EDUCARE IL CUORE DELL’UOMO

Educare il cuore dell'uomo

Partecipano: Franco Moscone, Preposito Generale dell’Ordine dei Chierici Regolari Somaschi; Carlo Wolfsgruber, Rettore della Fondazione V. Grossman di Milano. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

EDUCARE IL CUORE DELL’UOMO

Data:
martedì 21 agosto 2012

Ora:
15.00

Partecipano:
Franco Moscone, Preposito Generale dell’Ordine dei Chierici Regolari Somaschi; Carlo Wolfsgruber, Rettore della Fondazione V. Grossman di Milano. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

MODERATORE:
Buon pomeriggio. Benvenuti tutti a questo incontro: Educare il cuore dell’uomo. Se qualcuno ti ha educato può averlo fatto solo con il suo essere, non con le sue parole. Questa frase grande nella sua verità di Pier Paolo Pasolini ci introduce all’ascolto di due testimoni, le cui parole comunicano un essere, ci parleranno di un essere: il loro essere, il loro io, segnato, trasformato, costruito dall’incontro con due carismi educativi, lontani nel tempo, separati da 500 anni di storia, eppure, come ogni carisma che nasce nella vita della Chiesa, così attuali, così contemporanei, così pertinenti alla sfida che tutti ci troviamo di fronte. Alla mia destra è padre Franco Moscone che è Preposito Generale dell’Ordine dei Chierici Regolari Somaschi, più comunemente noti come Padri Somaschi, sacerdote successore del suo fondatore che sacerdote non era, San Gerolamo Emiliani: era un laico che all’inizio del ‘500 dette vita a un tentativo educativo di presenza che vive tutt’ora. E alla mia sinistra il professor Carlo Wolfsgruber, Rettore della Fondazione V. Grossman di Milano, un grosso istituto della città di Milano, che è stato fra i primissimi studenti di don Giussani, nel liceo Berchet di Milano e con lui, per lunghi anni, responsabile dei Memores Domini.
C’è una frase di don Giussani che dice in qualche modo sinteticamente, con le sue stesse parole la natura del suo carisma, del suo genio educativo che poi è la natura del gene del carisma educativo di ciascun uomo che voglia vivere la vita all’altezza della sua statura: “l’idea fondamentale di una educazione rivolta a giovani è il fatti che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzi tutto educare i giovani (il contrario di quello che avviene adesso). Il tema principale per noi in tutti i nostri discorsi è l’educazione: come educarci, in che cosa consiste, come si svolge l’educazione.
Un’educazione che sia vera, cioè corrispondente all’umano. Educazione dunque dell’umano, dell’origine che è in noi, che in ognuno di noi si flette in modo diverso, anche se sostanzialmente, fondamentalmente, il cuore è sempre lo stesso. Infatti nella varietà delle espressioni, delle culture, delle consuetudini, il cuore dell’uomo è uno. Il cuore mio è il cuore tuo ed è il medesimo cuore di chi vive lontano da noi, in altri paesi o continenti. “La prima preoccupazione di un’educazione vera -conclude Don Giussani-, è quella di educare il cuore dell’uomo, così come Dio l’ha fatto”, secondo le parole che danno il titolo a questo Meeting: lo ho fatto come rapporto con l’infinito, cosicché nessun surrogato, nessun palliativo, nessuna risposta parziale può soddisfarlo; e lo capiamo bene in questo momento storico in cui questa sfida, la sfida dell’educazione è drammatica e terribile per la sua vastità e ampiezza.
Benedetto XVI, che fin dall’inizio del suo pontificato ha sottolineato questa urgenza, parlando di emergenza educativa, diceva: “Formare le nuove generazioni, dalle quali dipende il futuro non è mai stato facile, ma in questo nostro tempo sembra diventato più complesso. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e coloro che rivestono dirette responsabilità educative. Si vanno diffondendo un’atmosfera, una mentalità, una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona, del significato della verità e del bene, in ultima analisi, della bontà della vita”.
Dunque, qual è il livello drammatico di questa sfida, da cui dipende il futuro della società, una speranza di vita per il domani? Non solo l’istante effimero bruciato dietro di sé. Ci aiuta don Carròn, che parlando proprio di questo, diceva: “Sta venendo meno -è sotto gli occhi di tutti- la solidità dell’umano; per certi versi, noi abbiamo vissuto della rendita di una tradizione; adesso che il cristianesimo, appunto, la spina dorsale di quella tradizione e’ sempre meno incidente e prevale tutt’altro, ci troviamo davanti ad una paralisi, a una incapacità di interessarsi ad alcunché. Lo sanno bene gli insegnanti che entrano in classe ogni giorno”.
Ecco perché abbiamo voluto mettere a tema l’educazione, non innanzitutto invitando degli esperti, dei teorici, ma due testimoni, cioè persone che quotidianamente vivono in sé la drammaticità, l’urgenza, la provocazione di un incontro con degli “io” dei giovani “io” che possono aprirsi alla vita, alla realtà, o possono chiudere definitivamente le porte all’Essere, al Mistero che ogni giorno entra nelle classi di scuola.
E allora la domanda che abbiamo posto a Padre Moscone e a Carlo Wolfsgruber è: qual è l’educazione in grado di rispondere a questa sfida, che è una sfida storica epocale; non abbiamo chiesto loro di darci qualche buona istruzione, ma di raccontarci dall’interno stesso della loro esperienza quale educazione del cuore è adeguata, è all’altezza di questi tempi drammatici e belli che stiamo vivendo.

FRANCO MOSCONE:
Buon pomeriggio e grazie per le parole di presentazione e l’invito; se qualche anno fa, qualcuno mi avesse detto ti troverai a parlare di educazione nel mese di agosto, alle tre del pomeriggio, nella settimana più caldo dell’anno avrei detto “sfigati”, oggi direi invece “fortunati”, una grazia!
Mi metto in piedi anche perché, oltre a essere facilitato nella lettura, almeno io non mi addormentato, dovendo stare in piedi… Vabbè, detto questo, anche per rompere il ghiaccio, visto che fa caldo, incominciarei con questa affermazione: il cuore non è in vendita. È una frase di Flaubert, molto bella, e un cuore è una ricchezza che non si vende e non si compra.
Allora mi dico: è una ricchezza originale, quella del cuore, se non va sotto le regole assolute ed incontestabili del mercato.
Provo a cercare di capire perché non si vende e non si compra; il cuore una ricchezza particolare perché la si può ottenere in origine solamente nella forma del dono; e questa ricchezza la si aumenta attraverso la dinamica del regalo.
Si tratta dell’unico caso in cui ciò che si regala non si perde, da una parte -da parte di chi dona- ma si moltiplica, tanto per chi dà, come per chi riceve.
Ecco, allora la prima singolarità di questa ricchezza, la ricchezza del cuore: proviene da un dono e vuole essere moltiplicata, donando. Il cuore è poi una ricchezza singolare, perché non si compra, dice Flaubert; essa passa -potremmo dire- sul mercato della società e della cultura, solo ed unicamente attraverso la scommessa dell’educazione.
Educare è esattamente il contrario di vendere o di comperare; educare tirare fuori (l’etimo è “ducere”), è estrarre da una situazione complessa e complicata, a volte irrisolvibile di sicuro da soli, per essere messi su una strada, la strada della libertà, una libertà non vuota ed asettica come la vorrebbe la dittatura del relativismo moderno, ma una libertà piena di senso e per questo, capace di futuro.
Tutto questo, che non si compra e non si vende, è quanto è capitato al mio fondatore 501 anni fa, San Girolamo Emiliani; è possibile educare il cuore ed è quanto cerco di fare intuire con questo mio intervento, grazie alla mostra che è anche presente al Meeting, dal titolo che richiama l’avvenimento, ma è preso dal salmo 116: “hai spezzato le mie catene e mi hai preso per mano”. È un’interpretazione efficace e coinvolgente, soprattutto se qualcheduno vorrà visitare la mostra a lui dedicata.
E poi “educare il cuore” è in perfetta sintonia con il titolo del Meeting “La natura dell’uomo è il rapporto con l’infinito”. Allora cosa meglio del cuore esprime e contiene l’infinito? Pascal dice che il cuore dell’uomo è uno spazio spirituale e per questo è più grande dell’universo intero e Agostino, in modo meraviglioso, definisce l’uomo come “capax Dei”, capace di contenere, addirittura non solo l’universo ma lo stesso Creatore Dio.
Così il cuore dell’uomo per realizzare le potenzialità spirituali in grado di assumere l’universo e trovare il senso della propria capacità di Dio, -definizione di uomo- non ha altra strada da intraprendere -secondo me, guardando San Girolamo- se non quella dell’educazione; eppure da sempre abbiamo venduto questo cuore o abbiamo cercato di comperarlo.
Mi sono sintetizzato tante cose, adesso non ve le leggo, ma nella storia di sempre, non solo nel post moderno, se andaste a leggere dei passaggi della Repubblica di Platone, Libro Decimo ne trovereste (ma forse è difficile trovare al Meeting Libro Decimo di Platone della Repubblica è più facile trovare una Bibbia, almeno spero), allora, andate a leggere la prima lettura della Messa di ieri, Isaia 3, e vi accorgerete come, da sempre, l’umanità ha cercato di vendere o comprare il cuore proprio e degli altri.
E così lo hanno detto tanti grandi autori: Kafka… ma il fatto della Concordia, della Costa Crociere all’Isola del Giglio, mi ha fatto pensare (non l’avevo scritto, lo dico adesso) a Kierkegaard, che dice: ma l’umanità ormai è finita, è come una nave alla deriva, dove invece di ascoltare gli ordini che vengono dal Capitano si preferisce ascoltare il menù che verrà offerto in giornata, attraverso la voce del cuoco di bordo.
Eppure questa umanità in quel caso, è peggio ancora del naufragio della Concordia, perché non ha fatto un inchino a qualcosa di bello, di esterno, ma fa un inchino a se stessa e si chiude.
Ma vi leggo -e mi ha fatto piacere anche la citazione di Pierpaolo Pasolini di un momento fa- [una citazione di Pasolini] che che dice così: “Oggi si riceve un’educazione comune, obbligatoria e sbagliata, che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto, a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno le spranghe; tutti sono pronti al gioco del massacro, pur di avere. L’educazione avuta è stata: avere, possedere, distruggere”.
Queste parole si trovano nell’ultima intervista a Pierpaolo Pasolini che è uscita postuma su “Tutto Libri” della stampa del ‘75, perché viene assassinato pochi giorni dopo, e concludeva così: “Fate attenzione, io scendo all’inferno; ma state attenti: l’inferno sta salendo da voi”.
Era una profezia laica che sia conclusa tragicamente, pochi giorni dopo.
Ci sono state voci critiche a questo vendere o comprare il cuore, direi tante. Ne cito alcune non espressamente cattoliche, ma laiche o comunque non cattoliche; già Heidegger dice che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa è l’uomo; sessant’anni fa, il grande Albert Schweitzer, nel ricevere il premio Nobel della pace dice: “esorto il mondo osare di guardare in faccia la realtà; l’uomo è divenuto un super uomo riguardo al potere ma ecco il fatto pericoloso e nefasto: più cresce il potere dell’uomo e più l’uomo diventa un pover’uomo. Le nostre coscienze non possono non essere scosse da questa considerazione: più cresciamo e diventiamo super uomini, più diventiamo disumani”. Sono [passati] 60 anni da queste parole.
Hans Jonas: “Oggi [e questo è così] il massimo del potere, si unisce al massimo del vuoto, il massimo di capacità va insieme al minimo di sapere intorno agli scopi ultimi della vita”.
Allora ci sono voci che si sono dette contro. Come non ricordare Papa Benedetto; in questi giorni ho sentito ripetere tante volte l’immagine che Papa Benedetto ha avuto nel discorso al Bundestag di Berlino, dove definisce l’umanità chiusa in un bunker.
Allora difendersi in un bunker o attaccare, uscendo dal bunker con i cannoni, è sempre la stessa cosa, in un modo o in un altro è sempre aggressività, l’opposto dell’educazione.
In tutto questo muoversi ed interrogarsi, io porrei anche -siamo in Italia, mi scuso per i non italiani- i numerosi tentativi sempre conclusi in un nulla di fatto delle riforme scolastiche proposte negli ultimi decenni, che fossero quelle che andavano sotto nome delle “tre C”: conoscenze, competenze e capacità; oppure l’altra più mercantilmente appetibile “tre I”: inglese, internet, impresa. Ci si è dimenticati che, se si vuole veramente riformare (riformare è una parola che viene da lontano e che ha avuto nel sedicesimo secolo, all’inizio, al tempo del mio fondatore un momento particolarmente fondante di ciò che significa riformare), ecco bisogna basarsi su una “C” e su una “E” che non è la Comunità Europea; è la “C” del cuore e la “E” dell’educazione.
Allora, cuore ed educazione: vi presento l’esperienza di Gerolamo Emiliani.
Nel rileggere l’esperienza della vita del mio fondatore, verificandola con la storia della Compagnia da lui iniziata (oggi è l’Ordine Dei Chierici Regolari Somaschi) e anche con quella che è la mia personale esperienza di educatore, insegnante e di religioso prima (sono religioso da trentacinque anni e almeno venti li ho passati in un modo in un altro attorno banchi di scuola).
Penso di poter schematizzare questa esperienza in quattro passaggi, che dico così. poi cerco di spiegarli.
Primo, la precedenza del passivo; secondo, il presente dell’Incarnazione; terzo, i verbi ausiliari dell’educazione del cuore; quarto, la compagnia come luogo educativo.
Adesso faccio le cose più semplici. Allora, precedenza del passivo.
Girolamo conosce se stesso, quale è veramente, con tutte le sue sofferenze e debolezze e quale potrebbe essere, non da una ricerca psicologica su se stesso o da una programmazione esistenziale (“mi preparò una carriera”), ma a partire da un evento e per di più, si tratta di un evento di sconfitta: quanto celebriamo quest’anno è proprio questo, riconoscere che una sconfitta, invece di diventare frustrazione e morte si è trasformata in una nuova occasione, in strumento di vita, in resurrezione per lui e per tanti altri.
L’esperienza di un mese di carcere dopo la sconfitta militare a venticinque anni è stata per lui come il tempo della gestazione, l’utero in cui ha avvertito una Presenza che lo preparava alla vita; li ha imparato su se stesso, che non c’è luogo o persona senza Dio ma che Dio è lì al fianco e lo solleva. Quello che conta non è trovare Dio ma lasciarsi trovare da lui e a volte Dio ci permette di scendere fino all’inferno (di cui parlava prima Pasolini) perché poi possa prenderci per mano; da quell’inferno esce Girolamo miracolosamente libero.
Ma non basta: una volta uscito dall’inferno si trova davanti una strada da percorrere; anche questa non può essere condotta in solitario -ecco l’educazione-: non basta conoscere la meta, c’è bisogno di qualcuno che mi indichi passi, mi sostenga nelle difficoltà, mi rincuori nella fatica. Ecco! Sennò rischio di ricadere in un nuovo carcere, magari più ampio, più disteso, ma proprio per questo, infinitamente più insensato, la dittatura relativismo.
Girolamo ha fatto questa esperienza a venticinque anni, attraverso la sconfitta e il carcere e in una notte di cammino; un’esperienza che lo ha educato: prima gli ha aperto le porte del carcere fisico, poi ha continuato a tenergli aperte le porte e del suo cuore perché questo cuore non fosse un carcere.
Senza questa esperienza che definisco “precedenza del passivo”, non sarebbe successo nulla nella sua vita di quanto lo portò ad essere organizzatore di opere di carità educativa e a fondare un congregazione religiosa; non sarebbe successa una storia che continua ormai da cinque secoli, è presente in cinque continenti ed io non sarei qui questa sera a tediarvi in questo modo; la precedenza del passivo mi assicura che possa educare perché prima sono stato educato, che posso amare e riesco ad amare, perché prima sono stato amato (è la prima lettera di Giovanni).
Secondo passaggio “il presente dell’educazione”. C’è un’espressione che ritorna con forza negli scritti di Girolamo, è brevissima, è “stare con”. Si tratta per lui di stare con Cristo; ma questo stare con Cristo ha un’esigenza, è quella di stare con i fratelli, addirittura, di stare con i fratelli più piccoli e bisognosi, perché sono questi fratelli piccoli e bisognosi che meglio rappresentano Cristo.
Ebbene, questa esperienza, non è altro che quanto dice Marco al capitolo 3: Gesù, chiama gli Apostoli, li costituì perché stessero con Lui e, subito dopo, al versetto 15 dice: ed è la missione la funzione educativa per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni. Come si comporta Cristo con i discepoli, così deve essere per i discepoli con la gente a cui sono mandati. Di questo Girolamo ne era non solo convinto, ma ne diventa testimone vivente ed attraente: questo “stare con” continua per tutta la sua vita e diventa anche -potremmo dire- la sua campagna vocazione. Agli amici che andavano a trovarlo, all’amico che scrive la sua prima biografia raccontandogli la vita e facendogli conoscere i suoi figli, dice: “ma perché non stai qui, con me?”. E nel momento di maggior difficoltà, in cui tutto sembrava cadere perché cade ammalato, dice: “Ebbene no, io non vado via lasciando loro soli, perché con questi miei fratelli più piccoli, io voglio vivere o morire” e questo lo ha potuto dire perché aveva prima fatto un’esperienza che il Signore non abbandona mai.
Ho chiamato questo atteggiamento dello stare con come il “presente dell’Incarnazione”. Non sono parole mie, forse molti l’avranno capito perché avranno letto il libro di Daniel Pennac; l’ho preso da lui [da] “Diario di scuola”, che specifica il presente dell’educazione. Non credo che Pennac intendesse la valenza cristologica di tale formula ma San Girolamo Emiliani non aveva dubbio che tale forma era cristologica, che educare è stare con Cristo. E chi è l’educatore che sta con Cristo? È l’educatore che salva. E chi è colui che salva? È colui che sta qui ora con me, che non mi abbandona, che ricomincia ad ogni passo, che prima di giudicarmi mi amo e, se mi giudica, è perché mi ama; un’esperienza così è possibile solo come previa educazione del cuore, come aver fatto esperienza che qualcuno mi ha prima educato.
E in questo modo -terzo passo- si potrebbero leggere tutte le attenzioni come verbi ausiliari dell’educazione. Sono tanti i verbi che siamo chiamati a coniugare, come educatore, dalla famiglia alla scuola, in tutti gli ambienti; ne faccio un veloce elenco e ne commento quasi nessuno, però invito ognuno, soprattutto se vive l’esperienza educativa a farsi un elenco dei suoi.
Ascoltare, primo fondamentale, attitudine a lasciar parlare l’altro a creare le condizioni perché l’altro posso parlare, ascoltare e far parlare e dare parola ed è dare la parola (da “ob audire”, dare prestare ascolto) che la logica contraria, quella di oggi che è dell’audience, non dell’ascolto. E così potremmo dire altri: accogliere, attendere (e quanta pazienza! La pazienza, non è mai troppa, continua dirmi un mio confratello, tutte le volte che vado nelle Filippine: quando pensi di averne messa troppa, sappi che c’è ancora spazio per altra; è una delle virtù più ripetute dal mio fondatore). Accorgersi! L’educazione è cosa del cuore perché ci accorgiamo; l’etimologia di accorgersi che “ire ad cor”, è il far passare il mio cuore al cuore dell’altro, l’altro al cuore di me e così possiamo andare avanti, accompagnare, ammonire, cambiare, anche, cambiare lettere dell’alfabeto, passare alla “B”, benedire, cioè dire il bene prima del male e capire eccetera. Ve lo lascio fare…
Vi direi solo questo: che la caratteristica perché tutta la nostra azione diventi un verbo ausiliare dell’educazione e questa è “decentrare”, è decentraarmi da me per arrivare all’altro: nel più piccolo io vedo il volto di Cristo e dopo che ho visto nel più piccolo il volto di Cristo, riesco anche a riflettere il mio volto in lui.
Quarto passaggio: la compagnia come luogo educativo. Girolamo chiamò quanto stava sorgendo attorno a lui “Compagnia Dei Servi dei Poveri”, e così veniva accolto da quelli che lo avvicinano: persona capace di mettere insieme molte buone persone -dicevano sia sacerdoti che laici- di costituire comunità di poveri abbandonati, istruiti però nella vita cristiana, che si guadagnavano da vivere con il loro lavoro; per Girolamo non poteva essere diversamente, educato nella compagnia del Divino Amore doveva costituire compagnie, perché i suoi piccoli crescessero educati, come lui dice, “alla beata vita del Santo Vangelo e da buoni cittadini”. L’educazione ha bisogno di uno spazio che unisce e riscalda il cuore, senza questo spazio non si educa perché l’educazione è cosa del cuore, e il cuore non è solitario, ma “cresce -Saint-Exupéry (?)- “con infiniti legami d’amore” (i legami liberi, non i legami del carcere). Questo miracolo di compagnia continua e personalmente l’ho sperimentato proprio nella preparazione della mostra sul fondatore presente qui al meeting, in compagnia con chi non era della mia compagnia. Direi, con il proverbio, che buon sangue non mente e così mi ha scritto un amico che è anche qui presente, a proposito dell’incontro non confusione di carismi: “Io mi sono spesso meravigliato di fronte alla ricchezza di vita, di fronte alla tensione umana che ho incontrato nei Padri Somaschi, che mi hanno insegnato a guardare a Don Giussani come loro guardano San Girolamo; è commovente il loro sguardo, segno che la vita diventa più bella quando un carisma la prende”; ma per essere presa da un carisma e diventare più bella, la vita deve essere insieme, deve costituire una compagnia, posso dire che anche la mia esperienza di questi giorni al Meeting è la stessa, guardando voi e con il mio Angelo Custode che mi fa camminare, capisco anche meglio me stesso e il mio fondatore; dopotutto non è altro che il mandato di Cristo: “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
Il cristianesimo è, fin dalle origini, compagnia o non è; mi sono posto poi come passaggio il tentativo di voler indicare le costanti dell’educazione del cuore come costanti dell’educazione, facendo un parallelo tra don Giussani e San Girolamo Emiliani o, perlomeno, tra i due metodi educativi.
Mi rendo conto che devo tagliare, ma tanto poi Carlo parlerà meglio di me di don Giussani; sintetizzerei in questo modo: si tratta di due avvenimenti educativi, di due carismi che nascono in momenti particolari e simili nella storia della Chiesa e della società soprattutto occidentale; sono due tempi, sono due cesure tra culture, è un cambio d’epoca. San Girolamo, all’inizio del 1500, vive la cesura tra il medioevo la maternità; Giussani, come noi, vive la cesura che è la nostra, tra moderno e postmoderno, ma dentro nella proposta educativa si pongono con il medesimo stile -non dico medesimo carisma- perché ci sono delle costanti.
Quello che vi ho detto prima, dello stare con xxx?, San Girolamo poi dice che i fondamenti dell’opera sono devozione, lavoro, carità. Sono tre parole che potrebbero sembrare, soprattutto la prima, anche un po’ datate, ma cerco di leggervi. Devozione: io lo direi così: relazione con la realtà come condizione fondamentale di ogni educazione e crescita; realtà come dono, ovviamente, trovato e non meritato,cercato, pensato; realtà non virtualità che sembra oggi l’unica relazione commercializzata e proposta addirittura come strumento didattic. Lavoro: responsabilità dell’educatore e dell’educando, che porta all’indipendenza, alla libertà del secondo, rendendo inutile il primo siamo come educatori “servi inutili”; direi, dovremmo diventare inutili, sennò non siamo stati educatori. La carità è facile da capire: si tratta del luogo e della regola in cui è nata la vita e si sviluppa. Non si può, dice Gesù, servire Dio e Mammona e non si può educare e servire Mammona. Ebbene, mi sembra di vedere nel metodo educativo di Don Giussani soprattutto come espresso nel libro “Il rischio educativo” questi medesimi passaggi. Vado veloce. Primo: posizione precisa di una ipotesi di senso totale della realtà, il valore della tradizione come condizione di certezza per l’adolescente. Già nel 1966 Paul Ricoeur sosteneva: “La maggior parte degli uomini manca certamente di giustizia, manca indubbiamente di amore, ma ancor più manca di significato: l’insignificanza del lavoro, del piacere della sessualità”. Ecco, i problemi di oggi e Giussani insisteva sul bisogno dell’autorità, l’educatore è un’autorità. Che cosa significa l’autorità? A me è sembrato di vedere, ascoltando i suoi testi, e anche in questi giorni, come autorità voglia dire coerenza, coerenza di vita da parte dell’educatore con ciò a cui crede e con quell’evento che ha incontrato; l’educatore è chiamato ad esprimere la coerenza della propria vita con il senso di quella realtà che dall’incontro con Cristo ha trovato reale e non virtuale; se non fosse così allora l’educatore sarebbe inutile. Allora è vero che ci sono altri libri che contano, non il Vangelo. C’è un’altra logica, che attira ed è quella del grande fratello. C’è un’altra mistica che è quella di Harry Potter. C’è un’altra estetica, che è quella di Basic Instinct e potremmo andare avanti.
Calvino, diceva che “il territorio che il pensiero laico ha sottratto i teologi cade in mano ai negromati e ai maghi” e non c’è niente di più vero. Oggi in Francia ci sono più maghi e astrologi di preti e di suore.
astrologi di preti e di suore.
Terzo. Sollecitazione dell’educando ad un impegno personale di verifica di questa ipotesi e infine accettazione di un crescente ed equilibrato rischio nei confronti dell’autonomia di questa ipotesi e della realtà della coscienza dell’educando.
Non vado oltre perché il tempo corre e voglio arrivare alla fine.
C’è qualche cosa che mi sta a cuore -ho scritto così- a cuore aperto, visto che mi è stata data la possibilità di parlare. So che il Meeting è uno spazio aperto, che posso visitare e che possono visitare e percorrere tutti atti, e ho visto anche i politici, volentieri, gli operatori pubblici e sociali a tutti i livelli; ne voglio quindi approfittare, anche perché sono il successore di San Girolamo, un laico, che ha vissuto e fatto politica e cultura sociale nel suo tempo, politica e cultura sociale cristiana, in qualche modo anticipando la dottrina sociale della Chiesa dalla Rerum novarum al Vaticano II, e quindi ne voglio approfittare, con tre appelli. Forse sembrano un po’ italiani perché cito la Costituzione, ma credo possano valere ovunque.
La Costituzione italiana all’articolo 3 così recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’efficacia partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
Un po’ lunga, questa citazione, vediamo il contenuto. Non solo si è lontani da questo ideale ma cresce in Italia e in Europa, la nuova tratta di schiavi, donne soprattutto e minore. Una politica seria e cristiana deve partire dagli ultimi se vuole veramente sostenere anche i primi che stanno sopra di solito, mentre gli ultimi stanno in basso, e non dividere, anche se in modalità postmoderna nuovamente tra schiavi e liberi. Ecco, come grida Suor Eugenia Bonetti ormai da vent’anni nel ’93, e come sperimenta la mia Congregazione che è appoggiata da un laicato, formato ed impegnato nel sociale più nascosto, percorre ormai da decenni, le strade, i quartieri disagiati, soprattutto della Lombardia, Milano e dintorni, che è l’operazione di “Segnavia” (?): “è giunta l’ora di spezzare le catene –è il titolo della mostra- per ridare dignità e libertà a migliaia di donne e minori in stato di schiavitù, soprattutto per motivi di abuso sessuale, di prostituzione, anche se non italiani per cittadinanza, schiavi che vivono e lavorano in mezzo a noi e forse collaborano anche ad aumentare il PIL.
Secondo appello. L’educazione come formazione al lavoro, è un elemento indispensabile per dare futuro di libertà alle nuove generazioni, oggi più che mai in difficoltà e dimenticate. I nuovi ultimi sono i minori emarginati dal sistema scolastico italiano ed europeo (perché anche gli altri non è che siano poi tanto meglio di noi: ho presente la Spagna). Intendo ripetere, utilizzando le sue stesse parole, l’appello che l’anno scorso fece qui Rettor Maggiore dei Salesiani e ve lo leggo e lo adatto anche: “noi Salesiani d’Italia – e io aggiungo, noi Somaschi d’Italia, intendo anche i laici e le religiose- chiediamo fermamente al Ministro della Pubblica Istruzione, al ministro del Lavoro (mi pare che ci fosse ieri), al Governo di cui fanno parte e alle Regioni di valorizzare e di mantenere istituzionalmente l’offerta dei percorsi sperimentali triennali, di formazione professionale iniziale, ai quali si possono iscrivere ragazzi e ragazze dopo la scuola media attuale; direi caro Premier Mario Monti, che l’altro ieri ha invitato ad uno sciopero generazionale in ritardo di quattordici anni, direi che se non c’è il puntiamo qui tra un po’ non ci sarà più bisogno di nessuno sciopero generazionale, caro Monti o cari altri Ministri che lo hanno preceduto o che vorrebbero ritornarci, perché tra un po’ avremo reso generazioni in permanente stato di sciopero, uno sciopero di lavoro non trovato, che è la disoccupazione.
Infine c’è un altro numero della Costituzione che necessita di essere rivisitato ed interpretato, proprio per capire meglio l’educazione, il numero 33, quello tanto dibattuto: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento; la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi, enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La Legge nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali, che chiedono la parità deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quelli degli alunni di scuole statali”.
Benissimo, questa è la Costituzione. Sappiamo che questo articolo non è ancora applicato. Credo sia giunto sia giunto il tempo di superare questa discriminazione, che ci vede ultimi e direi anche unici in Europa, a meno che si sia d’accordo con quest’altra logica che dice così: “Un altro regime, che non sia il nostro può ritenere utile a rinunziare all’educazione delle giovani generazioni. Noi no, in questo campo siamo in trattabili nostro deve essere l’insegnamento”. Mi chiederete, chi ha detto questo bene e Benito Mussolini, alla Camera dei deputati il 13 maggio 1929, a tre mesi dai Patti Lateranensi.
Veramente l’educazione è cosa seria ed è bella al contempo, anche se a molti non appare urgente e primaria.
Io condivido quanto dice Paolo Freire che l’educazione non cambia al mondo, cambia, invece, le persone che vanno a cambiare il mondo. E condivido con il Cardinal Martini, che ha anticipato di quasi 30 anni quelle che sono state le scelte poi della Conferenza Episcopale italiana per questo decennio, con i vari anni sull’educazione, che educare è difficile, educare però è possibile, educare è prendere coscienza della complessità educare, lo dice lui, “è cosa del cuore, educare è bello”.
mi manca poco da leggere, ho quasi concluso. Al termine vi faccio una confidenza che ho trovato; era una confidenza che un ex prete ha fatto a Lenin, un ex prete ungherese, Viktor Bede, e che gli dice così: “fra un secolo (nel 1924 muore Lenin) non ci sarà altra forma di Governo. Tuttavia, credo che continuerà a sussistere sotto le macerie della attuale istituzione la gerarchia cattolica perché in essa si effettua sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri; nel prossimo secolo -il nostro- ci sarà solo una forma di Governo [ovviamente quella sovietica] e una religione quella cattolica”.
La confidenza è risultata per ora valida solo a metà e il segreto di questo compiersi a metà io credo stia proprio in quell’affermazione “sistematica educazione” di coloro che hanno il compito di guidare gli altri.
Allora se siamo educatori e vogliamo guidare gli altri, dobbiamo innanzitutto auto educarci ed educare nostro cuore.
Concludo con due formulette d’augurio che uniscono tra loro i due grandi educatori di cuori che si incontrano qui a Rimini dopo cinque secoli e si sono incontrati in Paradiso, Don Giussani e San Girolamo, e leggo questi auguri da una frase del più grande devoto di San Girolamo Emiliani che è Papa Giovanni XXIII, il Papa dal cuore buono. L’augurio di Don Giussani è questo lo faccio per me e per tutti: vi auguro di non stare mai tranquilli, mai tranquilli in fatto di educazione. Con il mio fondatore, vi assicuro che possiamo stare certi che Lui, Cristo, non ci abbandonerà mai, soprattutto in questo campo educativo perché i piccoli sono Lui: il Signore non ci abbandona.
E con Papa Giovanni, guardiamo alla nostra storia; è bellissimo un passaggio di una lettera che scrive da già Cardinale ai suoi genitori e dice: “tutto quello che io ho imparato nei miei lunghi anni di studio è stato soltanto un povero commento di quello che mi avete dato negli anni belli vissuti a Sotto il Monte”.
Prego e chiudo: dolcissimo mio Gesù, che mi liberi da ogni catena dammi di conservare un solo anello della catena, quello che mi lega a Te come fede nuziale. Si tratta dell’anello del cuore e conservami nel cuore il dono di insegnare.
Grazie.

MODERATORE: Savorana
Posso educare, perché prima sono stato educato. Questa frase buttata lì da Padre Moscone, in riferimento al carisma di San Girolamo, che sembra un niente, eppure mette il dito nella piaga della sfida, che solo un uomo che è generato a questa umanità, a questa soggettività è in grado di comunicare qualcosa attraverso il suo essere. E questo ci fa sentire, almeno a me, fa sentire con grande sorpresa e commozione l’affinità tra questi due carismi. Don Giussani diceva “Nessuno genera se non è generato”. E a questo livello che si può giocare una sfida dentro una cesura, dentro un cambio epocale, come l’ha definito Padre Moscone e da questo punto di vista questa affinità, questa comune sensibilità è ciò che ci fa sentire ancora più curiosi, desiderosi di fare la nostra strada che adesso Carlo Wolfsgruber adesso ci dipingerà.

WOLFSGRUBER
Grazie. Ma io dopo l’ampiezza di respiro culturale dell’intervento del generale Padre Moscone e dopo la sua profondità e la sua autorevolezza, io a livello più modesto inizio il mio intervento con una testimonianza proprio personale degli anni del mio inizio, degli anni del liceo. Perché mi sembra, lo faccio consapevole del limite del mio dire, ma anche contento e abbastanza persuaso che l’esperienza che io ho fatto quando avevo 16 anni e facevo, ed ero in prima liceo, il liceo Berchet, è stata certamente una identificazione, o l’inizio per me della identificazione del cuore come la funzione strategica della ragione. Funzione strategica della ragione vuol dire ciò per cui la ragione realizza il suo scopo. E’ come quando uno a teatro vuol vedere uno spettacolo e conquista una posizione strategica, cioè una posizione che gli permette di realizzare lo scopo e così il cuore è ciò che permette di realizzare alla ragione il suo scopo, il suo scopo ultimo che è il significato. Lo dico, sono contento di fare questa mia testimonianza perché mi sembra un contributo che si oppone a quella divaricazione tra ragione e cuore che invece sembra dominare il clima culturale, culturalmente parlando. Io a 16 anni sui banchi della mia prima liceo, sono diventato cristiano sentendo le lezioni di religione del mio professore di religione, perché? Perché fin dalla prima ora di scuola io fui sorpreso dal fatto che egli richiamava l’attenzione di noi, suoi scolari, su parole che non erano nuove, di per sé, ma erano proposte e usate in modo nuovo. Mi spiego meglio, si trattava di parole ragione, libertà, coscienza, cultura, che erano sulla bocca di noi studenti, perché erano già sulla bocca dei nostri professori, soprattutto di quelli che insegnavano materie umanistiche, soprattutto sulla bocca degli insegnanti di storia e filosofia, ma questi insegnanti tanto le usavano normalmente e tanto creavano in me e anche in noi, loro studenti –ma io mi ricordo bene del disagio che creavano in me- perché erano definizioni date per scontate, cioè nessuno di loro, tanto più le usavano, tanto più frequentemente le usavano, tanto meno si preoccupavano di metterne a fuoco e a esplicitarne il contenuto. Era per loro ovvio per esempio che la ragione fosse quella illuministica, razionalistica, illuministica, anzi questo era un dogma che non si poteva mettere in discussione. Chi l’avesse fatto non sarebbe stato degno di essere considerato uomo moderno, ma non solo uomo moderno, con la locuzione ‘uomo moderno’ in realtà si intendeva uomo. Cioè chi non usava la ragione in termini razionalistici non era un uomo. Ilprofesore di religione invece ebbe il coraggio di mettere in discussione proprio questa definizione. Ne denunciava l’inadeguatezza rispetto alla nostra esperienza di uomini. Nello stesso tempo non ci diede una sua definizione ci propose unsa sua ipotesi ma un ipotesi che usò per chiamare noi a lavorare insieme a lui e verificarla insieme.ci coinvolse in una verifica comune di una definizione più adeguata, una definizione che rispondesse a tutta l’esperienza umana senza rinnegare nulla. Proprio mentre si svolgeva davanti ai miei occhi questa ricerca aizzata dal professore di religione ma che coinvolgeva tutta la classe, io prima di vedere di scorgere di capire la definizione io la vidi in atto mentre stava agendo sotto i miei occhi. Fu questo l’inizio di un percorso che grazie a Dio dura tutt’oggi. In forza di questo metodo egli ci introdusse alla grande letteratura all’arte alla scienza a tutte le discipline liceali. Le rivisitammo con lui a partire da un punto di vista inedito e assolutamente personale, cioè a partire da quel nucleo centrale unificante dell’esperienza umana che egli chiamava esperienza elementare o anche cuore. Io non avevo mai visto nulla di simile, non pensavo che potesse esserci. Ma già dalla primissima ora di scuola (io fra l’altro ero lì per fare scuola di religione per un inghippo burocrato: non avevo fatto in tempo a chiedere l’esenzione interne. Io avevo già previamente chiuso col problema il mio rapporto con la religione e con Dio, ero lì per sbaglio, per caso) io capì che era quello che stavo aspettando. Infatti, fin da bambino mi era nato un sospetto: che quello degli adulti, fosse un mondo di cui io non potevo troppo fidarmi perché mi sembrava che gli adulti tendessero a mettersi d’accordo, di volta in volta su cosa fosse il vero. E quindi io dopo, evidentemente a otto anni non potevo capire, quello che capii era il sospetto: quello che mi lasciò questa esperienza fu un sospetto sul mondo degli adulti perchè mi sembrava che, appunto, a proposito del vero quello che vinceva non era un riconoscimento di qualcosa di oggettivo e comunicabile ma nel riconoscimento del vero quello che era vincente era una connivenza, un mettersi d’accordo. Un successivo episodio che mi successe quando io avevo dodici anni e che fu più più drammatico del primo anche se già il primo era abbastanza drammatico che non ero un bambino che guardava al mondo degli adulti con molta simpatia, però il successivo episodio a dodici anni in occasione di una visita presso una famiglia di amici con mio padre e mia madre. Mia madre nell’uscire ruzzolò nei gradini dell’atrio e si fece male ed io che la seguivo immediatamente rimasi esterrefatto perché un istante prima non avrei potuto prevedere qualche sarebbe successo l’istante dopo. E la sera quando tutto sembrava più calmato e lo era, perché mia madre si era fatta male in modo non gravissimo, io stentai a prendere sonno perché mi sentii buttato di colpo di fronte al grande enigma del significato della realtà di fronte al quale io ero assolutamente impotente: non solo a dominare quello che succedeva, ma neanche a prevederlo. Ho citato i due episodi perchè anche da quei due episodi- me ne accorsi dopo- mi nacque una attesa in cui trovai l’ inizio di risposta nel mio insegnante di religione e non per quello che lui,soprattutto e innanzitutto diceva ma per la posizione che io vedevo che lui aveva assunto di fronte un problema fondamentale come quello della Regione dell’uomo. Tant’è vero che immediatamente mi posi il problema di Dio e poi quello di Cristo semplicemente dicendo una frase: “ma se si crede lui perchè io devo aver chiuso il problema?”. E ricordo la famosa frase di Sant’Agostino “si isti et istae cur io non ego?” perché il cristianesimo un po’ si comunica anche per invidia. Il mio professore di religione era questo che mi lasciava veramente incuriosito non ammicava ai nostri sentimenti, cioè non cercava connivenze non cercava di convincerci delle sue idee. Voleva lui per primo, conoscere, insieme a noi, insieme a noi ,cosa impensabile da parte di un professore di liceo. E per questo, usava la sua ragione. La sua ragione testimoniandoci che cosa volesse dire dipendere dalla realtà in quanto oggettività non manipolabile. esattamente il contrario di quello che succede quando la ragione è usata in modo ridotto. La ragione propria dell’attuale riduzionismo che è l’erede moderno dell’ottocentesco positivismo, da un lato è una ragione debole pusillanime cioè infantile, da bambini senza coraggio, senza il coraggio dell’uomo adulto che si sente inferiore al compito; che di fronte all’oggetto rinuncia a perseguire le sue esigenze, “Ora, va su tu che , sei valente”, ma dall’altro ha la pretesa piena di superbia di svuotare il reale dal suo contenuto di essere. svuota nichilisticamente il segno e quindi tende ad identificarne il valore nel possibile uso immediato. invece proprio l’irriducibilità di impegno del mio professore con le esigenze della sua ragione mi fece accorgere (e fu questa la scoperta più interessante per me quella da cui poi scaturì tutto il percorso che del resto sto facendo tuttora) mi fece accorgere che la stessa urgenza la stessa esigenza. lo stesso principio covava in me, era una “malattia” la sua che era anche la mia; questa mia malattia, questa sua malattia, era tutta alimentata dal desiderio di essere me stesso. Per Don Giussani, il mio professore, cuore e ragione sembravano tante volte quasi sinonimi: in realtà lui stesso li distinguerà , però sottolineando la connessione. Cito: “perché chiamarlo cuore invece di ragione perché il cuore è il luogo dell’affectus ma l’ affectus non è antitetico alla ragione è l’aspetto ultimo dalla ragione, è l’ aspetto ultimo della dinamica ragionevole”(don Giussani). La parola affectus nel suo senso proprio non è immediatamente riconducibile alla parola italiana affetto: nel suo senso etimologico la parola affectus descrive piuttosto un soggetto che si chiama si sente chiamato in causa, è una parola che dice quale l’ultima frontiera del realismo, cioè la realtà, in quanto tocca il soggetto, in quanto lo interpella, lo cambia, lo fa diventare se stesso. Così realmente il cuore il luogo dell’affezione é ciò che presiede al passaggio dalla categoria della possibilità alla categoria dell’esistenza. Non è mia questa definizione sono debitore Professor Rigotti, ma la faccio entusiasticamente mia; ed è un altro modo di dire della strategicità del cuore rispetto alla ragione. Altrove Don Giussani dirà sinteticamente: “l’amore è un giudizio dell’intelligenza che nasce, che trascina con sé tutta la sensibilità umana”. Così evita qualsiasi riduzione del cuore a sentimento e contemporaneamente della ragione a registrazione asettica. La famosa poetessa russa Olga Sedakova dice una frase che mi piace riportare: “la contrapposizione tra ragione e cuore è nata solo dopo che la ragione è stata separata dalla pienezza della vita umana. così si è identificata la prima cioè la ragione, con un freddo principio analitico e secondo, il cuore, colle pure emozioni, ma un cuore senza ragione vede solo fantasmi”. Così, questo fuori dalla citazione, come una ragione -noi lo sappiamo- senza cuore vede solo schemi. La ragione, invece, quando si imbatte colla cosa reale nella misura in cui è educata ad obbedire all’input del cuore, tende a fare fino in fondo il percorso, fino al significato trascinando con sé tutto l’io da cui non è separabile. Questa tensione al fino in fondo lo si documenta in una cosa semplicissima: la domanda perché?. La domanda di senso a questo punto diventa inarrestabile: con essa l’uomo afferma sia la irriducibile presenza della cosa reale sia l’irriducibilità del proprio esserci. Se invece la ragione si ferma prima ricade su di sè divenendo strumento di analisi, che tanto è arida quanto sostanzialmente inutile, anche se presuntuosa. (l’ho accennato prima parlando della ragione debole, della ragione ridotta) così di fronte a qualsiasi proposta appena un po’ scomoda, l’uomo che non è educato tenderà a innalzare il fuoco di sbarramento dei suoi ma, dei suoi se, sei suoi però. Essi sono il modo normale con cui ci si difende dall’impegno con la realtà, ma purtroppo sono anche il modo normale con cui si mette la sordina alle esigenze del destino che chiama con una voce che risuona nel cuore. Si mette la sordina alle esigenze del cuore: questa slealtà verso il proprio cuore è la radice di ogni vera immoralità e da questa, nessuno di noi può ritenersi esente dalla necessità di essere sempre salvato, sempre ripreso, sempre richiamato; viceversa, quando il giovane educato a fare esperienza di che cosa sia la vera conoscenza ,cito Darigotti, ha “quella familiarità con l’essere, quella percezione della sua presenza, generato dall’esperienza che mi rende capace di attestarlo” allora il giovane incomincia a presentire il destino come suprema esigenza, cercalo diventava la sua somma intelligenza e la sua massima convenienza.” Tutti sappiamo che la figura letteralmente emblematica di questa dinamica è quella dell’Ulisse dantesco, il quale, dopo aver misurato tutta l’ampiezza del mare nostrum non poté impedirsi di varcare le colonne d’Ercole, nella consapevolezza che l’uomo è fatto per : la ragione umana quando inizia a diventare matura, si fa carico della totalità; e la totalità è senso e destinazione. Perché si deve educare il cuore? si deve educare il cuore, perché il piccolo dell’uomo, il piccolo della specie umana, (nonostante tutto quello che dicono Rousseau e i suoi epigoni, i quali contrappongono natura ed educazione, natura e cultura) nasce inetto: cioè incapace di affrontare la realtà, quindi incapace di diventare se stesso. Innanzitutto per il cuore, come per tutte le sue altre capacità, il piccolo dell’uomo ha bisogno di una culla, di una cultura che lo allevi, che lo educhi: abbisogna di una educazione, di un educatore, genitore o docente. Secondo me tra genitore e docenti esiste quasi una parentalità: questi due soggetti questo non debbono dimenticarlo troppo facilmente se vogliono educare il generando. Come ciò che educa in famiglia non è la madre o il padre ma la parentalità tra padre e madre, così ciò che educa un ragazzo è la parentalità tra genitori e docenti. Questo è talmente messo in secondo piano, che è quasi completamente dimenticato, anche perché nella scuola statale è impossibile. Educare il cuore, quindi è un dovere dell’adulto verso “il proprio sè dal calpestio più breve” come direbbe Pascoli. Un dovere per l’adulto: e questo adulto è il genitore ed è il docente. Tenendo però presente che il fattore educativo del cuore é la realtà e la realtà e basta, ma la realtà agganciata attraverso l’esperienza perché è l’unica realtà che l’uomo conosce: l’ esperienze è l’unica modalità che l’uomo ha per conoscere la realtà. Quindi, non sono le nostre costruzioni di pensiero, le nostre strategie didattiche, per non parlare di quelle psicologiche, che hanno una qualche chance educativa; le nostre costruzioni, le nostre nostre strategie ci vogliono, ma hanno il valore di progetti, i quali, in qualche modo testimoniano che noi siamo pieni di un desiderio buono. Abbiamo una buona volontà di impegnarci con la realtà: nello stesso tempo, siamo consapevoli che un’onesta desiderio di impegno non fa ancora un impegno. Perciò ce ne manca ancora perché le nostre strategie diventino vero impegno con la realtà. Educa il cuore dell’altro solo chi è impegnato con ill proprio cuore: certamente non chi crede di essere posto, di aver risolto, di essere arrivato. Solo così nasce quell’attitudine a riconosce il cuore dell’altro: sto parlando di quel riconoscimento, operato dall’adulto, che aiuta il giovane ad accorgersi di avere un criterio di giudizio, di verifica adeguato, magari elementare, ma adeguato che comunque lo abilita a prendere posizione, già da subito. Mi viene in mente il già citato Pasolini. Ho letto una volta un incontro di Pasolini con un seminario di giovani che volevano dedicarsi alla critica cinematografica, e Pasolini gli raccomandava di non vergognarsi della loro primissima reazione di fronte a qualsiasi film, di non vergognarsi del fatto che la loro prima reazione poteva ridursi semplicemente al contraccolpo “è bello, è brutto, mi piace, non mi piace”. Quella reazione avrebbe dovuto poi essere contestata da un lavoro ma mai tacitata all’origine, perché nell’uomo, esiste un criterio originale: poi ci dovrà essere il lavoro per approvare la prima reazione oppure per disapprovarla ma non può essere tacitata all’inizio; non conviene. Arrivando alla conclusione l’aiuto metodologico che l’ educatore deve offrire ai giovani è una cosa semplicissima è difficilissima: l’aiuto è quello di una legittimazione. Il vero educatore è colui che legittima l’altro ad essere suo interlocutore in quel dialogo critico, forma ideale dell’educazione, con cui egli per primo dimostri poco cuore in azione. In verità, non esiste, educazione, che non sia l’educazione alla capacità critica; sarebbe tentativo di omologazione, nella migliore delle ipotesi, se non di manipolazione. Ma il dialogo critico vive di domande e di risposte che non si trovano in nessun eserciziario: ogni volta esse sono uniche, perché nascono sempre di fronte a un brano di realtà preso in considerazione, che può essere un fatto su cui si voglia, si debba dare un giudizio adeguato oppure un testo, un testo affrontate in italiano, in matematica, latino, storia, eccetera. Non è questo l’ultimo motivo per cui noi siamo partigiani di coloro che privilegiano il testo a qualsiasi commento critico su di esso, come invece è ormai quasi normale. Cito Rigotti: “lo scopo di un dialogo critico educativo è la costruzione condivisa del sapere inteso come rapporto comunicativo e pratico con la realtà, autocoscienza dell’esserci in un rapporto di condivisione. Incontrando l’altro io potenzio il mio io perché potenzio il mio rapporto con la realtà; questa è la grande fortuna dell’educatore e questo è ciò che fa dell’educatore il mestiere più bello del mondo. Il giovane è così sfidato ad avanzare ipotesi, come faceva il mio professore di religione, a prendere posizione a saggiarene la ragionevolezza. È coprotagonista del suo sapere, fa esperienza della propria responsabilità critica e fa esperienza anche del bisogno dell’autorità. Mette in gioco le sue categorie, la sua esperienza :fa esperienza della sua ragione all’opera, nel rischiare l’ipotesi, nel definire metodi cioè percorsi, domande adeguate all’oggetto.” Senza mistero l’io è ridotto alle sue capacità intellettuali e psicologiche: in tal modo il dialogo dell’educatore non intercetta il cuore del giovane, ma solamente quelle capacità, oltretutto colte già dall’inizio secondo una misura ridotta. Da questo che sembra derivare l’ultimo ritrovato almeno momentaneo, della sapienza e della scaltrezza pedagogica che è quello di abbassare il livello della proposta. Faccio un’osservazione finale a questo punto, secondo me molto interessante, lo dico modestamente, lascio a voi la verità! C’è, da parte di tanti educatori quasi un’ansia di dare le ragioni di tutto: bene questa ansia mi sembra che sia l’opposto dell’educazione alla criticità. Sono cosiddette ragioni, tanto che invece di sfidare il cuore, come fanno le ragioni vere, lo ottundono. Si finisce così col dare le ragioni di cose evidenti. Questa posizione è chiaro che è una posizione pedante, ultimamente pedante perché dare le ragioni di cose evidenti è da pedanti oltre che da stupidi. C’è chi diceva che è turpe: è una turpitudine da stupidi o comunque da pedanti. Questa pedanteria progetta un percorso di conoscenza che disinnesca l’esperienza come il banco di prova, disinnesca l’esperienza come passaggio necessario. In qualche modo è un’ansia che punta ad evacuare ogni possibile novità e con la novità evacua così ii gusto della scoperta. Quello che al giovane rimane è l’abitudine di chiedere a sua volta le ragioni di una proposta, e non per poterla vagliare e impegnarsi con essa ma portersi difendere. Il giovane si abitua a dare dignità di ragione ai ma, ai se, ai però che dignità non hanno alcuna, di nessun tipo. Detto questo concludo veramente questa volta: io sono persuaso che non ci sia momento più interessante di questo che viviamo oggi in campo educativo. È un tempo in cui è diventato evidente che per educare, non basta più quello che crediamo di sapere già: a mio avviso chi raccoglie questa sfida si documenta proprio nella concezione che abbiamo di scuola. La scuola non può più avere come scopo la trasmissione di saperi, né la trasmissione di capacità, né la trasmissione di abilità, così come i programmi ministeriali ci richiedono. Noi vogliamo una scuola dove i ragazzi possano incontrare una comunità di docenti che lavorano una comune proposta che sfidi la loro ragione. Vogliamo una scuola dove i ragazzi imparino a dire io, consapevolmente capaci di unire tutto non identificando le proprie esigenze con quelle dettate dalla reattività estintiva. Noi non abbiamo come scopo che i ragazzi superino i Test Invalsi. Ma se noi insegniamo loro usare la ragione saranno forse anche capaci di farli meglio. Però per fare questo ci vuole un gesto di coraggio; è meno coraggioso puntare ai Test Invalsi. Ci vuole meno coraggio; invece, per puntare all’autocoscienza che è lo scopo della scuola, perché l’uso della ragione è parte dell’autocoscienza, per puntare a questo, ci vuole coraggio, anche perché il test, poi è veramente molto concreto: è se i ragzzi sanno. Ma questo paradossalmente avviene quando non puntiamo sul sapere! Auguro a tutti insegnanti e genitori, di avere questo.

MODERATORE:
Capite perché San Girolamo, Don Giussani sono stati all’origine di due avvenimenti educativi, perché in due epoche così diverse, così drammatiche, non si sono sottratti alle sfide che l’inizio della modernità, cioè all’epoca in cui Dio cominciava a essere sentito lontano dalla vita e gli anni cinquanta, in cui con un passo ancora più tragico Dio era negato, l’infinito era considerato inutile per una vita d’ uomo, questi due uomini non si sono sottratti hanno attraversato tutte le urgenze tutte le domande, trovando una ragione più adeguata per vivere. Per questo sono diventati credibili fino al punto che oggi ci sono persone che stanno facendo la loro stessa strada. Da questo punto di inizio, oggi ho capito di più una frase che c’è nel messaggio autografo che ci ha mandato il Papa , che potrebbe essere posta come sottotitolo di questo Meeting “la natura dell’uomo è rapporto coll’ infinito” :”la vita come vocazione” dice il Papa e concludo: “scopriamo, così la dimensione più vera dell’esistenza umana, quella cui servo di Dio Luigi Giussani continuamente richiamava: la vita come vocazione. Ogni cosa, ogni rapporto ogni gioia come ogni difficoltà trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’infinito, voce di Dio che continuamente chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a lui la realizzazione piena della nostra umanità.” Col Papa, dopo le due testimonianze di oggi, chiediamo allora di entrare e rimanere nello sguardo della fede, che ha caratterizzato distanti, questo sguardo nuovo sulla realtà per poter scoprire i semi di bene che il Signore sparge lungo il cammino della nostra vita con gioia per aderire alla nostra vocazione grazie a Padre Franco Moscone e a Carlo Wolfsgruber.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

21 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri