Il punto è uno sguardo

Agosto 2020

di Costantino Esposito

Lo strano Meeting di quest’anno ci sta riservando sorprese. Dico “strano” perché quando ci sono arrivato ho pensato subito, formulando una domanda muta tra me e me: “E allora!? Dov’è il Meeting?”.

Quello che mancava era un pezzo finora assolutamente necessario, o per meglio dire il protagonista principale, cioè la gente, le facce, i corpi stessi, il muoversi delle persone, a volte incerto, a volte deciso, ma sempre mosso da qualcosa che valeva la pena scoprire, seguire, condividere. Le persone in carne e ossa: ecco quello che non trovavo, un’assenza che rendeva gli spazi un po’ insensati, quasi inutili. Vuoti. Ma anche l’assenza – come avrei scoperto di lì a pochissimo – può portare con sé una promessa di pienezza.

Con alcuni amici che avevo ritrovato fortunatamente “in presenza”, e con cui ci guardavamo all’inizio come fossimo dei sopravvissuti, è però scattato da subito qualcosa di assolutamente interessante: cercavamo attorno a noi e sulle nostre stesse facce quello per cui eravamo venuti a Rimini (lasciando a casa famiglia, amici, colleghi, gente che avremmo invitato a venire con noi...).

Cercavamo, andavamo come a caccia di quello che in teoria sapevamo da sempre, e ora, quando non c’era ad aspettarci la macchina grandiosa e già collaudatissima delle edizioni succedutesi per quarant’anni... beh ora non era più difficile, ma era paradossalmente più facile, meno scontato, meno “saputo”, cercare la presenza che ci aveva attratto anche quest’anno. Anche se con la mascherina e il distanziamento e la misurazione della temperatura. Era come una cosa nuova, e rinasceva la sfida e il gusto di intercettarla.

Bisognava guardare, guardare attentamente a quello che capitava negli studi attrezzati per le dirette televisive, gli schermi con le facce grandi degli ospiti collegati a distanza, il modo di esserci degli invitati venuti di persona, che se non avevano davanti le migliaia di presenze del pubblico, avevano la consapevolezza che attraverso la telecamera stavano interloquendo con persone sparse in tutto il mondo, nelle loro case e nelle tante piazze collegate. L’assenza si stava rivelando una presenza ancora più capillare, diffusa, condivisa.

Ed è a questo punto che ho capito il punto decisivo, o meglio l’ho capito di nuovo, come tutte le altre volte che ero venuto al Meeting, ma stavolta in maniera inedita, strana, ancora più acuta di quando credevo di conoscerlo per abitudine e me lo aspettavo a priori. Il punto è uno sguardo, lo sguardo di qualcuno sulla realtà, sul mondo e su sé stessi. Perché l’umano si gioca tutto in uno sguardo, che non è solo una capacità visiva, ma è una posizione, una “postura” dell’io. Tanto è vero che tante volte noi guardiamo le cose, ma non le vediamo, non ci accorgiamo. Il punto decisivo, il motivo per cui eravamo venuti, era un invito a guardare, seguendo e immedesimandosi con lo sguardo di qualcuno che vede più di noi, più lontano, o più vicino, o più a fondo. Ed era lo stesso invito rivolto ai tantissimi (i più) che non erano venuti, ma che erano con noi seguendo la traccia degli stessi sguardi in diverse parti del mondo, a fusi orari diversi, nelle condizioni più varie.

Vorrei dire solo di alcuni di questi sguardi in cui si “risvegliava l’umano”, come dice il titolo del libro di Julián Carrón che per me ha segnato come l’orizzonte di tutto il Meeting di quest’anno. Il primo sguardo è quello di Mario Draghi, il primo giorno. Non ritorno sui contenuti specifici del suo discorso, portatore di una visione ampia, critica e consapevole del momento drammatico che in Italia e nel mondo si sta vivendo con la pandemia da Covid-19. Mi soffermo invece su un punto apparentemente secondario, ma che in realtà costituisce la chiave segreta dell’intervento di Draghi. Quello che ho visto e ho ascoltato è lo sguardo e il tono di un uomo per cui l’analisi precisa dei fattori tecnicamente in gioco nella condizione socio-economica attuale era accompagnata e sostenuta da una sorta di struggimento per la vita e il destino dei giovani. Che non vada persa neanche una vita: non è questo lo scopo di tutte le strategie bancarie, finanziarie e politiche del mondo?

Ed è stata una sorpresa rivedere il basco Mikel Azurmendi intervistato da Fernando De Haro, a proposito del suo libro “L’abbraccio” (Rizzoli). Già altre volte lo avevo sentito criticare con passione e ferocia i pregiudizi della sociologia e dell’antropologia moderne, che non si coinvolgono mai con il loro vero oggetto, cioè l’esperienza umana. Ma questa volta la critica era diventata una libertà di proposta, uno sguardo nuovo sull’esperienza delle persone, una cultura nuova nata dall’incontro con una comunità cristiana viva che aveva cambiato radicalmente la vita di Mikel. La novità culturale da proporre a tutti coincideva con la sua esperienza storica particolare.

E quando Eugenio Borgna, l’icona stessa della psichiatria fenomenologica, ha parlato del suo lavoro con i matti e dell’avventura della ricerca durante un’intera vita, ha citato il suo vecchio professore che gli diceva: “anche se salvi uno solo dalla follia, la tua vita avrà avuto un senso”. È sempre quella presenza irriducibile che tornava, la presenza dell’io, lo sguardo di un uomo, la possibilità di essere strappati dal nulla.

Umberto Galimberti lo ha rilanciato a suo modo, perfino rischiando di contraddire sé stesso. Dapprima aveva detto che di fronte al nichilismo che svuota di senso le vite dei giovani e di fronte alla tecnica che riduce le persone a supini esecutori del meccanismo economico del consumo, si era appellato, come via di salvezza, al recupero del senso greco della misura, a limitare cioè i propri desideri per non rischiare di bruciarsi. Ma poi subito dopo, con uno sguardo di commovente sincerità a sé stesso, di fronte a tutti noi, aveva affermato che dal nichilismo può strapparci solo un’esperienza d’amore, un amore che è l’unico a farci conoscere davvero noi stessi e il mondo. E l’ha fatto in prima persona ricordando la figura di sua moglie mancata.

Ecco perché ero venuto al Meeting, ecco perché tanti si collegano col Meeting: per scoprire l’origine di questo sguardo. Uno sguardo umano che l’uomo non potrebbe darsi con le sue sole capacità. Perché solo quando si è amati si può guardare così tutto. Ci vuole un padre, uno che generi lo sguardo e che riapra la speranza. Come ha detto – mi verrebbe da dire come ha “visto” e ci ha fatto vedere Carrón nel suo dialogo con il presidente Scholz – ci vuole un punto di certezza ora, nel presente, una gratitudine per il fatto che la realtà c’è e io ci sono e tu ci sei, per continuare a sperare. Non per illusione, ma per sorpresa, per meraviglia. Quella meraviglia senza la quale non riusciremmo ad ascoltare il sublime che ci parla nelle cose di ogni giorno.