Vivendo nella carne

Presentazione del libro della Collana “Quasi Tischreden”. Hanno partecipato: Mario Molteni, Docente di Strategie Aziendali presso l’Università degli Studi di Trento; Raffaella Zardoni, Disegnatrice; Franco Loi, Poeta. Moderatore: Giancarlo Cesana.


Cesana: I Tischreden sono i discorsi a tavola di Martin Lutero; don Giussani ha intitolato questa serie di libri “Quasi Tischreden” per un pudore di fronte al significato storico di quelli di Lutero, che sono stati all’origine della Riforma protestante. Si tratta, come detto nella prefazione, di scintille in un campo di stoppie, scintille tirate fuori dal groviglio dei pensieri che gremiscono il dialogo familiare, appunto a tavola. Vivendo nella carne è il secondo libro delle “Quasi Tischreden”, nell’ambito della collana “I libri dello spirito cristiano” che ormai raccoglie quaranta titoli. Queste “Quasi Tischreden” nascono dalla partecipazione di don Giussani alla vita di alcune case di Memores Domini, le persone che, partecipando all’esperienza di Comunione e Liberazione, hanno deciso di dedicare tutta la loro vita a Dio.

Uno degli aspetti più affascinanti di don Giussani – che ha detto anche nel suo intervento davanti al Papa l’ultimo 30 maggio – è che conduce il movimento innanzitutto rendendo ragione a se stesso di ciò che vive, della fede che vive. È uno degli aspetti più affascinanti perché implica l’incontro con una persona e un’esperienza. Analogamente i curatori dei “Quasi Tischreden”, Mario Molteni e Raffaella Zardoni, nella loro attività di raccolta degli scritti e di revisione, tentano di mettere a disposizione quanto emerge da questi dialoghi, ovvero il problema della vita dell’uomo e dunque il modo in cui essere veramente uomini. Le persone che, come loro, vivono la verginità non rinunciano a niente di ciò che è umano e se vivono questa vocazione è perché questo permette a loro di essere veramente uomini secondo la prospettiva di destino che sentono.

Molteni: Questo secondo volume delle “Quasi Tischreden” nasce da un contraccolpo che una risposta di don Giussani durante un incontro ha suscitato in me, in Raffaella e negli altri presenti. Avete presente uno di quei momenti in cui tu inizi ad ascoltare e dici: “Qui sta succedendo qualcosa, qui si sta scoprendo qualcosa”. Attorno a questo stupore è nato tutto il libro.

È un passaggio che il libro stesso riporta, a pagina 76. Una ragazza ha posto a don Giussani questa domanda: “Cosa fa aumentare l’amore al cammino?” – l’amore al cammino vuol dire l’amore alla vita, l’amore al lavoro, l’amore allo studio -. Poi, come suggerisse una risposta: “È forse fissare lo scopo?”. Evidentemente l’ho percepita come una bozza di risposta nobile, perché certamente sapere perché fai un certo lavoro, per chi lo fai, dà dignità al lavoro. Ma subito si è inserita la sorpresa perché don Giussani le dice: “Anche. Ma l’amore al cammino può essere anche suggerito dalle colonnine che stanno al margine del cammino, dai quadri che ogni tanto vengono esposti, dalle fonti che son fatte scaturire ogni tanto. Qualunque cosa c’è nel cammino può suggerire di aumentare il gusto del cammino”. E poi con una nota di realismo azzarda ulteriormente: “Anzi, nella imperfezione con cui lo spirito umano procede verso il suo destino, quanto più uno sente il suo destino in modo affascinante, tanto più può risultare da questo entusiasmo una certa sommarietà nell’osservare tutto ciò che lo anticipa. Per cui L’imitazione di Cristo [un noto testo di spiritualità del Medioevo], che è tipicamente in questa posizione, può dire: Vanitas et omnia vanitas, praeter amare Deum et illi soli servire (tutto è vanità, salvo che amare Dio e servire lui solo) Ma io non faccio una meditazione sull’Imitazione di Cristo: prima di tutto, perché l’ho già fatta e, in secondo luogo, perché, avendo scoperto certe cose, non la farei più! [Ricordo che in quel momento ero sempre più interessato a dove mi stava portando, perché quando avevo diciotto anni, mi ero messo a leggere l’Imitazione di Cristo, ma dopo le prime 30 pagine non ero più riuscito ad andare avanti. Capivo che c’era qualcosa in me che soffriva di fronte a quella impostazione, e in quel momento intuivo che avrei scoperto cos’era]. Ognuno ha il la sua strada, il suo cammino e la sua faccia”. È l’idea del carisma, di un certo modo di intendere la proposta: in quel momento mi rendevo conto che la mia persona era esattamente risuonata a quella lunghezza d’onda, di fronte a quel carisma, che era il suo.

Giussani procede spiegando quest’idea centrale: “Che cosa può aumentare l’amore alla strada? Indubbiamente il riferimento allo scopo e l’approfondimento della sua conoscenza. Ma anche l’attenzione e l’approfondimento della conoscenza di tutto ciò che nella strada è segno dello scopo. Un’educazione alla fede in Cristo, la preparazione a una maturità cristiana, secondo me, deve essere di questo secondo tipo, perché risulta in una valorizzazione di ogni incontro, di ogni avvenimento, di ogni cosa come segno dell’ultimo”. E prosegue: “Pedagogicamente è più importante la seconda delle strade che ho accennate, quella che noi cerchiamo di seguire: accompagnare per mano la singola persona o la comunità ad ogni passo, rilevando la presenza del segno, così che, al limite, tutte le cose – dal filo d’erba alla madre – risultino splendenti del riverbero che lo scopo realizza in loro, cioè del segno che lo scopo realizza nella loro esistenza, nella loro figura”. Ad un certo punto, quasi esplodendo, dice: “Noi non vogliamo Cristo solo, vogliamo anche gli alberi, vogliamo anche la donna, vogliamo tutte le creature!” E fa un esempio: “San Francesco centrava così lo scopo che ha fatto il Cantico delle creature; e, dice la sua biografia, dicono le testimonianze, che nel cammino quando si sedeva, piangeva di commozione al pensiero che il sasso su cui si sedeva erano le mani di Dio che lo tenevano su per ristorarlo (…) Tutto è niente, salvo Dio: questo è vero, l’entusiasmo della fine è vero. Ma perché Dio ha fatto anche le piante, ha fatto la madre, il padre e le sorelle, gli amici, i figli, le stelle? Perché ha fatto tutto questo? Secondo me è più obbedienza a Dio, perciò dà maggior rilievo educativo, il cercare passo passo. (…) Non sto dicendo che questo secondo metodo è sbagliato, neanche un po’, anzi. Se fosse qui l’autore dell’Imitazione di Cristo, scuoterebbe il capo e: ‘Sì sì, capisco il tuo amore alle creature, ma è il Creatore l’importante’. E io direi: ‘No, è Gesù l’importante. E Gesù non è né Creatore, né Creatura: è tutt’e due! È anche creatura e pur rimane la consistenza di tutte le cose perché è Dio, è la consistenza degli alberi, dei fiori, dei cieli, delle montagne, dei laghi.

Perciò – dice ancora – noi insistiamo che la pedagogia alla fede è più consona, più concorde con la debolezza e la piccolezza dell’uomo – un passo dopo l’altro – se sottolinea la presenza in ogni cosa, se ricerca la presenza in ogni cosa del segno che Gesù vi ha lasciato”. E conclude: “Senza la sottolineatura del perché ultimo, scompaiono anche le attrattive delle cose particolari. Il perché ultimo è come il sole: senza l’attrattiva del sole c’è l’oscurità, nell’oscurità naufragano le forme di tutte le cose. Invece, l’attrattiva ultima, l’ultimo termine dell’attrattiva, è il sole che nasce [e qui inserisce la seconda cosa], e allora tutte le cose prendono un secondo rilievo. Una pedagogia adeguata cerca di non lasciar sfuggire neanche una delle cose illuminate dal sole”.

Ecco, noi abbiamo desiderato proporre questo secondo libro raccogliendo gli incontri delle case dei Memores Domini che più aiutassero noi stessi a capire la natura di questa proposta, l’interesse umano – e quindi l’attrattiva – che questo modo di sentire Cristo e il cristianesimo propone alla vita.

Da questa origine, cosa è risultato? Ne è risultato che raccogliendo e leggendo questi incontri della casa, a un certo punto ci è come sembrato d’intuire quale fosse la posizione che è all’origine di questa simpatia per tutte le cose, la posizione umana di don Giussani. È una posizione che l’ha potuto portare a questo modo di guardare con simpatia ma con decisione anche all’Imitazione di Cristo: mantenere l’atteggiamento vivo e curioso di fronte alla realtà in cui il Mistero getta l’uomo nella vita e che si vede nel bambino che ha gli occhi sgranati e percepisce la positività assoluta della realtà. La posizione originaria di don Giussani è proprio quella di un uomo grande, maturo, espanso in tutte le sue dimensioni.

Il primo capitolo del libro sostanzialmente parla di questo: il nostro metodo è proprio il rapporto con la realtà, a partire dall’esperienza materiale, da ciò che si vede, si sente e si ascolta. Se voi leggete le prime 50 o 60 pagine del libro, questo tema dell’esperienza umana materiale, di ciò che si vede, si sente e si ascolta, ritorna con una insistenza straordinaria. Non c’è altra strada per entrare nello spirituale, in ciò che più interessa la vita, se non questa assoluta lealtà nei confronti di ciò che si tocca, nei confronti della materia. Ad esempio, a pagina 24 Giussani spiega così l’esperienza fondamentale dell’amicizia: “Guardando l’assetto materiale di quest’uomo – il suo comportamento in quanto si vede, si tocca, si sente, si ode -, capisci l’uomo che ti è amico; capisci cioè un’altra cosa: un significato. (…) L’essenza del metodo che il carisma ci rende obbligatorio cercar di comprendere per viverlo è che non si può dire ‘spirito’ se non partendo da un’esperienza in cui c’entra la materia”.

Per questo penso che il tema del Meeting “La vita non è sogno” trovi in queste pagine un’occasione di comprensione profonda, perché in queste pagine è come se avessi trovato un elogio della materia così compiuto, così equilibrato che realmente stupisce.

È proprio a partire della materia, da uno sguardo aperto sulla materia che l’uomo si mette in moto, si mette alla ricerca del significato, che si accorge dell’amico e si inoltra nell’esperienza dell’amore, della conoscenza. Questa posizione originale è assolutamente difesa da don Giussani, ma – e qui faccio il terzo ed ultimo passaggio – questa nota di metodo, quella di partire dalla realtà, dalla semplicità nel guardare alla realtà, ha una potenza di vita e di proposta straordinaria. È l’idea di cui sono intrise le prime 150 pagine del libro, esplicitata a pagina 29: “Tutte le difficoltà che abbiamo circa l’astrattezza, la teoricità, il ‘chissà’, l’inimmaginabilità di Dio e di Cristo sono dovute al fatto che nella nostra vita c’è una carenza riguardo a questa esperienza, all’esperienza umana. Mi spiego? È il contrario di quel che sembri. [Sentite ora la sfida che ci propone] Quanto più esperienza umana puoi accusare a te stesso, puoi citare, tanto più capisci il rapporto con Dio. (…) Noi possiamo capire i termini che usiamo per indicare le cose ultime [le cose che c’entrano con il significato della vita] proprio partendo, esclusivamente partendo dall’esperienza umana che facciamo, esclusivamente partendo da questo”. Oppure, a pagina 26: “Vi ho citato tutto questo problema, perché in questi giorni sono realmente zeppo di persuasione, zeppo di evidenza che è attraverso un’esperienza normale che uno capisce chi è Gesù, che uno può capire che Gesù è possibile, che uno capisce che Dio c’è”. La scoperta, la sfida a cui ci introduce Giussani è proprio questa, che è un’esperienza normale, quella che si fa giorno per giorno, nei rapporti più normali, che inoltra nel rapporto col Mistero, con Cristo. È dall’esperienza normale – mi piace moltissimo questo aggettivo -, che si è condotti alla conoscenza e all’amore di Dio e di Cristo.

È da una esperienza normale che conosci l’esistenza di una cosa che chiamiamo Mistero, Infinito, Dio: in che senso? Il primo esempio portato da don Giussani è quello della creazione (pagina 23): “L’esempio più bello è il mondo creato: tu non puoi capire, non avresti mai pensato che c’è Dio, se non ci fosse il mondo creato; e il mondo creato è fatto di sassi e di terra, no? Veramente: di tempo e di spazio, su cui cala qualche cosa di incommensurabile con la nostra immaginazione, con la nostra forza immaginativa, che mette a posto tutto questo caos che sarebbe la materia: forma la materia, dà forma alla materia. Perciò, per arrivare a Lui bisogna partire da un’esperienza materiale. Esperienza materiale vuol dire un’esperienza in cui c’entra la materia; visibilmente, sensibilmente, evidentemente: tocchi, vedi, odi”. Oppure, un’altra immagine che ci fa capire come s’impone agli occhi dell’uomo semplice la presenza del Mistero (pagina 25): “Quando una mamma guarda il bambino [qualcosa che si vede, si tocca, si ascolta, che grida] dicendo: ‘Ma che destino avrai tu? Perché ti ho messo al mondo? Che senso ha?’, facendo questa domanda, non si pone una questione visibile, tangibile, udibile [c’è lo scatto, è nella serietà degli occhi che guardano e che inevitabilmente, se si è leali con l’esperienza, devono passare oltre]: è l’inizio di un’altra questione, è un’altra cosa, ed è una cosa che appartiene piuttosto (se si deve trovare proprio un parente!) a quell’infinito che ho citato prima”. È proprio dall’esperienza seriamente affrontata, con attenzione a tutti i fattori, che ci si inoltra a cogliere la presenza del Mistero; per me, che vivo in un certo contesto di lavoro, è fondamentale avere la baldanza, la sicurezza che il vivere la mia umanità sia esattamente questo. Conoscere il Mistero non è qualcosa di impaurito, di privato: è la dignità con cui uno vive l’amico, è la lealtà nei confronti del reale che grida il Mistero. Invece, tante volte noi stessi percepiamo la nostra esperienza come qualcosa di strano, mentre è proprio l’esito di una esperienza normale.

La seconda sottolineatura – la prima era che è dall’esito di una esperienza normale che si capisce il Mistero – è che ancora da un’esperienza normale che si comincia ad amare il Mistero. Don Giussani racconta di un dialogo con un professore universitario (pagina 28): “Se lei ha davanti al muso questo infinito, informe, ma è una cosa a sé, è un’altra cosa rispetto a qualsiasi cosa lei possa immaginare, toccare e vedere, di fronte a questa realtà incominci ad esprimere la sua umanità intera nel modo più semplice, puro e ingenuo; dica, perciò, ‘Tu’ – perché è la parola più ingenua, più pura: tu -, incominci a dire ‘Tu’, ‘Dio, se ci sei, rivelati a me’. Come dice ‘tu’ al suo bambino o alla donna che ama, dica ‘Tu’ a questa realtà, identicamente”. È nella misura in cui si usa lo strumento che abbiamo, quello di un rapporto serio e amoroso con una realtà che si vede e si tocca, che ci troviamo ad avere nel nostro bagaglio la possibilità di inoltrarci nell’amicizia e nella confidenza col Mistero.

Ma Gesù cosa è – ed è il terzo passaggio, che si potrebbe intitolare “Conoscere Dio, amare Dio, conoscere Cristo” – se non Dio entrato nell’esperienza materiale, che è diventato qualche cosa che si vede, si sente e si tocca e si ascolta? Noi adesso lo conosciamo attraverso l’impatto con una realtà umana: questa è un’altra delle grandi idee a cui don Giussani ci ha introdotto. L’impatto con una realtà umana strana, umanamente eccedente l’esperienza solita, ci porta a domandare: “Come fanno queste persone ad essere così?”. È ancora la lealtà nei confronti di una realtà che si vede e si tocca: la conoscenza di Cristo si introduce proprio con questa semplicità di posizione nei confronti della realtà.

Il quarto punto compie il precedente: se io mi posso rendere conto che Cristo è presente da questa eccezionalità di presenza, come posso inoltrarmi nell’amore a quest’uomo, nell’amore a questa presenza che non si vede direttamente ma attraverso il cambiamento degli altri? Qui c’è una delle affermazioni più rischiose, più azzardate e quindi più interessanti di questo libro, perché aiuta a inoltrarsi nella risposta alla domanda ‘in che senso è dall’esperienza normale che si inizia ad amare Cristo?’ Siamo a pagina 89: “Per questo vi ho detto tante volte – ma chissà se è utile questa cosa. E poi è presa male! -: quello che non si sperimenta nella propria carne, nella propria umanità, nella propria esperienza non si può riferirlo al rapporto con Cristo. Il rapporto con Cristo lo capisci attraverso quello che vivi nella tua carne: ‘Pur vivendo nella carne, vivo nella fede’. Per questo io dico che non si può parlare di amore a Gesù, se questo non si è sperimentato nel rapporto con la propria madre, con un uomo, con una donna, con un amico, con un’amica: è impossibile, non è possibile”. Proviamo a esemplificarlo: di fronte a Gesù che dice che bisogna pregare sempre, se tu non hai fatto esperienza che la persona amata ti torna nella testa quando vuoi e quando non vuoi e questo è come se ti facesse prendere dal dolore perché è come se avessi lasciato via un pezzo di te per un certo tempo, se non hai mai sperimentato questo, non puoi capire cosa significa che bisogna ricordarsi di Gesù sempre. Se tu non hai amato una persona e di fronte al fatto che l’hai ferita, che dunque sei inadeguato di fronte a lei, se non senti l’esigenza di dire ‘Ma tu lo sai che ti amo? Tu lo sai che tutto quello che ho fatto contro di te non nega niente del fatto che ti voglio affermare?’, se non hai fatto questa esperienza non puoi capire Pietro che dice a Cristo ‘Tu lo sai che ti amo’ e non puoi capire la grandiosità del modo in cui Cristo di pone nei confronti di Pietro. Se tu non hai sentito l’impotenza di fronte a una morte, di fronte a una tragedia, non puoi renderti conto di cosa vuol dire che Cristo dice a quella donna ‘non piangere’. Devi sentire vibrare dentro di te l’umanità di fronte all’esperienza normale e naturale, solo così potrai inoltrarti nell’affezione a Cristo.

E infatti Giussani prosegue: “Non è che si debba essere artificiosi e provocarci a delle tentazioni a cui non andremmo soggetti per l’equilibrio del nostro cuore e per la compassione che Dio ha di noi; non è che dobbiamo forzarci, ma stare bene attenti a quello che insorge come modulazione, come attività del nostro cuore, perché Gesù si conosce da lì, dentro lì: ‘dentro’ si conosce”.

Il rapporto con Cristo è facilitato dall’esperienza di un rapporto umano, davvero umano, ma questo rapporto è reso possibile dal rapporto con Cristo: prima Giussani ci dice che è il rapporto con l’umano che chiarisce il rapporto con Cristo, adesso ci dice la strada di ritorno. È il rapporto con Cristo che trasforma tutti gli altri rapporti. Se uno non avesse incontrato Cristo in un certo modo, non potrebbe amare il suo compagno, la sua donna, il suo uomo: da qui deriva quel gusto della singolarità, quell’amore alle stelle, alla donna, al cielo che inoltra nell’esperienza umana del centuplo quaggiù.

Zardoni: Lo svolgimento del primo raduno della terza parte ha una modalità diversa dalla solita: non siamo noi che poniamo domande sulla Scuola di comunità, sul testo fissato prima, ma è don Giussani che arriva e pone una preoccupazione sulla quale ci costringe a stare per tutto il tempo dell’incontro. Se leggete il libro, vi accorgerete che ci sono i nostri interventi che cercano di sviare, di riportare il tema da un’altra parte e Giussani che sempre, implacabile, ci riporta alla sua preoccupazione. E la preoccupazione è questa: chi abbandona, dice il Vangelo, padre, madre, uomo, donna, campi, figli per me, riceverà la vita eterna e il centuplo quaggiù. “Cosa vuol dire il centuplo? Se un ragazzo lascia la ragazza a cui vuole bene, cosa vuol dira che sarà ripagato col centuplo quaggiù? È una domanda che lascio pendolare in aria: come un pendolo sulla vostra faccia. Rispondete!” (pagina 169). Poi dice: “Anzi, lo mettiamo a tema la volta ventura. Intanto ci pensate, ne discutete, ci ragionate, perché non lo sapete. Non credo che molte di voi saprebbero rispondere”. Ed ecco il motivo per cui gli interessa questa riposta: “Noi abbiamo orrore del sacrificio e della morte – e questo è giusto, perché l’uomo è fatto per la vita, dice la Sapienza, e quindi è stato fatto per la vita di letizia che è attesa della felicità -, ma, cristianamente parlando, neanche le facce del Gruppo Adulto testimoniano facilmente l’inversione che è venuto a portare Cristo”. E ancora: “Tutti quelli che pensano al cristianesimo, la stragrande maggioranza – atei o cristiani che siano, frati o teologi -, vale a dire: il cristianesimo si riconduce al desiderio della sofferenza, alla vita come sofferenza, alla vita come ‘valle di lagrime’. Se invece di lagrime dite ‘raggio di sole’, quello non è più cristianesimo. Paradossalmente, è come se il cristianesimo fosse il gusto del laido contro il gusto del puro: è un’inversione così gravida di ripugnanza e di bestemmia che non c’è n’è un’altra uguale”.

Ricordo a questo proposito di aver letto un’intervista a Ugo Pratt, il disegnatore di Corto Maltese morto un paio di anni fa, uno dei più grandi fumettari italiani: gli era stato chiesto come mai lui avesse fatto fumetti con eroi di tutte le religioni possibili e immaginabili, dai massoni agli ebrei, e non avesse previsto un eroe cattolico. Lui aveva risposto che il cattolicesimo è meno ricco di possibilità perché implica tanti sacrifici: essere cattolico significa votarsi alla rinuncia e talvolta alla sofferenza, significa vietarsi praticamente tutto.

Tutto il tempo dell’incontro, Giussani tornava sulla domanda del centuplo. Un accenno di risposta lo aveva anticipato dicendo (pagina 173): “Chi abbandona sé per me: è per un amore. Allora il discorso diventa tutto diverso: nessuno può condannare il sacrificio di una madre che si alza dieci volte di notte perché il bambino piange; non è esaltazione del sacrificio, è esaltazione di un amore”. E la risposta compiuta la dà l’incontro successivo, spiazzando i nostri tentativi (pagina 185): “Chi abbandona padre e madre, o sposa o sposo, o figli, riceverà la vita eterna. ‘Ma cosa c’entra la vita eterna con il padre, la madre, lo sposo, la sposa o i figli? Cosa c’entra?’ ‘Eh, è un’altra cosa’ No! La vita eterna è il compimento di quel desiderio che ti ha spinto ad amare la sposa, è il compimento di quel sentimento che ti lega a padre e madre. (…) C’è una inadeguatezza nel padre e nella madre, c’è una inadeguatezza nella sposa, nello sposo e nei figli ad essere e a vivere ciò che la parola padre, madre, figlio dice di ‘essere’ e di ‘amore’. C’è una disparità, manca qualcosa del compimento, sono a tre quarti della quota. L’eternità è il compimento di questo. ‘Chi abbandona padre o madre, sposo o sposa, o figli, o campi avrà la vita eterna’, raggiungerà quella completezza di amore e di gioia che, nel rapporto col padre, con la madre, con lo sposo, con la sposa, coi figli, incomincia ad avverarsi; raggiungerà il compimento di questo. Il che vuol dire che tutti questi rapporti sono acerbi e inesperti, mancano a se stessi”. E continua: “Ma se l’eterno dà il compimento, allora si capisce benissimo la seconda frase ‘e il centuplo quaggiù’. (…) È già in questa vita, se uno accetta l’evangelo, il gusto per cui è fatto come figlio di suo padre, il gusto per cui è fatto come innamorato della sua donna, come ammirato della sua donna, questo gusto diventa cento volte tanto. (…) Cristo ti fa guardare, amare l’oggetto, ‘avventare’ sull’oggetto stando a una distanza debita, e usare l’oggetto cento volte meglio. Chi non fa questa esperienza non ha capito cos’è il cristianesimo! Perché il cristianesimo, come diceva san Paolo, è: ‘Io, pur vivendo nella carne – vivendo nella carne vuol dire padre, madre, uomo, donna, figlio, amici -, vivo nella fede del figlio di Dio – guardo, sento, uso la cosa come la guardava, sentiva, usava Cristo -’. Questo porta a una utilizzazione della cosa, un arricchimento della cosa, una luce della cosa, un calore sulla cosa, un calore della cosa, una calma della cosa, una pace della cosa che è cento volte tanto quello che hanno tutti gli altri e che avrei avuto io. Noi dobbiamo alzarci, al mattino, chiedendo alla Madonna e allo Spirito di realizzare questa esperienza del centuplo, del ‘cento volte’, altrimenti non viviamo giusto! Non è più cristianesimo, ma sono parole astratte”. Questa umanità non sarebbe ragionevole, per cui non sarebbe umana, senza uno scopo che la connetta al tutto, perché senza scopo non c’è razionalità, anche la cosa più bella sarebbe in fondo malinconica, piccoli pezzetti belli senza senso. Il perché ultimo è come il sole, come leggeva prima Mario, senza l’attrattiva del sole tutto è nell’oscurità e nell’oscurità naufragano le forme di tutte le cose.

Lo dice l’ultima conversazione del libro, intitolata “Il progetto sulla storia”: se non ci fosse questo scopo, sarebbe come un disordine generale, perché la felicità e l’ordine sono un sogno, un sogno che non si potrebbe appoggiare a nulla della realtà presente. Ogni pezzo della realtà cerca ansiosamente la sua giustificazione e il suo terreno di applicazione in tutta la realtà; perciò tutta l’ultima parte di questo volume afferma proprio qual è il senso della storia e del mondo: la gloria umana di Cristo. A me ha colpisce tutte le volte che mi capita di andare a vedere la Cappella Sistina che è sempre piena di gente, tutti i giorni dei mesi, tutte le ore dei giorni, di tutte le razze. Mi sono sempre chiesta: perché tutte le realtà si trovano in pace qui? E penso che sia perché Michelangelo in questa cappella ha accennato e dichiarato che tutto il senso della storia è Cristo, il senso di tutta la storia – la volta – e di tutte le vite – le famiglie singole nelle lunette laterali, una delle quali, tra l’altro, e cioè una mamma che attende il proprio bimbo, è stata scelta per la copertina di Vivendo nella carne -. Michelangelo dice che il senso di tutto, l’attesa di tutti gli uomini è quell’uomo che è venuto, e la gente che visita la Cappella Sistina si sente compresa in un senso più grande.

Anche la prima Tischrede dell’ultimo capitolo, intitolata “Vivere come intensità” contiene questa provocazione (pagina 260): “Riconoscere Cristo come presenza che ci costituisce, questo è l’atto di fede: non viviamo la fede, se non riconosciamo questo. Ma questo Cristo che sei tu, Claudia o questo Cristo che è lei, perché si muove? Perché si alza al mattino? Perché va a lavorare? (…) Perché Cristo è venuto nel seno di Maria? Perché Cristo è vissuto nella sua casa di Nazareth? Perché Cristo si è mosso per andare a lavorare alla bottega del padre o nella grande bottega del Padre che erano le strade della Giudea, della Galilea, della Samaria, di Gerusalemme? Perché? È come se a noi mancasse qualcosa, che è l’esito del nostro impegno, l’esito del nostro dono, ma che sostiene il nostro dono, sostiene il nostro impegno, perché ne dà la ragione, la ragione commensurata al tempo e allo spazio, commensurata alla storia dell’uomo, proporzionata alla storia dell’uomo. (…) La passione per il mondo, lo struggimento perché gli uomini non conoscono Cristo; la formula più giusta è: ‘lo struggimento perché Cristo non è riconosciuto dagli uomini’. Questo è come se facesse attraversare la casa di corsa, attraversare l’università di corsa, attraversare le strade di corsa, attraversare il proprio ufficio di corsa”. Lo struggimento per la gloria di Cristo: la gloria di Cristo è Cristo che si svela ad ogni occhio, ad ogni cuore, come la consistenza di ogni cosa. Il tramonto di ogni giorno deve far toccare al nostro cuore il culmine dello struggimento che Cristo sia conosciuto e riconosciuto in ogni cosa. Su questo tema è rimasto tutto l’incontro e alla fine ha detto: “Ci penserete su e mi direte quel che pensate. Però, quello che ho detto questa sera è una rivoluzione. È importante capire il passaggio dalla fede alla speranza: è il compimento dell’affezione”.

La settimana successiva, una di noi gli ha chiesto di andare a fondo di questa affermazione; la sua risposta è tra le più intense e drammatiche, perché cariche di riferimento anche alla realtà sociale. Ad un certo punto dice (pagina 275): “Io so, coscientemente, che sto parlando di politica! Conseguenze politiche sono da vivere anche ora” E prima aveva spiegato: “La questione principale perciò è la concezione dell’uomo: che cosa implica il cambiamento che Cristo ha portato nella percezione, nell’immagine, nel sentimento dell’uomo? Quale cambiamento ha portato nel concetto di mente, nel concetto di cuore, nel concetto di popolo, nel concetto di responsabile della vita di un popolo, di capo e guida di un popolo? Se si fanno emergere queste cose allora uno comincia a desiderare che la società sia così, allora lotta nella società. Perché la speranza cristiana ha, innanzitutto, come suo proprio contenuto l’affermarsi della personalità secondo tutte le sue capacità per l’eternità; però – subito dopo! – implica che in questo mondo si battagli per i diritti di una personalità umana più compiutamente vissuta, più capita. Sto soffermandomi su queste cose perché la nostra vita di dedizione a Dio deve rispondere giorno per giorno, ora per ora, a questi problemi. Per questo è una vita drammatica. Per questo la figura dell’uomo data da San Paolo è l’uomo spe erectus (diritto nella speranza), che ha come ideale e scopo la vita nella sua totalità assoluta, in tutti i tempi fino alla vita eterna. Ma rendere come scopo la vita eterna ha implicati in quello scopo tutti i passi che compie, perciò tutto quello di lordo o di pesante o di ingiusto il suo cammino trova non può tollerarlo, deve fare quello che può”.

Loi: Ho conosciuto don Giussani tanti anni fa, nel 1960. Abbiamo avuto tante cose insieme, amici, discussioni, scontri, accordi, abbracci. E adesso mi è capitato tra le mani questo libro. Trovo che il cammino che abbiamo fatto è come se l’avessimo fatto insieme. E voglio dire una cosa prima di tutto. Non si può leggere don Giussani senza leggere tutto ciò che don Giussani ha detto e senza ascoltare tutto il suo discorso, la sua poesia – che in Grecia hanno chiamato poieo, fare – che è un fare, un confrontarsi con le cose del mondo, con la natura, con gli uomini, con se stessi. E se stessi non è l’io, che è una piccola cosa in confronto al nostro essere. E allora si scopre che il nostro io è così poco, è così miserevole in confronto a tutto ciò che è ignoto dentro di noi, che è profondamente noi stessi più di quello che noi pensiamo o sappiamo. Ecco che la poesia, la parola che esce da noi… mi viene in mente che la parola Mistero, cui così speso si è accennato, viene da un radicale che è mu, cioè “bocca aperta”, la bocca aperta di Dio. Noi siamo di fronte alla bocca aperta di Dio ogni volta che ci confrontiamo col mondo, con noi stessi, con gli altri. Ed esce, se noi ascoltiamo, se sappiamo stare attenti, la Parola. La parola che porta con sé il segreto di ciò che è oscuro, porta le ragioni della carne, appunto, le ragioni profonde di quello spirito che crea e che dà alla carne la vita, quello spirito che crea, che nella carne trova la sua completezza, la sua dimensione.

Con la poesia ho capito che le cose, come dice Dante, si conoscono per amore, amor che muove il sole e le altre stelle, amor che, ascoltandolo, fa dire la parola della Poesia che è parola della cosa, parola degli esseri, parola dell’essenza del mondo: io mi avvicino alle cose con il pensiero e le cose sono lontane perché sono un’altra cosa, non sono me stesso, sono lontanissime. Io, invece, mi avvicino con l’amore ed ecco che capisco il fiore, ecco che capisco il frutto, capisco l’altro di fronte a me come se fosse me stesso. È l’amore che avvicina all’essenza delle cose, ed è l’essenza delle cose che dà luce alla carne, ed è la carne che nella sua esplicazione, nel suo farsi atto dà testimonianza della luce.

Leggendo Giussani mi sono riconosciuto, ho ritrovato ciò che ho sentito, vissuto attraverso la carne e attraverso la parola. Mi viene da pensare che le parole di Giussani sono le mie parole, sono le parole che vengono da me quando scrivo poesie, quando ascolto la mia voce interiore, quando mi lascio suggerire ciò che nasce dentro di me. Credo che l’insegnamento di Giussani sia quello di far muovere noi, prima di tutto, all’ascolto, all’attenzione e poi all’accoglimento, a saper accogliere la propria voce e la voce degli altri, e la voce della natura, la voce dello Spirito e la voce di Dio che ci parla attraverso la carne, perché tutta la carne, questo, tu, voi, è tutta creatura di Dio. Ed anche questa fratellanza che c’è tra noi. Quando don Giussani parla del tutto, parla di questa fratellanza intima fra tutte le cose del mondo. E quindi dedicarci al particolare è il tutto, perché il destino vostro, così come il destino della natura, è il mio destino. È il destino dell’uomo che percorre l’esperienza della carne e che nell’esperienza della carne dà testimonianza della bellezza della creazione, della Gloria, come dice don Giussani.

Penso che il discorso di don Giussani non sia che una parte del nostro discorso, una parte della nostra difficoltà nel far tacere la mente ed abbandonarci all’amore, far smettere il nostro rapporto intellettuale, mentale col mondo e abbandonarci al nostro essere, in modo che il nostro essere divenga atto all’interno della carne, divenga azione. Giussani parla del santo, che diventa proprio movimento della parola di Dio,: ma anche nell’artista, anche nel poeta, diventa azione, perché anche il poeta compie il sacrificio, anche l’artista compie un sacrificio, compie il sacrificio di riempire la lontananza e anche il sacrificio di dedicare la propria vita a riempire questa lontananza. Compie un atto d’amore grandissimo, poiché è quello di isolarsi in un mondo come questo e nell’isolamento trovare l’unità con tutti gli uomini, ritrovare la propria fraternità con gli altri uomini, e quindi ascoltare la voce, la bocca di Dio, attraverso il proprio rapporto con le cose, il proprio rapporto con la natura, col proprio corpo, con le proprie emozioni, con i propri pensieri inconsci, riproporre cioè nel sacrificio, nel fare il sacro – ecco perché io quando mi definiscono laico, dico che io laico non sono perché, come dice Ungaretti, è venuto il momento in cui il poeta deve prendere sulla propria carne, nella propria carne il compito del sacerdozio, cioè il compito di avvicinare gli uomini all’essenza delle cose attraverso la parola. Perché la parola è proprio questa rivelazione, è questo momento in cui le cose che ci sono lontane le percepiamo come nostre, come vicine, le cose che siamo abituati a considerare con la mente diventano nostro patrimonio, diventano parte di noi.

Quando noi leggiamo un verso di un poeta non possiamo spiegarlo, non è un parto della mente, non è un pensiero, è un atto ed è questo atto che dà testimonianza del sacrificio del poeta o dell’artista. È questa cosa inspiegabile, impossibile, che ci fa tremare, ci fa sentire una vicinanza che è impossibile rendere in termini di ragione nei confronti della realtà, nei confronti della carne.

Voglio concludere questo mio breve intervento, con una poesia – che io ho scritto in milanese ma che vi leggerò in italiano – che mi pare dia il senso di questo libro di don Giussani.

Come mi piace il mondo,/ L’aria, il suo fiato/ Gli alberi, l’erba, il sole/ Quelle case/ Le belle strade/ La luna/ Che si sfalsa, si muove/ L’edera tra le case/ Il salso del mare mi piace/ Le matte stupidate/ Il calice tra gli amici/ Gli abeti nel vento/ E tutte le cose di Dio/ Anche le piccolissime/ E i tram/ Che passano/ E i vetri/ Che risplendono/ Le spalle che vanno di fretta/ A occhi bassi/ La donna/ Che ti svisa i sentimenti/ È lì il mondo/ E pare aspettarsi che tu lo guardi/ Gli dai attenzione/ Giacché lui c’è sempre/ Ma è facile dimenticarlo/ Distrarsi nei pensieri/ O essere addormentati/ Ma quando arriva l’ombra della sera/ Come ti chiama il mondo/ Come si allarga/ E ti viene addosso quel cielo/ Nella sua vera bellezza/ Senza finzioni/ Nel suo riflettersi/ E allora/ Nella pienezza di te/ Cambia il colore del mondo/ E il tuo colore.

Cesana: Ringraziamo questi nostri amici per la testimonianza e l’aiuto che ci danno a vivere nella carne. Che cosa è la carne? La carne è una promessa non mantenuta, perché la carne attrae, ma non riesce da sola a mantenere ciò che promette. Per vivere nella carne bisogna guardare a una presenza capace di redimerla. Citerò anche io una frase di don Giussani: “Il sì di Pietro, sta in capo alla fede”, al riconoscimento di ciò che è più grande di noi, alla radice della speranza, cioè dell’indomabilità nell’attesa, al fiorire della carità, cioè della capacità di amare. E questo è ciò che l’uomo desidera, il sì di Pietro, il sì di uno come noi, un po’ traditore, un po’ vigliacco, legato alla carne, per vivere nella carne. Ricordo una frase di don Giussani durante una riunione in Brianza, che per me è sempre stata di grande consolazione: “Dio è come un imprenditore brianzolo; se investe su qualcuno, è difficile che ci perda”.

 

Data

26 Agosto 1998

Ora

16:30

Edizione

1998
Categoria
Incontri