NOTIZIE FALSE E GIORNALISMO DI PACE

Notizie false e giornalismo di pace

In collaborazione con Avvenire in occasione dei 50 anni della testata. Partecipano: Lucio Brunelli, Direttore giornalistico di Tv2000 e InBlu Radio; Bruno Mastroianni, Giornalista, scrittore e social media manager; Francesco Piccinini, Direttore di Fanpage.it; Marco Tarquinio, Direttore di Avvenire. Introduce Alessandro Banfi, Giornalista, Direttore Mediaset.

 

Ore 11:30 Sala Neri Unipolsai
NOTIZIE FALSE E GIORNALISMO DI PACE

Partecipano: Lucio Brunelli, Direttore giornalistico di Tv2000 e InBlu Radio; Marco Tarquinio, Di-rettore di Avvenire; Francesco Piccinini, Direttore di Fanpage.it, Bruno Mastroianni, Giornalista, scrittore e social media manager
Introduce: Alessandro Banfi, Giornalista, Direttore Mediaset

ALESSANDRO BANFI:
Buongiorno a tutti e benvenuti a questo incontro dal titolo Notizie false e giornalismo di pace. Il tema delle notizie false e delle giornalismo di pace è un tema di stringente attualità. Come al soli-to il Meeting riesce a cogliere delle questioni cruciali, di grande e stringente attualità. È stata una estate pervasa da fake news, è stata una estate pervasa da polemiche. Forse il politico più impor-tante del pianeta, e se non il più importante il più rilevante dal punto di vista oggettivo, il Presi-dente degli Stati Uniti, ha lanciato ufficialmente una crociata contro le fake news. Metà del gior-nalismo mondiale ha lanciato una crociata contro di lui. Quindi ieri ho ascoltato qui al Meeting Ta-jani e anche lui ha parlato di fake news. Devo dire che i politici parlano tantissimo di fake news, cosa che a noi giornalisti fa venire un po’ di prurito perché i limiti del nostro mestiere sono emersi in modo notevole negli ultimi anni insieme ad un’apparente maggiore libertà. Come ha scritto il più grande sociologo degli ultimi anni Zygmunt Bauman, quello dell’informazione è diventato un pulviscolo. La notizia non conta più, ma siamo immersi in un pulviscolo informativo che diamo quasi ormai per scontato, dove il valore della notizia da un lato ha perso spessore e dove dall’altra il condizionamento sembra ambientale. Cosa ci manca? Ci manca il discernimento, per usare un termine ignaziano caro al nostro papa, ci manca la formazione per capire l’informazione. Ecco il tema di stamattina: fake news e giornalismo di pace. È anche il tema dell’ultimo documento di papa Francesco in occasione della Giornata delle Comunicazioni Sociali che aveva proprio questo titolo, Fake news e giornalismo di pace. C’è qui al Meeting in libreria un libro che raccoglie una serie di commenti a questo messaggio di papa Francesco. Tra questi mi ha colpito un commento di don Ivan Maffeis, che cita questa frase di Hannah Arendt (sapete tutti chi è, allieva di Heidegger, grandissima filosofa) del suo grande saggio Le origini del totalitarismo: “Il suddito ideale del re-gime totalitario non è il comunista convinto o il nazista convinto ma l’individuo per il quale la di-stinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso, non esiste più”. Giudizio di fondo che fa riflettere, che ha un suo portato di verità evidente, purtroppo più evidente ancora oggi, in modo molto diver-so, drammaticamente diverso al tempo della Arendt, e allo stesso tempo così vicino.
Dice il Papa nel messaggio della Giornata delle Comunicazioni Sociali appunto intitolato Fake news e giornalismo di pace: “Come difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità”. Ma per noi, dice il Papa, la verità non è qualcosa di definito ma è una re-lazione. Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione. Ecco i due ingredienti che non possono mancare perché le nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici e affidabili. Mi verrebbe da dire che anche per noi (abbiamo qui oggi tre direttori di giornali e un esperto che ha ragionato proprio su questo tema) anche per noi la sfida è enorme perché si tratta di fare un mestiere che serva davvero agli altri oppure no. Amo questo mestiere (come penso molti di noi) proprio perché è un mestiere, nella sua accezione migliore dico io, simile a quello del cameriere, dell’infermiere. É un mestiere che è al servizio degli altri quando è fatto come si deve, perché è stato, nel tempo, immaginato come un servizio agli altri cittadini, agli altri uomini. Noi abbiamo il tempo e il modo per studiare le cose e offrire a voi delle chiavi di interpretazione, delle notizie, delle informazioni che voi non avete. Questo secondo me è il modo migliore per vivere il nostro mestiere, sapendo che è difficilissimo oggi immaginarlo proiettato nel futuro. Purtroppo l’impressione nostra è che nel passato si sono fatte cose molto importanti anche nell’informazione, anche come aiuto alla democrazia, come ruolo fondamentale, ma poi che il futuro ci riserva più ombre che luci. Allora ho introdotto in modo fin troppo prolisso. Dico che ognuno dei nostri relatori avrà all’inizio un quarto d’ora poi vediamo: se andiamo veloci facciamo un secondo giro di reazioni. Comincerei dando la parola a Lucio Brunelli. Chi vuole può andare a leggere (c’è un bellissimo sito de La Stampa che si chiama VaticanInsider di cui è responsabile l’amico Andrea Tornielli), in occasione del Meeting Lucio ha dato un’intervista molto brillante ad Alver Metalli, proprio su questo tema Fake news e giornalismo di pace. Sapete tutti che Lucio Brunelli è direttore dell’informazione di Tv2000 e di Radio InBlu, quindi ha una responsabilità anche importante per la cronaca che riguar-da la vita della Chiesa in Italia e nel mondo, perché anche la Chiesa è stata oggetto di fake news.

