilmente basterebbero dei discorsi, loro hanno il cuore troppo messo a nudo, troppo sveglio. Quello che corrisponde al cuore per loro deve essere reale, deve essere incarnato, quell’amore che loro bramano deve essere incarnato, deve essere incontrabile in una persona, in altri uomini. «Se l’amore di Dio è un discorso, non ci fa né caldo né freddo», ha detto Lena (lei l’ha detto raccontando delle persone che andavano a trovarla in orfanotrofio e che dicevano ai bambini «Dio vi ama»). Poi ha detto «non avevamo un esempio», mentre nella famiglia che l’ha accolta ha incontrato Cristo. Ha detto inoltre «da quell’incontro reale in me sono nate la speranza e la fede». Anche Anita l’ha detto, quando ha confessato «sono rinata e ho una speranza, mentre prima speravo solo che la mia vita finisse presto». È la disperazione che provano tanti uomini, il senso di vuoto diffuso anche tra i giovani, la solitudine. Nel suo racconto Tanja ha detto che in orfanotrofio le hanno insegnato ad essere “indipendente” mentre Sidin insegnava ai ragazzi ad essere umani, questo lo dico perché è un punto delicato e importante, perché in un certo senso nel lavoro educativo anche noi cerchiamo di aiutare le ragazze de “La Casa Volante” ad essere indipendenti, autonome, ad imparare a vivere e a diventare adulte e responsabili, ma in realtà noi, i più grandi e i responsabili che accompagnano le ragazze nelle comunità “L’imprevisto” e “La Casa Volante”, sappiamo benissimo che essere adulti non significa essere indipendenti, ed è proprio per questo che siamo noi i primi a fare insieme ai nostri ragazzi il lavoro della vita, cioè il lavoro di diventare uomini. Noi ci educhiamo, siamo delle comunità in cui cerchiamo tutti assieme di imparare il mistero che siamo, che ognuno di noi è. Ci educhiamo insieme a scoprire e a conoscere questo mistero che siamo, e ci togliamo i sandali davanti al mistero immenso e sacro che è ognuno di voi ragazzi, come ognuno di noi. Questo significa che in realtà noi insieme impariamo ad essere non indipendenti ma “dipendenti”, impariamo insieme che la nostra natura è essere bisogno ed è essere rapporto. Questa è la cosa che ha detto benissimo Martina quando ha detto «questo essere rapporto è la nostra gioia, ad oggi posso dire che la gioia per me è proprio quella da cui sono sempre fuggita, un rapporto» o come ha detto Anita «sì, io sono di questo avvenimento che mi ha fatta, de “L’imprevisto”». Le ragazze de “L’imprevisto” sono più avanti di noi, ma anche noi vorremmo arrivare lì, con i nostri tempi e con le nostre gambe, e noi desideriamo essere uomini sempre più vivi, uomini che non rinunciano mai a sognare che il mondo cambi in meglio, e a tormentare gli altri con la testimonianza della gioia che viviamo per l’avvenimento che ci è accaduto, e siamo sognatori ragionevoli proprio in forza di questo avvenimento. Papa Francesco, sempre nel messaggio al Meeting, ci ha detto che la ragionevolezza del sognare che il mondo cambi in meglio si radica in una certezza, nella convinzione profonda che Cristo è l’inizio del mondo nuovo: «la Sua resurrezione non è una cosa del passato, contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo, dove sembra che tutto sia morto da ogni parte tornano ad apparire i germogli della resurrezione». Lena ha detto «ora il mio dolore è sovrastato dalla bellezza, tanto che non mi resta altro da fare se non ringraziare Dio per il fatto che Lui mi è vicino, ed io sono la persona più felice del mondo». Anita ha detto «la vita è stata anche dolorosa ma è sempre bella, sì, io sento di valere, di essere io, di potere dare tanto». Irina: «Per me era molto importante che ci fosse qualcuno per cui io non fossi inutile e che mi amasse, voi avete compiuto quello che il mio cuore ha tanto a lungo desiderato» e Papa Francesco: «È una forza senza uguali la forza della resurrezione, ora, non nel passato, nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo». Come vedete, noi non siamo che un piccolissimo seme che ha iniziato a sbocciare, ma siamo un seme che è nato dove sembrava che davvero tutto fosse morte, che tutto fosse morto, e invece siamo stati afferrati da quella forza di vita che ancora oggi penetra il mondo, e siamo certamente un seme carico di gioia. Grazie.

SILVIO CATTARINA:
È un piccolo seme, molto piccolo, ma che sicuramente, come si vede e come si capisce, arriverà molto lontano, per molti anni.
Grazie a tutti.

Data

25 Agosto 2018

Ora

17:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri