L’ASCOLTO DEL CIBO, IL DESIDERIO DEL VINO. ADESSO

L'ascolto del cibo, il desiderio de vino. Adesso

21/08/2011 - ore 19.00_x000D_ Partecipano: Luca Doninelli, Giornalista e Scrittore; Paolo Massobrio, Giornalista e Presidente Club di Papillon; Alessandro Meluzzi, Psichiatra, Psicoterapeuta e Fondatore della Comunità Agape Madre dell'Accoglienza; Lucio Sotte, Medico chirurgo esperto in agopuntura e medicina cinese. Introduce Marco Gatti, Giornalista.

Partecipano: Luca Doninelli, Giornalista e Scrittore; Paolo Massobrio, Giornalista e Presidente Club di Papillon; Alessandro Meluzzi, Psichiatra, Psicoterapeuta e Fondatore della Comunità Agape Madre dell’Accoglienza; Lucio Sotte, Medico chirurgo esperto in agopuntura e medicina cinese. Introduce Marco Gatti, Giornalista.

 

MARCO GATTI:
Con questo appuntamento portiamo al Meeting anche il frutto di un lavoro che dura un intero anno e che è racchiuso in un libro che esce per la quinta volta, proprio oggi. Le immagine che scorrono sono pagine tratte dall’edizione già disponibile in libreria o come omaggio ai soci Papillon 2012. Si intitola non a caso Adesso, perché è ora che si deve cogliere questo aspetto della realtà non più rimandabile. A sviluppare la prima riflessione sul tema sarà Luca Doninelli, celeberrimo e apprezzato scrittore, ma soprattutto membro del comitato d’onore del Club di Papillon.

LUCA DONINELLI:
Ma devi presentare tutti prima o parto io? Faccio un breve discorsetto introduttivo, comincio dicendo che non ho nessun diritto di parlare di cibo, visto che peso 125 kg e che quindi sono, innanzitutto, un disordinato alimentare e probabilmente anche un po’ disturbato. Una persona normale non dovrebbe pesare 125 kg, specie se è alto non 2 metri e 20 ma 1 e 78, così avete già il mio indice di massa corporea. Volevo fare un piccolo passo indietro perché parlare del gusto significa pronunciare una delle parole più importanti del vocabolario umano, in qualunque lingua, in qualunque declinazione, la parola desiderio. Voglio dire due parole su una cosa che sta un po’ prima, non prima del desiderio, ma su ciò che accende, su ciò che muove il desiderio, di cui abbiamo parlato tante volte con Paolo, con Marco, eccetera, che è il bello. Oggi è difficile parlare della bellezza: se leggete i giornali, in televisione – il professor Meluzzi lo sa meglio di me -, si parla sempre di emozioni, emozioni, emozioni, emozioni. Ho sentito critici letterari importanti, storici della letteratura dire che la letteratura, alla fin fine, deve dare emozioni. Si scrivono libri apposta per dare tante emozioni: Il cacciatore di aquiloni, questo tipo di libri fatti apposta per emozionare, mentre secondo me ci vuole altro per entrare dentro l’emozione, il Paradiso di Dante, ad esempio. Per la bellezza occorre tempo, alla bellezza bisogna dare tempo. Vedo che c’è gente che a Firenze fa un chilometro di coda per andare a vedere il David di Michelangelo davanti alla galleria dell’Accademia, poi entra e va di corsa a vedere il David, senza degnare di un’occhiata i Prigioni, che nella storia dell’arte sono importanti almeno quanto il David, e senza guardare altri capolavori che sono lì. Li senti fare tutte le esclamazioni: “Ahh!”, “Ohh!”, e ti sembra come se ascoltassero una poesia in turco e dicessero: “Com’è bella questa poesia!”. “Ma tu, il turco, lo conosci?”. “No, ma il suono era bellissimo!”. Per apprezzare e conoscere il bello, ci vuole un impatto, qualcosa che avvenga ora; e questa cosa, perché avvenga ora, richiede la nostra libertà e il nostro coinvolgimento, altrimenti non se ne fa niente. Un’opera d’arte è qualcosa di complesso, che a volte raggiunge il miracolo di non far sentire la fatica che è costata, per cui noi leggiamo certi grandi autori o vediamo certe grandi opere d’arte e non percepiamo la fatica terribile che è costata la costruzione di queste cose.
Ci vuole tempo, perché altrimenti anche la questione del gusto diventa una cosa tecnicista e sfiziosa, mentre una delle cose che ho imparato da Paolo è che, comunque, dietro un grande vino, dietro un grande piatto, c’è una persona che ha lavorato, che lavora in un certo modo, che ha un certo modo di guardare la vita; dietro un piatto non banale c’è sempre una persona non banale. Ricordo un film che oggi sarebbe improponibile, i film oggi sono tutti fatti con sequenze velocissime, perché la gente si stufa in fretta. Un film degli anni ’50, ’60 in cui, per un quarto d’ora, no, per 10 minuti, si vedeva un bambino che correva. Oggi, già al secondo minuto che uno corre si cambia canale, invece vi assicuro che darsi quel tempo lì, obbligarsi a guardare quel bambino che corre per 10 minuti, alla fine fa entrare lo spettatore in un altro modo di guardare le cose. Ma, come dicevo prima, ci vuole un incontro, un impatto che accenda questo desiderio. Il desiderio lo si vede non dalla consumazione ma dal fatto che bisogna dargli tempo, alle cose. Per esempio, un giovane artista, da che cosa si vede che ha talento, che ha un vero talento? Mettete un ragazzo di 20 anni che comincia a dipingere: da cosa si vede che ha talento? Non dall’estro, ma dal bisogno che ha di dare tempo a questa cosa, di coltivare. Generalmente, il segno più sicuro del talento è la necessità di coltivarlo.
E poi quell’impatto non può essere moralistico: vi racconto il mio impatto con la bellezza, mezzo minuto. Avevo otto anni, e un nonno che non aveva mai avuto a che fare con i bambini in vita sua, perché aveva lavorato di notte, per cui non si era mai occupato neanche dei suoi figli. Questo mio nonno era innamorato di Firenze, un popolano che aveva fatto la quinta elementare e sapeva la Divina Commedia a memoria. Mi portava in giro a vedere chiese, musei: potete immaginare cosa capivo io degli Uffizi o di Palazzo Pitti a otto anni, o delle opere d’arte. Io capivo niente, mi restava impresso qualcosa ma non avevo nessuna possibilità. Cos’è che mi ha dato la possibilità di cominciare a capire? È stato questo, è un ricordo fulminante che è alla radice della mia vita, credo. Siamo in piazza del Duomo a Firenze, e mio nonno guarda la cupola del Brunelleschi. Mio nonno era abbastanza brutto, assomigliava pressappoco a Woody Allen, aveva un nasone. Beh, la bellezza di mio nonno, io non guardavo la cupola ma la faccia di mio nonno, la bellezza, la felicità, la gioia. Perché era nato a Firenze e poteva vedere sempre quelle cose. Non so quante cose c’erano dentro quella felicità, io sono rimasto colpito dalla bellezza di mio nonno. Non era una bella donna, non era un tramonto dorato, era mio nonno, un ometto piccolo e brutto. Non ho mai visto niente di così bello: la mia introduzione al bello, e quindi al desiderio del bello, di cui credo il professor Meluzzi parlerà molto più approfonditamente di me, è stata questa.
Voglio dire una cosa sul cibo e sul vino che ho dentro da tanto tempo: far da mangiare – penso prima di tutto a mia mamma che faceva da mangiare, non penso ai grandi cuochi, ai grandi chef, penso alle cose che mangiavo a casa mia -, oppure fare la spesa, sono atti della vita quotidiana che non si possono eliminare, dentro ai quali c’è una creatività. Pensate all’uomo, ai problemi dell’uomo: non sono quelli di dipingere la Gioconda. I problemi dell’uomo erano dar da mangiare ai propri figli. La creatività che l’uomo ha impiegato per far da mangiare e per mangiare bene, per mangiare deliziosamente, per fare il vino meglio che si può, perché deve essere qualcosa di dignitoso, per dare una vita dignitosa ai proprio figli, per fare cose normali, quella che chiamiamo la normalità della vita, è secondo me esattamente come la materia oscura di cui gli astrofisici dicono che è fatto l’universo. Voi sapete che dicono che l’universo è fatto per il 99% di materia oscura e per l’1% di materia luminosa: quando parliamo di bellezza, di arte, della creatività umana, parliamo sempre dell’1%, perché l’arte e la letteratura sono l’1%, ma quello che ha portato la grande creatività umana, il genio umano, è anche il modo con cui l’uomo resiste, come diceva un grande gesuita, Michel de Certeau, al potere e all’invadenza del potere: sono atti creativi piccoli, quotidiani. Quello che mi commuove è il pensiero che un piatto di pastasciutta fatto bene, un vino buono, eccetera, siano il frutto di questa somma di piccola creatività che ha costruito dei capolavori. Anche quantitativamente, anche come diffusione e varietà, l’arte di colpo diventa più piccola, anche se naturalmente l’arte ha un livello di elaborazione maggiore: ecco, a me sembra che, celebrando la bellezza attraverso il cibo e il vino, noi celebriamo nello stesso tempo l’immensità di quella vita quotidiana di cui non parliamo mai. Grazie.

MARCO GATTI:
Proprio dall’ultima suggestione di Luca Doninelli, che ci ha fatto fare questo percorso, coinvolgiamo Alessandro Meluzzi, che è psichiatra e fondatore della comunità Agape Madre dell’Accoglienza, anche lui amico da sempre di Papillon. Gli chiediamo una riflessione sul tema introdotto da Doninelli, a partire da una domanda: come il cibo e il vino possono raccontarci qualcosa di noi stessi, e se sì, cosa e come?

ALESSANDRO MELUZZI:
Grazie a voi di Papillon, grazie all’amico Massobrio, a Gatti, grazie a Doninelli, che ha già detto tutto, tutte le cose importanti, essenziali, per cui noi potremmo goderci adesso anche un attimo di silenzio. Lo dico davvero, perché i temi di cui stiamo parlando e anche i concetti tra cui ci stiamo muovendo hanno il sapore della sinestesia. Che cos’è la sinestesia? È quando noi utilizziamo un senso per sentire un altro senso. C’è nel titolo di questa nostra tavola rotonda, perché l’ascolto del cibo è una proposizione classicamente di tipo cinestesico, perché il cibo non si ascolta, il cibo si gusta o qualche volta si guarda. Dico questo perché sono ancora sotto la forte influenza di un’esperienza sinestesica che ho appena compiuto: anch’io voglio attagliarmi un po’ a questa dimensione del particolare da cui deriva l’universale e non viceversa, questa induttività concreta cui anche il titolo del Meeting ci richiama, l’esperienza come certezza, l’esistenza come certezza. Non più di un’ora e mezzo fa ho avuto l’esperienza di fare una degustazione di cibo e di vino nello stand dell’istituto dei Non Vedenti di Milano, cosa di cui avevo soltanto sentito parlare. Ma la narrazione è cosa molto diversa da una percezione estetica o gustativa o sinestesica di un evento come qualche cosa che attiva i nostri sensi. Bene, vi assicuro che entrare in uno spazio interamente buio, senza un filo di luce, in totale assenza di percezione visiva, e sentire stappare una bottiglia di vino, portare alle labbra un bicchiere, farsi portare davanti un tagliere di formaggi prelibati e di salumi tagliati a fette senza posate, portandoli alla bocca con le mani, è un’esperienza straordinaria che io invito tutti a fare, perché è un’esperienza all’inizio inquietante ma che poi ci rivela come la sinestesia dell’ascoltare il cibo, dell’odorare i gusti, dell’ascoltare i sapori, del vedere le temperature è qualcosa che non fa parte di un fatto straordinario ma di quella ordinarietà della straordinarietà della coscienza che è alla base del divino umano.
Ecco, mi spingo così in là a definirlo divino umano proprio perché penso che, se davvero l’esistenza ha la forza del presente – proprio per questo la radico in una certezza -, noi dobbiamo partire anche dal presupposto che ciò di cui stiamo parlando non è una dimensione accessoria, velleitaria e tutto sommato anche un po’ in controtendenza rispetto al clima di miseria, di pauperismo e di difficoltà che la nostra realtà vive, pur vivendo noi tuttora nella più ricca delle società che sia mai stata sotto il cielo, ma quella che, come nessun’altra, ha avuto qualche volta un’ingiustificata percezione della scarsità, quella per esempio che ci spinge a non fare figli, a non generare la vita per una mancanza di fiducia e di scommessa nel futuro. Proprio perché questa dimensione della certezza e della concretezza fa sì che si debba gettare una luce anche diversa sul tema stesso della spiritualità e delle ragioni che spingono i credenti a cercare Dio, non soltanto nell’iperuranio, non soltanto in un testo, non soltanto in una dimensione di spiritualità, che rischia di precipitare se non si radica in questa contemplazione sinestesica del creato, in una pura e semplice proiezione mentale, che non ha nulla di reale, nulla di realistico e, consentitemi di dire, neanche nulla di incarnato e quindi neanche nulla di cristiano. Quindi, se la nostra spiritualità non si radica anche nella materia assimilata, digerita, prodotta, creata, contemplata nella sua concreta e straordinaria matericità, noi non siamo neppure cristiani.
Può sembrare paradossale in un mondo in cui abbiamo sentito molte volte esaltare il tema dell’ascesi, del digiuno, della purificazione, ma se la nostra spiritualità non si incarna in un Dio che si fa carne, e che è il contrario di una gnosi che nega la carne e la materia, vedendo invece uno spirituale totalmente disincarnato, noi non abbiamo nulla dell’esperienza cristiana, non abbiamo nulla di ciò che grandi profeti, come Giussani, hanno trasmesso in tutta la loro vita. E non avremmo neanche il titolo di un Meeting come quello di quest’anno: l’esistenza come certezza. Allora, questa certezza non vive soltanto evidentemente di sinestesie e di percezioni, di gusti e di fatti occasionali, perché se no non esisterebbe neanche Papillon, pensateci un momento, le cose di cui parlava mirabilmente Doninelli adesso, i sapori, i vini, i gusti, in che cosa si differenziano da un fatto puramente occasionale? Beh, per un concetto semplicissimo, che è la tradizione.
Che cos’è che distingue le grandi religioni dalle sette, per esempio? La tradizione, cioè un deposito nella memoria e nel tempo. Forse che basta il deposito nella memoria e nel tempo per generare la verità? Ovviamente no, ma il deposito, il radicarsi nel tempo è un fattore fondamentale perché le cose siano. Io con questo non voglio schierarmi immediatamente in un campo che so essere tema di divisione anche fra gli amici che fanno il mestiere di Paolo, ma certamente, tra certi vagheggiamenti della novelle cuisine e il solido radicamento delle esperienze sensoriali, gustative, enologiche, gastronomiche, nella robustezza mnemonica delle tradizioni, queste tradizioni acquisiscono una loro simbolicità e una loro sacramentalità laica che è una forza. Se no, non sarebbe nata tutta quella dimensione che per esempio, in questo campo, ha dato vita e luogo al sovvertimento di quello che quelli che come me hanno superato il mezzo secolo di vita immaginavano fosse la futurologia di quando erano bambini. Quando noi eravamo bambini, se ci avessero chiesto: “Come si mangerà nel primo decennio del 21esimo Secolo?”, avremmo risposto: “le fiale, le pillole, sulla luna”. E invece, cosa abbiamo avuto? Le ricette tradizionali, il recupero delle tradizioni locali, il radicamento, i presidi del gusto, tutte queste cose qua, il che vuol dire che tradizione, memoria e storia fondano una verità e sono anche alla base di quella biofilia che è fondamentale per essere cristiani.
Il cristiano, se non è biofilo e se non sa che la parola sapienza ha la stessa radice della parola sapido, non capisce neanche quello che dice quella pagina evangelica che se il sale perde sapore è buono soltanto per essere buttato via e calpestato dalla gente. E voi siete il sale della terra, ed essere il sale della terra vuol dire in questo campo sapere anche che questa parola di Dio che crea e che si fa creato, che si fa materia, ciò che ci nutre, che ci fa essere, che ci compone, ma anche ciò che ci dà questa forza e questa capacità di muoverci in un mondo in cui il nostro cervello è diviso in due parti: l’emisfero destro e l’emisfero sinistro; sente i numeri, il linguaggio, le parole, le verità con l’emisfero sinistro, e le sensazioni, le emozioni la gestalt, come direbbero certi psicologi, cioè l’unità delle percezioni, con l’emisfero destro. Se noi non abbiamo l’unita di queste due sensorialità, abbiamo la percezione di uno spirituale disincarnato, che non è lo spirituale cristiano, è una materia privata dello spirito, un materialismo senza storia, senza identità, senza verità. Quindi, essendo noi uomini non dell’ aut-aut ma del et-et, uomini sinestesici ma anche uomini comunitari, sappiamo che questa concretezza in fondo è la stessa a cui un grande poeta che non era affatto cristiano, ma che non poteva non risentire di una certa cultura francese in cui era cresciuto, che era Baudeleire, in quella pagina che tutti ricorderete, quella bella poesia simbolista, dice che la natura è un tempio dove colonne animate lasciano talvolta crescere parole confuse, e l’uomo vi passa tra simboliche foreste che osservano con occhiate familiari. Noi siamo immersi in questa foresta, in questi templi viventi di colonne, di alberi della storia, della tradizione, che ci fanno vivere in una benedizione che, guarda caso, ha la stessa radice anche nella lingua ebraica di quello che noi chiameremmo brindisi, alzare il calice, in ebraico beracà vuol dire benedizione, ed è quando si alza il calice per esprimere un augurio, quello che noi chiamiamo cin cin e che farebbe ridere i cinesi perché cin cin, in Cina, vuol dire quello che in Sudamerica si dice fare chacacha, cioè fare l’amore. Quindi, quando andate in Cina, non dite cin cin, perché tutti si metteranno a ridere, però la parola è sempre quella: benedizione.
Anche questo non è cosi strano perché beracà ha anche la radice del verbo creare, è il luogo dove si abbeverano i cammelli nelle oasi del deserto. Quindi, vedete come tout se tient davvero, come creare, benedire, alzare il calice, cooperare dicono una cosa fondamentale, che cooperare, benedire è l’unico modo per superare e trasfigurare quell’angoscia di morte che è la base di ogni stupore, di ogni filosofia, ma anche di ogni ragionamento sull’assoluto.
Allora, io non voglio farla tanto lunga perché mi sembra che parlare di ascoltare il cibo, del desiderio del vino, siano parole talmente penetranti che già anche in un ambiente di cristiani, quale questo è o dovrebbe essere, è come sfondare una porta aperta. Se voi pensate, per esempio, anche al rapporto tra questi temi e la parola di Dio nell’Antico e nel Nuovo Testamento: il Cantico dei Cantici, dove la cella del vino è il luogo della generazione della vita, i grappoli d’uva sono le mammelle dell’amata, il momento dell’incontro, del bere il vino, è il momento del fare l’amore e del generare la vita. Non a caso, il Cantico dei Cantici è il più esoterico, il più poetico e forse anche il più sensuale, sensoriale degli scritti dell’Antico Testamento. Ma non è che neanche nel nuovo si vada tanto per il sottile. Forse che nel Vangelo di Giovanni il primo miracolo non è quello della trasformazione dell’acqua in vino nelle nozze di Canaa? Canaa di Galilea, che vuol dire podere, terra, terra feconda. O forse che la metafora del padrone della vigna, del figlio e dei vignaioli infidi, non è la descrizione più straordinaria del rapporto tra l’uomo, il lavoro, la terra, la fedeltà, la lealtà, la produttività? E forse che la metafora del rapporto stesso tra il Dio che si fa carne e i suoi discepoli non è la metafora della vite e dei tralci? “Io sono la vite e voi i tralci, senza di me non potete fare nulla”.
Allora, certamente il nostro ambiente non è sospettoso, Paolo, nei confronti di questi argomenti. Io credo che sarebbe un’excusatio non petita. Oggi il mio amico Carlo Casini dice: “Quest’anno, invece di venire a parlare al Movimento per la Vita, vai a parlare del vino…?”. Ma no, gli ho risposto, non è che vado a parlare del vino. Ricordati che nostro Signore Gesù Cristo non ha consacrato una tisana digestiva di erbe ma una bevanda inebriante come il vino, trasformandola. E’ una grande verità e non era scontato, perché se prendete per esempio, nel Libro di Samuele, la storia di Sansone, dove viene descritta la sua vita, viene detto era un nazireo e non beveva bevande inebrianti. Quando l’angelo appare a Zaccaria per annunciargli la nascita di Giovanni il Battista, dice: sarà un nazireo e non berrà bevande inebrianti, come se questo fosse un merito, e forse lo era. Per gli Esseni, lo era certamente. Il Giovanni che era cresciuto in ambienti essenici, che si nutriva soltanto di locuste e di miele selvatico e si vestiva di pelli di cammello, certamente non beveva vino, praticamente digiunava. Ma Gesù, invece, come descrive la rottura del rapporto tra il suo annuncio rivoluzionario, la sua buona notizia e il popolo di Israele incapace di accoglierla? Nel Vangelo di Matteo – no? – dice: siete come quei bambini che gridano: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non vi siete battuti il petto!”. È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: “È indemoniato”. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori”. Non sono nuovi, questi argomenti, sono profondamente radicati nella verità della Scrittura.
Allora, e vado davvero a concludere, anche qui non mi rifugio in un ragionamento teologico, ma in uno psicologo tutt’altro che cattolico, anche se molto attento a queste tematiche, che era Otto Rank, quello del trauma della nascita, dell’angoscia di morte, uno dei libri prediletti di Sigmund Freud, il quale dice una frase straordinaria, la cito testualmente: “Quando la ragione perde il cosmo, la società diventa nevrotica e allora devi inventare la psicologia e le psicoterapie”. Quando la ragione perde il radicamento nel cosmo, la psicologia diventa lo strumento, il surrogato: come il surrogato del caffè, tutti possiamo pensare che bere la cicoria tostata fa bene ma quando abbiamo per lungo tempo sentito l’assenza del gusto di un buon caffè, abbiamo il desiderio di degustarlo. E allora, la psicologia e la psicoterapia diventano il surrogato di un rapporto che si coniuga nell’incontro materico della totalità dell’umano, che è fatto di corpo, mente, anima. Così come Agostino aveva detto che l’uomo è capax Dei, Tommaso, che certamente non è sospetto di atteggiamenti eterodossi, dice che l’uomo è anche capax universi, non soltanto capace di Dio ma anche capace di radicare la sua sensibilità in quella direzione.
Finisco davvero dicendo questo: quelli di noi che si occupano di educazione, di giovani, di scuola, qualche volta sono angosciati dal fatto che sembra difficile parlare ai giovani, ai ragazzi. Ma pensate di togliere ad una generazione il mistero della vita e della morte con un educazione totalmente sdrammatizzata e banalizzata, toglietele la grande letteratura, i simboli, toglietele l’immersione nell’arte, toglietele il Mistero di Dio e avrete dei robottini impazziti: con chi devono imparare i grandi misteri della vita e della morte? Con Maria de Filippi? Alla fine vi troverete con dei mostriciattoli impazziti che si aggirano sulle strade a 200 all’ora senza sapere neanche quello che fanno, che hanno perso il gusto, tra le altre cose, perché si rimpinzano di cibi spazzatura nei fast food, perché mangiano porcherie, perché non sono educati a quel rapporto religioso tradizionale, in qualche modo iniziatico, a cui persino la più povera delle madri, la più povera delle nonne, educava la sua famiglia. Allora, come possiamo lamentarci di questo? Allora hai fatto bene, Paolo, a dire: desiderio del vino. Perché davvero la parola desiderio ha una risonanza semantica fortissima, perché desiderio è un termine che in latino viene citato da Tacito in una pagina che descrive questo stato d’animo come l’atteggiamento con cui i soldati, nella notte della battaglia, attendono il ritorno dei sopravvissuti feriti, quindi il nostos, la nostalgia, la paura, l’angoscia, il desiderio di vedere ricomparire un volto amico. Questo è il desiderio.
Il desiderio non è soltanto quello della ricerca sfrenata di qualcosa ma è la nostalgia di qualcosa che sentiamo parte di noi e che abbiamo paura di avere perso. Nella nostra tradizione evangelica, nella scrittura, questo avere consacrato il vino ha profondamente a che vedere con questo mistero, questa dimensione in cui, come ha detto acutamente un filosofo certamente anticristiano come Nietzsche, si accosta la figura di Gesù a quella di Dioniso. Attenzione, perché è un accostamento in parte inaccettabile, per altri versi molto suggestivo, perché nella tradizione greca del Dioniso smembrato dalle Baccanti c’è un vino che diventa sangue, nella tradizione cristiana c’è un vino che diventa sangue e un sangue che diventa vino, perché l’albero della croce diventa un po’, come in certe raffigurazioni, quell’albero in cui crescevano le antiche vigne. E in certe raffigurazioni, infatti, in certe iconografie medievali, la croce è ricoperta da una vite che si inerpica sul suo albero: la dimensione dell’albero della vita, la dimensione della morte, la dimensione del sangue che redime la terra.
In questa dimensione, davvero non possiamo dimenticare mai che il massimo del nostos, di questa nostalgia desiderante e piena di speranza, è un po’ come le parole che i discepoli di Emmaus colgono, non solo e non tanto quando Gesù parlava dell’evento che si era appena compiuto, ma nel momento in cui, seduti a tavola, lo vedono spezzare il pane e, possiamo presumere, versare il vino. Quello è il momento in cui il symbolum, che prima era soltanto parola, diventa concretezza, il momento in cui l’esistenza diventa certezza, il momento in cui i discepoli di Emmaus hanno la lucidità e il coraggio di spiegare a se stessi: ecco perché, mentre ci parlava lungo la strada, noi sentivamo il nostro cuore vibrare cosi profondamente, ma per poterlo capire abbiamo dovuto sederci a tavola e vederlo spezzare il cibo e dividere il vino. Allora, anche a noi tocca dire, insieme a lui, Resta con noi, Signore, questa sera, perché davvero è il momento di spezzare il pane e il vino tra noi. Per l’eucarestia dei cristiani, questa che diventa metafora è anche la ragione che getta una luce di grazia su ciò che potrebbe essere solo esclusivamente coazione a ripetere, banalizzazione, compulsione, caos, disordine, ma che invece la nostra visione del mondo trasfigura, nobilita, illumina, perché è la luce nel nostro sguardo che consacra le cose, e quindi consacrare il cibo e il vino è quanto di più cristiano si possa fare. Vi ringrazio.

MARCO GATTI:
Grazie ad Alessandro Meluzzi, che contribuisce sempre ad approfondire la discussione con importantissimi flash su quello che ci aiuta, e che introduce Lucio Sotte: sei stato chiamato in causa “niente cin cin, niente tisane”: perché Lucio Sotte è medico chirurgo, esperto in agopuntura e medicina cinese, ed è, da un paio d’anni, tra gli autori del libro per la famiglia Adesso. Paolo Massobrio è rimasto affascinato dal suo approccio che tiene conto di tutto l’uomo nel suo insieme, a differenza di un certo modo di sezionare la conoscenza. Peraltro, proprio in questi giorni, Paolo, abbiamo saputo che altri personaggi importanti sono rimasti affascinati, da Formigoni alla Gelmini. Oggi vorremmo che tu ci parlassi di alcune chicche che sono state illustrate adesso e che hanno a che fare con l’ascolto del cibo.

LUCIO SOTTE:
Molto bene, in primo luogo vi ringrazio per la possibilità di parlare di quello che faccio tutti i giorni. Mi richiamo a quello che ha detto Luca Doninelli, con altro modo di guardare le cose, perché quello che faccio tutti i giorni è realmente un altro modo di guardare le cose, visto che mi interesso di medicina cinese. E mi richiamo un po’ anche a quello che ha detto Alessandro Meluzzi, il recupero della tradizione, perché la medicina cinese è il recupero di una tradizione che va avanti da oltre tremila anni. Pongo anche un piccolo problema di metodo che mi sono posto quando ho iniziato ad interessarmi a queste cose: a mio modo di vedere è il metodo giusto per affrontare argomenti di questo genere che, altrimenti, sembrano un po’ esotici ed esoterici. Quando mi sono avvicinato alla medicina cinese, ho avuto la grossa fortuna di vivere a Civitanova Marche, in Provincia di Macerata, dove è nato padre Matteo Ricci che, come voi sapete, è stato colui che ha portato il cristianesimo in Cina. Aveva un motto che ho fatto mio: “Esaminate ogni cosa e trattenete il valore”. In realtà, la frase non se l’era inventata, anche se l’aveva fatta sua, era di san Paolo. E’ il metodo che ho sempre tentato di utilizzare, spero di esserci riuscito: un altro modo di guardare le cose.
La prima cosa che mi ha affascinato della medicina cinese, della dietetica cinese, dunque dell’affronto del cibo, è stata una frase sulla quale quasi ogni giorno rifletto. Nel Classico di Medicina Interna dell’Imperatore Giallo, scritto 2500 anni fa, si incomincia in questa maniera: “L’uomo deve rispondere sempre al cielo e alla terra”. Questa frase è di una bellezza straordinaria perché, in un testo di medicina, non si parla di chimica, di fisica, di biologia, non si parla della struttura della materia, ma si parla di come l’uomo debba essere in armonia con il cielo e con la terra, perché possa essere in uno stato di salute dentro di sé. Questo è il punto di partenza che vale per la medicina cinese e, ovviamente, per la dietetica cinese, per l’alimentazione dal punto di vista della medicina cinese.
Che cosa significa che “devi rispondere al cielo e alla terra”? Significa che il cielo è l’elemento che promuove l’iniziativa della vita, e la terra è il luogo dove questa iniziativa si raccoglie e si concretizza. La terra gestisce la vita. Il rispondere al cielo e alla terra, dal punto di vista della medicina cinese, della cultura cinese, significa che debbo guardare fuori di me, nel sistema in cui vivo, per capire come sono fatto. E contemporaneamente significa che debbo vivere ai ritmi che il cielo e la terra mi impongono. La mia salute dipende da questa euritmia, la mia malattia dipende da disritmia. E’ come se ogni giorno, quando ci alziamo, ci dovessimo accordare con l’orchestra celeste. Come si fa nelle orchestre, dove il violino dà il la e tutti si accordano al la. Ogni mattina noi dovremmo far questo, e siccome ogni mattina è diversa dalla precedente ed è diversa dalla successiva, ogni mattina abbiamo bisogno di questo. E’ per questo che l’uomo si ammala, perché non è in grado di stare nel ritmo di ciò che è intorno. Il ritmo di ciò che è intorno è l’alternanza del giorno e della notte, il ritmo di ciò che è intorno è l’alternanza dei mesi e delle stagioni, il ritmo di ciò che è intorno è l’alternanza degli anni, il ritmo di ciò che è intorno è il rapporto con tutta la realtà, compreso il rapporto con gli altri uomini.
Rispondere al cielo e alla terra significa armonizzare me con tutto ciò che sta fuori. E come faccio a rispondere al cielo e alla terra? Con l’alimentazione. Lo faccio, per esempio, mangiando secondo le stagioni, per cui d’inverno dovrò fare un’alimentazione più riscaldante, perché il clima è più freddo, e d’estate farò un alimentazione più rinfrescante perché il clima è più caldo. Lo facciamo tutti, ma non ci ragioniamo sopra a sufficienza. Significa utilizzare un’alimentazione dissecante quando il clima è umido, umidificante quando invece il clima è asciutto. Anche questo lo facciamo istintivamente. Nella medicina cinese però, tutto questo è stato studiato per tradizione da duemila anni a questa parte, e poi messo per iscritto.
E come si fa a far questo? Semplicemente recuperando degli aspetti che nella nostra tradizione ci sono stati in passato, ma poi sono stati dimenticati, come un elemento, per esempio, la natura dei cibi, o un altro elemento, il sapore dei cibi. Che significa natura dei cibi? Faccio degli esempi molto, molto concreti: il pomodoro è freddo, dunque è adatto a persone che hanno segni di calore. La carne di agnello è calda, è adatta alle persone che hanno segno di freddo. Se c’è un eccesso di energia nell’organismo, un’iperattività, è bene dare un’alimentazione rinfrescante, a maggior ragione se questo corrisponde ad un eccesso di calore soggettivo del paziente. E poi i sapori: hanno una caratteristica estremamente interessante che mi ha affascinato, perché secondo la medicina cinese ogni sapore si rivolge a uno specifico organo e, attraverso quell’organo, a tutto un sistema. E ogni sapore mette in movimento la nostra energia. Faccio degli esempi, anche qui molto semplici, molto concreti. Un sapore aspro trattiene all’interno, il sapore piccante porta all’esterno. Il sapore piccante va bene d’estate, quando bisogna sudare, il sapore aspro va bene d’inverno, quando c’è bisogno di trattenere. Tutto questo è la riscoperta di un aspetto che noi deleghiamo all’arte culinaria e al settore della cucina, e che invece in medicina cinese è scienza.
Questo è stato uno degli elementi che più mi ha affascinato della medicina cinese, della dietetica cinese, e mi ha affascinato tra l’altro, in particolare, la possibilità di essere estremamente concreti su elementi che sono così chiari e così evidenti che spesso, quando dico ai pazienti “guardi, lei dovrebbe mangiare questo perché le si adatta”, il paziente mi dice che effettivamente già lo fa. Istintivamente l’organismo cerca gli alimenti che sono adatti a lui. Ovviamente, se la scienza affianca questo istinto, abbiamo senza dubbio una situazione straordinaria. L’altro aspetto, e qui andiamo all’aspetto più tecnico, è la cottura dei cibi. E’ un’altra cosa che mi ha affascinato: prima di interessarmi alla medicina cinese, mi interessavo alla medicina occidentale, ovviamente. In tutti i testi di dietetica occidentale, c’è scritto tutto sui cibi eccetto di come si debbano cuocere. Ma non è indifferente cuocere i cibi in una maniera o in un’altra. Prima ho detto che il pomodoro è freddo, se è crudo. Ma se uno prende il pomodoro, ci mette sopra il pane grattugiato e un po’ d’aglio, un po’ di prezzemolo, e lo fa stare per tre quarti d’ora nel forno, il risultato finale non è quello di un alimento freddo: quindi, la cottura modifica la natura e il sapore dei cibi, e va studiata dal punto di vista scientifico, perché scientificamente si ottengono risultati differenti a seconda di come i cibi vengono trattati.
Questo è un brevissimo approccio alla dietetica cinese, con cui possiamo valorizzare elementi che sono stati già della nostra cultura. Se andate in qualche vecchia libreria e cercate dei libri scritti nel 1500, nel 1600, quando da noi si praticava ancora la medicina galenica, vi accorgete che tutti i farmaci e tutti i cibi vengono distinti a seconda di quelle che venivano chiamate allora le caratteristiche primarie e secondarie dei farmaci, dei cibi.
Le caratteristiche primarie riguardavano il fatto che i farmaci, i cibi, fossero caldi, freddi, umidi, secchi; le caratteristiche riguardavano i sapori dei cibi. Tutto questo apparteneva alla nostra tradizione, io sono dovuto andare in Cina per riscoprirlo. Perché, se come medico di formazione occidentale, leggevo quei testi, non ci capivo nulla, se come medico di formazione cinese leggevo gli stessi testi scritti da noi nel 1600, ci capivo l’85%, non proprio tutto ma l’85% sì. E’ abbastanza singolare che uno debba fare questo viaggio nell’Oriente per riscoprire l’Occidente, ma in realtà è quello che mi è accaduto, la mia piccola esperienza nell’ambito della dietetica occidentale.
Concludo con una piccola chicca, che serve semplicemente per farvi capire come, per utilizzare la dietetica cinese, non occorra che ci mettiamo a mangiare con le bacchette oppure che utilizziamo lo zenzero o tutti i i cibi cinesi classici, così come si fa in Cina.
I nostri cibi possono essere classificati come la medicina cinese. A suo tempo, quando studiavo a Bologna, ero in appartamento con un collega, il quale poi, nel frattempo, è diventato anche sacerdote. I genitori di questo collega avevano una piccola distilleria: e quindi mi ero fatto lasciare dalla madre di questo collega la ricetta del nocino. Adesso vi dico come si fa il nocino, secondo questa ricetta: si prendono 39 malli di noce il 24 giugno, che è il giorno di san Giovanni. Dopo averli sezionati in tre, quattro parti, dobbiamo metterli in infusione in due litri di alcool. Il bottiglione dei due litri di alcool deve essere sigillato in maniera particolarmente accurata, perché poi questo nocino andrà esposto al sole durante il giorno e ritirato dentro casa durante la notte. Insieme con le noci, ci va un rotolo di cannella, quattro, cinque chiodi di garofano, la scorza gialla di due, tre limoni. Il 3 di agosto, 40 giorni dopo, me lo ricordo bene perché è il giorno del mio compleanno, bisogna filtrare il nocino. A questo punto si mescola il nocino con lo sciroppo che si fa con acqua e zucchero, e si ottiene la formula fedele. Secondo la medicina cinese, questo non è il nocino ma un farmaco che tonifica i reni. Perché in medicina cinese la noce, la cannella, i chiodi di garofano tonificano il rene e la scorza di limone, che è piccante, serve per promuovere la circolazione dell’energia che ristagnerebbe, se non ci fosse questa scorza. E’ un piccolo esempio di come la dietetica cinese possa essere utilizzata per comprendere un nostro prodotto tradizionale.

MARCO GATTI:
Grazie a Lucio Sotte, da domani nocino garantito a tutti. A questo punto, a Paolo Massobrio, presidente e fondatore del Club di Papillon, le conclusioni di quest’ incontro.

PAOLO MASSOBRIO:
Vi ringrazio per la partecipazione: ho visto anche tanti giovani che non sono entrati in sala ma sono fuori e ci seguono. Vi ringrazio per essere qua. Dal concepimento del titolo di quest’incontro all’incontro vero e proprio di oggi, c’è stato un periodo culminato in un’estate di notizie devastanti, perché la situazione del Paese, la situazione del mondo, preoccupa anche me, anche noi. Pensando a quest’incontro, mi dicevo: andiamo a parlare del cibo e del vino, certo, e poi pensavo, anche sentendo Luca Doninelli, ma se la bellezza salverà il mondo, come diceva Dostoevskij, e se ne siamo convinti, queste cose ce le dobbiamo dire, ci deve essere un luogo dove ci diciamo il valore, ciò per cui vale la pena alzare lo sguardo anche in un momento di crisi, dove la cosa più grave è che si azzera tutto senza un potere. Guardate cosa stanno facendo i nostri amministratori, cancellano i paesi così, senza un criterio, salvo poi ritornare indietro, presi dal panico, senza una razionalità.
Io credo che, in momenti come questi, ci voglia un luogo in cui ci diciamo certe cose, e questo convegno, questa tavola rotonda, come l’ha chiamata Alessandro, vuole partire proprio dal cosmo. Prima c’era Elena che sorrideva, Elena si occupa dello studio del cosmo e, su questo libro, si occupa dell’ordine dell’universo, perché siamo partiti da lì, facendo questo libro, dal capitolo 10 di un testo di don Giussani, Il senso religioso, dove lui partiva dalla scoperta del cosmo, dalla scoperta di questa esistenza che è una grande certezza, dall’esperienza che è una grande certezza. Siamo venuti qui per farvi vedere che cos’è la vita del Club di Papillon durante un anno, è come questa tavola rotonda, dove ci siamo detti delle cose, ma non a caso, perché quest’incontro nasce da un’amicizia simpatica e da silenzi tra me e Alessandro Meluzzi. Perché quando si va a trovare Alessandro Meluzzi a casa sua, dove c’è l’Abbazia di Vezzolano, bisogna stare in silenzio, anche nel freddo invernale in cui abbiamo celebrato le messe, le ultime due volte, si sta in silenzio, ma quante cose ci comunichiamo nel silenzio!.
Perché, quando parliamo del cibo e del vino, lo diceva prima Luca, questo è un grido di partecipazione alla vita, far da mangiare per un altro, scegliere una bottiglia di vino per uno che viene con me, vuol dire che ti chiamo a partecipare alla vita. Io faccio un giornale che si chiama La Circolare. Bruno Lauzi, che era uno dei nostri soci onorari, diceva: è bella La Circolare, perché fa circolare le idee, perché è un luogo dove circolano dei pensieri. E sulla Circolare io scrivo tutto della mia vita, anche professionale, perché chi partecipa con me ad un’avventura come il Club di Papillon, deve sapere con chi fa questo cammino. Quest’anno mi è arrivata una lettera da una amica, si chiama Nicoletta Bertolone, vive a Roma. In questa lettera dice: “Paolo, ti scrivo per dirti che il cibo deve essere molto buono perché così siamo più certi di un bene”. La stessa cosa, richiamandomi a Luca e ad Alessandro, che diceva Santa Ildegarda Von Bingen nell’anno 1000: “Tutto ciò che noi possiamo toccare con il gusto, esiste perché Lui l’ha ritenuto in qualche modo indispensabile per l’uomo”. E poi comincia a declinare i tanti motivi per cui Lui ha ritenuto indispensabile per l’uomo il gusto: la paura, la prudenza, ecc. Allora cade questo problema, parlare del cibo e del vino in un momento di crisi: noi parliamo di una cosa che c’è, che non è per ricchi o per poveri, ma c’è per dirci qualcosa, perché è la cifra di qualcosa che ci appartiene, che ci ridice di un’origine, che ci ridice il titolo del Meeting di quest’anno, che l’esperienza, l’esistenza è una enorme certezza, e la certezza tu la ritrovi in questo grande ”pacco dono“ come lo chiama l’ amico giornalista americano che Luca ed io abbiamo conosciuto al Meeting, questo grande pacco dono che è l’esistenza.
Il Club di Papillon è questa cosa, sono questi rapporti, sono i silenzi tra me e Luca Doninelli. Da 30 anni che ci conosciamo, nelle osterie, a volte non parliamo ma guardiamo la vita scorrere attorno a noi, abbiamo anche scritto insieme delle cose e lui ha scritto tante cose per me.
Quest’anno, in questo libro, ci sono cose di venti persone, Gabriele Crescioli, Ghibetti, Maurizio Lega, Marco Gatti: ognuno ci ha messo la sua passione per raccontare come può essere bella la vita tutti i giorni, adesso, dentro la propria casa, venti persone di generazioni diverse. Luca ha scritto quello che dicevi tu, Alessandro, i dodici testi, uno per mese, indispensabili, che bisognerebbe avere in casa. Mi ha fatto un regalo e io volevo sdebitarmi. Gli ho detto: Luca, come posso sdebitarmi? E lui: sì, lo puoi fare, mi inviti una sera a cena con te. Se uno invita uno scrittore a cena, allora sceglie il più grande ristorante di Milano. E io ho scelto il più grande ristorante di Milano che è una trattoria, molto spoglia, la trattoria dove c’è il Monsignore, questo personaggio dal portamento sontuoso. Io e Luca siamo stati dal Monsignore che ha aperto solo per noi, quella sera, perché aveva problemi di salute. Quando ha scoperto che aveva una grave malattia, Monsignore si è messo il vestito a festa, ha preso il bastone ed è venuto al Golosario, dove c’eravamo io e Marco, senza dire una parola. La sua presenza era per dire: questa è casa mia, il rapporto con voi è casa mia. Quella sera ci ha aperto l’osteria, e io e Luca non abbiamo parlato tanto, avevamo tantissime cose da dirci, stava uscendo il suo libro, me lo voleva raccontare, però siamo stati davanti al Monsignore. Ti ricordi? Quando siamo usciti, abbiamo parlato in macchina mentre tornavamo a casa. Cos’è l’ascolto del cibo, il desiderio del vino? E’ appunto un uomo così, che ti trasmette una passione antica che ha condiviso con Giovanni Brera, con altri, portandoci il sapere e il servizio di popoli: l’ascolto del cibo e il desiderio del vino è un rapporto. A me e a Luca non interessa, ci arrabbiamo quando uno ci dice: ho assaggiato quel vino là, quest’estate. Non me ne frega niente, a me interessa il vino che posso assaggiare con te, di cui posso fare esperienza con te, il pane che posso dividere con te, il silenzio o le parole, la partecipazione alla vita che posso vivere con te. Questa è l’esperienza che vogliamo portare con questo libro, perché abbiamo scoperto che si è rotto un filo tra generazioni, sono scomparsi dei saperi che sono fondamentali, perché attorno a questi saperi, alla voglia di portare la bellezza ogni mattina, come diceva Lucio, nella nostra vita, nelle nostre case, nei nostri rapporti, c’è la possibilità di ripartire. Allora, anche questo è un luogo di dialogo tutto l’anno, come lo è la nostra attività, come lo è stato questo incontro, come lo è il Meeting stesso. Quindi sono più certo, in un momento di preoccupazione e di crisi, che si deve andare avanti, che dobbiamo tenerci insieme, proprio per dirci queste cose. Grazie per avermi ascolta

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

21 Agosto 2011

Ora

19:00

Edizione

2011

Luogo

Sala Mimosa B6
Categoria
Focus