LUCIO BRUNELLI:
Sì, oggetto e vittima, bersaglio. Anche gli ultimi papi lo sono stati. Mi vengono in mente due foto che hanno avuto tanta circolazione e che possono essere prese un po’ ad emblema di cosa signifi-ca fare fake news attorno alla figura di un Papa. La prima, quella pubblicata subito dopo l’elezione di Bergoglio, è la foto di un sacerdote che sembra assomigliare a Bergoglio, che dà la comunione al generale Videla dittatore argentino, quindi a insinuare una complicità di Bergoglio con la ditta-tura argentina che ha causato 30.000 disaparecidos. È una foto messa in giro da non si sa bene da chi, ma ad un certo punto avvallata da Michael Moore che è un documentarista, ha fatto cose im-portanti, serie, e quindi ha dato un’autorità molto forte a questa foto. Poi naturalmente si è sco-perto, ma bisognava farlo prima di pubblicarla, che non era Bergoglio ma un altro sacerdote. È stato trovato addirittura il filmato di quella cerimonia. Però di questo episodio la cosa che mi ha colpito, e secondo me bella e da valorizzare, è che Michael Moore ha chiesto scusa, si è reso con-to che era un falso. Cioè la foto era autentica ma la persona era sbagliata. E ha chiesto scusa. Co-sa che raramente avviene nel nostro mondo e che forse è anche la cosa più giusta e che dà anche credibilità al nostro mestiere. Può succedere che uno sbagli, ma poi chiede scusa e così acquista credibilità.
L’altra foto che invece ha colpito l’immagine di Ratzinger è quella di un giovane Ratzinger col braccio alzato come se fosse un saluto nazista. Una foto che ha avuto, anche questa, molta circola-zione dopo la sua elezione, come appunto a insinuare una complicità, in questo caso addirittura clamorosa, con il nazismo. È interessante questo perché la foto è autentica ma l’inquadratura era falsa, nel senso che era una inquadratura stretta, per cui si vedeva soltanto la faccia di Ratzinger e il suo braccino destro alzato. Ma bastava allargare l’inquadratura e si sarebbe visto a poco a poco che il braccio alzato non era uno, ma erano due, e che Ratzinger non era solo ma aveva accanto a se suo fratello sacerdote. E che quella era una foto scattata nel 1951 e non negli anni ’30, al ter-mine della loro ordinazione sacerdotale nel momento in cui salutavano i fedeli presenti alla ceri-monia. Ecco, questo per dire come in questo caso la foto era vera ma il contesto, la data, i detta-gli, l’inquadratura erano falsi. Questo per dire una cosa che mi sembra centrale, cioè che le noti-zie false sono come il diavolo. Fatte le dovute, ovviamente distinzioni. Si nascondono sempre nei dettagli, e questo mi sembra un punto molto interessante.
Pensiamo a un’altra fake news, di questo credo avrebbe parlato Lucia Annunziata suppongo, ma ne accenno io. Pensate alla notizia che in un primo momento ha avuto tanta circolazione riguar-dante Josepha, quella donna del Camerun che si è salvata grazie all’Ong Open House dopo essere rimasta attaccata per 48 ore ai resti del barcone affondato. È stata diffusa la foto in cui lei aveva lo smalto alle unghie. Anche in questo caso la foto è autentica, nel senso che Josepha aveva effet-tivamente lo smalto alle unghie. Solo che c’è stata cattiva intenzione, perché secondo me questa cosa è stata fatta in malafede, non è un errore, è volutamente una manipolazione. La foto era sta-ta scattata e questo veniva omesso dai propagatori fake, 4 giorni dopo il salvataggio. Mentre nelle intenzioni di chi l’aveva diffusa nei social, doveva dimostrare che tutto il salvataggio era una mon-tatura dei cosiddetti buonisti. Perché tirata fuori dall’acqua una donna non può dopo essere stata 48 ore in mare, avere ancora lo smalto alle unghie, no? Quindi nella loro intenzione si doveva smontare tutta l’operazione perché quella era un’immagine che aveva fatto colpo, aveva impres-sionato. C’era stata addirittura una nota della Cei che esordiva accennano allo sguardo di questa donna in mezzo al mare. E quindi anche qui parliamo di una foto autentica ma piegata, perché ve-nivano omessi il contesto, la data, la situazione. Lo smalto le era stato messo dai soccorritori alcu-ni giorni dopo mentre la nave attraccava in Spagna, per farle festa. Era un gesto di amicizia, per farla sentire donna a tutti gli effetti, quindi con tutto il rispetto che meritava. E questo mi fa pen-sare al messaggio del Papa che hai citato, a una delle cose più interessanti che ho trovato in quel messaggio pubblicato all’inizio di quest’anno, per la Giornata mondiale delle Comunicazioni socia-li. Quando lui dice, si interroga sul perché le fake news hanno tanta diffusione, scrive che “l’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla loro capa-cità di apparire plausibili”. Cioè il falso si nasconde nei dettagli. E parla di logica del serpente per-ché dice che la prima fake news della storia è quella del serpente con Eva. E anche qui mi ha col-pito un dettaglio a cui non avevo mai fatto caso, ma per la mia ignoranza, quando dice, che il ser-pente si rivolge a Eva con un’affermazione vera ma solo in parte, “È vero che Dio ha detto che non dovete mangiare di alcun albero del giardino?” Quindi anche qui basta cambiare un singolare in un plurale e cambia l’immagine di Dio, no? Cioè si insinua l’immagine di un Dio che proibisce ogni desiderio umano, ogni piacere umano, ogni bisogno umano. In realtà Dio aveva chiesto di non mangiare soltanto il frutto di un albero, non di tutti gli alberi. Però già nella domanda c’è una ma-nipolazione. Per dire dell’importanza dei dettagli. Papa Bergoglio è vittima quotidiana di fake news, è inutile fare tutto l’elenco e stare lì a farci un piagnisteo, però proprio due colleghi bravis-simi di Avvenire, Nello Scavo e Roberto Beretta hanno pubblicato un libro in cui hanno selezionato una ottantina di queste fake news, credo che il libro sia anche qui al Meeting. Alcune sono ovvia-mente grossolane, pacchiane. C’è la storia dell’ombra a forma di diavolo proiettata dalla figura di Bergoglio la sera stessa della apparizione sulla loggia delle Benedizioni. Eppure tanta gente ha abboccato. E questo è l’aspetto interessante e anche un po’ inquietante. Poi ovviamente è stata ri-trovata la foro originale, sono state messe a confronto e si è visto che in questo caso era un foto-montaggio grossolano. Invece ci sono fake news diciamo così più elaborate e quindi anche più in-sidiose che riguardano proprio la figura del Papa.
Mescolano il vero e il falso, come dice il Papa, così da apparire più verosimili, soprattutto ad un pubblico che si ritiene più predisposto, o maldisposto verso il pontificato. Faccio brevemente due esempi di queste fake news che mi sembrano quelle più serie da prendere in considerazione. La prima, non so se vi ricordate, risale allo scorso Natale 2017 quando il Papa usò l’espressione “Gesù rifugiato”: Gesù e la sacra famiglia erano rifugiati. Erano giorni caldissimi, adesso lo sono ancora di più sulla vicenda dell’immigrazione e lì ci fu scandalo, ci fu chi si stracciò le vesti, perché si ac-cusava Bergoglio di aver forzato il Vangelo, di aver violentato una tradizione, di essere un ignoran-te di esegesi. Questo fu scritto online sui soliti siti ma anche con molta rilevanza su giornali di car-ta stampata. Ecco anche qui il dettaglio. È vero che il Papa ha usato questa espressione, ma anche qui il dettaglio omesso in questo caso è uno e decisivo. Cioè che quell’espressione non l’ha inven-tata Papa Francesco, l’hanno usata tutti i Papi. Anzi diciamo che Ratzinger ha tutti i diritti per ri-scuotere il copyright di questa espressione. L’ha detto in varie occasioni, ma nell’Angelus del 17 gennaio del 2011 dice: “Il Messia, il Figlio di Dio è stato un rifugiato”. Ma se dovessimo sospettare di modernismo anche Ratzinger andiamo a Pio XII che nel 1952 scriveva un intero messaggio su questa materia: “La famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe emigranti in Egitto, ivi rifugiati per sottrarsi alle ire di un empio re, sono il modello e il sostegno di tutti gli emigranti”. E sarebbe anche interessante da ricordarlo oggi.
C’è poi la questione del “Chi sono io per giudicare”. Anche qui dettagli che vengono omessi. Io ero presente. Tornavamo dalla prima Gmg di Papa Francesco a Rio de Janeiro. Ed era la prima confe-renza stampa assolutamente libera fatta con un Papa su un volo aereo. I giornalisti non ci crede-vano, neanche padre Lombardi, perché noi chiedevamo: “allora possiamo chiedere su che cosa in-terrogarlo…” E disse “potete chiedere qualsiasi cosa volete”. E quindi c’è stata quasi una autocen-sura nei giornalisti, perché c’erano temi caldi su cui nessuno voleva andare. Per cui alla fine è uscita fuori una giornalista brasiliana, non vaticanista, quindi un po’ meno imbarazzata… E al Papa ha fatto una domanda sulla lobby gay in Vaticano. Quindi figuratevi noi: la lobby gay in Vaticano! Nessuno aveva mai chiesto a un Papa se esiste una lobby gay e come affrontarla. Già nell’ultima parte del pontificato di Papa Ratzinger si era parlato di una lobby gay, e ancora eravamo all’inizio del pontificato. E quindi la domanda non era “qual è il giudizio della Chiesa sulla condizione omo-sessuale”, ma “che ne pensa lei e come intende affrontare la questione di una lobby gay in Vati-cano”. Era l’ultima domanda dopo un’ora di intervista a ruota libera con l’aereo che sobbalzava e lui in piedi… E lui risponde quindi con un italiano diciamo che non è il nostro, prima in tono scher-zoso dice “si scrive tanto della lobby gay, io ancora non ho trovato chi mi dia la carta di identità in Vaticano con la dicitura gay”. E poi seriamente aggiunge “si deve distinguere il fatto di essere una persona gay dal fatto di fare una lobby. Perché le lobby, tutte non sono buone”. E quindi un giudi-zio molto severo sulla lobby, nel caso esista, vaticana. E come premessa a questo giudizio molto severo dice: “Ma bisogna distinguere: se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà chi sono io per giudicarla? Non si devono emarginare queste persone per la loro condizione; il problema non è avere questa tendenza, il problema è fare lobbies come ce ne sono altre, lobbies di affari lobbies di politici o di massoni”. Tutta questa riflessione molto interessante poi è stata brutalizzata nel titolo “Papa: gay, chi sono io per giudicare” e in tutta una parte di mondo cattolico è diventato il manifesto del Bergoglio relativista, di un Bergoglio che rinuncia a esprimere un giu-dizio oggettivo mentre invece il contesto era esattamente questo, quindi era un giudizio e questo è poi il messaggio che ha unito una certa destra cattolica e anche una stampa progressista nel for-zare l’immagine del papa relativista. Ovviamente il passaggio ”se una persona è gay e cerca il Si-gnore e ha buona volontà chi sono io per giudicarla?” sfido a capire come possa apparire non in coerenza con la tradizione cattolica con un sentimento cristiano.

ALESSANDRO BANFI:
Do la parola al direttore di Fanpage.it, giornale on line molto popolare, il terzo più letto in Italia dopo Repubblica.it e Corriere.it, Francesco Piccinini che introduco sollevando una questione. Tante volte nel mondo web la credibilità e la voglia di click non vanno assieme; anche i siti di grandi giornali mettono a volte delle notizie che francamente come diceva Aleksandr Solženicyn “avremmo il diritto di non sapere” o di non leggere. Notizie che finiscono sui siti perché la voglia di click a volte sembra più importante della vecchia credibilità giornalistica.

FRANCESCO PICCININI:
Per me le fake news non esistono e l’idea che esistano esiste semplicemente perché non è stato accettato un passaggio di paradigma dove paradigma intendo quello che Kuhn intendeva per pa-radigma. Kuhn è un epistemologo statunitense che al netto dei sui contrasti con Popper sulla teo-ria della falsificabilità, ha espresso il concetto di paradigma che è uno dei concetti più rivoluziona-ri del XX secolo. È cambiato un paradigma totalmente, il fatto che – te lo posso dire dall’alto, e qui nel senso vero del termine dall’alto di chi sui siti di bufale c’è da sempre – in sei anni quasi, di di-rezione di Fanpage ci son stati solo due errori che statisticamente, su una produzione media di 350 contenuti al giorno, diciamo che è una percentuale che può capitare, e con cose abbastanza rela-tive. Comunque le fake news non esistono perché è cambiato il concetto di chi controlla la filiera di distribuzione delle notizie; questo è stato il più grande paradigma del XXI secolo, il grande shift da quello che è successo prima del 2008 e quello che viene dopo il 2008. Non è un caso che sia ca-pitato nel 2008. Il 2008 è l’anno della grande crisi la divisione tra il pubblico e chi ha gestito i mes-saggi verso il pubblico è devastante: chi si è fidato dei subprime in America che improvvisamente si trova senza casa; è una rottura epocale e nell’ambito di quella rottura si insediano due grandi innovazioni l’arrivo dell’Iphone e l’arrivo di Facebook. È un caso di studio perché i fatturati di grandi gruppi editoriali raggiungono l’apice nel 2006, il world wide web era nato nel 1994, Google nasce nel 1998 e contro qualsiasi previsione e qualsiasi catastrofismo in realtà i giornali continua-no tranquilli la loro crescita di fatturato. Perché? Perché fino a quel momento il controllo della fi-liera della distribuzione dell’informazione è pienamente nei media. Per ritornare a Popper, Popper chiedeva una patente per fare televisione. Le televisioni controllano le antenne, ciò che viene emesso non si può andare online live senza un consenso. Sui giornali la filiera di distribuzione non solo è controllata, ma è controllata anche proprio per come arriva nelle edicole, in quale edicole arriva. Facebook fa una cosa assolutamente bislacca: chiunque può immettere, nel circolo delle notizie, una notizia. Vera o falsa è indifferente in questo momento, non è il tema del dibattito. Il tema del dibattito è: i giornali non sono più l’hub di distribuzione della notizia. E guardate, questo è un fatto meramente statistico, se prendete qualsiasi ricerca di tempo di permanenza sui media di informazione o Facebook, Youtube, Instagram eccetera, gli indici sono devastanti. Si passa mol-to più tempo su Facebook, Instagram e su Youtube, di quanto non si passi sui mezzi d’informazione. Quindi cambia completamente il luogo in cui si forma l’informazione pubblica. Quindi tutto quello che spiega Habermas nel 1962 sull’influenza dei mezzi di comunicazione è attuale ma vecchio, perché i mezzi di comunicazione non sono più le testate, ma sono le piattaforme e chiunque è un hub di distribuzione attraverso il proprio cellulare. Non è la prima volta però che succede nella storia e il vero problema è: come è stato affrontato dai giornalisti? Dai giornalisti è stato affronta-to, e lo dico da giornalista, con la pretesa di essere sempre stati sempre detentori della verità. Al netto di migliaia di casi fabbricati ad hoc, considerate anche i paesi che, altroché in Italia, l’utilizzo della propaganda e dell’inserimento di notizie di propaganda all’interno del sistema informativo, ecco, oggi quando parliamo di fake news parliamo di questo, di propaganda. C’è un’altra cosa, la propaganda per fare effetto necessita di due cose: la prima è una grande competenza da parte di chi lo fabbrica, quindi pensare che il tizio x che mette in rete un meme contro Laura Boldrini sia una persona che avrà un impatto è sbagliato. No non avrà impatto, qualsiasi manuale di comuni-cazione digitale lo dice… perché una pubblicità abbia impatto, lo stesso messaggio deve essere vi-sto almeno tre volte, questa redundancy su internet, questa ridondanza del messaggio su internet diventa impossibile, ma già è veramente impossibile che voi capitiate tre volte sullo stesso meme di Laura Boldrini è un fatto molto complicato. Che vuol dire? Che tu devi creare ciclicamente delle fake news e dietro questo può esserci solo una macchina di propaganda. Quindi qui lo scontro non è più tra organi di informazione; tra polarizzazioni, io do una notizia e tu ne dai un’altra, ma tra blocchi di potere che diffondono meme. C’è stata recentemente l’anno scorso una ricerca che ha completamente sbagliato la metodologia, che diceva che le cosiddette fake news, userò questa terminologia, per essere chiari, hanno impattato solamente l’8% delle persone che hanno cliccato su un sito di fake news, mentre il 92% si verifica su siti mainstream. È una delle metodologie più assurde che si sia mai applicata ad una ricerca scientifica sul tema dell’informazione. Abbiamo preso siti, faccio un esempio, il “Cursaro della sera” e abbiamo valutato la sua audience a fronte del Corriere della sera, no! L’audience è data dal reach del post su Facebook, completamente un altro valore, non si clicca, non c’è il valore del clic, non è misurabile, questa misurazione ce l’ha solo Facebook o gli altri social network. Quindi è qua il cambiamento del paradigma: noi guardia-mo il XXI secolo con gli occhi, con gli occhiali, che uso anche io, del XX secolo. Non vediamo bene, perché se poi io dovessi leggere questi miei appunti con un altro paio di occhiali, non li leggerei bene, capirei una cosa per un’altra. Ho bisogno di occhiali contemporanei, occhiali che sono quelli del XXI secolo per capire questi fenomeni.
Ma non è un tema nuovo, c’è in ogni epoca. Quando si inserisce un media che è assolutamente di-sruptive, ad esempio la radio all’inizio del XX secolo, abbiamo delle sacche di resistenza ai cam-biamenti che ovviamente non si sa interpretare. Lippmann scrive nel 1922: ciò che l’individuo fa, si fonda non su una conoscenza diretta e certa, ma sulle immagini che gli vengono date. 1922. Di qui il tema, attuale tanto quanto il concetto di opinione pubblica, quindi tanto quanto la formazione del concetto di Stato-Nazione, che per riformare un’opinione pubblica, c’è bisogno di persone che sappiano utilizzare quel mezzo. Vi faccio un esempio: è incredibile che in una campagna elettorale attuale ci sia stata una notizia su un candidato, data dal candidato avversario, non nei giornali tra-dizionali, ma su una pagina no logo su Facebook. Che cosa ha fatto il candidato avversario quando è uscita la notizia? Non l’ha cavalcata, ha dato la sua solidarietà, così un ciclo di costruzione si compie… e i giornali che hanno fatto? Hanno amplificato la notizia. Questo è il classico ciclo di co-struzione della notizia. La costruzione non è più top-down, come ho detto all’inizio, quindi con un concetto di distribuzione top-down, ma un concetto di distribuzione bottom-up: io la creo dal basso e poi saranno gli stessi media, spesso per errore, per fretta perché magari il direttore ti rompe le scatole, a farla uscire. Esce, è uscita e tu dici e vabbè… quindi non c’è sempre malafede. Però in questo concetto c’è una grande contrazione del tempo, tu esci, la notizia si propaga, attenzione in quel caso il candidato fa anche quello che viene definito un “edit queen”, dà la solidarietà a una notizia che in realtà così viene rafforzata, quindi lui la fa uscire, è una mezza fake news, dà già la solidarietà alla fake news, (e tra l’altro poi ha vinto…) quindi questo è incredibile. Come cambia completamente il paradigma. Il pensiero che il paradigma sia top-down, quindi che ci sia qualcuno che sta lì, che utilizza i media per diffondere le notizie, è del XX secolo, nel XXI secolo le notizie si costruiscono dal basso, sono poi i media che per pigrizia, scarsità di tempo, le riprendono.
Attenzione, queste centrali della propaganda, sono il vero e proprio tema. E come si vince questa battaglia? Perché non si vince la battaglia della radio contrapponendo la carta stampata. Non si vince la battaglia della televisione contrapponendo la radio. Bisogna giocare sullo stesso terreno. E questo sarà uno dei grandi temi del XXI secolo. Guardate, per quanto mi sembra, è effettivamen-te un cambiamento tale che uno paragonabile è avvenuto solo durante la rivoluzione industriale, e neanche così rapidamente. La rivoluzione industriale ci ha messo molti più anni per cambiare l’assetto sociale di un paese, qui parliamo di dieci anni. In dieci anni voi avete avuto la Brexit, ave-te avuto Trump… e come è evidente, anche dalle indagini, nascono da centrali di propaganda.
Si può continuare a rimanere fuori dall’agone o scegliere di cavalcare, provare almeno di cavalca-re la tigre. Questa è una delle grandissime sfide del XXI secolo. Io penso che fare informazione oggi sia imparare questo, a cavalcare la tigre. Ma ci vuole una grande dote che è la competenza, perché credo che l’unico tema, l’unico modo di non farsi battere dalle fake news è una grandissi-ma competenza. Fidel Castro sarà morto almeno venti volte negli ultimi vent’anni, poi veramente è morto, ma un grande giornale italiano, un importante giornale italiano, dà la notizia della morte di Fidel Castro, ci apre la prima pagina, per qualche ora, tra l’altro la dà anche su carta il giorno dopo, cosa interessantissima, scrivendo che pareva che fosse morto. Ora, di solito uno non è che pare che è morto, è morto o non è morto, la via di mezzo non ci sta… io accetto qualsiasi riflessio-ne, però in questo caso… La notizia l’aveva data Los Diarios Americano, che è un sito di profughi cubani a Miami completamente inattendibile e chiunque frequenta la rete lo sa che è inattendibi-le. Il punto è questo: se sei competente e sai che Los Diarios Americano è inattendibile, tu quella notizia non la dai. Se non lo sai, è molto complicato chiamare all’Avana e chiedere: Fidel è morto? Grazie.

ALESSANDRO BANFI:
Allora grazie a Piccinini e alle sue provocazioni. A cavalcare la tigre diciamo che Bruno Ma-stroianni ci sta provando, nel senso che è social media manager di diverse trasmissioni RAI, ha scritto un libro, che fra l’altro oggi alle quattro, per chi è interessato sarà presentato nello specifi-co insieme all’altra autrice che è Vera Gheno al book corner qua alle 16.00, il libro si intitola “Tie-nilo acceso, posta commenta, condividi senza spegnere il cervello”. Quindi diciamo che per stare al ragionamento di Piccinini, Bruno Mastroianni ci propone da esperto della comunicazione di ca-valcare la tigre, cioè di stare dentro questo mondo che pure, se stiamo alla tesi di Piccinini, è il mondo di Cambridge Analytica, cioè delle grandi centrali di propaganda che, diciamo, governano qualcosa, a questo punto qualcosa di più di Facebook, governano l’orientamento della pubblica opinione.

BRUONO MASTROIANNI:
Intanto grazie, io volevo partire proprio dal termine fake news, anch’io un po’ contestando nel senso che nel tempo ormai è diventato più che altro un’arma retorica dire fake news all’altro. Prima abbiamo citato Trump che dice che i mezzi di comunicazione sono fabbricatori di fake news, i mezzi di comunicazione contro Trump cercano di sbugiardare quello che lui dice, cioè questa lot-ta sulle fake news è diventato un po’ un modo retorico per sconfessare l’avversario nella discus-sione, tanto che se andate su Twitter, ormai, anche nei discorsi di calcio, nei discorsi ci si accusa l’un l’altro di fake news quando uno sta dicendo qualcosa. Ormai sta entrando anche nel dialogo comune, tra persone comuni, nei temi più ordinari, dire all’altro che sta dicendo una fake nwes. Allora questo è rischioso perché chiaramente si entra in una di quelle formulazioni binarie che poi ci fanno pensare ad uno scenario troppo semplificato, come diceva prima Piccinini, occhiali sba-gliati in cui tutta la battaglia è tra vero e falso. Tra l’altro questo anche nel linguaggio politico, ormai, è diventato il tipico stile. Sono le formulazioni binarie, come le chiama Giovanna Cosenza, cioè ogni politico parla della sua come verità, e gli altri stanno mentendo; cioè ci dev’essere una dicotomia totale, cioè proprio 0-1, o con me o contro di me, non c’è nessun’altra possibilità. Allora entrare in questo modo di comunicare e di parlare delle cose, anche nella vita di tutti i giorni, an-che sui social, poi porta a dividere la realtà in questo modo, cioè con una leggerezza a usare i cri-teri di verità e falsità tale, che non ci permette di vedere il fenomeno, che è un fenomeno impor-tante. Prima Lucio Brunelli, all’inizio, ha dato la chiave di tutto, le foto di Ratzinger nazista da gio-vane, quella foto, è una foto vera, semplicemente ritagliata in un certo modo, cioè la narrazione che accompagna quell’informazione vera la rende problematica. La foto del presunto Bergoglio è una foto vera di un sacerdote che sta dando la comunione al dittatore, non è Bergoglio, però, e così via con la foto della migrante eccetera. Cioè il punto è che nel criterio di verità non ci fer-miamo, cioè una volta che siamo nel vero, il vero entra nella complessità, e quindi si deve dire il vero come lo presenti, come lo racconti, da che punto di vista lo vedi, con che competenze sei in grado di comprenderlo. Cosa voglio dire? Che oggi la guerra non è sulle fake news come delle specie di oggetti volanti non identificati che colpiscono gli utenti e confondono. Qui c’è una lotta tra l’essere umano come capace di conoscere da tutti noi che tendiamo a seguire le nostre convin-zioni e a trovare tutto ciò che asseconda i nostri pregiudizi, a seguirlo acriticamente, mentre fac-ciamo fatica con tutto ciò che ci contraddice. Cioè l’idea del Ratzinger che da giovane ha ceduto un po’ al nazismo, ci sta perché la gente pensa “è tedesco, è stato il capo della Congregazione del-la dottrina della Fede, un è po’ rigido, no?”. Le persone aderiscono a questa conoscenza, cioè en-trano in relazione con questa informazione perché gli compiace un po’ l’idea che già hanno, tanto è vero che quella notizia falsa, quella bufala fu smentita praticamente subito, ma ancora oggi si incontrano persone che ti dicono, beh però Ratzinger da giovane c’ha avuto quel problemino di nazismo. Perché avviene questo? Perché uno si affeziona a quell’idea del mondo. Allora io direi che più parlare di fake news, parliamo, prendiamo Bauman, già citato stamattina, l’idea del pulvi-scolo informativo, ma io direi ancora di più come qualche autore ha suggerito, parliamo proprio di disordine informativo, di caos. Cioè tutti siamo stati ammessi al dibattito pubblico, tutti abbiamo avuto l’accesso alle informazioni e alla possibilità di immettere informazioni e contenuti. Ormai non c’è più il controllo da parte di alcuni editori dei cookie, da dove si irradiano le informazioni e i contenuti, no ormai è come dire, il dibattito pubblico è senza selezione all’ingresso. È chiaro che all’interno di questo c’è chi sta facendo investimenti per approfittarsene, conoscendo molto bene i meccanismi, allora, come dire, il movimento opposto che va fatto è a vari livelli e investe sia l’impegno di ciascuno, come utente. E a questo punto se ognuno è stato ammesso nel dibattito pubblico attraverso un dispositivo tra l’altro ormai molto economico, che può avere in tasca ed è connesso, da quel momento in poi è un partecipante come gli altri, quindi diciamo nella stessa ta-sca bisogna mettere su una responsabilità e poi però c’è una responsabilità a vari altri livelli.
Qui vengo alla seconda parte del punto del nostro incontro che è: giornalismo di pace. Allora che cos’è questo giornalismo di pace, cosa può essere questo giornalismo di pace? Mi piace molto il brano che abbiamo letto del messaggio di Papa Francesco in cui ci dice “come ci difendiamo?” Ci si difende “purificandosi con l’idea della verità e con la relazione”. Allora questa cosa è sorpren-dente perché da un punto di vista tecnico specifico dei social media è centratissimo. Cioè uno co-me Papa Francesco che i social li conosce abbastanza, però ecco non me lo immagino che stia lì tutto il giorno li su Facebook, probabilmente magari ha intuito come funziona l’essere umano e ha detto una cosa che oggi tecnicamente ripropongo proprio perché ho la fortuna di essere, anche l’onore, di essere in un panel con dei direttori di giornali. Non possiamo continuare nel modello giornalistico per cui si immettono o si distribuiscono contenuti, verificati, attendibili, buoni, fatti bene, giornalisticamente ben curati, questo è solo il 50% del lavoro, forse anche meno, da lì in poi c’è tutto quello che quel contenuto genererà: discussioni, condivisioni, polemiche, manipolazioni, ribellioni, dissensi da parte degli utenti. Sotto quegli articoli che vedete nei siti di giornali in cui le persone si massacrano nei commenti, sotto quei post di Facebook ci dev’essere moderazione, ci dev’essere qualcuno che si prenda la briga di non lasciare quei posti sguarniti. Tra l’altro non sempre questi contenuti hanno un minimo di qualità. Pensate al titolo “Bambina morta di morbil-lo, forse non vaccinata”, e uno lo pubblica online e lascia che là sotto le persone si annientino a parole. È un po’ come costruire un ring in mezzo a una piazza e incominciare a distribuire mazze alle persone e poi come salgono sul ring e incominciano a darsi mazzate e poi dire: “Beh, io non c’entro, c’è l’odio online, questo è l’odio online non possiamo farci niente, sono le fake news”. Questo per dire che cosa? Che da un punto di vista di chi ha un incarico, una responsabilità media-tica nei giornali, nelle testate, è molto importante che si incominci a prevedere, per ogni contenu-to per ogni spazio in cui vengono diffusi i contenuti, che ci siano poi delle persone, dei social me-dia manager con la professionalità adatta a gestire poi le discussioni che ne nascano, a dare rispo-ste, a creare un clima. Molte volte, quando faccio questo discorso, mi viene detto: “Eh, ma tanto ci sono persone che non vogliono proprio capire”. Non importa, questo l’ho sperimentato fisicamen-te nel mio lavoro di social media manager. Se uno si mette a curare le discussioni, anche con i più polemici, anche con i più violenti a mano a mano riesce ad attirare su quelle pagine dei commenti le forze di chi invece vuole fare discussioni decenti. È che lasciando andare gli spazi on line alla di-scussione violenta, genererà discussione violenta guarda caso. Se invece c’è qualcosa che modera, che si dà la briga di dare risposte, che si dà la briga di curare che ci sia un certo tono, a mano a mano fa venire fuori gli altri che sono interessati a questo. Per esempio questo a me succede sull’account della Grande Storia di Rai 3. Potete immaginare sulle questioni di storia, quante di-scussioni, quante polemiche, quanto odio. Se ne danno di santa ragione gli utenti su alcuni punti, ci sono questioni di storia molto serie che ci riguardano da vicino e investono la nostra vita di tutti i giorni. Ebbene lì, facendo il lavoro di permettere a tutti di esprimere la propria opinione, a volte chiedere a qualcuno di riformulare senza usare insulti, a volte dando risposte fondate, dando link di riferimento, dando dati, forse non si convince il polemico o l’odiatore che si ha davanti, ma si parla a quella che nel nostro libro io e Vera Gheno definiamo la moltitudine silenziosa; cioè quell’insieme di persone che spesso seguono i discorsi e le discussioni on line, i dibattiti e le inte-razioni. Sono quelli che le opinioni se le formulano dentro di se, senza dare segnali on line all’inizio perché sono le persone più riflessive. Sono persone che spesso si pongono le domande in maniera scomposta e radicale così come le pone il cosiddetto odiatore. Tra l’altro potremmo parlare del fatto che definiamo le persone che pongono questioni scomposte come haters, bisogna vedere se uno è veramente hater, magari è solo una persona ignorante, arrabbiata o a disagio, comunque questo è tutto un altro discorso che meriterebbe una conferenza a parte. Spesso la domanda mal posta ha la funzione di suscitare la stessa domanda dentro utenti normalissimi, che magari non avrebbero il coraggio di formularla così perché hanno un po’ di filtri. Ma insomma questi vaccini funzionano o no? Molti se la fanno dentro ma magari non hanno il coraggio di spiattellarla lì on line. Rispondere a quella domanda del presunto hater spesso dà la risposta non magari a lui che rimarrà violento, polemico, non cambierà idea, ma a tanti altri che leggono. Io ve lo dico perché sono stato io stesso in questa moltitudine silenziosa, in concreto nella discussione tra i vaccini in cui veniva messo il classico grafico. Sapete che c’è quel grafico delle morti per morbillo che cala-no prima dell’introduzione del vaccino che è del ‘63 se non sbaglio, ‘61 o ‘63 adesso non ricordo l’anno. In una discussione un antivaccinista aveva messo questo grafico, e devo dirvi che anch’io al momento in quella discussione avevo un po’ claudicato e dicevo “Be’ certo, se le morti erano cala-te prima dell’introduzione del vaccino quindi perché introdurlo?” Dopo di che per fortuna una per-sona si è presa la briga di rispondere e dire: guardate che il grafico giusto non è quello delle mor-ti, ma è quello della diffusione dell’infezione, perché le morti calano perché migliorano le condi-zioni igienico-sanitarie, migliora la capacità di assistere i malati, che vivono più a lungo, ma l’infezione sale e scende e comunque è sempre alta, fino al ‘61-63 credo, dopo di che dall’introduzione del vaccino, crolla. Questa risposta Bruno Mastroianni, non l’avrebbe avuta se qualcuno non si fosse preso la briga di discutere, e non dire “sei il solito anti vaccinista, ignorante e vai a studiare!” Era per dire che questa funzione di gestire l’interazione successiva al contenuto, è proprio quel cavalcar la tigre di cui stiamo parlando. Ora, il problema qual è? È che anche qui non si può risolvere in modo lineare un problema che non è lineare, un problema complesso, un problema di rete, un problema che non si può più risolvere dall’alto. Se facciamo tutti i giornali e li mettiamo tutti online, tutti fatti bene, che controllano tutte le notizie, elimineremo il problema del disordine informativo: non funziona così! Bisogna muoversi anche qui in rete, cioè ognuno de-ve fare la sua parte, un problema di rete si risolve in rete. I giornalisti a mio avviso dovrebbero fa-re la loro parte, in realtà molti lo stanno facendo già, diciamocelo! Ci sono, intanto le persone se-dute a questo tavolo senz’altro e le loro testate, ma anche molti altri in forme anche di blog, in forme più informali, che stanno lavorando proprio su questo e seguendo le interazioni successive di ogni cosa che pubblicano e anche di ogni quesito o istanza che vengono posti. Ma io direi che è una questione che riguarda i giornalisti in generale, che da sempre hanno l’immagine del watchdog, del cane da guardia della democrazia, che è una delle questioni fondamentali del gior-nalista; anch’io sono diventato giornalista con questa idea, del cane da guardia. Poi c’è l’altra im-magine (sono tutte canine, perché io amo i cani), quella del segugio, c’è quello che scopre, va a indagare, va fino in fondo, non molla la preda se ha trovato una cosa che dev’essere conosciuta dal pubblico. E io adesso a questo punto aggiungerei una terza figura canina per il giornalista, quella del cane da pastore, cioè assieme al cane da guardia della democrazia, assieme al segugio che insegue le notizie e trova le storie, ci vuole anche qualcuno che poi tenga insieme il pubblico e lo porti, lo aiuti a capire quello che sta vedendo, lo aiuti anche nel momento in cui è polemico, nel momento in cui sta scappando fuori, aiutarlo a rientrare dentro, aiutarlo a interpretare quello che sta vedendo, cioè quasi un giornalismo che aiuta il lettore a diventare sempre più capace di orien-tarsi nel disordine informativo. C’è tutta una grande sfida secondo me in questo, che molti stanno cogliendo e anche questo fa parte del cavalcare la tigre. Il punto è che non basterà! Cioè non si può chiedere solo ai giornalisti di fare questo, i giornalisti credo debbano fare questo proprio per-ché se non ci pensano loro, veramente uno si chiede quale altra professione dovrebbe avere nel dna, nella sua etica, nella sua deontologia fare questo, ma lo devono fare anche tutti gli altri, gli istituti di cultura, le istituzioni, le università, l’Accademia della Crusca, visto che c’è Vera Gheno in sala che gestisce l’account Twitter, fa questo tutto il giorno, anche sulle questioni di linguistica. Non si possono mettere solo i contenuti, poi c’è discussione, c’è chi si ribella, c’è chi fa la domanda sbagliata, c’è chi dice non è così perché me lo ha insegnato la mia maestra, e la Crusca si prende la briga su Twitter di rispondere, dare link, dare riferimenti. Ecco, questo modello credo che si debba allargare a tutti, cioè qui la sfida è sociale e di rete. Se noi vogliamo fare in realtà la pace sociale, la costruiamo nel momento in cui questa tigre la cavalchiamo ognuno dal suo lato, no? Ognuno dal suo punto che sta vivendo in società. Chiudo dicendo che nel nostro libro, poi l’approfondiremo magari più alla presentazione, abbiamo cercato di fare una riflessione proprio in questo senso, che serva a ciascuno senz’altro come utente, perché poi ci dobbiamo rendere con-to che ormai siamo tutti diventati dei piccoli personaggi pubblici, quello che diceva prima Piccini-ni, ogni nostra condivisione, like, frase, commento, incide su una quantità di persone attorno a noi che prima ce la sognavamo. Quindi ora, essendo diventati tutti dei piccoli personaggi pubblici, dobbiamo prenderci anche la responsabilità del personaggio pubblico, che con i suoi atti on line incide molto e molto efficacemente attorno a sé, quindi diciamo, qui dentro c’è anche tutto un ambito educativo, cioè del formare generazioni nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, e già molte aziende stanno lavorando su questo, già molte scuole stanno lavorando su questo, mettendoci dentro la capacità di essere esseri umani, scusate il gioco di parole, all’altezza della connessione ed all’altezza di questo disordine informativo. Queste io credo siano le strade per ca-valcare la tigre di cui stiamo parlando. Grazie.

ALESSANDRO BANFI:
Grazie Bruno! Sono molto felice di introdurre in quest’occasione, l’amico Marco Tarquinio, che è direttore di Avvenire, e a proposito di formazione e informazione, la formazione è importante per tutti noi, perché l’informazione è un fatto passivo, tu la subisci, comunque sia, ma se sei formato sai discernere, se non sei formato sei vittima di qualsiasi falsificazione, di qualsiasi inganno, di qualsiasi propaganda, poi magari anche se sei formato accade però, formazione e informazione vanno insieme e noi veniamo da una grande storia, non nel senso del programma di Bruno, ma veniamo da una grande storia civile. Io voglio ricordare la costituzione, soprattutto l’articolo 21 che qui è celebrato in una bellissima mostra sulla costituzione: i padri costituenti ci hanno ricorda-to che il diritto di parola, ma ancor più il diritto di manifestare le proprie idee, non è astratto, poi si incarna, si è incarnato in strumenti. È un concetto che c’è nella costituzione, che una volta era comprensibile a tutti, oggi è spesso dimenticato! È il pluralismo! Il fatto che esista un giornale co-me Avvenire da cinquant’anni è una forma di libertà e di garanzia per tutti noi. Per chi è cattolico e per chi non è cattolico, è stato un modo con cui ci siamo formati, ci siamo informati e veramen-te quando si sente dire delle cose assurde sui giornali, il giornalismo, la carta stampata, i sussidi per i giornali, ecc…, è importante una voce, la voce è tutto! La voce è tutto! Una voce come Avve-nire è importante perché, in tante occasioni ha dato voce a chi altrimenti non avrebbe avuto voce. E sono sicuro che anche oggi, in questo tumultuoso cambiamento, ha sicuramente ragione Piccini-ni, non penso che però Avvenire che ha compiuto mezzo secolo sia fuori dal nuovo paradigma. So-no convinto che il tempo ci dirà come, forse non lo sappiamo fino in fondo, non riusciamo a defi-nirlo il futuro, ma nel futuro faremo ancora grandi cose! E io sogno un futuro in cui Avvenire ci sia ancora almeno per altri 50 anni.

MARCO TARQUINIO:
A questo punto io vi saluto, Alessandro ha già esaurito la questione da par suo. Grazie bentrovati, ben ritrovati dopo qualche anno, anche se noi di Avvenire ci siamo sempre, da sempre, a raccon-tare questa storia qui a Rimini, nei giorni del Meeting, anche questa storia! Questa è una parte della realtà. Per parlare delle notizie, non solo delle fake news o delle bufale, amo molto le parole italiane, più che quelle che importiamo da altri idiomi, potrei partire proprio da quello che c’è o non c’è sui giornali e nei grandi circuiti di informazione ufficiali, quelli top-down, quelli che deci-dono dall’alto, ma anche sui fiumi impetuosi che si scatenano dal basso. Ci sono interi pezzi della realtà che vengono emarginati ed esclusi dalla narrativa prevalente, questo è il dramma del no-stro paese e del nostro mondo, e della nostra informazione e della circolazione delle notizie che viviamo. Allora, Da dove partire? Intanto che le fake news esistono! Le bufale esistono! Io sono di-rettore perché è esistita una fake news sul mio predecessore. Chi non sa la storia del caso Feltri, non capisce perché Marco Tarquino nel 2009 è diventato direttore del giornale; io lo chiamo caso Feltri, non il caso Boffo. Esistono le fake news, è stato citato il caso di Papa Benedetto, quello di “chi sono io per giudicare”, me ne vengono in mente anche altri, ma pensiamo ai giorni nostri, ai temi scottanti di questo momento: è o non è una fake news ripresa e montata sui giornali, il fatto che delle persone emaciate, scheletriche, che arrivano da veri e propri campi di detenzione ven-gono definiti palestrati? Eppure trova cittadinanza sui giornali e non è che nasce solo dal basso, ma nasce anche dall’alto, attenzione! Quindi quelli che immettono, e qui condivido quello che dice Piccinini su questo punto, sono centri di propaganda che stanno utilizzando i sistemi di comunica-zione di cui noi disponiamo per mettere in circolo parole d’ordine, immagini. Allora, le deforma-zioni della realtà fanno parte della nostra vita e la grande questione che si pone oggi è che c’è una velocità diversa della circolazione delle informazioni, della realtà e della pervasività di queste manipolazioni, che è immensa, potenzialmente immensa. Allora, la parola chiave, amici miei, in questo tempo è responsabilità e scelta, come sempre nella vita degli uomini e delle donne; tutto quello che accade non è qualcosa che sta sopra le nostre teste, sta dentro le nostre vite, dipende da noi viverlo o non viverlo in una maniera decente, semplicemente decente. Siamo noi che sce-gliamo le parole, siamo noi che scegliamo il modo con cui sviluppiamo i dibattiti, siamo noi che scegliamo le nostre fonti di informazione, le persone a cui diamo fiducia, da cui accettiamo le pa-role che poi riproponiamo, riproponiamo e riproponiamo. Torniamo a parlare di Papa Francesco: per alcuni nell’Evangelii Gaudium non sarebbe mai stato nominato Gesù. Sono arrivati a scrivere questo! Con gente che ripeteva e ripeteva ciò che non sapeva ma che qualcun altro aveva detto. Dobbiamo verificare tutte le fonti: attribuiscono al Santo Padre l’espressione “io per la mia salute mentale certe cose non le leggo, non le leggo più”. Io sto facendo scelte analoghe nella mia vita. Ci sono cose che non leggo più, ma non perché snobbo o non considero degno di considerazione gli altri, sono convinto con Francesco nel messaggio del 2016, che una delle cose che servono al no-stro tempo è l’ascolto, sennò non capiamo la realtà che abbiamo intorno, però ci sono cose che quando le leggo… preferisco ascoltare altro! Anche scomodo, ma altro rispetto alle deformazioni che circolano. Abbiamo bisogno di farle queste scelte, badate bene, se non le facciamo noi le fan-no altri per noi, riempiendoci la vita di spazzatura e di cattiveria. Mi si affollano in testa le cose, si è parlato anche troppo delle notizie manipolate, delle cattive notizie, le brutte notizie, le false no-tizie. Provo a dire che cos’è il giornalismo di pace per me, perché io da 50 anni provo a fare que-sto: fare il giornalismo di pace oggi per me significa far fare pace alla gente con la realtà che vi-ve, perché l’hanno spiegato bene i colleghi, viviamo dentro una nuvola che è la percezione della realtà attraverso le narrazioni prevalenti. Il pulviscolo questo è, alla fine, cioè una percezione del-la realtà che è distinta dalla realtà vera che viviamo. Io sono sconvolto dal fatto che il nostro pae-se abbia avuto l’ultima campagna elettorale concentrata sul tema della sicurezza come tema im-pellente della nostra realtà italiana, noi abbiamo un grave problema di mafie in Italia, mafie che non uccidono più con la ferocia che abbiamo conosciuto in anni ancor troppo recenti, ma che in-fettano la vita delle nostre comunità, in tanti modi; ma dal punto di vista dei reati spiccioli, che pure ci sono, siamo il paese più sicuro d’Europa, siamo l’unico grande paese europeo che non ha avuto un attentato terroristico nel tempo della guerra del terrore, l’unico! E siamo stati inchiodati per una campagna elettorale a discutere di insicurezza e siamo in un dibattito pubblico che pone il problema di mettere più armi per tutti per dare più tranquillità a tutti! Vi rendete conto che cosa fa la percezione sbagliata di quello che viviamo? Dove ci porta? Armatevi e sarete più felici! Per questo io dico che in questo tempo, sono d’accordo e ammirato dai miei colleghi più giovani, più vivaci e più capaci di usare fino in fondo i mezzi che pure noi di Avvenire usiamo, dalla comunica-zione attuale, ma mi interessano sempre di più i contenuti e il modo è di cercare e di lavorare per far far pace a quelli che mi danno fiducia, che accettano di leggere il giornale che ogni giorno mette a disposizione di chi lo vuole, insieme ai miei colleghi, per far fare pace con la realtà che viviamo, perché altrimenti la distruggiamo e la cambiamo, interpretandola e vivendola diversa da quello che è, e solo mettendo in risalto e consegnandoci al lato oscuro della vita. Non l’accetto da cristiano, non l’accetto da cittadino di questo paese con la civiltà di cui l’Italia è stata capace. Può sembrare un discorso un po’ utopistico rispetto alle cose che accadono nell’informazione di oggi: amici miei, io sto ai dati, anche qui vi cito un po’ di dati, negli ultimi dieci anni sono scomparse ol-tre il 40% delle testate periodiche e quotidiane nel nostro paese, una strage di pluralismo, ne sono altre come Fanpage, con successo notevole, nel mondo online, ma c’è una distruzione di plurali-smo, quella di cui parlava Alessandro Banfi che è in corso, della pluralità delle voci, ci sono molti colleghi sbattuti fuori dalle redazioni, che vivono fuori dalle redazioni, da soli, senza la possibilità di quel lavoro comunitario che è il sale di ogni lavoro degli uomini e donne e del senso della pro-fessione giornalistica! Un processo che rispecchia quello che accade nella nostra società, dove tut-to spinge verso l’isolamento delle persone, magari dietro lo schermo, attraverso il quale ci illu-diamo di avere la relazione più stabile con gli altri, in un dibattito a volte persino furibondo. L’isolamento porta all’isterilimento! Di qualunque comunità e di qualunque condizione! Questo va-le tanto più nel mondo nell’informazione, quando quelli che la fanno al servizio degli altri, o do-vrebbero farla sempre così, si ritrovano soli, perché sono più condizionabili, se devono piazzare i propri pezzi, devono legare il carro, legare l’asino dove vuole il padrone, ammesso che l’accetti! E viviamo in un mondo nel quale emergono gli oligopoli che controllano tutto, i canali di comunica-zione come le centrali di produzione delle notizie! E vediamo che queste vanno a coincidere non più soltanto in imprenditori puri dell’informazione, ma vanno a coincidere con i centri di potere propriamente detti, le inchieste in corso a cui ha fatto cenno, che ha evocato Piccinini, che riguar-dano grandi potenze sulla scena mondiale, che utilizzano gli strumenti della comunicazione di massa e sociale di oggi, per portare altre nazioni dove non vogliono andare e dove possono anda-re, sta accadendo! Dobbiamo avere consapevolezza di questo e non perdere di vista le persone, nel rapporto uno a uno, la verità sta nella relazione! Guardate a me Papa Francesco m’ha sconvol-to, quando per cominciare a dirlo, l’ha fatto con una lettera a Eugenio Scalfari, che doveva fare? Da giornalista cattolico con Scalfari ho litigato anche per una vita su tante cose… per dimostrarmi che la verità sta nella relazione, va a parlare con la persona che sembra più lontana, che è più lon-tana su certe cose, e accetta che dica cose che sono l’antitesi di quello che io credo, su tante que-stioni, ma mi dimostra con quel solo gesto, ci dimostra che la verità si può cercare anche con quello così lontano da te, purché si trovino almeno un po’ di parole comuni, almeno un po’. Poi sappiamo che Scalfari ci mette del suo e vabbè… ognuno è fatto come è fatto e non si cambia do-po i 90 anni di certo. Però sono ammirevoli questi due anziani uomini, in questo tempo in cui quelli lontani non si parlano. La verità è una relazione! Altra fake news, cioè montata poi dai commenti che l’hanno accompagnata, quando Papa Francesco ha fatto questo, ha parlato della verità come relazione: ecco la prova che è relativista! Parla della relazione! È certo perché la relazione tra Dio creatore e il mondo è relativismo! Cristo che si incarna è relativismo! Viene a prendere la nostra condizione, più relazione forte di questa! Ai cristiani in questo tempo, non solo ai non credenti, bi-sogna rispiegare anche l’abc, ed io che non son teologo, provo a far da giornalista dei lavori che delle volte faccio fatica a fare. Per fortuna ho buoni consulenti e m’attacco al telefono con qual-cuno che mi aiuta a ripensare e ritrovare le parole e a ricordare ciò che non ricordo. Ho ancora due minuti e dico un concetto che mi sta molto a cuore: lo ripeto spesso, ma lo voglio dire anche qui perché questa è una piazza vera, non è solo un incrocio di strade. Uno dei problemi grandi in questo tempo dell’illusione della comunicazione istantanea, piena e affidabile è quello che abbia-mo subito chiamato “piazza digitale”. Continuo a dire che la “piazza digitale” va ancora costruita, per questo ho detto che questo è il tempo delle scelte e della responsabilità. Noi oggi stiamo vi-vendo all’incrocio di vie, sapete qual è l’indizio chiaro? È il linguaggio che circola prevalentemente attraverso questi canali che è un linguaggio triviale, del trivio, incrocio di strade che non è ancora diventato piazza, e noi sappiamo che sulla piazza ben organizzata la nostra civiltà, la nostra tradi-zione civica ce lo dimostra anche solo camminando per la nostra Italia, c’è il palazzo del governo e c’è il luogo verticale della chiesa, della cattedrale, il luogo madre, anche dello spirito di una co-munità. Siamo in un trivio, siamo agli incroci di strade che non sono ancora piazza perché ciascuno arriva dalla sua parte e ognuno ha la sua verità e continua per la sua strada. Quei commenti che si articolano sotto gli articoli dei giornali vanno a finire in tutt’altri luoghi e con una veemenza smi-surata e accendendo duelli all’infinito che portano lontano anche dal cuore di ciò di cui si voleva parlare e si sta affrontando insieme o tentando di affrontare insieme. Abbiamo bisogno di uscire da questa cosa e lo si fa come? Facendo sì che quella piazza non sia solo il luogo di passaggio di quelle ire e delle presunzioni e delle solitudini. Troppo filosofico? No, è un modo di fare il giornale per quanto mi riguarda e insieme i miei colleghi questo è l’obiettivo che ci diamo. Io credo che in questo tempo serva, e so di non essere il solo a pensarla così, so che ci sono altri colleghi in altri giornali che si sforzano di fare questo, e continuo a credere che dei giornali ci sia bisogno, altri-menti la piazza non crescerà e non si realizzerà e non si strutturerà in maniera umana, accoglien-te per gli uomini e per le donne, e sarà un posto dove passare in fretta e possibilmente con la mazza ferrata in mano, cosa che non mi interessa. Abbiamo bisogno di crederci, e io ci credo. Siamo nel cinquantesimo anno di Avvenire e non so quanti anni e secoli durerà l’esperienza di un giornale di ispirazione cattolica nazionale, io mi auguro che duri a lungo, nel senso che mi auguro che lo strumento che è il giornale contini a essere uno strumento a disposizione di chi vuole essere informato, non si accontenta del palinsesto che costruisce ogni giorno cercando le notizie che gli somigliano di più, ma è disposto a incontrare notizie che non ha cercato, ma ha trovato dietro al giornale di cui si fida o dei giornali al plurale di cui si fida e che lo inquietano e che gli pongono un’altra piega della realtà e lo costringono a guardare un altro pezzo della vita che è attorno a lui e dentro di lui e che lo fanno pensare. Anche se c’è un’opinione che non coincide con la sua e lui resta della sua idea, intanto quel pensiero l’ha fatto, lo ha articolato e questo l’ha fatto crescere, cambiare un po’, confermarsi ed essere più chiaro nella sua ricerca. Io mi auguro che questo strumento ci sia ancora, perché se non ci fosse saremmo più poveri, se ognuno di noi si trovasse nella condizione di scegliere solo quello che gli piace e gli serve – io la chiamo l’informazione sel-fie – sarebbe un disastro, continuerebbe a far la foto a se stesso e non a riconoscere nessun altro volto, nessuna altra storia attorno a sé e questo è quello che distrugge un popolo alla fine, quello che fa a pezzi la vita della gente. Il giornalismo serve, se serve a camminare in quest’altra direzio-ne e io mi auguro che serva ancora. Avvenire serve.

ALESSANDRO BANFI:
Devo ringraziare tutti i relatori perché, devo dire, hanno messo un sacco di carne al fuoco, moltis-simi ragionamenti che mi piacerebbe approfondire. Propongo un secondo giro molto rapido, pro-prio di reazioni, perché ci sarebbero tante cose su cui tornare, però tre minuti ognuno e comin-ciamo da Lucio Brunelli.

LUCIO BRUNELLI:
Avevo preparato altre cose ma mi sembra che la questione interessante è che cosa possiamo fare, qual è l’antidoto, se esiste, alla cattiva informazione, chiamiamola così, siamo tutti d’accordo. Ov-viamente già alcune cose sono uscite: si è parlato di competenza, di discernimento, io ricordo quando ero giovane redattore, più di vent’anni fa, all’inizio in RAI, quando usciva una notizia “Allo-ra ci sono 10 morti …”, il capo redattore era abituato a dire ”Ma all’Ansa è uscita?” e tutti fermi finché non usciva. Forse era un eccesso di prudenza, però, per dire, c’era un’attenzione a edifica-re, prendendosi anche il tempo necessario

ALESSANDRO BANFI:
“Né con Bocca, né con Pansa, ma con l’Ansa”.

LUCIO BRUNELLI:
È ovvio che oggi questo non è più possibile, stiamo parlando di preistoria come forma, nel senso che le notizie ci arrivano in redazione da tutte le parti, da internet… la cosa è imparare a valutare e a discernere le fonti compresi gli account Twitter che spesso sono delle fonti formidabili perché magari ti sta informando un giornalista che è sul posto e che tu hai già imparato a conoscere e sai valutare quanto è credibile o quanto non lo è. Questo è tutto un lavoro o che si fa, o che si può fa-re, o che si dovrebbe fare di più nelle redazioni. Non siamo disarmati. Io mi divertivo soprattutto all’inizio, quando sono arrivato a “30Giorni” con una redazione splendida, persone anche umana-mente eccezionali, e c’erano dialoghi come questo. «Allora, è uscita questa notizia». E io dico: «E chi l’ha detto?» «Ah, è uscita su Repubblica». «Va bene, ma a Repubblica chi l’ha detto?» «Cita media locali» «E quali sono questi media locali?» Cioè cercare di andare all’origine della notizia e questo si può fare, è difficile, però si può fare ed è la cosa che va fatta e che cerchiamo di fare. Ogni notizia deve avere un padre e una madre che si assumono la responsabilità di quella notizia e tu sei in grado di valutare l’attendibilità con il tempo, con l’esperienza. La professionalità è questa, cioè la capacità di imparare a valutare l’attendibilità di una fonte, contro la logica del co-pia/incolla che imperversa, ahimè, nelle redazioni. Arriva un articolo di questo o di quest’altro si-to, viene copiato, incollato e uno fa il pezzo.
Un altro antidoto che è antico e che, secondo me, è attuale, sempre più attuale, è uscire, perché non si esce più dalle redazioni. Ci sono soprattutto redazioni dei giornali on-line in cui i redattori non escono; stanno lì attaccati alle agenzie, davanti a Facebook, davanti a Twitter tutto il santo giorno. Non mettono più il muso fuori e quando si esce si scoprono delle cose ed è il bello del no-stro lavoro e della nostra professione e si è anche in grado, si hanno gli strumenti per contestare le cose false che circolano. Penso che noi di Tv2000, come anche Avvenire, ci siamo molto affezio-nati al Centrafrica, prima che ci andasse papa Francesco ad aprire il Giubileo, perché dei Carmeli-tani che stanno lì ci invitavano ad andare. E lì la narrazione comune era: c’è uno scontro tra Islam e Cristianesimo, tra cristiani e musulmani, Seleka e Balaka, e noi siamo andati, su invito dei Car-melitani, ospiti loro e il nostro giornalista bravissimo Maurizio Di Schino, ospite di questa missio-ne, scopre che questa missione si è trasformata in un campo- profughi: ci sono 4000 rifugiati, in gran parte musulmani, ospitati nelle parrocchie dei Carmelitani, in fuga dalle violenze che si svol-gevano a 5 chilometri da Bangui. Scopriamo che il cardinale di Bangui, il leone di Bangui, un grandissimo personaggio, è amico fraterno dell’imam della città e l’imam in quel periodo viveva a casa sua, ospite suo. Allora capisci che la realtà forse è più complessa, un po’ diversa e che questo scontro fra islam e cristianesimo non è così inevitabile, come viene raccontato. Ma per dire un esempio di come l’uscire fuori, l’andare, il vedere è ancora una buona e santa regola che ci aiuta.

ALESSANDRO BANFI:
Francesco, “tu hai tirato il sasso in piccionaia” come si dice, quindi è giusto che ci torni sopra.

FRANCESCO PICCININI:
Sì, ci tengo prima a dire una cosa. Io devo ringraziare Marco Tarquinio perché il lavoro di “Avveni-re” sul tema dei migranti ci ha fatto sentire meno soli, quindi veramente grazie.
E c’è un tema che voglio affrontare un po’ meglio, le due cose vanno insieme, è che il vero tema non è sulle fake news, ma è che si crea il cosiddetto mood, l’umore attorno a un argomento e poi quell’umore è quello che determina poi le scelte, quindi, come giustamente diceva Marco, se noi creiamo la sensazione che ci sia un’emergenza, quando nessun dato dice che in Italia c’è un’emergenza criminale, ovviamente noi creiamo una sensazione di timore. Guardate che questa è una cosa abbastanza storicizzata. Io ritorno alle elezioni comunali di Roma di qualche anno fa, sulle quali è nata un’emergenza, e qui si aprono due cose importanti: il concetto di prossimità, che è stato segnalato, cioè fare uscire i giornalisti o avere persone che siano vicine alle notizie, guar-date che la prossimità è l’architrave sulla quale si regge il web, che viene dalla parola inglese che significa tela. Se voi la immaginate come una tela in cui vi sono delle interconnessioni, più l’interconnessione è vicina a voi, più voi date fiducia. Io scommetto che Bruno tu ti sarai fidato del-lo screen sul morbillo perché era qualcuno che più o meno conoscevi.

BRUNO MASTROIANNI:
In quel caso del morbillo era perché il ragionamento era stringente, però hai ragione tu che senz’altro la vicinanza delle relazioni aumenta la credibilità e la fiducia.

FRANCESCO PICCININI:
E quindi se noi abbiamo la zia che dice una cosa, noi tendiamo a crederle, poi magari la zia ha detto una fesseria, capita che le zie le dicano. E qui nasce il secondo tema fondante. È vero che da una parte si è scritto tantissimo sulla fine delle strutture intermedie, sindacati, partiti, però c’è stata la prima struttura intermedia che dovrebbe imparare a reagire alla digitalizzazione dell’informazione, che è la famiglia. La fruizione – immaginate un po’ perché io non c’ero – però prima si guardava tutti insieme la radio, la televisione intorno alla tavola e il padre e la madre erano il primo filtro alla comprensione e all’interpretazione delle notizie. Dopodiché, quando si è passati al mobile, è complicato avere dei figli attorno alla tavola con i quali si interagisca attorno allo stesso argomento, quindi muore il concetto di opinione pubblica condivisa. Il primo nucleo – è interessante dirlo da questo Meeting – che dovrebbe tentare di recuperare un’opinione pubblica è all’interno della famiglia, almeno padre, madre e figlio, dovrebbe essere proprio la famiglia. Ri-partire da lì è la base, se noi, io non sono padre, non ripartiamo da lì – e spero di farlo bene quan-do avrò dei figli -, di non staccarli dal cellulare, ma quanto meno seminare un terreno di discus-sione che sia comune, è complicatissimo poi dopo chiederlo a scalare, quando si va più avanti. Fi-nito.

ALESSANDRO BANFI:
Dai Bruno, questa è roba tua, te lo sei segnato.

BRUNO MASTROIANNI:
Raccolgo totalmente quello che sta dicendo Piccinini, perché il punto è proprio qua. Abbiamo l’illusione che spegnendo, questo è un errore che facciamo, pensiamo che la questione sia tecnica, strumentale e a volte ci rifugiamo nell’idea: se spegniamo questi “cosi” tutto andrà bene. E questo però cosa crea? L’illusione che poi una volta accesi li usiamo nella maniera corretta. A scuola un ragazzo va e gli si dice:- Spegni il cellulare-, torna a casa e gli si dice:- Spegni quel coso-. Lo spegni ovunque e poi aspettiamo che accendendo diventa un virtuosissimo essere umano capace di di-scernere le notizie, capire le fake-news, spegnere i discorsi di odio. Io credo che dobbiamo fare il movimento contrario, cioè tenerlo acceso, ovviamente nei momenti giusti, però in famiglia biso-gna entrare nel merito, in famiglia non bisogna dire:- Spegni quel coso-, ma dire:- Cosa stai facen-do con il cellulare?-, interessarsi, cosa stanno facendo i nostri figli nello smartphone? Perché non è una questione di tempi, per esempio – Quanto devo tenerlo, 10 minuti o un’ora?-. In dieci minuti si possono fare dei disastri on-line e in un’ora si possono fare cose ottime, non è una questione di quanto tempo, ma di che cosa si fa in quel tempo. Allora io credo che si debba entrare nel merito del significato che stiamo dando alle relazioni che costruiamo o distruggiamo in questo ambiente digitale. Ma soprattutto vorrei dire una cosa che è un po’ la dimostrazione che il problema non è tecnico, almeno la parte tecnica, cioè di conoscenza di come funzionano le piattaforme e gli stru-menti è minimale, il problema è culturale. E sapete da cosa si capisce? C’è un momento nelle no-stre azioni quotidiane on-line in cui ciascuno di noi si trasforma nel più grande giornalista d’inchiesta, capace di non farsi imbrogliare da nessuno, capace di confrontare le fonti, capace di riflettere molto bene se quella a cui sta aderendo è solo un pregiudizio, è solo una sensazione, una percezione o la realtà. Sapete quand’è? Quando scegliamo on-line un ristorante, quando vogliamo prenotare una vacanza su uno di questi siti di prenotazioni, lì ognuno di noi tira fuori tutte le com-petenze necessarie, perché? Culturale perché il capitalismo una cosa ce l’ha insegnata: che i soldi sono soldi e quando tu devi dare 50 euro o 80 euro, ti prendi tutto il tempo e la fatica necessaria prima di dare quei soldi che sono tuoi. Allora io penso che oggi il tema culturale è rendersi conto che, quando noi aderiamo a un’informazione che ci passa davanti, stiamo dando molto più di 50, 80 o 100 euro per una vacanza, stiamo accettando che quel pezzo di realtà lo vediamo con quello sguardo. Allora prendersi quel tempo, quella briga, quella fatica di capire se quel pezzo di realtà è veramente attendibile, credo che sia una cosa che dobbiamo tutti quanti acquisire. E guardate che ripeto che non è un problema tecnico, ma culturale e lo dimostra il sms che tutti avrete ricevuto: – Dì a tutti i tuoi contatti di Messenger che Fabrizio Brambilla è un hacker- lo avete presente? Allora con Vera Gheno abbiamo fatto l’esperimento: ci vuole lo stesso tempo a inoltrare quel messaggio a tutti i tuoi contatti Messenger che andare sullo stesso smartphone su Google, fare copia-incolla e capire che è una bufala. Cioè la questione non è tecnica, ce l’hai sullo stesso strumento la possi-bilità di capire che è una bufala, quindi non condividerla o condividerla. Molti hanno scelto di con-dividerla. Il tema non è lo strumento, è l’essere umano, è a chilometri zero il problema, non sta dentro al cellulare, è sempre nostro.

MARCO TARQUINIO:
Rimangono poche parole e provo a dirne qualcuna. C’era una canzone di Ivano Fossati, che era “La mia banda suona il rock”, che a proposito della musica dice due cose che mi piace usare per l’informazione. Lui diceva che c’è una musica che è speranza, c’è una musica che è pazienza, ecco io credo che l’antidoto al tempo che viviamo è una musica informativa che sia speranza e pazienza e va costruita seriamente. La pazienza porta a fare quello che Lucio Brunelli chiama il discerni-mento, che è la verifica dei fatti. Io in un altro modo da tempo, chi mi conosce lo sa, continuo a dire che noi giornalisti avremo un futuro se saremo capaci di dimostrarci i guardiani dei pozzi di acqua potabile dell’informazione, non padroni ma custodi, guardiani in questo senso, guardiani della democrazia, guardiani dell’umanità, guardiani dei pozzi di acqua potabile, perché c’è tanta acqua fangosa, velenosa in circolazione e serve pazienza per fare questo. E la pazienza è dare un’acqua pulita, buona, e la speranza, che è quella che libera, che dà alle nostre vite, crede che noi siamo in grado di fare qualcosa per gli altri per renderli più consapevoli della realtà che vivo-no, per capire dove va il mondo e cambiare il corso delle cose perché troppe cose sono storte. Siamo in un mondo dove aumentano le disuguaglianze, dove gli uomini e le donne non vengono più guardati in faccia, siamo ridotti a numeri, le nostre vite sono saccheggiate, perché, mentre facciamo quello che ci ricordava Mastroianni, prenotiamo la vacanza, intanto i signori dei canali digitali succhiano i nostri dati e li rivendono. Abbiamo capito, sono fino a 99 i dati che Facebook e company raccolgono, attraverso ciò che consapevolmente o inconsapevolmente consegniamo ai signori dei canali digitali.
Io credo che l’altra parola chiave sia quella che ha detto Piccinini, la vicinanza, la prossimità. Se un giornale non è in grado di avere un rapporto o uno strumento di informazione, un rapporto di con-fidenza con quelli che accettano di misurarsi con le sue pagine, che ci sta a fare? Io credo che questo continuerà ad essere possibile nel mondo che abbiamo davanti, dipende dagli uomini e dal-le donne che faranno l’informazione e la fanno in questo momento cruciale e di svolta. Le notizie più belle le dobbiamo ancora scrivere e non sono necessariamente quelle che escono sull’Ansa. Con “Avvenire” in questi anni, e lo so che non siamo i soli, stiamo lavorando molto sulle notizie fuori dal fiume delle informazioni mainstream, totalmente fuori da quel fiume; sono inchieste no-stre che sviluppiamo completamente fuori dalla cosiddetta attualità del momento secondo quello che è stato deciso dagli esternatori di professione. Faccio un esempio recentissimo: la lunga cam-pagna, i 4000 km che Antonio Maria Mira, Tony per gli amici, s’è fatto al sud sulle piste del capo-ralato italiano, l’ha fatta prima dei due incidenti che hanno portato all’attenzione di tutti con quel-le decine di morti, quello che continuava ad accadere, perché quelle migliaia di persone alle quali vengono tastati i muscoli, come si faceva agli schiavi nei campi di cotone americani, sono qui in Italia adesso. La terra dei fuochi, so che è argomento difficile e duro, quando abbiamo deciso co-minciare a ri-raccontarla, non la raccontava più nessuno perché da vent’anni si continua ad avere questo problema ed è inutile parlarne. Ci sono tante cose da vedere nella nostra realtà, belle e brutte, come l’Italia che accoglie i migranti, che c’è, che è reale, che si fa carico di decine di mi-gliaia di persone e le aiuta a vivere fra noi e con noi e questa la trovate sulle pagine dei giornali al di là di quelli che si inerpicano per la strada erta per dire il lato chiaro della cronaca. Allora pa-zienza e speranza, penso che siano un peso accettabile nelle nostre bisacce. Grazie


ALESSANDRO BANFI:
Ci avviamo alla conclusione: adesso vi leggo un avviso importante, ma prima non devo tirare le fi-la e non voglio farlo, ma voglio solo leggere le ultime parole che papa Francesco ha messo alla fi-ne del suo messaggio su fake news e giornalismo di pace, rivolgendo una preghiera francescana nel senso di san Francesco ma anche di papa Francesco, che dice: ”Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace, facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comu-nione, rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi (ecco il giornalismo di pace), aiutaci a parlare degli altri, di tutti gli altri, come di fratelli e sorelle, tu sei fedele e degno di fiducia, fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo”.
È una preghiera, un impegno per ognuno di noi.

(testo non rivisto dai relatori)

Data

25 Agosto 2018

Ora

11:30

Edizione

2018

Luogo

Sala Neri UnipolSai
Categoria
Incontri