LE SFIDE PROFESSIONALI DEL NOSTRO TEMPO

LE SFIDE PROFESSIONALI DEL NOSTRO TEMPO

Partecipano: Valerio Camerano, Amministratore Delegato A2A; Lorenzo Maternini, Vice Presidente di Talent Garden. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.

 

GIORGIO VITTADINI:
Buon giorno. In questo Meeting ha avuto molto spazio il tema della formazione, dell’educazione, della preparazione al mondo che cambia, perché, come abbiamo detto, non è che si può parlare del tema del “tu” prescindendo dalle condizioni economiche e del lavoro. Allora, da questo punto di vista, questo dibattito sulle “sfide professionali del nostro tempo”, vuole avere proprio questo taglio: di capire, dal punto di vista macro economico, che cosa succede e poi, che tipo di professionalità si richiede, che tipo di esigenza, che tipo di cambiamenti sono necessari. Abbiamo con noi Valerio Camerano, Amministratore delegato di A2A e Lorenzo Maternini, Vice Presidente di talent Garden. L’idea è di muoversi in questo modo: prima Camerano e Maternini parleranno, faranno una prima relazione e poi la seconda parte sarà lasciata al dibattito, ad alcune domande, in modo tale da andare a fondo degli argomenti.
Prego.

VALERIO CAMERANO:
Grazie. Dunque, mentre mi preparavo la scaletta, cercavo di mettere un po’ di pensieri sul tema del cambiamento della modernità e mi è venuto in mente un piccolo aneddoto che volevo condividere con voi, che è successo un po’ di tempo fa a Milano. Io sono entrato in una banca e ho messo la mia card nel Bancomat per prelevare i soldi. Ad un certo punto, la banca ha risucchiato la card, quindi mi sono ritrovato essenzialmente senza bancomat. Allora sono entrato in banca, ho cominciato a protestare, mi servivano i soldi. Finalmente il direttore della banca ha chiamato un tecnico, il tecnico è entrato nel bancomat all’interno della banca e ha incominciato a parlarmi. Il fatto è che solo io riuscivo a sentirlo perché era talmente vicino al bancomat che il resto della fila era piuttosto lontana. Allora il signore ha incominciato a dirmi: “Beh allora quanto aveva chiesto lei?” e io: “Avevo chiesto 150€!” “Ma le bastano solo 150 €?” e io: “Sì, 150! A me vanno bene anche 100”.
Ad un certo punto il colloquio si è fatto sempre più particolare, finché mi sono girato e ho visto che c’era una piccola folla di curiosi, visto che avevo trovato qualcuno che dibatteva dal bancomat. Ad un certo punto da questa folla si è staccato uno che si è avvicinato e mi fa : “Scusi, questo è il nuovo bancomat a controllo ottico?”.
Questo è un po’ il rischio della modernità. Volevo iniziare con questo dicendo che la risposta alla domanda che ci siamo fatti è quasi tautologica, nel senso che esiste in questo tempo un bisogno di cambiamento. Dico che è tautologico perché è evidente questa necessità. C’è una crisi dello status quo all’interno del sistema economico, c’è una crisi per vari motivi. Soprattutto perché è evidente che c’è un cambio del sistema produttivo, un cambio del sistema in cui i prodotti, i servizi vengono erogati e vengono acquistati e consumati dal mercato. Diciamo che c’è in grandissimo cambiamento in atto. Quali sono le principali leve di cambiamento? Naturalmente ne citerò solamente qualcuna. Innanzitutto il tema della discontinuità tecnologica, il tema della dimensione digitale della produzione, l’impatto che ha il cambiamento digitale sul sistema di produzione. Questo ha indotto ovviamente dei nuovi modelli di organizzazione economica, quelli che noi chiamiamo la destrutturazione della catena del valore. Il modo con cui si fa business è cambiato e sta cambiando, cambiano gli input, cambiano molte di queste cose. E ovviamente uno dei cambiamenti su cui parlerà diffusamente Maternini dopo, è il fatto che la dimensione convenzionale dell’azienda, quella industriale, si sta allargando a dimensione sociale dell’azienda. Quindi è entrata con grande forza dentro il sistema economico una dimensione sociale, che evidentemente, attraverso i vari cambiamenti della catena produttiva che dicevo prima, ma anche i cambiamenti dei comportamenti dei clienti che partecipano al processo produttivo, ha indotto un nuovo cambiamento dei modelli di business tradizionale. E in più c’è una partecipazione più attiva, molto più attiva di quella che abbiamo osservato nel passato, del sistema di acquisto dei servizi da parte dei clienti finali. Sempre di più assistiamo a dei processi di co-determinazione e di co-creazione dei prodotti e dei servizi. Per esempio, la Fiat 500 è stata quasi interamente disegnata e costruita attraverso un sistema di condivisione con i propri clienti su base digitale. Quindi ripeto, la premessa è quasi pleonastica, ma i cambiamenti sono molto molto significativi, avvengono in modo rapido su tutta la catena del valore e inducono a fortissime riflessioni. Quali sono queste riflessioni? Ovviamente un cambiamento di carattere strategico, quindi una revisione strategica del sistema, una comprensione adeguata dei meccanismi di cambiamento del sistema economico e quindi anche un cambiamento dell’organizzazione, delle strategie delle aziende e conseguentemente un cambiamento dell’organizzazione. Sottolineo questi due cambiamenti perché sono ultimamente correlati tra di loro. Quindi in generale, quello che si assiste a livello di dimensione aziendale in questo forte cambiamento, impone alla società dei cambiamenti continui e la principale trasformazione è che il cambiamento non è un fatto straordinario, ma il cambiamento è diventato un fattore normale di vita aziendale. Quindi il cambiamento di innovazione è diventato un fattore di normalità e non di straordinarietà. In questo senso le aziende si stanno trasformando in ecosistemi, che come i sistemi biologici devono essere capaci di adattarsi ad un nuovo regime. In questo è interessante capire che ci sono delle divisioni nel sistema industriale: c’è chi pensa che questo cambiamento sia una metamorfosi, ovvero una trasformazione delle aziende senza cambiamento d’identità. Invece questo grande processo di cambiamento induce delle fuoriuscite dal sistema economico e dei nuovi ingressi nel sistema economico. Quindi, quali sono le principali sfide che in questo momento le grandi aziende si trovano di fronte? Innanzi tutto la comprensione di questo cambiamento: da dove arriva, perché arriva, che cosa investe e che cosa comporterà. Secondo, è come questo cambiamento impatta sulle strategie aziendali, quali decisioni provoca nelle strategie aziendali. E da ultimo, come adattare l’organizzazione sulla base delle strategie aziendali.
Volevo poi parlarvi di due grandi argomenti. Il primo argomento riguarda le trappole. Quali sono secondo me le trappole, le insidie di questi cambiamenti e poi parlare invece, in modo un po’ più diretto e diffuso, di quelli che è il viatico per attraversare questo cambiamento.
Il primo tema è che questo cambiamento è finalizzato a due grandi cose: la prima è la crescita sostenibile delle aziende, una crescita bilanciata, sostenibile. Per un lungo periodo la crescita è stata essenzialmente una crescita dimensionale. La seconda cosa, altamente interessante, riguarda il benessere aziendale. Quindi crescere non è sufficiente. Non è sufficiente né al sistema esterno né al sistema interno dell’azienda. Cresce in modo sostenibile e crescere assicurando un benessere aziendale.
Beh il primo tema che io considero un’ insidia importantissima nell’affrontare il cambiamento, i grandi cambiamenti e le sfide professionali di questo tempo, riguarda quali sono le informazioni. Di fronte ad un cambiamento quali sono le informazioni da analizzare? Qual è, quale ruolo ha l’intuito in azienda e quale ruolo ha l’esperienza? E qual è il bilanciamento giusto, soprattutto per un’azienda come la nostra, che ha certamente quantità importanti di innovazione, ma anche una quantità significativa di business tradizionale? Qual è il peso che deve essere lasciato all’intuizione e il peso da dare all’esperienza? E mi vengono in mente grandi discorsi, di grandi nomi che hanno affrontato incredibili discontinuità per incapacità di trasformare esperienze di intuito al nuovo sistema. Penso alla CODAC, ad esempio, che aveva bocciato improvvisamente, abolito e archiviato il progetto della fotografia elettronica digitale perché la considerava o troppo anticipata o inutile rispetto ai tempi. Oppure al declino industriale strategico di Blockbuster di fronte all’evoluzione dello streaming, della produzione delle telefonia e dei film o degli entertainment. Ma penso anche al difetto di esperienza, quindi non di intuizione ma di esperienza, che c’è nel settore bancario. Pensate che ad un certo punto il settore bancario è stato inondato di grandi intuizioni, di innovazioni e intuito e deprivato completamente dell’esperienza, con la conseguenza della grandissima crisi che ha avuto nel 2008. Quindi il bilanciamento fra intuizione ed esperienza è un aspetto chiave, un’insidia di come affrontare e rappresentare il cambiamento. Un secondo punto riguarda il tema dell’essenzialità. Di fronte alla enormità del cambiamento, all’enormità delle informazioni e alla compulsione delle informazioni, oltre che a dotarsi di capacità analitiche, ad esempio delle informazioni come la big data analysis, è fondamentale che l’azienda non perda di vista l’essenzialità della sfida, cioè quella che viene chiamata la big picture, la vision. Ma la vision è sempre in contrapposizione alla sintesi, cioè la visione è una decisone di ordine logico, superiore rispetto ai problemi industriali dell’azienda, rispetto ai problemi quotidiani della azienda. Quindi è fondamentale non perdere la capacità di cogliere l’essenzialità della sfida. Penso ad esempio al fatto che non sia stata la Sony ad inventare l’iPod. L’iPod è stato inventato dalla Apple, quindi un soggetto che non aveva nulla a che fare con il sistema e con la catena del valore dell’entertainment musicale. Quindi è interessante capire come, in questo grande cambiamento, soggetti nuovi penetrino all’interno delle vecchie catene di valore industriali. Sono soggetti che portano una grandissima minaccia competitiva all’equilibrio di quel sistema industriale, e ripeto, soggetti che non hanno addirittura nessuna esperienza, competenza o tradizione in quel settore di cui competitivamente si sta parlando. I casi più celebri che , sistematicamente vengono nominati sono quelli di BMB: una grandissima azienda mondiale che non ha però storia, competenza e tradizione nel settore del bed and breakfast o la Uber, che non solo non ha tradizione né competenza ma neanche asset, cioè non possiede sostanzialmente i veicoli che dà in gestione. Quindi c’è una frammentazione e una rivoluzione all’interno di queste catene del valore. Subentrano soggetti che non sono mai entrati e non hanno esperienza e non hanno tradizioni in questo.
Poi c’è un terzo tema che, secondo me, è una trappola importantissima nella comprensione del cambiamento, che è la cosiddetta visione, quella che io chiamo visione auto-regressiva, che il professore Vittadini statisticamente potrebbe spiegare meglio. C’è una tendenza a vedere il futuro come una rielaborazione di elementi lineari del passato. Quindi prendere dal passato, riformulare la propria conoscenza, la propria competenza e la propria abilità e programmare e prevedere il futuro in questo modo. Eccola la trappola auto-regressiva, una trappola molto significativa in questo periodo di cambiamento e non bisogna cadervi, perché si rischiano di perdere livelli molto importanti di sviluppo economico. Un altro punto è quello che riguarda quello che io chiamo il mindset, che gli americani chiamano mindset, la forma mentis. Spessissimo capita in azienda, cosa che è molto collegata al tema dell’auto-regressione, che i manager tendano ad utilizzare la propria esperienza, il proprio patrimonio conoscitivo, culturale, manageriale, personale per affrontare e analizzare i fenomeni esattamente con il mindset. Il mindset è un grandissimo rischio, perché la nostra struttura mentale ci spinge ad interpretare i fenomeni secondo modalità, consecuzioni e relazioni che sono stabili, quindi non aperte all’imitazione. Una grande trappola anche questa. Poi c’è il tema della capacità di sviluppare funzioni cooperative all’interno dell’azienda di carattere nazionale. Oggi è più evidente che mai, molto più evidente che negli anni passati, che le aziende non sono in grado di generare cooperazione all’interno dell’azienda, cooperazione fra la azienda e sistemi all’esterno dell’azienda, fornitori, clienti, sindacati ecc., perché non sono in grado di valorizzare quell’ intelligenza che è al di fuori dell’azienda, che è detta intelligenza distribuita. Esse si fondano su processi di innovazione puramente interni, con il rischio di fallire e di andare incontro a forti crisi di carattere di continuità.
Infine c’è un elemento che riguarda l’incertezza. Una grande dote, che rischia di mancare in molte delle aziende, è la capacità di navigare nell’incertezza, di navigare in un sistema in cui le variabili sono superiori alle capacità di poter risolvere queste equazioni.
Mi sono trovato qualche giorno fa in un dibattito insieme ad altri amministratori delegati di un’azienda e c’era una caratteristica che non riuscivo a comprendere che legava tutti gli amministratori. Alla fine sono arrivato a questa conclusione banalissima, semplice: nessuno di noi aveva la sicurezza, la certezza di gestire le aziende in un sistema deterministico ovvero siamo tutti quanti coinvolti nella gestione di imprese attraverso un tentativo di approssimazione di soluzione. Questo richiede una forte abilità di navigare nell’incertezza, di vivere nell’incertezza, di dominare l’incertezza e anche le inquietudini che derivano da questa incertezza. Quindi la capacità di governo dell’incertezza diventa una dote fondamentale e una insidia importantissima per questo processo di cambiamento che va affrontato.
Volevo poi condividere con voi quali sono, secondo me, gli ingredienti fondamentali nelle aziende della capacità di vivere e di attraversare questa forte turbolenza e questo grande cambiamento. Sono doti che noi consideriamo fondamentali e spessissimo scarse. Se dovessi darne una visione micro-economica, direi che il loro prezzo è altissimo perché c’è una grandissima scarsità. Beh il primo è l’orientamento strategico, cioè la capacità di trovare una soluzione di ordine logico superiore rispetto agli elementi che si hanno a disposizione, la capacità di fare una salto logico e vedere al di là degli ingredienti che qualcuno ha, la capacità di elaborare, di sviluppare, al di là dei singoli dati a disposizione, della singola risorsa all’interno della azienda. Un secondo punto riguarda la capacità diagnostica. Io mi preoccupo e mi occupo di spingere le persone a diagnosticare quello che passa sotto le loro mani e sotto i loro occhi. Ovviamente non deve essere un diagnosi da pronto soccorso, da trauma già avvenuto, ma una capacità di previsione, di preoccuparsi, cioè di preoccuparsi prima, a qualsiasi livello. Poi c’è un secondo tema che è un po’ impopolare, filosofico da un certo punto di vista, che è la conoscenza di se stessi. Spessissimo in azienda si tende a privilegiare la dimensione organizzativa aziendale e triangolare, cioè la gestione del proprio capo, per chi ha un capo, la gestione dei propri pari e la gestione delle proprie risorse. E si tende quasi totalmente ad escludere una riflessione dedicata a se stessi. Quali sono le proprie reazioni, quali sono le reazioni al cambiamento dell’organizzazione, all’innovazione, come vengono prese da ciascuno in azienda i cambiamenti. Perché i cambiamenti vengono normalmente visti come una forma di minaccia. Quindi lo sviluppo della competenza di conoscere se stessi è fondamentale di fronte alla sfide future. Questo richiede anche una capacità di sviluppare una comprensione di quali sono le fonti di motivazione e le fonti di ispirazione. Perché spessissimo le aziende sono capaci di sviluppare una strategia articolata e sofisticata e i grandi fallimenti avvengono nella traslazione di questa strategia nei livelli operativi dell’azienda. C’è una difficoltà fortissima di ispirazione delle aziende, di motivazione. Ciascuno di noi ha fonti di ispirazione, di motivazione molto diverse. Quindi questo lavoro è all’interno e richiede e coinvolge ogni singola persona all’interno di una azienda. Poi c’è una altro tema, che anche qui è poco popolare e io mi diverto a promuoverlo e lo chiamo il demarketing di se stesso. Mi capita molto spesso che qualcuno bussi alla mia porta a mi dica: “Ho una idea fantastica”. Sapete qual è la trappola fantastica di questa idea fantastica? È l’innamoramento di questa idea. Quindi mi capita molto speso di fare una cosa crudele, di prendere questa idea e affidarla a qualcun altro. Evidentemente in questo processo di dispropriamento e di riattribuzione di questa idea a qualcun altro si rischia e anzi si aggiunge del valore che innegabilmente chi ha partorito questa idea fa molta fatica a vedere. E’ quindi una competenza importante e per il futuro e in questa fase di cambiamento, riuscire di tanto in tanto a fare quello che io chiamo il demarketing di se stessi e delle proprie idee. Un’altra cosa è disimparare. Anche questo effettivamente è qualcosa di indigesto. Spessissimo ci troviamo di fronte a dei paradigmi che sono totalmente diversi dal passato e quindi la tentazione che citavo prima del mindset, le tentazioni dell’approccio autoregressivo valgono sempre. Quindi uno dei grandissimi “challenge” o delle grandissime sfide che ciascuno di noi, a cominciare da chi gestisce l’azienda, deve affrontare è quello di imparare a disimparare. Disimparando si riaprono le condizioni per la comprensione di fattori nuovi, di successo in un sistema economico e ovviamente è un gesto difficile. C’è qualcuno che dice che la curva della conoscenza crolla ogni cinque/sei anni, quindi è innegabile che occorre tornare ad imparare. Ma è fondamentale che per imparare bisogna avere un certo grado di capacità di disimparare. Poi c’è un altro tema, che riguarda le organizzazioni che sono sfidate dal cambiamento, che è collegato parzialmente con quello che chiamavo prima la conoscenza di se stessi: è l’educazione ad imparare a pensare. Che cosa vuol dire? Qualcuno di voi può considerare questa esortazione un po’ offensiva. Cerco di spiegarmi meglio. Spessissimo il nostro problema non è tanto quello che pensiamo, ma è soprattutto come pensiamo, se siamo in grado di distinguere quello che io chiamo l’informazione di base del nostro pc, della nostra testa. Quindi essere in grado di uscire dalla configurazione di base e riuscire ad imparare in modo diverso e quindi pensare a come si pensa per evitare appunto, ripeto, che questa configurazione di base costringa chi si occupa di innovazione e di cambiamento all’interno dell’azienda, ad applicare gli stessi paradigmi. Infatti, applicando gli stessi paradigmi, facendo gli stessi cambiamenti irrilevanti, il rischio di fallimento è altissimo. Poi c’è un altro tema che riguarda le aziende: è non confondere l’informazione con la cultura. Questo riguarda soprattutto i neo assunti, i quali vengono con una grandissima padronanza dell’informazione, che vuol dire accesso all’informazione. Ho visto già degli stand anche qui interessantissimi nel Meeting, dove si parla di qual è il confine fra la tecnologia e l’umano, dove si segnala una cosa interessantissima , che la crescita della tecnologia svuota un po’ dell’umano, svuota un po’ l’uomo pur essendo nello stesso momento di supporto all’uomo. Evidentemente l’informazione non ha niente a che fare con la capacità di elaborare quest’informazione. Noi vediamo la differenza di studenti che arrivano in azienda, che hanno una grande capacità di accesso all’informazione ma hanno bassissima capacità di elaborare quell’informazione. Poi c’è il tema della leadership. Quello che ho imparato in questi anni è immaginare la leadership come capacità di dare occasione di leadership agli altri, esattamente il contrario di quello che accade spessissimo. Spessissimo la leadership è un esercizio volto ad individuare il discrimine del potere di una visione aziendale. Ci vuole un certo coraggio ma in realtà il nostro compito, il compito di chi gestisce l’azienda non è trattenere la leadership ma concedere delle occasioni di leadership a tutti coloro che vivono l’azienda, dal primo all’ultimo. Questa secondo me è la mansione della leadership e del leader e in questo senso questo richiama un po’ la parabola dei talenti, cioè la capacità e la volontà che ha e deve avere nella propria missione una leadership di far circolare la ricchezza, di rimettere in gioco la propria ricchezza e di metterla a disposizione dell’azienda, di tutti all’interno dell’azienda. In questo modo l’azienda è capace di farla propria, di raccogliere questa sfida e di partecipare in modo molto attivo e appassionato allo sviluppo industriale dell’azienda. Infine due temi che secondo me sono fondamentali nell’attraversamento del processo di cambiamento che ci riguarda e ci riguarderà. Uno è il tema dell’empatia. Io credo che la capacità di immedesimarsi sia molto importante. Goldman ha scritto fiumi di parole sull’esigenza emotiva, cioè sulla capacità di sapersi immedesimare nelle situazioni sotto il profilo emotivo e non solo sotto il profilo cognitivo. La resilienza, cioè la capacità di riuscire a sopportare, con grande passione e grande rigore, i cambiamenti, la dose di lavoro e l’incertezza, è un altro aspetto emotivo fondamentale. L’ultimissimo tema riguarda la soddisfazione. Dicevo prima che i cambiamenti, le nuove strategie, le nuove organizzazioni aziendali volte alla crescita sostenibile hanno un risvolto che riguarda il benessere aziendale. Ormai è chiarissimo che i bisogni di chi vive in azienda vanno ben oltre la sfera materiale, vanno al di là del pacchetto economico, degli incentivi e sono molto importanti per il successo dell’azienda, molto rilevanti. Secondo me sono collegabili all’interno della sfera di due o tre punti fondamentali di benessere aziendale. Il primo è l’allargamento dell’autonomia, dell’indipendenza e della capacità di fare errori all’interno dell’azienda. So che è facile a dirsi ma è molto difficile da far passare all’interno dall’azienda. Però è fondamentale, insieme al coinvolgimento dei propri dipendenti nella definizione e nella creazione dei processi aziendali. Poi c’è un secondo punto che rende il lavoro più compatibile con le altre dimensioni della vita aziendale, quindi progetti che riguardano lo smart working, il lavoro a distanza, il lavoro digitalizzato, le facilitazioni per l’esercizio e l’organizzazione del lavoro quotidiano. E da ultimo, secondo me, un aspetto molo importante è aumentare il valore relazionale cioè la quantità del contenuto relazionale della vita quotidiana di un’azienda. Le aziende che hanno grandi capacità relazionali, hanno grande capacità di consapevolezza. E le aziende che hanno successo internazionale, hanno un elevato grado di auto consapevolezza. Sapersi conoscere e saper quindi fare di questa conoscenza un fattore chiave di successo è importantissimo per saper affrontare i cambiamenti come fattori di normalità. Grazie.

LORENZO MATERNINI:
Buonasera a tutti. Io sono della generazione nata negli anni ’80-’90, che ha cominciato l’Università con un messaggio molto chiaro: la laurea è un valore molto relativo, non c’è lavoro eccetera. Io credo che sia doveroso, anche perché vedo tantissimi giovani in sala,. dare anche un messaggio diametralmente opposto. E’ vero che siamo in un’epoca di cambiamento sostanziale, ma è anche vero che in questo cambiamento ci sono delle opportunità incredibili e stiamo vivendo davvero in un mondo che sta offrendo, soprattutto ai giovani, delle opportunità che non si sono mai verificate prima. Il problema è che per saper leggere queste opportunità bisogna saper leggere il cambiamento culturale del nostro tempo e per saper leggere il cambiamento culturale del nostro tempo bisogna che qualcuno , soprattutto ai giovani, lo racconti e lo insegni. Quello che volevo raccontarvi con due brevissime slide sul discorso macro economico, prende l’America come esempio, semplicemente perché l’America è il Paese trainante e anche di solito anticipatorio di quelle che sono le tendenze macro economiche. Analizzando il settore internet, cioè tutte quelle aziende che lavorano sul mondo internet, ho visto negli ultimi dieci anni una crescita del 700% dei posti di lavoro. Ovvio, non possiamo ancora confrontare i posti di lavoro generati dal settore internet con i posti di lavoro generati dal settore manifatturiero, ma è l’unico settore che ha registrato questi dati di crescita. Un’altra cosa secondo me è molto importante da sottolineare come premessa. Ho preso i dati apposta dal General Motors. General Motors ha centoquaranta mila dipendenti in America e settantanove mila dislocati in parte in America e in parte all’estero. Prendiamo Facebook, prendiamo una della aziende di questa new economy, dell’internet economy eccetera. Facebook ha millecinquecento dipendenti e mille dislocati. Bene, la prima osservazione è dire, benissimo, questa Facebook fattura più o meno 17-18 miliardi, è quindi per dipendente fattura molto di più di General Motors. Analizzando i dati vediamo però che queste nuove aziende in realtà tendono a fare dei grandi fatturati con meno dipendenti: non creano occupazione. Questa è una prima lettura, una lettura molto economista inizialmente ma c’è un particolare che il mondo di oggi, l’economia di oggi va letta con altri parametri completamenti diversi dall’economia di ieri. Se voi analizzate per esempio lo stesso Facebook, Facebook crea cinquantatre mila posti di lavoro in servizi direttamente collegati. Cosa vuol dire? Facebook è una piattaforma, ci sono altre azienda che fatturano milioni, se non miliardi, che, grazie a quella piattaforma, hanno potuto creare dei software, hanno potuto creare la loro piattaforma ed è stato calcolato che queste aziende creano cinquantatre mila posti di lavoro e centotrenta mila collegati. Cosa vuol dire questo? Questa è un’altra slide molto interessante, sul fatturato di Apple, che fattura circa quaranta miliardi in Europa e dieci miliardi di fatturato indotto, cioè relativo a tutte quelle start-up che si mettono a fare le applicazioni che grazie al sistema Apple possono esistere. Questo cosa vuol dire? Che in questo nuovo parametro economico, in questo nuovo sistema economico, c’è una parola chiave che ne determina secondo me l’esistenza, che è la condivisione. Se voi analizzate tutto questo mondo dell’internet economy, vedete che tutto l’internet economy si basa sulla condivisione. Non solo Facebook è una piattaforma di condivisione ma anche tutto il fatturato che genera, tutti i posti di occupazione che genera sono generati grazie al fatto che c’è un mondo che condivide questo sapere e ne alimenta la forza. Pensate a Google, Google è una piattaforma, ma senza tutte le aziende che lavorano per Google, Google non sarebbe niente. Quindi la condivisione è la parola chiave di questa nuova economia, di questo nuovo mondo, di questo nuovo sistema economico. Tesla è un altro esempio, per uscire dal mondo internet. Pensate che Tesla, il brevetto della batteria l’ha rilasciato, cioè Tesla non ha brevettato la sua batteria. Questo cosa significa? Che per Tesla è molto più importante che il suo pezzo fondamentale sia un sapere condiviso, per tantissime ragioni, sia perché tanti talenti del mondo lavoreranno alla Tesla, sia perché alla Tesla sempre più persone, sempre più ingegneri si collegheranno e lavoreranno per Tesla in modo indiretto. Vedete, il principio è sempre quello. Un’ultima premessa, prima di raccontare quella che è la mia, la nostra, esperienza personale nel mondo del digitale. Il mondo internet, che apparentemente si dice che è un mondo di condivisione globale, in realtà, dal punto di vista geografico, quindi dal punto di vista di insediamento delle aziende, tende a creare dei distretti industriali forse ancora più forti dei distretti industriali di un tempo. Un esempio su tutti, la Silicon Valley. Si dice: “Ma perché industrie che lavorano su internet, che potrebbero essere dislocate a lavorare in remoto in tutto il mondo, perché si concentrano lì nella Silicon Valley?” Perché in realtà è vero che si accede a tutto il mondo, ma è sempre più vero che i talenti vogliono lavorare insieme e le società hanno bisogno di far sì che in unico polo questi talenti, questi ingegneri informatici, designer, i migliori, si radunino e si contaminino, cioè che le idee vengano in contatto e che ci sia una vicinanza fisica tra queste persone, proprio per uno scambio di idee.
Ecco che il mondo, in realtà, si sta sviluppando da una parte sulla massima condivisione della conoscenza, dall’altra sulla nuova formazione dei distretti industriali, che hanno delle geografie diverse dai distretti industriali del manifatturiero, ma che in realtà ripercorrono quelle logiche di vicinanza. Quindi questo mondo che ha delle logiche di open sullo sviluppo economico, ha anche delle logiche di vicinanza territoriale molto forte. E qui si pone la domanda che ci siamo posti io e anche tutti quelli che hanno dato vita all’ esperienza Talent Garden: è necessario andare poi in Silicon Valley per entrare in questo nuovo mondo del digitale e dell’ innovazione, per cominciare ad essere parte di questo sistema di cambiamento? Talent Garden nasce a Brescia, paradossalmente quindi in una piccola città, in uno spazio di coworker che era nato in realtà con l’ idea di radunare, in quella che era la città di Brescia, tutti quelli che erano i talenti del digitale, tutte quelle che erano le persone che lavorano con internet, affinché, stando nello stesso luogo, ci si potesse trovare, condividere idee, scambiarsi anche i lavori. Ritorna qui la forza ed il valore unico della vicinanza fisica. E quindi partendo proprio da una piccola città si è deciso di creare questo spazio dove le persone potessero confrontarsi, potessero lavorare, potessero creare un’ esperienza d’ ufficio completamente diversa. In una parola, creare un ecosistema per i lavoratori. Nella città di Brescia abbiamo selezionato quelli che erano i talenti del mondo internet, del mondo digitale, abbiamo creato un nucleo di 40-50 persone e le abbiamo messe nello stesso spazio insieme a lavorare. Questo fa sì che si crei un’ accelerazione naturale fortissima. Questo non è un incubatore, non si interviene finanziariamente nelle società, si fa solo sì che queste società possano lavorare dalla mattina alla sera insieme e condividere un’ esperienza e tra un caffè e una partita ai videogiochi possano in qualche modo scambiarsi un sapere. Vi faccio vedere Talent Garden raccontato dalle persone che lo abitano

Video

Brevissimamente. Come avete visto il video risale più o meno a 4 anni fa, il modello si è evoluto. Talent Garden ospita una scuola, si chiama Talent Garden innovation school, che crea dei master per le nuove professioni ecc. Anche le grandi aziende hanno localizzato in Talent Garden parte dei loro dipendenti per sfruttare questo principio della contaminazione, della condivisione. Talent Garden fa tantissimi eventi proprio a favorire questa contaminazione sia per le persone all’interno che abitano nella community Talent Garden, ma soprattutto per coinvolgere quelle che sono le imprese e le persone al di fuori del sistema Talent Garden. Tutte le persone che hanno un ufficio in Talent Garden sono all’interno, cosicché se ho bisogno di un disegnatore, di uno specialista in linguaggio di programmazione ecc. lo cerco e lo posso trovare a Barcellona, lo posso trovare a Vienna, lo posso trovare a Bucarest, lo posso trovare a Milano, dove appunto c’è un Talent Garden e dove questa persona risiede. Oggi Talent Garden rappresenta la più grande rete di coworking a livello europeo. Abbiamo quasi 18 campus, ed è la più grande rete europea. Queste sono alcune immagini del nostro campus di Milano, vedete come si evoluto il modello rispetto al video, e volevo concludere proprio con due concetti velocissimi, due slides velocissime. Questa riguarda un bando promosso dal comune di New York. Siamo state tra le cinque start-up premiate circa due anni fa, ed era un bando di riqualificazione, perché creare un ambiente, un posto come Talent garden, vuol dire popolare quel quartiere anche di persone intorno ai trent’anni, innovatrici, che lavorano tutti i giorni all’interno di quello spazio. Vuol dire anche cambiare l’ecosystem che è intorno e cambiare in qualche modo anche il quartiere. Noi siamo stati tra le prime cinque start-up premiate proprio per insediarsi nel lower east di Manhattan. E l’ultima slide è un progetto a cui Talent garden ha dato vita circa 3 anni fa, proprio partendo da Brescia e che quest’anno vede una bella collaborazione con A2A smart city, che è questo Festival dell’innovazione Supernova. Una cosa che non ci dobbiamo dimenticare – ritorno al punto di partenza – è che se non educhiamo le persone e gli studenti, ma anche tutte le persone esterne a questo mondo innovazione, alle nuove logiche di cambiamento, avremo sempre una società che non riconosce il cambiamento e non lo capisce. È fondamentale creare dei momenti di grande condivisione e di apertura, in cui si raccontano questi nuovi scenari di cambiamento sul mondo dell’innovazione. Supernova è un festival che a Brescia coinvolge le grandi aziende del territorio, ma soprattutto tutte le giovani start-up o anche quelle affermate, con dei grandi momenti di conferenza e con delle parti di exibitio, di stand, all’interno della piazza della città. Grazie.

GIORGIO VITTADINI:
Abbiamo spazio per qualche domanda. Prego.

DOMANDA:
Buona sera, una domanda per Camerano. Volevo chiedere se lo stesso tipo di dinamica che riguarda le aziende b2c, quindi dedicate al costumer, al prodotto legato all’utilizzatore finale, può trovare un’applicazione anche in aziende dell’ambito b2b, a livello di aziende più di produzione che di componenti. Inoltre, quando parlava di leadership decentralizzata, volevo chiederle se poteva fare anche qualche esempio di aziende italiane. Grazie.

DOMANDA:
Io avevo una domanda sui requisiti che devono avere i giovani per essere neoassunti. In particolare, quando ha detto che i giovani devono essere in grado di diagnosticare e prevedere un problema prima che questo diventi un danno. Volevo chiedere, come un ragazzo può acquistare questa capacità e se all’interno dell’azienda viene aiutato perché mentre parlava, io pensavo che questo è un requisito che viene col tempo e soprattutto con l’esperienza. Mi sembra difficile che un ragazzo, magari neodiplomato, arrivi in un’azienda e sappia già fare queste cose. Volevo chiedere come possa acquisire questa capacità.

DOMANDA:
Io volevo fare una domanda a Maternini perché mi ha colpito molto. Avevo sentito qualcosa riguardo a Talent garden e mi interessa capire cosa comporta aprire un Talent garden in una città.

VALERIO CAMERANO:
Parto dall’ultima, dal tema della capacità diagnostica. In effetti la domanda che tu fai è assolutamente coerente. In realtà questa è una qualità che in realtà si può allevare. Io ricordo un test che ho fatto in università. Eravamo una trentina e ci fecero vedere una fotografia in bianco e nero con una bicicletta che attraversava una spiaggia; e ci chiesero di scrivere su un foglio esattamente cosa vedevamo. È sorprendente immaginare l’esito di questo esercizio. In venticinque abbiamo detto quasi venticinque cose diverse. Quindi la tendenza che si ha, è spesso quella di pensare di essere oggettivi nelle decisioni aziendali, ma in realtà esse lasciano spazio ad una fortissima componente di soggettività che viene mascherata da una oggettività. Questa è una grande trappola. Poi c’è una dimensione delle decisioni aziendali pericolosissima, che è quando l’inconscio fa parte della decisione. Praticamente, uno entra in una stanza e mi sta già antipatico i primi sette minuti, sette secondi. Non si sa perché, ma appartiene al patrimonio dell’inconscio. Quindi, diciamo, la capacità diagnostica, effettivamente, è una qualità difficile, esistono persone che hanno una maggiore predisposizione ad articolare la loro riflessione. Però mi viene da dire che l’unico modo veramente chiaro e facile per poterla allevare è l’apertura mentale, cosa a cui le scuole fanno fatica ad educare. Quindi, l’unico consiglio che do io, è cercarsi un buon mentore in azienda che sappia accompagnare ed educare i neoassunti. La cosa interessante che vorrei lanciare tra pochissimo, è fare quello che gli americani chiamano il reverse-mentoring, cioè di prendere 5 giovani nuovi o 10 giovani in azienda e metterli a fare il mentor dei manager dell’azienda, perché evidentemente anche il manager ha bisogno di avere il mentoring su cose nuove. Io dico sempre che se un manager non si intende di digitale, non ha mai masticato digitale, è come uno che non sa le tabelline. Quindi, ampliare tantissimo la capacità di cultura delle persone, sperimentare, chiedere moltissimo. Io trovo che le persone chiedano pochissimo in azienda; si trovano persone che hanno grande esperienza, grandi patrimoni ma le domande non si fanno, non si chiede, non si osa. Quindi io credo che si possa fare, il mentoring aiuta. Alcune aziende chi più, chi meno, aiutano questa forma di capacità diagnostica. Ovviamente la capacità diagnostica è una qualità universalmente valida per tutto il resto della propria esistenza. E volevo tornare sui temi che sono stati posti relativi allo smart working. Ci sono molte aziende che in Italia hanno lanciato lo smart working, mi viene in mente Barilla ad esempio. Noi lo abbiamo fatto proprio perché troviamo che sia un po’ un nonsenso chiedere ad una persona di fare duecentocinquanta chilometri per fare un lavoro che potrebbe fare comodamente da casa. Ovviamente questo ha creato e crea delle grandi resistenze all’interno dell’azienda, perché t c’è un’opinione, neanche tanto nascosta, che lo smart working cozzi con la produttività. Invece gli studi hanno ampiamente dimostrato che la produttività cresce attraverso delle forme intelligenti di utilizzo del lavoro a distanza, e secondo me questo può essere ampiamente derubricato quasi a una forma di superstizione della cultura manageriale aziendale. Quindi ci sono molte aziende che lo fanno; secondo me è incoraggiante farlo, ovviamente questa è una strada che si inceppa di tanto in tanto e ci sarà qualcuno da casa, sistematicamente, il venerdì pomeriggio, farà giardinaggio. Oltre al lavoro da casa c’è il coworking in azienda; noi abbiamo lanciato un progetto che è destinato a duecentocinquanta talenti all’interno dell’azienda, li abbiamo isolati e messi a ragionare sull’innovazione in modo indipendente. Poi gli esempi di leadership decentralizzata, di esperienza di innovazione sono tantissime. A me ne viene in mente uno solo, per evitare di annoiare tutta la platea: l’IBM. L’IBM è una società che ha attraversato una crisi sistemica fortissima ed è stata capace, con una sapiente combinazione di intuizione di esperienza, di riprendersi.

LORENZO MATERNINI:
Innanzitutto bisogna sottolineare che il processo di apertura di un Talent Garden è un processo dal basso verso l’alto, cioè esiste prima la community, la città ha già prima quest’esigenza, esistono già prima questi talenti che si vogliono mettere in gioco, e automaticamente la formazione di un luogo come Talent Garden viene spontanea, naturale; non si crea prima lo spazio e poi si cerca di riempirlo, il processo è esattamente l’opposto: ci sono le persone, a queste si dà uno spazio. E tendenzialmente in questa community di persone si cerca di identificare un leader, che diventa poi quello che per noi è il nostro cofondatore territoriale, la nostra persona di riferimento su tutti i territori. Noi su tutti i territori abbiamo una o due persone di riferimento, che sono anche di riferimento per la città. Il secondo ingrediente fondamentale è il partner delle diverse città con cui apriamo. Vi faccio un esempio: noi a Torino stiamo aprendo il secondo campus con Fondazione Agnelli. È un progetto proprio voluto dal Presidente di Fondazione Agnelli, è un progetto fatto con loro, come a Roma abbiamo aperto il campus con Poste. È un progetto fatto da Talent Garden e Poste per dare vita a un Talent Garden in cui Poste poi porta le sue persone, conosce delle start-up, e si fanno dei processi di open innovation. E l’ultima componente, last but not least, è l’edificio: una delle caratteristiche di Talent Garden è proprio di essere nel centro, nel cuore della città, e possibilmente riuscire ad essere in quei quartieri che adesso stanno vivendo quel loro momento di forza, di rinascita, di esplosione. Quindi trovare l’ubicazione perfetta è importante per la riuscita del progetto Talent Garden.

GIORGIO VITTADINI:
Allora io penso che oggi abbiamo avuto un quadro di questa cosa che continuiamo a ripetere, che prima il mondo era fermo, c’era il cambiamento tecnologico, l’azienda, uno usciva dalla scuola con le sue competenza, e in qualche modo quel che accadeva era codificato, si ripeteva per tutto il ciclo produttivo qualcosa che uno aveva imparato a fare. Questo era il percorso del lavoro. Uno tanto più sapeva, tanto più era capace, tanto più andava avanti. Ma abbiam sentito dalla relazione di Camerano, che invece qua è come essere dentro una cascata, con tutta la sua potenza, perché quello di cui lui ci ha parlato è un’azienda che sta cambiando continuamente. L’azienda non è un termine con cui si può identificare qualcosa di fisso. No, stiamo parlando di qualcosa che in se stesso è da capire, perché il cambiamento tecnologico è forte, e il cambiamento umano che è richiesto è ancora più forte. Quello che abbiamo scoperto oggi è che non è tutto oro quel che luccica: non è detto che questo cambiamento sia sempre e comunque positivo. Mi viene in mente una cosa che leggevo quando studiavo il tema del capitale umano: quando ci sono dei cambiamenti tecnologici o di produzione o di modi di innovazione di prodotto o di processo, che non hanno pronte le persone, sono cambiamenti negativi. Uno fino a prima andava col ritmo della carriola, ma arrivava. Adesso deve andare al ritmo della fuoriserie, ma non è in grado di fare quello che faceva prima. Inoltre gli stessi cambiamenti positivi, in cui la persona è pronta, non sempre sono positivi sul complesso dell’azienda, è come – per fare il paragone evangelico – mettere vino nuovo in otri vecchi: vi fa scoppiare l’otre. Quindi non è meccanico e inguaribilmente positivo ciò che avviene nell’azienda che cambia. Non è che uno dice: “Bene, il cambiamento dell’azienda è qualcosa che è automatico, basta mettere il pilota automatico, e questo porterà del bene”. Se non si governa, si sbaglia. E quindi la terza cosa che voglio dire è che qui si chiede soprattutto un uomo responsabile, ma un uomo responsabile non è il frutto dei cambiamenti tecnologici, dei processi meccanici, ma di un “io” che giudica, che deve dire “sì” e deve dire “no”, e che quindi non dev’essere, come in tutti i campi della vita, necessariamente ed esclusivamente progressista: deve saper dire “sì” e deve saper dire “no”. A me ha colpito molto il fatto che un’innovazione prodotta da qualcuno dev’essere poi portata avanti da qualcun altro, perché vuol dire che è un giudizio, in cui non mi faccio trasportare neanche dall’entusiasmo, ma governo un processo. Nell’azienda moderna l’io come responsabilità, non figlio dell’azienda, ma figlio di una personalità, di una cultura, di valori, è ancora più importante di prima, se vogliamo che questo processo sia governato. Abbiamo poi visto, nell’esempio di Maternini, che il business non è più né un prodotto né un servizio in quanto tale, ma un rapporto, è una relazione. Tanto è vero che io vendo una relazione, vendo una capacità di interagire, costruisco il prodotto e il servizio “interagendo con”. Questo è interessante, perché fino a un po’ di tempo fa la relazione, nella vita dell’azienda, era qualcosa di strumentale a un valore, ma non era un valore in sé. Dire che una relazione, un rapporto, un modo di essere diventa qualcosa da vendere, implica porsi dal punto di vista di un soggetto che è capace di ragionare, di interagire, di cambiare, e quindi pensate cosa vuol dire, dal punto di vista di un bilancio, valutare, dare un valore a una relazione, prevedere una relazione: qui c’è bisogno di un cambiamento epocale di tutti noi. Il cambiamento epocale paradossalmente è il cambiamento di cui parla James Heckman quando parla del carattere, quando parla del nuovo capitale umano, che il valore aggiunto di un impresa è la personalità di una persona. Torniamo, secondo me, all’intuizione originale di Adam Smith, che il valore di scambio nasce quando c’è un valore d’uso, cioè quando c’è una persona che sa cosa vuol dire una cosa. Per capire la differenza pensate a quando voi entrate in un Centro Commerciale, dove tutto è prezzato all’inizio: ecco siamo esattamente all’opposto di questo schema. Il prezzo è il frutto continuo di un processo di giudizio, di relazione, di rapporto, di dinamica, e sta in piedi quello che è capace di fare questo. Mi ha colpito che Camerano ha fatto un esempio che ho fatto anch’io, che è quello della Kodak, perché la Kodak sponsorizzava l’Oscar: in un attimo è finita. Perché? Perché non ha giudicato, non ha interagito, non ha ascoltato. Mi sembra il caso di Venezia, quando fu scoperta l’America e nacquero le rotte atlantiche: ci fu una volta, cento anni dopo la scoperta dell’America, una grande discussione tra i Dogi e fra il Gran Consiglio, sul fatto se si dovesse diventare una potenza oceanica, abbandonando il Mediterraneo. Il fatto di aver deciso di rimanere mediterranei portò al crollo di Venezia. Noi siamo in un mondo di questo tipo, la nostra capacità di agire, di giudicare, non è un valore familiare, privato, perché poi il pubblico, l’azienda pensano diversamente. Questo può essere ancora ridetto da grandi Università, ma è vecchio, è spazzato via. Quello che portano i nostri valori umani, religiosi, familiari, relazionali, è la stessa cosa che governa i cambiamenti aziendali. Più noi siamo uno in tutto, più saremo in grado di essere protagonisti di questo cambiamento, e forse uno dei motivi della crisi italiana – che ha mille motivi – è questo crollo del soggetto che porta tutto, cioè è il fatto che l’italiano, che più degli altri aveva e ha nel DNA questa capacità relazionale, per una schizofrenia culturale ha smesso di usarla, pensando che questa valga di meno. E quindi, non avendo la capacità organizzativa, standardizzativa, dei tedeschi e degli americani, diventa un uomo di serie B. cominciamo a usare il nostro “io” anche per fronteggiare la crisi economica. Grazie.

Data

23 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri