UN CAFFÈ CON…NON PROFIT E FINANZA

Partecipano: Riccardo Bonacina, Presidente e Direttore Editoriale di Vita Non Profit; Ivan Soncini, AD CCPL Gruppo Industriale Cooperativo. Introduce Gianluigi Da Rold, Giornalista.

 

GIANLUIGI DA ROLD:
In questi giorni abbiamo cercato di esaminare i problemi della crisi, della finanza: abbiamo parlato con banchieri, finanzieri, professori universitari, e non abbiamo parlato benissimo della finanza. Oggi abbiamo una realtà particolare, che può essere aiutata da quella che si chiama la “finanza buona”, cioè una finanza veramente utile allo sviluppo di alcune realtà di imprese e di aziende. Qui c’è Riccardo Bonacina, che è Presidente di Vita, settimanale che parla diffusamente della realtà non profit; poi c’è Ivan Soncini, Vicepresidente e amministratore delegato della CCPL, Cooperativa che riguarda il lavoro, che ha una storia antica, che ovviamente ha avuto una sua trasformazione storica in questi anni. Per aprire la discussione, chiediamo che cosa è avvenuto perché proprio Vita, settimanale, ripeto, che tratta una realtà molto particolare e molto speciale, abbia deciso di quotarsi in Borsa, cioè di entrare nel listino con una sua valutazione e quotazione, in un periodo particolare, in un periodo doppiamente di crisi per quanto riguarda tutta l’editoria, che sta per essere cambiata, modificata completamente. C’è chi scommette che fra cinque anni i giornali non ci saranno neanche più, o che comunque ci saranno forme diverse di informazione. A quotarla, ci pensa Ivan Soncini con la sua realtà, una storia antica e mobilissima che presta attenzione a una realtà come Vita. Allora, io comincerei a dare la parola a Riccardo Bonacina, perché ci spieghi questa scelta, ci spieghi anche il futuro e gli obiettivi di Vita, che rimane secondo me una parte insostituibile di informazione per un certo mondo. Mi permetto di aggiungere una cosa: il non profit, figura di impresa che non vuole profitti e investimenti, ha la sua culla di nascita naturale in Italia e si è sviluppato in tutto il mondo. Ora, Riccardo, spiegaci un po’ questa scelta, che sembra anche azzardata. L’aspetto che mi incuriosisce è capire come, in questo momento, una realtà come tu racconti vada a finire con la finanza.

RICCARDO BONACINA:
Sì, quando rompo, mi interrompi e mi fai domande.

GIANLUIGI DA ROLD:
Non ti preoccupare.

RICCARDO BONACINA:
Due cose su che cos’è Vita. Nasce come un settimanale, quindici anni fa, dal desiderio di un gruppo di giornalisti di fare in maniera un po’ meno scema il lavoro di giornalista. E nasce da un gruppo di associazioni non profit che pensavano che per avere voce nel dibattito culturale e politico un giornale fosse una cosa utile. Il giornale è una voce, dà voce a delle realtà. Quindi, nasce così: giornalisti e associazioni. Non ha un editore, è una public company: noi oggi siamo 44 soci, la maggioranza dei soci sono le associazioni non profit che controllano il 50%, quasi il 51% del nostro capitale sociale. Siamo una Spa, una società per azioni, anche se abbiamo uno statuto particolare. La Legge dell’editoria permetteva questo tipo di società per prendere i finanziamenti pubblici, cosa che noi non abbiamo mai fatto perché pensiamo che l’indipendenza non è sovvenzionabile dallo Stato, a differenza di tanti giornali che fanno battaglie di libertà finanziate dallo Stato.
In questi anni, questo gruppo editoriale è cresciuto: accanto alla produzione editoriale che è settimanale, c’è un sito, c’è un mensile che si chiama Communitas, ci sono strumenti editoriali vari, libri ed è nata una società di consulenze che si chiama, con molta originalità – siamo single brandVita Consulting, e una società di servizi web che si chiama, naturalmente, Vita Web Srl. Vita è una società che arriva a 4 milioni di euro di fatturato. Quindi, insomma, abbiamo 15 anni di storia e la cosa sorprendente, in questi anni, è questa formula di un editoriale senza padroni ma controllata da tanti soggetti, un giornale diverso dagli altri. Ho visto l’altro giorno che Calabresi, il direttore de La Stampa, ha detto una cosa importante: “I giornali dovrebbero innanzitutto raccontare la realtà”. Questo è il nostro slogan. Noi diciamo che lo slogan di Vita è: “La realtà, innanzitutto”. Quindi, ci schiariamo dalla parte della realtà, raccontando i problemi, interloquendo con la politica, con gli intellettuali, ma partendo dai problemi, non da scelte ideologiche e pregiudiziali di campo.
Ecco, questa realtà negli anni e in maniera sorprendente, anche come meccanismi editoriali, è cresciuta, nel senso che ci sono una cinquantina di persone che ci lavorano, tra giornalisti, consulenti, amministrazione, chi raccoglie la pubblicità, e ci siamo chiesti se potevamo fare di più. L’anno scorso, quindi, abbiamo affrontato una crisi che, come diceva Gianluigi Da Rold prima, è una doppia crisi nel nostro settore: è la crisi congiunturale globale, Rcs, Mondatori, Mediaset, tutti i grandi gruppi hanno finito l’anno con un meno 20, 30% di fatturato, perché cala la pubblicità, cadono le copie vendute, la gente legge meno, si informa in altri modi. Dentro una doppia crisi, noi, vedendo che non siamo calati, che tenevamo botta, cercando di capire anche le ragioni di questo tenere botta, abbiamo detto: “Forse possiamo fare qualcosa di più”. Fare qualcosa di più, sia per noi, per chi lavora con noi, che per le realtà che raccontiamo, ma soprattutto per dare più forza alle istanze che tutto il nostro lavoro esprime, che sono quelle di chi ogni giorno nella società si tira su le maniche e tenta di rispondere ai bisogni, mette su le cooperative, fa le associazioni.
Un signore prima ha detto che ha fondato una nuova Croce a Milano, che si chiama Croce Padre Kolbe. Tutta questa gente che dice: devo fare qualcosa di fronte ai problemi, invece di pensare solo a portare a casa lo stipendio e a vedere la tv la sera! Allora pensavamo che, anche da parte nostra, tutto questo meritasse uno sforzo ulteriore. Quindi, dentro la crisi, rilanciando anche l’idealità che è all’origine di Vita, perché ha un origine ideale, abbiamo detto: “Vogliamo fare in maniera migliore il nostro mestiere”. Avevamo bisogno di un rilancio, di una rifondazione, quindi ci siamo disegnati un piano industriale come si fa nelle aziende serie, un piano industriale triennale in cui abbiamo disegnato lo sviluppo. Abbiamo pensato che entro fine ottobre arriveremo con il nuovo settimanale completamente ridisegnato, con più pagine, abbiamo cambiato il management, abbiamo preso gente che arriva da altri mondi e con competenze che riguardano la comunicazione, il web, per crescere e dare più forza alla nostra storia e alle istanze che rappresentiamo. Avevamo bisogno di soldi.

GIANLUIGI DA ROLD:
Quello è normale.

RICCARDO BONACINA:
Quello è normale. Avevamo bisogno di soldi per finanziare questo piano di crescita e abbiamo lavorato intorno a questa idea che, come diceva Gianluigi, è anche una pazza idea, cioè quella di andare a quotarsi sul segmento delle piccole e medie imprese. É stato un percorso anche complicato, siamo alla fine e dovremmo quotarci entro fine settembre. Perché lo abbiamo fatto, in buona sostanza? Perché pensiamo che uno degli assetti fondamentali della nostra azienda sia l’indipendenza. Noi potevamo andare da due banchieri, come quelli che sono passati al Meeting di Rimini, e dire: “Abbiamo bisogno di un fido, di un mutuo, di 2 milioni, 3 milioni di euro”. Però avremmo dovuto dire in maniera troppo particolare grazie a qualcuno. Saremmo dipesi da una, due persone che ci davano questa possibilità. Allora abbiamo pensato – poiché ritengo che l’indipendenza sia uno dei segreti imprenditoriali del gruppo Vita – che potevamo rivolgerci ad una platea vasta di investitori possibili, come le Fondazioni ex bancarie, i family office, le famiglie che hanno investimenti da fare, alcune banche di origine cooperativa come il Credito Cooperativo, eccetera. Volevamo vedere se questo piano a loro piaceva, un piano che si proponeva di rafforzare il racconto, oltre che del non profit, delle realtà cooperative, un’economia non speculativa, un’economia reale. Quindi, il mercato ci è sembrato una buona idea: andiamo a proporci sulla Piazza degli Affari, con le nostre facce, con la nostra storia, con il nostro progetto industriale. Questo è il primo motivo.
Il secondo motivo è che, per andare in Borsa – uno si chiede anche come cavolo succedano questi disastri, per cui in un giorno scompaiono 300, 800 miliardi di euro, così – hai un percorso di trasparenza molto complicato, insomma l’azienda è stata controllata. Questo a noi piaceva, perché abbiamo una storia in cui la trasparenza è uno dei nostri assetti fondamentali. Ma una cosa così stressa. Vengono in casa decine e decine di persone a rivoltarci tutto, a vedere se siamo a posto. La terza cosa, alla fine, che mi diverte di più, che ci diverte di più, è quella che è scritta su questo numero di Vita – ho cercato di fare un diario, per chi lo vuole – è la sfida culturale. O questa finanza rimane una cosa che ci passa sopra la testa, è un flusso che non intercettiamo mai, che si gioca una casta di qualche migliaio di persone al computer, con sistemi che sono i più veloci possibili per comprare e spostare soldi o beni – perché fanno anche la quotazione della salsiccia o del petrolio, del caffè o del cacao, mettendo in crisi interi continenti -, oppure andiamo e cerchiamo di intercettare questo flusso portandolo giù, cercando di portarlo su esperienze imprenditoriali reali.
Questa è la prima scommessa: la seconda è affermare che chi investe in questa nostra impresa non avrà i dividendi, perché abbiamo la presunzione di essere una Spa con questa caratteristica. Quindi, aumenterà il valore del titolo, si potrà scambiare, se aumenta lo si venderà, c’è un ricavo ma l’investitore non avrà il dividendo e quindi, il valore economico che noi prospettiamo nel piano industriale tende a coincidere con la crescita del valore sociale, che sta nei geni della nostra impresa. Non so se è chiaro.

GIANLUIGI DA ROLD:
Chiarissimo. Volevo chiedere a Soncini di raccontare la sua realtà, che è imponente: lo accennava prima Bonacina, fa un miliardo di euro di fatturato e parte 105 anni fa. È più o meno il percorso della Fiat, con altre condizioni. Questa è la storia. Quindi, gli chiederei di darci due notizie riassuntive di questa realtà. Dopo di che, siccome so che voi curate l’entrata in borsa di Vita, quello che mi viene spontaneo chiedere è perché, in un momento come questo, che non è uno dei momenti di euforia sfrenata per l’economia, fate questo percorso?

IVAN SONCINI:
Innanzitutto, buongiorno. Che cos’è CCPL? CCPL è un’azienda nata nel 1904 per volontà di un gruppo di cooperative reggiane che allora non avevano le condizioni per stare in modo competitivo, separatamente, sul mercato delle costruzioni. Trovarono, così, come modalità più adeguata quella di associarsi. In sostanza, trovarono il modo, senza perdere ognuna la propria identità, di avere una dimensione unitaria che rendesse sinergiche le loro capacità tecniche, economiche e finanziarie. Nel tempo, ovviamente, è cambiata profondamente. Oggi non siamo più un consorzio, perché nel tempo le nostre cooperative socie sono diventate a loro volta delle grandi imprese. Faccio alcuni nomi: Coopset, Unieco, CLB, Cese: grandi cooperative di costruzione italiana che non hanno più necessità che qualcuno svolga un lavoro di intermediazione rispetto al mercato, ma partono dal presupposto che dispongono delle capacità necessarie. Questo ci ha imposto, con la fine degli anni ’80, ’90, di ripensare al futuro strategico del gruppo CCPL: una serie di circostanze favorevoli, legate anche alla storia dell’azienda che aveva già cominciato a muoversi in campo industriale, ci ha portato a decidere di divenire un gruppo industriale. Oggi CCPL opera nel campo dell’imballaggio per alimenti, con un’azienda che fattura grosso modo 110 milioni di euro, occupa circa 600, 700 persone, di cui più del 50% vivono e lavorano in altri Paesi europei, in Spagna, in Slovacchia, in Francia, per esempio, perché opera in tutto il mercato europeo.
Per capirci, facciamo quelle vaschette di plastica dove al supermercato troviamo la carne. Continuiamo ad avere attività collaterali al mondo delle costruzioni, lavorazione degli inerti e cose di questo genere. Abbiamo una grande azienda di distribuzione di prodotti petroliferi, circa 100 distributori stradali e grosso modo un 400, 500mila tonnellate di prodotto. Siamo soci di una grande realtà del Movimento Cooperativo italiano, Obiettivo lavoro, che è una grande agenzia del lavoro italiana. Abbiamo una società di management che grosso modo ha un volume di attività di 100, 110 milioni di euro. Insomma, dopo la crisi del 2008, abbiamo ridimensionato il nostro volume complessivo di attività da circa un miliardo e trecento milioni a un miliardo di volume di attività, occupando complessivamente oltre 2000 persone. Ci sono anche delle attività finanziarie, una di queste è la partecipazione consistente nel gruppo Unipol, UGF Unipol, anche se io preferisco il nome Unipol perché è più significativo. Gli acronimi mi danno un po’ fastidio, nonostante apprezzi moltissimo quello dell’azienda di cui faccio parte. In qualità di Vice Presidente di Unipol Merchant, UGF Merchant, affermo che collaboriamo a questo progetto assolutamente innovativo e, direi, di grande valore.
Fino ad ora abbiamo ragionato più dal punto di vista tecnico che da quello del messaggio culturale, politico e morale che la quotazione di Vita può rappresentare. E la ragione è abbastanza semplice. Quotare Vita, un’azienda non profit, è un salto logico per il sistema della Borsa italiana che, sapete, è anche legata a quella di Londra. È vero che la quotiamo in un segmento, quello dell’EIM, che ha delle caratteristiche diverse rispetto ad altri, ma pur sempre si tratta di quotazione. Si tratta, cioè, di andare a chiedere a un investitore privato, anche singolo, non solo istituzionale – anche se in questo caso gli istituzionali saranno prevalenti – di investire il proprio danaro prescindendo dall’attesa di reddito, confidando nella tenuta del valore dell’operazione e eventualmente – come diceva Bonacina – confidando in un eventuale incremento del valore. Chiunque farà investimento in questo, non penserà di aver fatto un investimento speculativo, non penserà di aver investito i suoi danari per ottenere un ritorno a breve dal punto di vista economico e finanziario.
Dovrà essere convinto della qualità e del valore del progetto che sta alla base di una società e di un’azienda come Vita. Io credo che la scommessa, giustamente, non sia solo di carattere finanziario ma di carattere culturale e politico. Come Vita, noi siamo convinti che nel nostro Paese non ci siano solo individui che hanno una smania atroce di moltiplicare i propri danari. Ci sono un sacco di persone, e riteniamo siano la maggior parte, che hanno il desiderio profondo di misurarsi con la propria vita, quella dei propri familiari, quella dei propri amici, quella del contesto e delle comunità in cui vivono, per collaborare a conservare una qualità della vita e dei livelli di convivenza tali da rendere l’esistenza interessante, positiva, anche gradevole.
Un guadagno straordinario, nel senso che ciò che guadagna è la nostra comunità, la nostra capacità di interpretare il presente e il futuro. E questo credo sia un valore che troppo spesso sottovalutiamo, presi dalla urgenza che a volte non è eliminabile. Chiunque gestisca un’azienda, chiunque gestisca una famiglia, sa che non esiste solo la possibilità di pensare strategicamente, esiste inevitabilmente anche il pensare al breve termine. Però ritengo che non ci si possa ridurre a quella dimensione. La capacità di pensare strategicamente è quella che permette a me di governare un gruppo straordinario come CCPL e di darne merito a chi lo ha fatto. Io forse ho concorso negli ultimi dieci anni a migliorarlo, facendo anche qualche errore, ma sono partito da un bel punto di partenza di persone che avevano saputo pensare strategicamente, che non si erano fatti, come dire, trascinare da una valutazione di breve termine, legata al puro risultato economico immediato. Per l’amor di Dio, chiunque gestisce un’impresa è consapevole che l’equilibrio dei fattori economici e finanziari che connota un’attività imprenditoriale, un’attività economica, non può essere sottovalutato, perché altrimenti si sottopone ad un rischio non solo l’impresa in quanto tale e i suoi capitali, ma il lavoro di chi vive dentro l’impresa e la costruisce tutti i giorni.
Ma proprio per questo bisogna saper pensare strategicamente. Uso un linguaggio che è più tipico dell’uomo di impresa, perché sono tale, e non di chi è capace, come Vita, di fare dei ragionamenti culturali, sociali, filosofici e sociologici, però la sostanza è la medesima. Imprese cooperative che sanno, con senno, con buon senso, costruire valore, sono anche quelle imprese che in situazioni di difficoltà economica, come quella che stiamo vivendo da alcuni anni, hanno saputo non spaventarsi di fronte alle difficoltà, hanno saputo impiegare i propri mezzi, i propri capitali, per difendere il proprio patrimonio finanziario ed economico e le persone che fanno parte di quell’azienda, che sono il vero patrimonio. Qui vedo gli amici di Obiettivo lavoro: hanno avuto l’intelligenza, a differenza di molte altre agenzie del lavoro – mi si consenta questo atto di pubblicità interna – di non mettere in discussione il rapporto di lavoro con le persone, di non licenziare, hanno fatto dei sacrifici, hanno ridotto la quantità di tempo di lavoro, hanno usato i contratti di solidarietà, ma hanno difeso le professionalità di Obiettivo lavoro, hanno difeso la continuità del rapporto di lavoro, non hanno lasciato nessuno di fronte allo spettro della mancanza di un futuro di lavoro, e questa è una cosa fondamentale.
Quando una persona non sa che parte prendere perché non ha il lavoro, non ha un reddito per poter far funzionare anche al minino la propria famiglia, credo che entri in difficoltà straordinarie e gruppi come il nostro non possono possedere centinaia di milioni di euro di patrimonio e mettere le persone in questa difficoltà. Questa scelta l’abbiamo fatta esplicitamente. Quando era possibile accompagnare nei processi di ristrutturazione i nostri collaboratori a un’altra forma di reddito, l’abbiamo fatto, perché avevamo bisogno di recuperare efficienza e capacità di competenza. Quando questo non era possibile, abbiamo deciso di perdere soldi. Nel gruppo che vi ho descritto molto rapidamente, noi abbiamo settori di attività che negli ultimi tre anni sono riusciti a costruirci perdite per dieci milioni di euro. Avremmo potuto tranquillamente vendere l’azienda, chiuderla, e avremmo forse risparmiato un po’ di questi dieci milioni di euro. Sarebbe stata una follia dal nostro punto di vista, anche perché noi non facciamo gli imprenditori e non siamo imprese fatte solo per accumulare un qualche milione in più. Siamo nati per organizzare il lavoro e dare al lavoro la capacità di essere libero e indipendente, così come oggi fa Vita in una dimensione molto più complessa e sofisticata qual è quella dell’informazione. Mi fermo perché altrimenti starei qui altri 15 giorni.

GIANLUIGI DA ROLD:
Io volevo fare solamente una domanda a testa, breve: se mi date una risposta breve, poi lasciamo al pubblico la possibilità di intervenire. La domanda per Riccardo è molto semplice, l’ho accennata io, l’hai ripetuta tu: la crisi dell’editoria. Su un segmento così particolare, anche se molto interessante, in espansione e corrispondente alle esigenze del pubblico, che tipo di giornale vuoi fare? Nel senso che ormai tutti ci sprechiamo benissimo, raccontiamo la realtà, per esempio, è circa un mese che siamo terrorizzati dalla famiglia Tulliani, ma non si riesce a capire niente. Ecco, che tipo di identità vuoi dare a questo giornale, vedendo anche che cos’è il futuro del giornalismo? È una domanda che ti faccio, proprio un interrogativo, perché me lo chiedo anch’io tutti i giorni.

RICCARDO BONACINA:
È una domanda dalle mille pistole. Diciamo, intanto, che, in questa doppia crisi, abbiamo visto che come azienda e giornale abbiamo tenuto. Il fatto che Vita non abbia perso copie dà un’indicazione. È un giornale di nicchia utile a un pubblico determinato, cioè chi lavora nel terzo settore, nel mondo cooperativo, i manager che nelle imprese si occupano di responsabilità sociale e della burocrazia del welfare, che è un tema fondamentale perché sapete che siamo in una fase di grande cambiamento. Non è un giornale generalista, non pensiamo di arrivare a vendere né 100mila copie né 1 milione di copie. Quando noi vendiamo 30 o 40mila copie, siamo soddisfatti.

GIANLUIGI DA ROLD:
È il tuo break even point.

RICCARDO BONACINA:
È il mio break even, perché andiamo comunque sul tavolo dei decisori, dei responsabili, di chi prende le scelte, nel mondo politico, imprenditoriale, nel terzo settore, sui temi di cui stiamo ragionando. Questo è ciò che vogliamo. Che giornale vogliamo fare? Un giornale che dia tutta la strumentazione al nostro pubblico per attivarsi, per sapere le leggi, per cambiarle. Ieri, per esempio, l’Intergruppo per la Sussidiarietà ha dato la notizia che è tornata in sede legislativa la Legge del 5 per mille: è il giornale che rompe i coglioni – si può dire – ogni settimana. Abbiamo fatto fare la campagna in questo numero con una doppia pagina: “Signor Tremonti, cosa aspetti a fare questa legge, per cui ogni anno si è appesi alle Finanziarie?”. È il giornale che serve a questo. I nostri lettori lo sanno, lo usano e vogliamo allargare il pubblico. Vogliamo darci più pagine per fare i ragionamenti anche culturali e strategici con più fiato, e usare le altre leve, che sono quelle delle consulenze per la progettualità della responsabilità sociale e del welfare, e usare il web per diffondere le nostre notizie il più possibile. Nel web abbiamo quasi 300mila utenti unici al giorno: è anche una platea molto più ampia del giornale. Per l’editoria, che si deve fare? Si deve cambiare la testa degli editori e dei giornalisti, perché finché i giornalisti restano una casta superprotetta e senza il minimo di spirito imprenditoriale, sarà difficile che i giornali vadano bene. Finché gli editori sono al servizio di poteri che si fanno guerra tra di loro, sentiremo parlare della Tulliani. Noi, grazie a Dio, possiamo fare quello che vogliamo. Cerchiamo di raccontare la realtà.

GIANLUIGI DA ROLD:
Invece Soncini, la domanda per te era scontata: sei al centro di un gruppo che non può non osservare la situazione della crisi, oggi in Italia, parli da un osservatorio che riguarda diversi settori. Quindi, è una domanda che mi viene scontata, vorrei sapere una tua opinione sull’andamento di questa crisi: se gli indicatori siano effettivamente in controtendenza o siano ugualmente bassi, se ci siano dei settori di ripresa o no. Per esempio, parlavo tempo fa con alcuni di Obiettivo lavoro: mi dicevano che uno dei sintomi tipici della crisi è il lavoro, si vede subito, lo si registra immediatamente, insomma. Riguardo a questo mi interessava la tua opinione.

IVAN SONCINI:
Diciamo che, così come chiunque abbia fatto delle profezie sugli andamenti economici è stato smentito dalla realtà, sono prudente nel fare dei ragionamenti, anche se alcuni vanno fatti. È vero che Obiettivo lavoro è molto sensibile, è un osservatorio che consente di leggere alcuni comportamenti di settori industriali, o del mondo dei servizi, riguardo a problematiche della ripresa o del recupero. La percezione che abbiamo avuto è che sia cresciuto di nuovo un po’ il lavoro interinale, ma che si sia accorciata la durata dei contratti. Il che significa che siamo in una situazione in cui molti imprenditori stanno provando a reagire alla situazione di crisi con idee, proposte, investimenti, ma lo fanno con il freno a mano tirato, cioè con il timore che le tendenze verso cui si vanno rivolgendo non siano sempre sufficientemente stabili. Credo però anche che ci siano settori che più di altri stanno soffrendo, come quello delle costruzioni, che avrà la possibilità di reagire solo se vi saranno grandi investimenti in opere strutturali, infrastrutturali, comunque indispensabili e necessarie a questo Paese, che sta vivendo anche problematiche di produttività che non derivano semplicemente dalla mancanza di accordi fra le parti, più o meno adeguati, ma anche dalla profonda inadeguatezza di tante sovrastrutture e infrastrutture, dovute ad esempio al fatto che la giustizia civile ha dei livelli di inefficienza assolutamente drammatici.
A differenza dei Paesi vicini, come la Francia, dove i crediti sono recuperabili in poco più di sessanta giorni, noi siamo in un punto in cui molte delle nostre imprese, sia rispetto allo Stato che rispetto ad interlocutori privati, si devono esporre quasi fossero delle banche, in un modo assolutamente assurdo e sbagliato. Questo è un Paese che avrebbe bisogno non solo di imprenditori coraggiosi, capaci di fare i conti con le proprie problematiche imprenditoriali, ma di una classe dirigente che sapesse essere tale, perché il Paese non può uscire in un modo adeguato da una situazione complessa come questa, solo attraverso la capacità individuale o di gruppo degli imprenditori. Ha bisogno necessariamente di un quadro di riferimento che agevoli questo processo, sia per quanto riguarda il mercato interno, ma soprattutto per quanto riguarda il sistema di relazioni internazionali che normalmente aiutano le attività di export delle nostre imprese. Per il nostro Paese, l’export è critico, è cruciale, è strategico. Però credo che l’importante sia il messaggio che ho ascoltato e ho letto in molta della documentazione che ho potuto vedere relativa al Meeting, e anche in quella splendida mostra che abbiamo al nostro fianco: non si può vivere la crisi con rassegnazione, ma anzi la crisi, pur essendo spesso portatrice anche di difficoltà, consente di avere delle opportunità. Io credo che nelle nostre aziende, nelle nostre business unit, si stia ragionando in modo strategico, addirittura pensando di crescere. Nonostante siamo in presenza di mercati che ci danno segnali contraddittori, aziende come le nostre decidono di investire, non portano i loro danari, i loro capitali da un’altra parte, li investono perché questo è il loro mestiere. E’ il vantaggio di strutture cooperative, l’unico scopo che hanno è investire quello che guadagnano. Non si può essere assolutamente trasformati in nessun altro modo.

GIANLUIGI DA ROLD:
Grazie. Adesso, abbiamo un quarto d’ora ancora di tempo: se c’è qualcuno che vuole porre delle domande a Bonacina o a Soncini, questo è il momento. Prego.

DOMANDA:
Volevo fare una domanda a Riccardo Bonacina. Nel percorso di avvicinamento alla quotazione in Borsa, quali sono state le maggiori obiezioni che ti sono arrivate, sia da parte interna, cioè da chi si riconosce nella testata, nel gruppo, sia da parte esterna, da chi continua a guardare il mondo non profit senza conoscerlo, e fa la classica obiezione di non mischiare il denaro con chi fa solo il volontariato? Ci sono state delle obiezioni sulla vostra quotazione? E lo stesso a Ivan Soncini: quali sono state le obiezioni del mondo produttivo rispetto a questa operazione di cui lui è forte sostenitore? Grazie.

RICCARDO BONACINA:
Dal punto di vista esterno, soprattutto l’interlocutore Borsa italiana, che tra l’altro è un’azienda che va malissimo, stiamo meglio noi di Vita.

GIANLUIGI DA ROLD:
Messaggio di ottimismo eccezionale.

RICCARDO BONACINA:
Questo mondo della finanza è così: arrivi in Piazza Affari a Milano – se qualcuno è di Milano, passateci, sembra il cimitero -, entri in piazza, nel Palazzo Mezzanotte, c’è da fare gli scongiuri, non c’è più nessuno. L’affittano per i convegni, vai dall’Amministratore Delegato di Borsa Italiana, ti mettono nella sala d’aspetto ma non funziona la luce. Ho pensato che a Vita, se una lampadina è rotta, nel giro di due minuti, con due colleghi, riusciamo a cambiarla. Voglio dire, è un momento di crisi. Allora, diciamo che, dal punto di vista di Borsa Italiana, l’obiezione vera è stata quella di capire che tipo di offerta faceva una Società per Azioni che non distribuisce dividendi all’investitore istituzionale piuttosto che privato. Devo dire che ho trovato, da parte del mondo anche accademico, come Fiorentini, Zamagni, Marco Vitale, dieci spinte. Quando io ero depresso, questi insistevano per farlo, perché Borsa doveva capire che era un’opportunità per loro, prima ancora che per noi.
Dal punto di vista dell’offerta, offriamo un titolo che, sul lungo termine, costruisce un valore economico solido. Chi più, chi meno, siamo stati toccati dai guai della Borsa, in questi anni. Per cui, che ci sia un titolo che vuole fare scommettere sulla crescita economica della nostra impresa per averne beneficio, e in più, come diceva Soncini, magari aiuta a fare delle grandi battaglie civili e a far levare la voce di chi, in questo Paese, non specula e non trama, ma costruisce, e ha uno sguardo positivo sulla realtà, offre una risposta alla domanda dei risparmiatori. C’è molta più domanda oggi di dieci anni fa. Io non so cosa ne fate dei vostri risparmi, però, o ci accontenta degli interessi bancari o si devono incrociare le dita, sperare che l’investimento vada bene.
Borsa si è a tal punto convinta che oggi – dopo sei mesi di battaglie durissime, di dibattito anche feroce, il nuovo Amministratore Delegato di Borsa Italiana ci ha convocato per dirci che sperava che noi fossimo i primi, la prima impresa del nostro tipo a creare un segmento in Borsa Italiana di imprese e di titoli simili alle nostre. Quindi, diciamo, la sfida culturale in qualche modo è già passata, nel senso che abbiamo dimostrato che si può creare dentro Borsa, cioè nel cuore della finanza, che è un flusso sopra le nostre teste, qualcosa di nuovo. Siamo degli sfondatori, siamo sempre stati degli sfondatori, e anche in questo caso sfondiamo una porta.
Dal punto di vista del non profit, non ho avuto tante obiezioni. Magari chiedevano perché, se siamo sicuri, se siamo pazzi, se è proprio necessario, se non si può fare altrimenti. Però è stata una resistenza debole, nel senso che poi tutti hanno capito quelle tre cose che dicevo: indipendenza, trasparenza e sfida culturale come una sfida di settore, per far vedere che per una volta il non profit, o ciò che rappresenta il non profit, va dal banchiere e gli chiede di investire su di noi perché ne avrà dei guadagni. Questo è diverso dalla logica dell’elargizione: siamo andati a chiedere di investire su una scommessa imprenditoriale. Quindi poi, anche nel non profit, è stato capito. Dal punto di vista interno, anche, perché abbiamo rifatto un Consiglio d’Amministrazione, mettendo dentro personaggi di peso come il Presidente del Collegio Sindacale Sergio Pivato, che è un nome a garanzia anche degli investitori. E’ entrato Andrea Agnelli prima che diventasse Presidente della Juventus, Aldo Bonomi, che è un sociologo, Vincenzo Manes, che è un imprenditore. Abbiamo cambiato la governance e il management, è venuto da noi un nuovo Amministratore Delegato, è arrivato il Direttore Marketing di Last Minute Italia, a fare il responsabile del nostro sito.
E’ stato molto bello, perché è gente che viene da noi, accettando di prendere la metà di quanto prendeva prima, perché capisce che c’è una grande motivazione, una sfida nuova, e si rimette in gioco. Per esempio, Studio Pedersoli, che al GF ha risolto molti problemi ma ha messo parcelle molto alte, su Vita ha lavorato pro bono, perché il nostro essere Società per Azioni senza dividendi l’aveva intrigato. È stato un movimento di rimessa in gioco interno ed esterno. Speriamo che continui, insomma.

IVAN SONCINI:
Se mi è permessa solo un’annotazione: la domanda è molto pertinente, e mi permetto in modo sintetico di parlare di due aspetti. Oggi le organizzazioni non profit sono di fronte, in molti casi, ad un interrogativo. Non possono fare i conti solo con i loro mezzi perché sono insufficienti, e devono decidere se continuare in una sorta di questua o se diventare impresa. Io questo ve lo dico in funzione di un’esperienza che ho fatto personalmente, nella nostra città, a Reggio Emilia, assieme agli altri miei amici delle altre grandi cooperative, undici anni fa: nel 2000, abbiamo dato vita ad una cooperativa che ha il solo compito di fare solidarietà internazionale e promozione culturale e sociale a livello locale e internazionale. Dopo i primi due anni, ci siamo resi conto di un problema gravissimo: tutti i giorni dovevamo andare a chiedere soldi a qualcuno e diventavamo matti perché c’erano mille ragioni per non darcene: uno ha una difficoltà, quell’altro ne ha delle altre. Abbiamo fatto un’operazione semplicissima: abbiamo investito 15 milioni di euro in quella cooperativa. Di fatto, sono segregati per fare della solidarietà internazionale, e questa cooperativa costruisce i propri mezzi di sostentamento gestendo imprenditorialmente quei 15 milioni di euro, in modo equilibrato. Però la continuità è assicurata, perché ha i mezzi per poterlo fare. Spesso, molte organizzazioni non profit sono di fronte alla terribile difficoltà per cui, pur essendo costruite da persone straordinarie, con grandi idee, grandi capacità, non dispongono dei mezzi per tradurre concretamente quelle grandi idee.
Sulla quotazione, una piccola battuta, l’EIM è ovviamente un mercato, fra i mercati della Borsa il meno complicato dal punto di vista delle procedure. Il problema che hanno dovuto risolvere, per cui hanno fatto anche i piani industriali – e fare un piano industriale in un’azienda non profit è una bella esperienza -, è stato cambiare la logica mentale di chi fa la Borsa, cioè di chi gestisce la Borsa: non c’è reddito. E credo che in questo abbiamo fatto e vinto una prima battaglia culturale. Non è possibile fare solo impresa per produrre un reddito a breve, si può fare anche, semplicemente, per fare cose utili.

DOMANDA:
Buongiorno, la mia domanda è la seguente, la rivolgo a entrambi. Mi pare che lei abbia detto all’inizio che quello che caratterizzava la vostra società era il fatto di essere una public company, che vi assicurava l’indipendenza, un valore basilare per un’impresa editoriale. Nel momento in cui voi ora vi quoterete, non temete di perdere proprio il valore che ha costituito la vostra ragione d’essere? Perché, se il futuro finanziatore, sia esso il cittadino o un finanziatore istituzionale, non entra per un guadagno, potrebbe entrare per un altro motivo, cioè quello di determinare la vostra linea editoriale. A meno che, questo non lo so, voi abbiate indicato nello statuto, cosa che forse potevate fare, un limite al potere di partecipare ai vostri organi gestionali. Non so se voi l’abbiate previsto. Ho terminato.

DOMANDA:
Sì, anch’io volevo fare una domanda piuttosto tecnica, a cui rispondere velocemente: sulla linea di questo discorso, può dire alcuni aspetti specifici, cioè com’è suddiviso attualmente l’azionariato? Perché questi signori sono quelli che avrebbero dovuto mettere i soldi, non li chiedete ai banchieri, li chiedete al mercato, che quindi è il primo beneficiario di un aumento di capitale che avviene non per tasca sua ma per tasca di qualcun altro. E l’altra domanda è: quale percentuale viene quotata in Borsa? Ultima cosa, più umana, per Bonacina: mi sembra che si stia assumendo un’ulteriore grande responsabilità, perché se sarà OGF o qualche Fondazione a comprare i titoli, non ci sarà nessun problema, ma nel momento in cui, visto il tipo di lettore della sua rivista, saranno molte le famiglie che metteranno cinquecento, mille, cinquemila o diecimila euro sui vostri titoli, il rischio che questi titoli scendano di valore o siano illiquidi, cioè non vendibili nel momento in cui la famiglia volesse riscuoterli, carica sulle sue spalle una responsabilità maggiore, perché può creare dei piccoli disagi finanziari alle famiglie, oltre che agli investitori associativi, cooperativi o bancari.

RICCARDO BONACINA:
Allora, innanzitutto il tema dell’indipendenza. È una banalità, ma è molto più semplice: l’indipendenza è garantita, più la platea è vasta, no? Meglio dipendere da cento che da uno, anche se è più difficile, è una governance più complicata. Come vi dicevo, noi abbiamo una storia che ci ha strutturato da questo punto di vista, perché abbiamo una platea di 44 soci, di cui sedici sono organizzazioni non profit che hanno la maggioranza capitale, sono i fondatori. L’ultima persona, tra l’altro mi onora e mi piace ricordarlo, che investì dentro Vita fu Carlo Caracciolo: fu l’operazione che fece poco prima di morire, e dopo due mesi in Vita. E poi ci sono le banche di Credito Cooperativo, quindi siamo l’altra branchia finanziaria che arriva dalla cooperazione. Abbiamo un gruppo cooperativo della cooperazione sociale, che è Cgm, che ha una buona quota di capitale, circa il 9% del nostro capitale sociale. Quindi abbiamo tante non profit, alcune banche che arrivano dalla tradizione cooperativa, e poi le persone.
Tenete presente che Vita è molto partecipata: abbiamo un comitato editoriale, abbiamo l’assemblea ogni due mesi con le 64 grandi associazioni del non profit italiano, per discutere della linea editoriale. Abbiamo processi di partecipazione rarissimi, non solo nell’editoria ma nell’impresa italiana. Quindi, ci piace discutere di ciò che facciamo, è una nostra tradizione, una tradizione della ditta. Noi abbiamo visto il mercato come garanzia di indipendenza perché, invece di 44 soci, ne avremo 100. La cosa non ci cambia. Cosa collochiamo sul mercato? Collochiamo il 30-35% del nostro capitale sociale dopo l’aumento del capitale. Arriveremo a 100 soci, ci sarà una lista di minoranze, ci sono dei meccanismi di governance dentro lo statuto per cui la minoranza avrà una rappresentanza nel CdA che sarà eletto tra tre anni, a giugno 2013.
Non vedo problematiche: gli investitori oggi sono investitori istituzionali, quando saremo quotati, anche il lettore potrà diventare azionista, quindi non credo che ci sarà il rischio che dici tu, perché chi investirà in Vita sarà il lettore che si compra in maniera simbolica un’azione di Vita per dire: “sono azionista anch’io”. Sulle responsabilità, nel caso, sapete dove sono a lavorare, no? Mentre per i bond argentini, andare a reclamare è più complicato, nel caso di Vita, vedremo di tenerci fede. Anche se penso che una persona non investirà in Vita per far fruttare i risparmi: sarà poco da tanti, che è un po’ sempre la nostra caratteristica, non tanto da pochi. In tanti parteciperanno alla crescita di questa impresa.

GIANLUIGI DE ROLD:
Vuoi aggiungere qualcosa?

IVAN SONCINI:
No, no la sua risposta è stata più che esaustiva.

GIANLUIGI DE ROLD:
Allora sono io che devo concludere. Devo dirvi onestamente che di pericoli in questa operazione non ne vedo, perché a me sembra che, in un periodo come questo, fare un’operazione finanziaria di questo tipo sia rimettere in gioco quella che si chiama, in questa mostra, una finanza che è positiva e che è buona. Cioè, se c’è una parte degli scrittori e degli economisti che dice che la finanza è l’autunno del capitalismo, o comunque dell’economia di mercato, bisogna pur ricordare che la finanza ha avuto una funzione positiva, perché la raccolta, la collocazione di risorse, bene o male, una volta era fatta nella gestione del patrimonio di grandi famiglie, che arrivava ad aprire il canale di Suez, il canale di Panama, a fare alcune infrastrutture che hanno fatto crescere il mondo, e poi a investire. Io credo che questa sia una svolta positiva, perché tutto sommato andare a quotare, investire, mettere a servizio e curare una realtà che è particolare, ma è particolarmente interessante rispetto al futuro economico, sia una cosa che merita indubbiamente un plauso, quanto meno su cui vale la pena di puntare. Vi ringrazio.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

27 Agosto 2010

Ora

13:45

Edizione

2010

Luogo

PAD. B5
Categoria
Focus