VOCARE. MARÍA ZAMBRANO, UNA VOCAZIONE ALLA CONOSCENZA

Presentazione della mostra. Partecipano: Maria Regina Brioschi, Curatrice della mostra; Carmen Giussani, Curatrice della mostra. Introduce Carmine Di Martino, Docente di Gnoseologia all’Università degli Studi di Milano.

 

CARMINE DI MARTINO:
Allora io sono onorato di presentare e moderare l’incontro di questa sera con due illustrissime ospiti, mie amiche: Carmen Giussani e Maria Regina Brioschi, l’una, Carmen Giussani, la primitiva ideatrice della mostra, una mostra che ha avuto una sua edizione innanzitutto spagnola, Carmen Giussani è direttrice di Tracce, dell’edizione spagnola di Tracce e ha confezionato la mostra, l’ha pensata, l’ha curata, insieme ad altri, ma è stata lei la mente ispiratrice, e anche la mano. Maria Regina Brioschi invece ha realizzato per così dire un adattamento della mostra al tema del Meeting. La prima infatti era dedicata al problema dell’educazione, ma qui al Meeting la mostra ha abbracciato anche il tema della conoscenza e Maria Regina Brioschi ha proposto, introdotto alcune integrazioni, che sono utili ad ampliare il raggio di azione della mostra fino a comprendere in esso il tema: La conoscenza è sempre un avvenimento.
Ora io non voglio rubare altro spazio. María Zambrano è una delle pensatrici più in voga oggi e siccome le cose non avvengono mai a caso, l’interrogativo che possiamo proporci per oggi è di capire perché, cioè perché il suo pensiero, la sua figura è stata ed è oggetto di una così grande attenzione. Che cosa ha da dire a noi? Una risposta l’avremo questa sera dagli interventi e un’altra l’avrete vedendo la mostra. La parola a Maria Regina Brioschi.

MARIA REGINA BRIOSCHI:
Ricollegandomi a quello appena detto, A partire da metà degli anni novanta, in Italia specialmente, è nata una crescente curiosità intorno al personaggio di María Zambrano: tra testi di critica e sue opere, vengono editati ogni anno circa una decina di volumi. Dalla lettura di alcuni testi, sorprendenti per l’acutezza dei contenuti e lo stile peculiare (ricco di metafore e suggestioni), si è posta anche per me, inevitabilmente, la domanda: chi è stata María Zambrano? E soprattutto, qual è il contenuto del suo “pensiero originale”, così asistematico e poliedrico?
In questo intervento vorrei cercare di rispondere a questa domanda, che mi ha guidato nel lavoro e nello studio di questi mesi. Così facendo, ripercorrerò quello che ognuno di voi potrà ritrovare e approfondire visitando personalmente la mostra.
Zambrano è una delle più grandi pensatrici del XX secolo, nonché diretta protagonista delle vicende storico-politiche che segnano la Spagna del suo tempo – nasce nel 1904 a Vélez-Màlaga e morirà nel 1991 a Madrid, dopo un estenuante e sofferto esilio (a causa del regime franchista) durato più di quarant’anni. Pur distanziandosi dai movimenti di pensiero a lei contemporanei e muovendo accese critiche agli sviluppi della filosofia moderna inaugurata da Cartesio, che trova la sua massima espressione nell’idealismo tedesco, l’autrice non ha mai rinnegato la sua vocazione di filosofa. Dice infatti nella prefazione di Verso un sapere dell’anima: «Mi permetto di affermare (…) di aver trascorso tutta la mia vita nella stessa fedeltà all’essenziale dell’attività filosofica» . Qual è dunque il proprium del suo pensiero, il contributo che oggi la sua attività filosofica ci offre?
Per comprenderlo illuminerò brevemente la tradizione in cui ella si inserisce, ereditandone consapevolmente sia i limiti, sia soprattutto quelle istanze e quelle domande, cui il suo pensiero è un tentativo di risposta. Parlo di “limiti” perché Zambrano non risparmia alla filosofia occidentale una dura critica, in quanto le imputa di essere responsabile e connivente della violenza che ha segnato la storia dell’Europa, fino a ridurla nello stato di agonia in cui oggi versa . Cos’è accaduto, infatti, nel percorso della filosofia degli ultimi secoli? Come afferma in Filosofia e poesia, «la ragione, diffidente e distante, si [è] auto-afferma[ta] con una rigidità e un “assolutismo” del tutto nuovi»; e ancora «la ragione affermava rinchiudendosi, per cui, in seguito, non potrà trovare altro che se stessa. Da qui l’angoscia» . Questo ripiegamento della ragione su se stessa, di conseguenza, ha comportato – come annota in La confessione come genere letterario – che «la vita reale, l’uomo reale e concreto, rimaneva o insuperbito dall’ideologia positivista, unico risultato della ragione alienata, o umiliato. Superbia e umiliazione sono i due tratti della disperazione dell’anima moderna: i suoi due poli» . Da questa “crisi della ragione” deriva l’annebbiamento e la perdita del senso di ogni esistenza individuale. Continua infatti: «la vita rimaneva abbandonata, la vita dell’uomo; dell’uomo concreto nella sua ignoranza e confusione. La verità che gli veniva offerta era una verità che non innamorava la sua vita, che non trasformava» .
Al contempo, Zambrano cerca di proporre un altro modello di ragione e conoscenza, allineandosi alla critica al logos della metafisica tradizionale, che ha il suo inizio con la filosofia di Nietzsche. Proprio in riferimento a quest’ultimo in Quasi un’autobiografia scrive a proposito di un aspetto del suo pensiero: «in questo, come in tante altre cose, concordo con Nietzsche, non lo seguo, ma concordo con lui». Non è dunque estranea a un certo sentimento dell’epoca, come dimostra – non da ultimo – la tendenza alla asistematicità, che caratterizza larga parte della filosofia del novecento. Ma cosa distingue Zambrano dalle altre correnti – anch’esse di ispirazione nietzscheana – che, a partire dalle stessa critica al logocentrismo classico, sconfinano in un nichilismo o irrazionalismo accanito? Cercherò ora di mostrarlo, distinguendo tre nuclei principali, in cui si declina l’originalità del suo pensiero.
(1) In primo luogo, nelle sue opere si coglie un peculiare realismo, non ingenuo, tramite il quale l’autrice propone un’interessante descrizione del rapporto conoscitivo. In particolare, a questo riguardo, colpisce l’accento che Zambrano pone sulla positività dell’essere, cioè sull’inesauribilità e la gratuità con cui le cose si offrono a noi nella loro presenza .
Per comprendere in tutta la sua portata questo primo punto è utile ripartire dal tema della crisi, cui accennavo poco fa.
E’ emerso infatti come la crisi dell’uomo contemporaneo affondi le sue radici nella «mancanza iniziale di contatto tra la verità della ragione e la vita» , nella riduzione della verità a qualcosa di astratto, incapace di “innamorare” e sostenere la vita. Questo comporta la confusione e la dispersione della vita stessa, all’interno delle quali l’uomo vive una solitudine radicale, come se la realtà intorno a lui avesse perso la sua consistenza e spessore. Scrive a questo proposito, negli anni cinquanta: «Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostento» . Ma come è possibile che tale rapporto con la realtà, che è “qualcosa di fondamentale”, vada in crisi? E, prima di tutto, perché giungere a definirlo “nostro intimo sostento”? Nel rispondere a queste domande vedremo emergere i tratti della posizione realista cui ho appena fatto riferimento. Per Zambrano infatti la conoscenza è costituita da due poli necessari e irriducibili l’uno all’altro: l’uomo e la realtà. «La realtà e l’essere che sta davanti ad essa – l’uomo- sono legati» , afferma in Per l’amore e per la libertà. Se il primo termine della relazione si offusca anche il secondo svanisce, e viceversa. Non si dà mai uno senza l’altro. L’uomo ha bisogno della realtà perché solo nel rapporto con essa, con le cose, gli è data la possibilità di scoprire «la condizione propriamente umana e personale» , di compiere le sue potenzialità intrinseche (non esiste uomo considerato separatamente dalle circostanze in cui vive e lui stesso non può conoscersi in astratto, teoricamente).
Anche se l’uomo può in ogni momento decidere di distaccarsi dalla realtà e arrivare persino ad eluderla, in virtù della sua congenita libertà, la realtà non è mai riducibile a suo prodotto. Si tratta, leggiamo in Chiari del bosco, di una «incondizionata presenza» che non si offre come termine inerte del nostro muoverci. «L’uomo deve essere mosso e deve muoversi, le due cose sincronicamente» , dice l’autrice in Note di un metodo. Così la realtà – descrive ne I sogni e il tempo – appare «come qualcosa che è già lì e in tal senso è indipendente da noi, e tuttavia invoca la nostra presenza […] è qualcosa che, accadendo inizialmente dall’esterno, ci invoca affinché entriamo nel suo interno» . Le cose dunque non solo sono oggetto della nostra conoscenza, ma chiedono esse stesse di essere conosciute. La realtà, proprio in quanto c’è, «chiede di essere cercata» , necessita dell’uomo, poiché egli è «il luogo privilegiato della natura dove questo logos [della natura] si rende esplicito, si dichiara» . Scrive ancora Zambrano, a proposito dell’evidenza: «si tratta di una realtà tale da lasciare un’impronta o una modificazione in chi la riceve» .
L’atto del conoscere non è dunque esito di un «tremendo affanno individualistico o personalistico» , teso a possedere l’oggetto di volta in volta considerato, riducendolo in schemi tanto scientifici ed esatti quanto inefficaci. L’oggetto invece – come possiamo leggere in Verso un sapere dell’anima – è «qualcosa che ci sta davanti, quindi qualcosa che ci limita, di fronte al quale dobbiamo fermarci» . Conoscerlo sarà allora prima di tutto sostenere nell’uomo «la fiducia originaria che è […] il sostrato primigenio del nostro essere» : quell’«intima apertura a quanto c’è» , su cui si basa ogni credenza e ogni agire umano. Il muoversi dell’uomo nasce da un’originale fiducia, che è come il terreno su cui la certezza poggia e che persino il dubbio presuppone. Tale fiducia, si declina nell’esperienza conoscitiva nei diversi gradi dell’attenzione. Questo fenomeno (dell’attenzione) è ciò che infatti testimonia «l’apertura dell’essere umano a ciò che lo circonda» ed è per via di questa disposizione naturale che la conoscenza è descritta dall’autrice, prima di tutto, come un’accogliere e registrare il fascino di qualcosa che c’è, poiché – come afferma in Verso un sapere dell’anima – «riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte ad esso, rimanere affascinati, catturati, dargli credito, in qualche modo innamorarsene» .
L’attenzione dunque ha nell’uomo il carattere di «una ferita sempre aperta e della ferita possiede la passività, l’essere piaga, impronta del reale, lo stare come una cavità vivente conformata per ricevere la realtà e per lasciarla passare oltre se stessa: verso la pienezza della coscienza che è giudizio e ragione» . Il compito dell’uomo di fronte al reale sarà dunque quello di restare fedele all’apertura che egli stesso è, per poter accogliere il dato per come si mostra, e portarlo “verso la pienezza della coscienza che è giudizio e ragione”.
Questo è così il primo punto di interesse e originalità del pensiero di María Zambrano; decisivo nella misura in cui il tema della conoscenza, nella sua doppia polarità (uomo e realtà), è a fondamento anche degli altri elementi della sua riflessione.

(2.) Il secondo nucleo, su vorrei soffermarmi, è complementare al discorso appena fatto e ci permette di integrarlo tramite una dimensione essenziale, per il momento sottaciuta. Si tratta della dimensione storica, ossia del rapporto con il tempo. Se l’uomo – abbiamo visto – scopre la sua condizione “propriamente umana” in virtù della relazione con le cose, quest’ ultima non accade mai in un istante atemporale, in cui l’individuo si esaurirebbe completamente; è il tempo che permette lo svolgersi di tale rapporto, e dunque consente all’uomo di maturare nella conoscenza di sé. In questo senso la temporalità è coessenziale all’uomo, creatura non «incompleta», ma neppure «formata una volta per tutte» . Così anche la Storia – agli occhi della filosofa- non è altro e «non avrebbe senso se non fosse la rivelazione progressiva dell’uomo» .
Notiamo da questi primi accenni l’emergere di una dialettica (sempre in divenire) tra due elementi, anche in questo caso (come per il rapporto conoscitivo) essenziali e irriducibili: tempo e uomo, o, in termini più specifici, Storia e Persona. Senza pretendere di esaurire il problema che richiederebbe una lunga trattazione, vorrei introdurvi sinteticamente all’idea cardine che guida la riflessione sul tema, ossia il concetto di “storia etica” e il ruolo che la “persona” gioca all’interno di questa concezione.
Zambrano scrive quattro testi, in cui affronta il tema della storia sia a livello teorico, sia nella connessione con il piano della politica e della democrazia, nonché a partire dalla provocazione dei fatti storici concreti, che hanno segnato la storia d’Europa di quegli anni e da vicino anche la sua travagliata vicenda, personale e familiare. La sua riflessione dunque è animata delle urgenze del tempo; come afferma in Orizzonte del liberalismo: «nell’ora presente urgono operai del tempo nelle sue direzioni: verso il passato, perché ce lo scoprano senza disfarlo, e verso l’avvenire, per portarlo alla luce nel cantiere del presente» .
L’uomo è considerato da un lato come essere pienamente storico (si muove cioè solo all’interno di tale orizzonte), dall’altro, però, il suo essere non è riducibile a semplice ingranaggio incastrato nella grande macchina della Storia. Nota su questo in Persona e democrazia: «paradossalmente, infatti, esiste la storia, con i suoi incessanti mutamenti, perché l’uomo, suo protagonista, è qualcosa che non si esaurisce nella storia, perché in qualche dimensione del suo essere la oltrepassa. E per questo la determina» . La persona ha qualcosa che sfugge alla logica del divenire storico, in virtù della quale può incidere in modo consistente nel mondo. L’uomo, in qualunque circostanza si trovi, ha una responsabilità unica e personale di fronte all’istante presente e al passato da cui proviene. Tale responsabilità e libertà è data – come scrive in Verso un sapere dell’anima – dal «fondo incorruttibile di ogni uomo, per quanto piena di errori sia la sua vita, [che] è ciò che non può mai tacere e protesta per ogni ingiustizia; […] Proprio grazie a questa esigenza l’uomo, immerso nella storia, è capace di contrastarla e di volerne uscire» . Ciascuno dunque non è mai incastrato e condannato tragicamente a una sorte già scritta, come fosse una vittima sacrificale, ma è chiamato a partecipare al suo compimento e alla sua stessa storia; si passa quindi da una logica sacrificale a una logica di partecipazione. Di partecipazione perché, se da un lato abbiamo sottolineato che la persona è libera rispetto alle circostanze storico-sociali in cui è posta, dall’altra necessita – per realizzare se stessa – del rapporto consapevole con la propria storia, che si inscrive in quella dell’umanità intera tramite la tradizione che lo ha raggiunto. Ciò accade proprio in quanto – dice Zambrano – «la sostanza nelle cose della vita corrisponde al passato, perché ormai già è. E ogni vita ha bisogno di una certa sostanza, di un sostegno della coscienza che deve necessariamente essere di qualcuno e derivare da qualcosa, a partire da qualcosa. La coscienza non inizia mai da uno stato di assoluta originalità, poiché nasce da un conflitto o, almeno, da una differenza tra piani vitali, tra tempi diversi» .
Giungiamo così all’idea di storia “etica”. Per l’autrice l’“etica” è la «caratteristica della vita della persona umana» , ossia – cito – «la duplice fedeltà all’assoluto [quel fondo incorruttibile di cui abbiamo parlato] e alla relatività [il momento storico e della tradizione in cui si vive]» .

(3.) Dopo aver parlato di conoscenza e storia, arriviamo ora all’ultimo punto per completare questo quadro sintetico, introduttivo al pensiero della filosofa spagnola. Il concetto su cui cercherò ora di fare chiarezza è indubbiamente il più noto e studiato: l’idea di ragione poetica. La “ragione poetica” nasce e si pone in opposizione alla sopra menzionata riduzione operata dall’intellettualismo e dal razionalismo rispetto all’uomo e – dunque – alla sua ragione. Dice infatti Zambrano in Verso un sapere dell’anima: «la cultura moderna ha espulso da sé l’essere totale dell’uomo per occuparsi soltanto del suo pensiero» . Quello che è andato perduto, che l’autrice ricerca, è – continua nello stesso testo – «un’idea dell’uomo nella sua integrità e un’idea della ragione ugualmente nella sua integrità.» . Insomma, un’idea di ragione non parziale, necessaria per offrire un’immagine realistica di quella che è l’effettiva esperienza umana, poiché – come sottolinea ancora l’autrice – «[se, da una parte,] la passione da sola mette in fuga la verità, che, suscettibile e agile, riesce a sottrarsi alle sue grinfie. [D’altra parte] la ragione da sola non riesce a sorprendere la preda. Mentre, passione e ragione unite, o meglio, la ragione appassionata che si slancia con impeto ma sa poi trattenersi al momento giusto, riescono a catturare senza danno la nuda verità» . Così, se tale è l’esigenza a cui cerca di rispondere la ragione poetica, essa al contempo si inserisce all’interno di una riflessione, maturata negli anni, sulla differenza e la specificità della filosofia rispetto alla poesia, sia a livello contenutistico che formale. Accostarci a tale distinzione, ci consentirà di cogliere la potenza e la novità che l’espressione ragione poetica (dall’accento ossimorico) porta con sé.
Il poeta infatti è colui che «è posseduto dalla bellezza nel suo risplendere, dalla bellezza che brilla e che risalta sopra ogni altra cosa» e «non fa altro: si mantiene all’erta fino allo struggimento di fronte ai mutamenti in cui le cose nascono, periscono, si consumano» ; il filosofo, al contrario, – e questo si ricollega profondamente con la critica alla metafisica contemporanea – è «l’uomo che, uscendo dal suo stupore iniziale» , si distacca violentemente dalle cose, per impossessarsene tramite l’uso della definizione, che è anche l’atto con cui – al contempo – si autopone a fondamento di tutto ciò che c’è.
Ma se tale è la considerazione del procedimento filosofico, va rigettata e abbandonata l’idea di ragione che accompagna la nascita della filosofia e quindi l’origine della razionalità occidentale? A questo proposito vorrei proporvi alcuni brani, da cui emerge la posizione, fine e non immediata, di Zambrano. Accanto infatti alla condanna della (possibile) violenza della filosofia, l’autrice identifica più volte lo specifico della natura umana con la ragione, la «bellissima scoperta greca correlativa all’essere» , come afferma. Questa convinzione è talmente salda in lei che, sempre in Filosofia e poesia, lega una delle possibili ragioni della crisi attuale al fatto che troppi non intendono più accettare che la natura umana è ragione .
Quale ragione afferma allora in queste pagine? E quale sarebbe la sua natura originale, che sarebbe poi stata tradita nei secoli? Per rispondere dobbiamo tornare in Grecia, per osservare i momenti iniziali della comparsa della filosofia, scienza per eccellenza della ragione.
Essa infatti è nata – scrive in Note di un metodo – da «quella povertà di spirito in cui restiamo di fronte al reale, per quanto minimo sia, quando si presenta semplicemente come reale, come ciò che è» . Solo da tale povertà sorge «lo stupore, che è entusiasmo acceso nella certezza che c’è un essere, un universo, un ordine» . E’ questo lo stupore, proseguirà poi Zambrano, di cui si è nutrita la domanda filosofica di sempre, uno stupore che non è altro che quella meraviglia da cui – diceva Aristotele – nasce il pensiero. Quale sarà allora l’azione propria di questa indagine, fedele allo stupore iniziale da cui trae origine? Portare il dato a trasparenza. Sottolinea infatti – in Verso un sapere dell’anima – come «la Filosofia nacque dalla necessità che la vita umana […] ha di trasparenza e visibilità. Se la vita aspira a farsi terrena, chiede ugualmente di rendersi intellegibile e non ha altra dimora se non la trasparenza; è l’intimità che aspira a farsi visibile; solitudine che vuole essere comunità nella luce» . Questa “trasformazione” (la filosofia è trasformazione, ripeterà spesso l’autrice ), questo “portare a trasparenza”, questo giudicare, non è dunque un atto violento da cui fuggire, per rinchiudersi in una forma di sapere indicibile, ma è una necessità intrinseca all’uomo, scatenata dall’impatto con la realtà. Perciò si tratta di una ragione poetica, dove il “poetica” indica, prima ancora di un metodo di scrittura determinato, lo sguardo amoroso, proprio della poesia, con cui resta la ragione commossa di fronte al suo oggetto, senza pretendere di impossessarsene, definendolo. In questo senso, Zambrano parlerà anche di “ragione pietosa” verso le cose, cioè mossa dalla pietà, che è – cito- il “saper trattare […] con quello che è radicalmente altro da noi» , una ragione amorosa che si riferisce – come lei stessa dice – «alla totalità delle cose, non per staccarsi da esse, ma per affermarle. Non per evadere dal mondo, ma per sostenerlo» .
Da ultimo è interessante e non secondario, a questo proposito, notare come questa “ragione poetica” si esprima anche nel suo modo asistematico – ma non ametodico – di scrivere, che ne è forse l’esemplificazione più chiara.
Su questo aspetto infatti così si è espressa la critica: «il suo parlare [di Zambrano], scrivere, pensare non era però un lavoro intellettuale applicato a un oggetto, ma una creazione, un far essere l’oggetto stesso, non nel senso di produrne l’esistenza dal nulla, come un tavolo o una sedia, bensì nel renderlo “rivelazione”, momento di verità» . Ed è questo – a mio parere – ciò che rende unica e appassionante la lettura dei suoi testi: una riflessione che è al contempo rivelazione, creazione poetica, e che lascia difficilmente indifferenti, come potete vedere voi stessi nella mostra.
Grazie.

CARMEN GIUSSANI:
Allora io comincio dicendovi l’esperienza che abbiamo fatto conoscendo, incominciando a conoscere María Zambrano. Conoscere è un piccolo prodigio, conoscere non è solo un atto materiale perché ciò che conosciamo ha sempre dentro qualcosa che va al di là delle nozioni, delle informazioni del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si piega mai completamente agli strumenti materiali che adoperiamo. In ogni verità c’è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati. Nell’amore che riceviamo c’è sempre qualcosa che ci sorprende, non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza, anche la più piccola, in ogni atto d’amore la nostra anima sperimenta un di più che assomiglia molto a un dono ricevuto, a una altezza a cui ci sentiamo elevati. Non avrei mai io trovato le parole per dire così bene chi è María Zambrano, prima non la conoscevamo, conoscere è un piccolo prodigio in cui ci sentiamo oggetto di un dono e che ci rende diversi. Riprendo brevemente gli accenti che Maria Regina ha così precisamente e così bene espresso. Lei è partita da due domande, quella che abbiamo tutti chi è María Zambrano che cita Carrόn, e poi qual è l’originalità del suo pensiero.
Su chi è faccio un’osservazione e tre sottolineature. L’osservazione è che non si incontrano le idee, si incontrano le persone, perciò vedendo la mostra voi non incontrate delle idee, quello che incontrate sono le persone. Perciò la mostra ha una biografia all’inizio che è molto bella, è piena di citazioni, la voce femminile pronuncia frasi sue ma che è fatta apposta perché solo se si conosce la persona ci si apre anche al suo pensiero.
Riguardo a chi è stata María Zambrano dicevo tre sottolineature, la prima è stata una donna, una filosofa che ha vissuto quasi un secolo. Pensate che ha vissuto tutto il secolo ventesimo, cioè il secolo delle grandi ideologie e delle tragedie tremende della crisi dell’uomo fino a livelli inimmaginabili. Lei ha vissuto dal 1904 al ’91, tutto il secolo ventesimo, sia la sua vita personale sia le vicende storiche l’hanno messa alla prova dolorosamente, duramente e continuamente. Ha passato quaranta anni della sua vita in esilio, fuori dalla sua patria, portandosi la Spagna nel cuore. E’ stata quindi una donna che ha vissuto la sua vocazione filosofica. Lei utilizza sempre un vocabolario cristiano, per esempio che la vita è vocazione, che lei si sentiva chiamata a questa vocazione filosofica. Per ben tre volte ha avuto la tentazione di smettere di studiare filosofia, perché era l’unica allieva di filosofia dell’università di allora, le donne non avevano ancora diritto di voto e quando lei entrava in classe erano tutti ragazzi, e i professori erano tutti uomini e ha superato questi momenti di dubbio sul continuare proprio perché era una vocazione personale e non era solo un interesse, per quanto significativo.
Dicevo quindi che è stata una donna che ha vissuto la sua vocazione filosofica mossa oltre che da un interesse, che da una esigenza accademica, da una necessità: la necessità di vivere, di rispondere a questa continua provocazione, a questa continua messa alla prova che la vita non le ha risparmiato in nessun senso. Fu per un breve periodo, quando aveva poco più di trenta anni, docente supplente della cattedra di metafisica all’Università Central de Madrid, attualmente la Complutense, ma aveva trenta anni, pochi anni, poi quando a trentacinque anni, ed è ancora giovanissima, comincia l’esilio nel ’39, alla fine della guerra civile spagnola, va a insegnare in una piccola università del Messico, e poi all’ Havana a Cuba e a Portorico. Ma il movente costante della sua riflessione, del suo pensiero fu sempre il mestiere di vivere e la condizione drammatica di questo mestiere di vivere, che è la condizione umana. Per questo la sentiamo vicina anche se non siamo filosofi. Scrive: “Ciò che è fondamentale nell’esperienza lo comunichiamo agli altri solo rivivendolo, non perché l’abbiamo già imparato e la verità, quella di cui abbiamo bisogno per vivere, è solo la verità che rinasce e rivive nella nostra esperienza, sempre di nuovo, come la prima volta che l’abbiamo scoperta”.
La seconda osservazione su chi è stata María Zambrano, questo forse ha un significato più importante per gli spagnoli, però può essere utile per tutti noi. E’ stata spesso associata in Spagna ad un pensiero che sarebbe di sinistra, o a una influenza marxista. Perché? Perché sia il padre, perciò anche lei all’inizio della guerra civile spagnola, nel ’36, si schierarono con il ‘bando repubblicano’. Voi dovete pensare che una guerra civile è l’esperienza più terribile che possa accadere ad un popolo e perciò le famiglie erano divise, gente che andava in chiesa assieme era divisa, perciò fu un momento di grande confusione, di grande violenza e molto complesso. A questo proposito lasciamo parlare una sua lettera. Quando arriva in Messico, viene chiamata ad insegnare all’università di Morella dove si incontra con il rettore e il rettore le fa certe osservazioni che adesso leggo, allora lei le trascrive ad un amico che era direttore, in quel momento, della casa di Spagna in Messico e scrive: “Il Signor rettore mi parlò con gran cordialità e mi spiegò la condizione rivoluzionaria dell’università di Morelia, mi disse che mi sarei trovata senz’altro a mio agio, poiché gli avevano detto che io avevo militato nel partito comunista” ( il ‘bando repubblicano’ venne subito associato al partito comunista) e continua: “dato che questo non è vero, glielo dissi subito, questo sarebbe rimasto solo un equivoco se il Signor rettore non avesse continuato e non mi avesse subito detto che il terzo articolo della costituzione messicana allora vigente prescrive l’educazione socialista a cui avrei dovuto attenermi. Mi disse che in Messico non c’è libertà di cattedra e che il professore non ha la libertà di scegliere la propria posizione ideologica e politica”. Dopo avere espresso il suo sconcerto, decide di non entrare in polemica, non prima però, sono sue le parole, di aver smentito la sua appartenenza ideologica al marxismo. “Comunque devo dirle che io non sono mai stata né comunista né marxista”. Ho voluto fare questa osservazione, ripeto che può aver più valore per un ambito spagnolo, perché mi sembrava doverosa verso di lei.
Il terzo accento su chi è stata. Maria Regina molto acutamente, molto dettagliatamente ha osservato che la cosa che più colpisce in lei è il senso religioso, fatto di una fiducia nella realtà, nel mondo, nell’uomo, nel soggetto che lo conosce, una fiducia nell’essere come misericordia, una fiducia nella capacità della ragione che è più grande di quello a cui l’abbiamo ridotta, o è stata ridotta dalla modernità. Pensate che in uno dei suoi libri scrive: “la realtà, le cose esistono in virtù della misericordia”, non della necessità, non sarebbe necessario che esistessero le cose eppure ci sono, esistono in virtù della misericordia. “Nulla di ciò che esiste sarebbe strettamente necessario”: che esista il mondo, che noi siamo chiamati a vivere è frutto della misericordia, è dono della misericordia. Colpisce tra l’altro che anche nelle vicende più dolorose della sua vita abbia sempre saputo cantare la speranza, anche quando non ci pensava parlava della speranza. Allora naturalmente uno si chiede da dove le viene questa fiducia, da dove viene questa radice sicura e lieta. Le viene dal padre – nella mostra leggerete un suo scritto sulla figura del padre che è commovente -, le viene dalla madre, che le comunicò il senso religioso, cioè il senso della realtà fino in fondo -, dal padre, dalla madre, dalla Spagna, dopo lo spiego, e dal cristianesimo.
In uno dei momenti più drammatici della sua vita, quando visse l’esperienza limite dell’uomo, quando l’uomo si trova al bordo dell’abisso della disperazione, scrive ad una amica: “Penso, dico, prego, mio Signore poiché mi chiami a vivere, poiché mi chiedi di vivere, poiché mi chiami a vivere, fa che per vivere abbia il necessario e possa così compiere la tua volontà”. Quando non ha più niente, è sola, non ha soldi, nel momento del limite, al bordo della disperazione, scrive: mio Signore, poiché mi chiedi di vivere, fa che per vivere abbia il necessario e possa così compiere la tua volontà. Sono tantissime le testimonianze della sua discendenza, della sua stirpe cristiana.
Dopo aver detto qualcosa su chi è stata, voglio farei eco alle osservazioni di Regina sul suo pensiero originale, in particolare su due cose, brevemente. Conoscere una persona non è definirla, perché non si può, una persona la conosciamo fin quando dobbiamo lasciarla, come mia madre che è morta adesso in aprile, ma gli ultimi giorni ho conosciuto di lei qualcosa che non conoscevo prima, perché me l’ha detto, cioè conoscere una persona non è definirla ma aprirsi continuamente alla sua presenza, ad essa. Perciò noi abbiamo cercato di essere coerenti con questa evidenza e di limitare il contenuto della mostra al problema della conoscenza, non abbiamo voluto dire tutto. Ha detto Regina, nella sua premessa, che María Zambrano è stato precursore, ha sentito il bisogno di aprire, liberare la ragione, che era stata messa in carcere e l’ha sentito personalmente con molta forza, ha realizzato una critica alla ragione che era diventata il contrario di se stessa; invece che aperta, curiosa e disponibile verso il dato delle cose, della realtà, era diventata assoluta: le cose che io penso esistono, più ci parlo e più do loro valore. Non è vero, questa è una ragione che ha perso la sua verità. Dice Zambrano: “quando si giunge al delirio” – il delirio è quello attuale cioè di una realtà creata dal mio pensiero, dalle mie parole – quando la ragione giunge al delirio è necessario riscuotersi, risvegliarsi, quando si perde il senso della realtà bisogna risvegliarsi. Dice: “il risveglio della filosofia”, la nascita della filosofia, “è stato all’inizio”, di fonte alla realtà, la storia, “un entrare in ragione”. vale a dire: nella confusione, nel caos c’era bisogno che la ragione entrasse a cercare un senso, un ordine, un cosmo, un armonia. L’inizio della filosofia è stato un entrare in ragione ma dono venti secoli, quando la ragione è arrivata al delirio, al delirio di onnipotenza, al delirio di essere capace di dire tutto, persino di creare le cose, il risveglio, il riscuotersi è entrare nella realtà, smettere i discorsi che ci fanno credere di essere quello che non siamo e piegarci all’essere delle cose, alla realtà, all’esperienza.
Questa quindi è la premessa: una critica alla ragione che ha perso il suo respiro, la sua grandezza e una necessità di ridare alla ragione tutta la sua capacità, tutta la sua ampiezza. Poi dopo questa premessa, Regina, sulla conoscenza, ha parlato di realismo, senso del tempo e ragione poetica; mi soffermerò brevemente sul realismo e la ragione poetica.
A questo proposito vorrei aggiungere a quello che lei ha detto un aspetto particolare. María Zambrano è una spagnola e il pensiero spagnolo porta a noi italiani qualcosa di nuovo, un accento nuovo, questo accento è fatto da due poli: il realismo e la ragione poetica. Scrive Zambrano: “il romanzo e la poesia sono senza dubbio forme di conoscenza ma in esse il pensiero si trova sparso, diffuso, esteso, in esse il sapere” – sulle questioni essenziali della vita, il sapere sull’amore, sulla verità, sul padre, sulla terra natale, il sapere sulle cose essenziali, sulle questioni ultime, “il sapere scorre e compare in modo imprevisto”. María Zambrano riprende questa idea da un filosofo spagnolo Miguel de Unamuno, che scrive: “sono sempre più convinto che la nostra filosofia, la filosofia spagnola, si trova allo stato liquido, diffuso nella nostra letteratura, nella nostra vita, nella nostra azione, nella nostra mistica e soprattutto nel nostro popolo”. Precisa María Zambrano: “il bisogno che abbiamo di sapere, un bisogno ineludibile”, tutti abbiamo bisogno di sapere, “un bisogno proprio di ogni uomo e di ogni popolo, soprattutto circa le cose che più gli premono, si è risolto in Spagna in forme che si potrebbero dire sacramentali, come il romanzo, in forma suprema la poesia”. Con linguaggio cristiano dice che il romanzo, la poesia, l’arte, la tradizione popolare sono forme in cui il significato in qualche modo si esprime, è contenuto. Il pensiero spagnolo, come ella osserva, si è sempre mostrato reticente di fronte ad un pensiero schematico, rigido, che pretende di aver chiuso il cerchio, cioè di aver detto tutto, di aver messo tutto, tutto, tutto in ordine. Perché?
Perché se il vero filosofo parte dalla meraviglia dell’essere, molte volte il pensiero abbandona questa meraviglia dell’essere per chiudersi in uno schema, in un’idea, rinnega questo stupore iniziale per affermare che lui è il fondamento di tutto. Ma quando la ragione pretende di esser tutto, dà vita all’angoscia o al potere. Se la mia ragione è tutto e non ho bisogno di voi né della realtà ma io creo il senso delle cose, finirò nell’angoscia o se ho un altro temperamento finirò nella violenza, nel potere. Perché la nostra ragione è legata, dipende da qualcosa d’altro, da quello che ha davanti e dentro di sé. La mancanza di sistematicità nel pensiero spagnolo è da leggersi come un modo peculiare, un modo particolare di capire la vita e di conoscerla, a cui diamo il nome di realismo spagnolo. Scrive Zambrano: “il realismo – spagnolo – l’abbiamo visto sorgere come altro dalla teoria, diverso e irriducibile a sistema”. E’ un altro modo di pensare, è un altro modo di vivere. Lo capite tutti quando pensate alla danza spagnola, che dal flamenco fino alla danza moderna, prende lo slancio per ogni figura dall’appoggio del piede intero e non stacca mai, almeno uno dei due piedi, da terra; questa è proprio l’immagine fisica di questo realismo, cioè ogni pensiero, ogni slancio, ogni impeto è tanto più forte quanto più s’ appoggia, resta attaccato, prende spunto da qualcosa d’ altro che è la realtà. Per realismo non intende il copiare la realtà, ma intende un certo modo di sentirla e di viverla. A questo punto vi faccio un elenco di cose che lei dice riguardo al realismo spagnolo: il predomino del naturale, del semplice, dello spontaneo, dell’immediato; un’ammirazione che non si stanca, un’ammirazione per il mondo senza pretendere di ridurlo a nulla, quasi un essere innamorati del mondo e persino un materialismo, si parla di un materialismo zambraniano, che rimanda molto esplicitamente alla esaltazione misericordiosa della materia e delle cose piccole, normali, quotidiane di Teresa d’Avila. Un sapere che si esprime in un linguaggio diretto, semplice, chiaro, in forme popolari accessibili a tutti, un cuore nemico dell’astrazione, che non rinnega la ragione ma la mette in opera, non per staccarsi dalle cose ma per affermarle, non per evadere dal mondo ma per sostenerlo.
In sintesi, e con questo finisco, il realismo spagnolo è la sensibilità e il modo di sentire la vita che dà origine ad una certa forma di conoscenza, una conoscenza poetica. La realtà, il realismo mette in gioco una ragione che, come ha spiegato Regina, è una ragione amorosa, interessata, aperta, che non vuole separarsi dallo stupore che le cose ci suscitano. L’incontro tra la realtà, questo realismo spagnolo, e una ragione che la filosofa chiama poetica, amorosa, aperta, l’incontro è, produce, la conoscenza. A proposito della conoscenza poetica, scrive Zambrano: “Se la Spagna ha conservato in qualcosa la sua unità di popolo, è stata nell’unità della grazia”, nella sensibilità alla grazia, nell’unità della grazia. “Ben poco vale per lo spagnolo quella conoscenza che è solo frutto dello sforzo, della fatica”, di quello che siamo capaci di fare. “Questa conoscenza”, tutto merito nostro, frutto solo del nostro sforzo,” è come un sapere illegittimo, un sapere disgraziato, in cui, forse, si esprime di più la presunzione dell’uomo, oppure la vanità, la superbia, che la verità. Un sapere che non è desiderabile. La conoscenza poetica, invece, -ecco la conoscenza – è frutto di uno sforzo”, di un desiderio, di una tensione, di un lavoro, di una ricerca, di una fatica, “è frutto di uno sforzo cui, a metà del cammino, si offre una sconosciuta presenza”. A metà del cammino, perché il desiderio di conoscere, il desiderio che cerca questa presenza, che cerca di conoscere, non resterà mai solo, la nostra tensione, la nostra apertura, la nostra ricerca non resterà mai sola, non cadrà mai nella solitudine angosciosa, in quella angoscia di chi non fa più caso a quello che ha davanti, perché è tutto preso dal suo sforzo, dal suo pensiero. Invece chi non smette di guardare quello che ha vicino, quello che ha davanti, non sarà mai in quella solitudine angosciosa.
Ripeto: “la conoscenza poetica è frutto di uno sforzo cui a metà del cammino si offre una sconosciuta presenza”, a metà del cammino, perché il desiderio che cerca questa presenza, non resterà mai solo, non cadrà mai nella solitudine angosciosa di chi ambiziosamente, presuntuosamente si separa dalla realtà. Chi si separa, chi ha abbastanza di quello che ha già in testa, a costui la realtà smetterà di consegnarsi ma a colui che ha preferito la povertà dell’intelligenza, l’apertura dell’intelligenza, che ha rinunciato alla vanità e alla velleità superba, che cerca di possedere quello che invece è inesauribile, a costui la realtà si offre, gli va incontro e in questo incontro l’uomo conosce la verità, che non sarà una verità violata, merito nostro, conquistata solo con le nostre forze, ma sarà rivelazione di grazia, sarà gratuita. Ecco il cuore della ragione poetica.

CARMINE DI MARTINO:
Il compito di una presentazione è quello di sollecitare il desiderio, perciò sarà riuscita nella misura in cui avrà suscitato in ciascuno il desiderio di andare a vedere personalmente la mostra e approfondire il rapporto con questa persona. La vocazione filosofica è la vocazione umana. E’ vero che la filosofia ha degli aspetti professionali come ogni dimensione, ma la Zambrano, come ci è stata restituita oggi dai due interventi, ci mostra che la vocazione filosofica coincide con la vocazione umana, cioè con quella vocazione a rispondere all’invito di quella presenza incondizionata che invoca la nostra presenza. Ed è, la vocazione filosofica, quella a rispondere alla esigenza insopprimibile, in ciascuno di noi, di trasparenza e di visibilità. Noi siamo la trasparenza dell’essere, l’io è autocoscienza del cosmo, come abbiamo sentito altre volte, perciò dalla Zambrano noi impariamo una prospettiva professionale determinata, ma impariamo anche il mestiere di vivere, che si fa carico di tutto il dramma, anzi lo attraversa, perché il rapporto con la realtà sia sempre più la strada della nostra pienezza. Buona mostra.

Data

25 Agosto 2009

Ora

19:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri