UNA CONOSCENZA CHE ALLUNGA LA VITA. Il contributo della ricerca farmaceutica

Partecipano: Sergio Dompé, Presidente di Farmindustria; Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca; Angelo Luigi Vescovi, Neurofarmacologo. Introduce Ubaldo Casotto, Vice Direttore de Il Nuovo Riformista.

 

UBALDO CASOTTO:
La conoscenza e la ricerca, una conoscenza che allunga la vita. Due brevi parole di introduzione prima di cedere la parola ai nostri ospiti. Perché io penso che la ragione non sia la misura di tutte le cose ma un occhio spalancato e curioso sulla realtà, non sia lo strumento con cui costruiamo gabbie concettuali nelle quali poi incaselliamo e quindi riduciamo quello che succede, ma sia appunto questa apertura infinita, pronta ad ospitare ogni novità razionalmente comprensibile e quindi indagabile che le si pari davanti. Se la ragione è tutte queste cose qui, allora la ricerca scientifica qualifica la ragione e quindi l’uomo come vertice della sua attività conoscitiva, ed è una conoscenza che allunga, potremmo dire che in qualche modo salva la vita, come appunto recita il titolo di questo incontro. La salva in due sensi, nel senso che la rende attiva e densa, e quindi più vera e morale, nei confronti del significato e di questo ci parlerà molto il professor Vescovi, e la salva nel senso più pratico che le sue ricadute, ad esempio nel campo medico, farmaceutico e farmacologico, allungano e contribuiscono a salvare la vita materiale di ciascuno di noi. Ci sono qui tre persone che, appunto, a diverso titolo sono impegnate con questo tema della ricerca. Un professore universitario, professor Vescovi, Angelo Vescovi, che nonostante quello che c’è scritto su tutti i siti internet e su tutti i blog non è più al San Raffaele ma è all’Università di Milano Bicocca e all’ospedale Niguarda. È un biologo famoso in tutto il mondo per le sue ricerche sulle cellule staminali. Poi c’è Sergio Dompé, presidente di Farmindustria, titolare dell’omonima casa farmaceutica e lui opera appunto in quel settore in cui la ricerca diventa manufatto ed entra pesantemente nella nostra esperienza quotidiana e in modo importante anche nella vita pubblica ed economica di un paese. Infine Mariastella Gelmini, ministro, vedo molto amato, dell’istruzione, della ricerca e dell’università, e dal suo dicastero e dalle sue politiche e dai suoi finanziamenti dipende buona parte del destino e dello stato della ricerca del nostro paese. Parleranno nell’ordine in cui ve li ho presentati. Nel primo giro di interventi chiederei al professor Vescovi di fare il punto della situazione riguardo al campo in cui è impegnato, se possibile non partendo dalle polemiche teoriche sui limiti o meno della scienza, ma dai risultati concreti, dall’esperienza. Ci diceva don Giussani, qui a Rimini tanti anni fa, “vi auguro di non stare mai tranquilli”. Ecco io vorrei chiedere al professore come si traduce questo augurio nella vita di uno scienziato, che sa che la sua ricerca ha a che fare con la sofferenza e la speranza di tante persone.
Prego professore

ANGELO LUIGI VESCOVI:
Sì, grazie, grazie anche dell’ottima domanda, direi che l’invito di don Giussani è stato accolto dal sottoscritto il quale raramente dorme di notte, perché si sveglia alle 4 per cercare di quietare le proprie ansie di varia natura. Sicuramente una delle ansie riguarda i finanziamenti… questa è una battuta, ovviamente non c’entra il ministro! Siccome queste battute diventano dei boomerang, sia chiaro che il problema dei finanziamenti in Italia ha radici profonde che vanno nei decenni e non dipende da questo governo. Però è uno dei nostri grossi pensieri. In realtà credo che questo augurio di don Giussani fosse un augurio, in realtà, di implementare una fisiologia che è proprio tipica del ricercatore. Il ricercatore vive d’ansia probabilmente, il ricercatore è, una analogia che ho usato recentemente, è in realtà un cacciatore. Noi andiamo a caccia, perseguiamo un obiettivo, perseguiamo la nostra preda che può essere la ricerca su una molecola, sul funzionamento di una molecola o più in generale, come ho avuto la fortuna di fare io, una ricerca che è finalizzata eventualmente a sviluppare delle terapie per le persone che soffrono. Quindi se c’è qualcosa che caratterizza proprio il ricercatore è l’inquietudine, e l’inquietudine che nasce dal cercare, non dal trovare la risposta; paradossalmente questo è un errore che molti fanno. Il nostro problema non è quasi mai trovare la risposta giusta, ma quasi sempre cercare la domanda giusta, la risposta poi eventualmente verrà. Quindi questa è un’ansia che ci perseguita, ma che anche ci sprona e ci spinge a fare il nostro lavoro che, posso garantire, io ho 47 anni, ho iniziato a fare questo lavoro quando ne avevo 18, è una cosa che caratterizza praticamente tutti quelli che sono realmente, nel cuore, dei veri ricercatori: il perseguire l’obiettivo della conoscenza, che poi è il tema di questo incontro.
Per quanto riguarda la conoscenza nell’ambito della ricerca farmacologica, magari faccio una chiosa successivamente, però sfrondo immediatamente nella seconda parte della domanda, se mi è concessa, e cioè qual è lo stato dell’arte nel settore, nel problema in cui mi muovo, che poi pochi sanno ma è in realtà un settore, una branca della ricerca farmacologica. La situazione è molto particolare, molto buona ma è finalmente il risultato di circa 20 anni, forse 30 di lavoro nel settore cellule staminali. Noi abbiamo vissuto una… non voglio entrare assolutamente in questo argomento oggi, ma abbiamo vissuto un momento di fortissime polemiche durante la campagna referendaria che riguardava l’utilizzo degli embrioni per la ricerca, delle cellule staminali embrionali e quant’altro. Ricordo dei proclami in cui ci fu spiegato come impedire l’utilizzo degli embrioni nella ricerca, avrebbe completamente bloccato lo sviluppo di tutta una serie di filoni, soprattutto orientati verso la messa a punto di nuove terapie. Ora, la prima forse buona notizia che posso dare è che non solo questo non è successo, ma che come sempre la scienza, quella vera, quella con la S maiuscola, fa, sono state trovate delle soluzioni alternative. Paradossalmente – e questa è una opinione condivisa dai miei colleghi di tutto il mondo, anche da coloro che sono stati sempre a favore della ricerca sugli embrioni – paradossalmente il fatto d’avere dato dei freni, a mio parere onesti, basati su delle osservazioni etiche e anche morali, non necessariamente religiose, all’utilizzo degli embrioni per la ricerca, ha presentato ai ricercatori e poi agli scienziati un problema che doveva essere affrontato inizialmente e che non è stato affrontato e cioè: esistono delle alternative? Era stato aprioristicamente deciso che queste alternative non c’erano e invece, quasi magicamente, io vi posso garantire, ripeto ho quasi 30 anni d’esperienza nel settore, non ho mai visto uno sviluppo così veloce come quello che vado a raccontarvi, molto rapidamente e cioè.. praticamente un anno dopo la chiusura del referendum Yamanaka, in Giappone, ha scoperto una tecnica che permette di riprogrammare le cellule adulte del nostro corpo, banalmente le cellule dell’epidermide, per produrre cellule in tutto e per tutto simili, ma praticamente uguali, alle cellule embrionali, quelle che una volta si potevano derivare solo dagli embrioni. La prima reazione è stata di totale scetticismo. Io ci sono già passato, ho esperito questa cosa meravigliosa nel ’99, dopo la nascita dei nostri studi, che dicevano che alcune parti del nostro organismo adulto potevano venire trasformate in altre parti – leggi cervello in sangue -; bene, dal 2006 a oggi, stiamo parlando di tre anni, sono uscite alcune centinaia di lavori, non li ho contati, che dimostrano che la tecnica di Yamanaka è reale, la tecnica è stata trasferita alle cellule umane, oggi come oggi è possibile prelevare cellule dall’epidermide dell’individuo, riprogrammarle fino al loro stato embrionale senza produrre embrioni, quindi in assenza di un problema etico, e da queste cellule derivare delle cellule clonate, cioè mie – le ho prelevate dalla mia epidermide e quindi quelle cellule sono mie, quindi io non le rigetterò all’atto di un trapianto – per generare tessuti di tutto l’organismo. Le prime cellule generate sono state cellule del cervello. In altre parole, ….grazie per l’applauso. La situazione è assolutamente a livelli incredibili, Yamanaka, Genentech, Al Gore hanno creato una sorta di consorzio che si dedicherà allo sviluppo di questa tecnica. Termino rapidissimamente spiegando che cosa significa. Significa che tra pochi anni, quando dico pochi sono veramente pochissimi, ognuno di noi andrà in ambulatorio, gli verrà prelevato un pezzettino della sua pelle e poi andrà a casa. Verranno preparate delle cellule che sono le sue, e che sono in grado di produrre tutte le parti del suo organismo e verranno congelate. Nel momento in cui gli studi, ed è la seconda parte di questa breve presentazione, gli studi della ricerca ci diranno che quelle cellule manipolate in un certo modo, trapiantate in un certo modo, possono produrre un certo effetto su una malattia, noi potremmo andare a prelevarle e sviluppare la nostra terapia, senza problemi di rigetto e senza problemi etici. Questo vi dimostra una cosa: quando alla scienza si presenta un problema, se è scienza, la scienza è in grado di risolverlo; prendere delle scorciatoie, cercando di scavalcare le problematiche etiche e morali, per motivi che sono di varia natura ma che sicuramente coinvolgono anche forti interessi commerciali, non è sempre la via migliore, perché questa di Yamanaka permette di fare delle cose che, con le cellule staminali embrionali, non sarebbero possibili.
Vi ho detto che queste cellule potranno essere utilizzate quando noi avremmo dimostrato che potranno essere applicate in un determinato contesto terapeutico, allora oggi mi permetto, se Casotto mi da l’autorizzazione, di dirvi che il 13 luglio e il 13 agosto, speriamo che il 13 porti bene, abbiamo spedito all’Istituto superiore di sanità italiana e all’AIFA, l’agenzia per il farmaco, la richiesta di poter procedere per la sperimentazione con le cellule staminali cerebrali nei pazienti affetti di SLA. Una sperimentazione in fase 1. Mandare la richiesta non vuol dire riempire il modulo, vuol dire 4 anni di lavoro a costruire laboratori particolari e a produrre dati da presentare per vedere d’ottenere questa autorizzazione. Nel momento in cui avremo questa autorizzazione, pensiamo di procedere sui pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica, Coscioni per intenderci. Dopodiché, e questo è proprio il mio augurio, se dovessimo essere fortunati e queste cellule al minimo non producono danni al paziente, queste sono cellule staminali cerebrali, da feti d’aborto spontaneo quindi senza un problema etico, sono applicabili in linea di principio a tutte le patologie neuro generative, leggi Alzheimer, Parkinson, sclerosi multipla e quant’altro, e speriamo quindi d’allargare l’utilizzo ad altre malattie. L’abbiamo costruito in un modo molto particolare e di questo sono abbastanza fiero perché è una iniziativa italiana, la produzione di queste cellule staminali cerebrali umane dà origine ad una banca cellule, vuol dire che c’è una banca dove queste cellule sono depositate. Nel mondo non si sviluppano sperimentazioni cliniche, ma anche in Italia, perché non ci sono le cellule disponibili, sono estremamente difficili da gestire, noi intendiamo donarle a tutti coloro che ne facciano richiesta, con una proposta di protocollo clinico che sia adeguato. Questo significa allargare ovviamente tantissimo la possibilità di fare sperimentazione. Quindi rispondo alla domanda a che punto siamo, almeno per quanto riguarda la ricerca nell’ambito delle malattie neurodegenerative: siamo all’inizio delle sperimentazioni cliniche. Noi siamo in contatto con un gruppo americano dell’università del Wisconsin, che sta facendo lo stesso tipo di sperimentazione. Nel settore, questo che vi ho presentato come caso emblematico, e mi sono fatto anche un po’ di pubblicità perché abbiamo bisogno anche di supporto fosse solo morale, è in realtà un trend che sta prendendo piede. Ed è un trend che vede, soprattutto negli Stati Uniti, diversi gruppi fare richiesta di potere iniziare sperimentazioni attraverso il trapianto di cellule staminali cerebrali o di altra natura. Forse vale la pena di sottolineare, visto che c’è qui Sergio Dompé, questa cosa molto interessante, che laddove in Italia questa iniziativa è stata sviluppata da una associazione onlus, che si chiama Neuroton, che ho creato io per cercare di raccogliere un po’ di soldi, negli Stati Uniti queste terapie sperimentali sono tutte portate avanti da gruppi che lavorano in collaborazione con gruppi accademici, quindi l’importanza della collaborazione con l’università, ma sono tutti gruppi di società di biotecnologie, che hanno speso dai 20 ai 40 milioni per sviluppare una possibile sperimentazione sull’uomo. Questo perché questo tipo di ricerca non ha solo bisogno di cervelli ma ha anche bisogno di supporto e in questo entra moltissimo nell’accademia il supporto da parte delle industrie di biotecnologie. Ma guardate, è iniziato un fenomeno che pochi possono percepire dall’esterno, ve lo troverete nel giro di un paio d’anni. E’ un effetto valanga: nel momento in cui alcune sperimentazioni cominciano a bucare, come un po’ un palloncino d’acqua, all’inizio esce una goccia, dopo di che si rompe ed esplode la cascata. Quindi c’è motivo d’essere ottimisti, bisogna anche stare estremamente attenti, perché un errore in questo stadio rischia di bloccare lo sviluppo del settore. Io però ho sempre detto che ho cominciato a fare questo lavoro perché ho letto di Galileo, un libro su Galileo: mi sono ricordato recentemente che non è così. In realtà all’età di 6 anni mi regalarono un libro su, non gli uomini famosi, ma gli uomini che sono stati importanti per la storia dell’umanità, Martin Luhter King era un esempio, ma uno di questi era il chirurgo Christiaan Barnard. È stato il primo, e ho finito, è stato il primo a cercare di fare una sperimentazione molto particolare, quella che portava al trapianto al cuore, i primi suoi pazienti sono morti e Barnard è anche stato… non so se è stato imprigionato, ma sicuramente portato in tribunale; se non fosse che ha insistito, poi credo si sia trasferito in Texas, noi ad oggi non avremmo i trapianti d’organo e in particolare i trapianti del cuore. A volte, purtroppo, me lo sono detto molto in questi giorni, ci vuole il coraggio di cominciare. Ci vuole il coraggio di provare, anche se i margini di successo sono molto scarsi, però a fronte del coraggio di provare ci vuole anche sempre accuratezza, cautela e assolutamente rispetto per i pazienti. Noi ci muoviamo in questo settore, tutti gli altri gruppi che fanno queste cose in questo settore si muovono in questo senso. Quindi sicuramente la situazione è molto buona. L’ultima prece è quella che, essendo il nostro un settore in piena esplosione, c’è molto business, ma non il business dell’industria, tutti se la prendono con l’industria che ha sbagliato. Penso al business di queste cliniche della speranza, una in Germania addirittura, non pensate alla Cina per forza, ma in Cina, in Russia, alle Barbados, dove i pazienti si recano spendendo 20, 50, 60mila euro per fare questi trapianti, che poi non sono veri trapianti e non servono assolutamente a niente. Perché? Perché non sono basati sulla vera scienza, sulla sperimentazione, su quella che è la farmacologia che è basata sulla conoscenza. Quindi teoria, valutazione della teoria tramite esperimenti, rivalutazione dell’ipotesi originali e sperimentazione continua. Questo non avviene. E molti pazienti vanno all’estero per provare questo genere di sperimentazione. La nostra speranza è che con l’inizio di questa sperimentazione anche nel nostro paese questo flusso si possa fermare. Anche perché alcuni pazienti, pochi lo sanno, sono tornati con la meningite e sono anche morti. Ecco, questa è la situazione del settore, credo che mentre parlavo abbia trasmesso che cos’è l’inquietudine del ricercatore quando ricerca ma soprattutto quando spiega. Grazie.

UBALDO CASOTTO:
Grazie al Professor Vescovi per questa testimonianza di inquietudine ma nello stesso tempo di indomabilità. E grazie anche per quella notazione metodologica iniziale, che mi ha molto colpito. Lo scienziato è quello che pone la domanda giusta, alla ricerca della risposta. A Sergio Dompé, premessa, che non è proprio una captatio benevolentiae: nei confronti delle case farmaceutiche noi abbiamo una sorta di odio, nel senso che godete di fama controversa. Ci affidiamo a voi e ai vostri farmaci pieni di speranza, perché ne consigliamo tanti, forse ne abusiamo. Nello stesso tempo però il retro pensiero, il sospetto che le nostre malattie siano un po’ la vostra fortuna, aleggia. Fatta questa captatio benevolentiae all’incontrario, io volevo chiederle se è possibile documentare, anche in base alla sua esperienza, la frase che fa da titolo a questo incontro: che la ricerca farmacologica è una ricerca che allunga la vita. Ovviamente tenendo anche presente alcune delle sollecitazioni che le ha fatto il professor Vescovi. Prego.

SERGIO DOMPÉ:
Credo che il titolo di quest’anno sia non adatto ma perfetto per cercare di documentare come, nella ricerca farmaceutica, anche le ricerche che non vanno bene, se sono state condotte in perfetto stato dell’arte, sono una notizia negativa per la società che lei conduce, ma una notizia, un contributo positivo per la comunità. Non c’è nessun investimento che abbia il carattere di eticità, che è quello che produce conoscenza per la salute della collettività. E se voi mi donerete 10 minuti, non di più, del vostro tempo, io cercherò di separare la strada delle suggestioni dalla strada della realtà, che magari è meno eclatante e meno brillante, ma è quella che secondo me va guardata con attenzione per capire realmente dove stiamo andando. Noi in Italia abbiamo una capace organizzazione di ricerca, estremamente variegata, poco organizzata, estremamente differente e quindi deve essere ancora oggetto di uno sforzo, che il ministro dal mio punto di vista ha iniziato molto bene, per essere portata a sistema. Cioè di rispondere soltanto ad una reale regola meritocratica, essere messi in posizione, i più bravi, di contribuire al cammino della scienza e del destino dell’uomo sulla terra. Noi abbiamo sentito un Angelo Vescovi, che è uno dei nostri più brillanti ricercatori, ma, attenzione, in lui, pur senza nessuno spirito speculativo perché è una persona di una correttezza e di una onestà diamantina, il suo entusiasmo può essere foriero di errori e di misinterpretazioni. Non certo da parte dei suoi colleghi, o da chi conosce bene quanti elementi di verifica un progetto di ricerca ha prima di essere messo in terapia, ma da una persona che soffre e che non vede possibilità di cura. Questi infatti, sentendolo parlare, può essere indotto nell’errore grossolano, marchiano, che io cerco di evitare sempre parlando a nome dell’industria, che la cura sia dietro l’angolo. Le cure che funzionano in termini farmacologici spesso e volentieri non funzionano, o non funzionano a sufficienza o non funzionano con le conoscenze che abbiamo oggi sull’uomo. Quindi attenzione, perché purtroppo anche quella spinta che c’è di andare a provare qualsiasi tipo di suggestione non verificata, ed è un problema molto serio che stiamo affrontando anche col ministero del welfare e con l’AIFA, è la necessità che qualsiasi cura venga prima verificata attraverso sperimentazioni cliniche, come loro esattamente stanno facendo. Quando non c’è la cura e quando non ci sono prove provate di efficacia, lì si aprono degli spazi perché la gente, legittimamente, vuole provare qualsiasi cosa, lì diciamo ci sono dei pericoli molto molto grossi. Risultati della conoscenza negli ultimi anni:
(io parlo con fatti – se può andare la prima slide rapidamente)
Voi guardate l’allungamento (la prima slide) della vita dal 1881 al ’71, al ’91, voi potete dire: è frutto di tutta una serie di situazioni dal frigorifero (il frigorifero è un’innovazione che ha migliorato la qualità di vita e l’ha allungata, perché le persone mangiavano i cibi avariati e si prendevano le infezioni e non avevano i farmaci per curarle e dopo ci lasciavano la pelle), alle case riscaldate, all’acqua corrente, mille cose che nulla hanno a che fare con la farmaceutica ma che hanno allungato la vita. Però vi prego di guardare dal ’91 al 2008. Guardate che è una manciata di anni, dal ’91 al 2008, anche nella vostra vita pratica, se vi chiedo di ripercorrerla, per le persone che come me hanno superato i 50, è niente. Eppure in questo arco così breve, ci sono già 4/5 anni di aspettativa di vita in più tra chi nasceva nel ’91 e chi nasce nel 2008. Il 40%, che è tantissimo, di questo grande elemento di attesa di sopravvivenza, è stato fornito dalla ricerca farmaceutica.
(prossima slide)
Più ha anni la vita, più vita ha gli anni. Guardate, dal ’94 al 2006, la percentuale di persone oltre i 65 anni che dichiara di sentirsi bene. Chi ha delle persone, diciamo, anziane in famiglia oggi e gli offre tutto l’affetto che tutto sommato è la medicina più importante di cui i nostri anziani hanno bisogno, spesso e volentieri vedono che a 75, a 76 anche a 80 anni incominciano, se sono in buona salute, a fare una vita abbastanza normale, diciamo, tutto sommato una vita che 30-40 anni fa non si poteva ipotizzare per persone di quell’età. Questa è la sfida. Guardate le percentuali e la differenza.
(prossima slide)
E andiamo nel merito del miglioramento sulle patologie più importanti.
Riduzione del tasso di mortalità: guardate cosa è stato fatto dal ’78 al ’94, ma anche dal ’94 al 2006, è incredibile: 57,8 % di risultati in più sul cardiovascolare, 27% su tumori neoplasie e adesso, diciamo, sta aumentando, è la prima volta in questi anni che abbiamo invertito la curva di mortalità sui tumori, che erano sempre stati in crescita, finalmente non sono più in crescita ma sono in leggero regresso. Malattie dell’apparato respiratorio, malattie infettive.
(prossima slide)
Progressi nelle patologie oncologiche – mi spiace vado veloce ma è importante che voi vediate, perché queste non sono chiacchiere, signori, sono fatti già conclamati e incontrovertibili -. Guardate gli elementi di differenza, e mi spiego, ’75, ’77, ’86, 2002, per chi contraeva, ad esempio, un tumore al seno: dal 75% all’89% di possibilità di sopravvivenza. Stiamo parlando del 40% in più in una manciata d’anni. E vedete anche le altre.
(prossima slide)
Risultati frutto della conoscenza di migliori terapie, di maggiore prevenzione e di capacità di diagnosi. E qua mi allontano dall’industria farmaceutica, perché una visione moderna e corretta della vita che ci attende non ha nessun tipo di centralità, neppure da parte dell’industria farmaceutica. Qui bisogna vedere insieme come collegare il meglio, il mondo della ricerca pubblica, il mondo della ricerca privata, il mondo del charity – alcune charity (Telethon – abbiamo fatto un accordo con Telethon perché fanno una ricerca eccezionale e appena la ricerca è in fase da essere pre-industriale, noi gli apriamo i nostri sportelli delle imprese e facciamo in modo che, se da quelle terapie salta fuori un’attesa reale, ripeto non lo si sa fino alle fine, ci sia immediatamente la possibilità di trasferirla in terapia). Così vogliamo fare con l’AERG: va combinato e collegato insieme tutto il mondo della ricerca col mondo del volontariato, con il mondo dell’industria, con il mondo medico e con il mondo della diagnosi e prevenzione, perché, ricordiamoci, buona parte di questi risultati sono dovuti al fatto che è vero che esistono farmaci, soprattutto di tipo biologico che non c’erano prima, ma questi farmaci sono stati conosciuti e sono stati messi in condizioni di operare perché ci sono delle macchine, sostanzialmente studiate sempre dall’uomo, che consentono di intervenire sulla malattia 2, 3 anni, 4 anni prima che si manifesti in una forma che spesso e volentieri, diciamo, non è più curabile. Parlo soprattutto, naturalmente, per le patologie tumorali.
(prossima slide)
Confrontiamoci con gli altri paesi. Ecco, guardate sempre in oncologia: noi siamo appena un pelo dietro la Francia, che guida il processo in Europa; siamo davanti alla Germania, davanti alla Spagna e davanti al Regno Unito che ha un sistema sanitario diverso dal nostro, con una selezione durissima di accesso alle terapie e questi sono i risultati. Non tutti sanno che c’è un accordo, oggi, tra il governo francese e quello inglese e che gli inglesi mandano a curare alcuni ammalati, diciamo, per alcune patologie in Francia. Io spero soprattutto in Lombardia, dove abbiamo una straordinaria sanità, ma nche in Emilia, ma anche in Veneto, dove è ottima, in Toscana: noi abbiamo la possibilità di fare accordi di questo genere, perché portano una brillantezza di cui noi abbiamo grande bisogno.
Arriviamo rapidamente alla fine. Guardiamo ora alle eccellenze della nostra scienza. Io che cosa chiedo al mondo scientifico italiano e al ministro? Di lavorare insieme, di lavorare con una trasparenza e con un rigore che qualifichino tutto, industria compresa. Gli sconti e le liberalità, le bontà, nel nostro settore sono la cosa più negativa in assoluto, bisogna essere terribilmente rigorosi, premiare terribilmente il merito e fare in modo che chi abbia le capacità, abbia qui, nel nostro paese, delle possibilità. La vicenda dei cervelli che fuggono, scusate, non mi interessa che fuggano i cervelli, è diciamo una disseminazione di intelligenze che va benissimo, perché torneranno quelli più capaci. Il problema è che noi non abbiamo le opportunità per attrarre né gli altri né i nostri che ritornino. Allora non c’è il problema dei cervelli che fuggono, c’è il problema di creare questo sistema.
Abbiamo pochi soldi, impieghiamoli bene, e impieghiamoli soltanto con chi ha dimostrato con pubblicazioni, con serietà del lavoro, con il collegamento delle imprese, di avere una credibilità che su questo va a fare premier.
L’industria italiana veniva considerata zero pochi anni fa, venti anni fa; oggi ho l’orgoglio di dire che l’industria italiana ha il 53% del nostro fatturato all’estero, quindi noi esportiamo di più, diciamo, di quanto non vendiamo nel nostro paese, e abbiamo più di duecento progetti di farmaci che, come vi ho detto prima, è una fortuna se alla fine saranno cinque o sei farmaci internazionali realmente registrati nel nostro paese, sarebbe un grande successo.
La prossima. Modelli per incrementare la conoscenza nella farmaceutica. Un altro concetto è che tutti noi lavoriamo per ottenere un risultato straordinario, ma il risultato straordinario normalmente non ti fa andare avanti o non è quello che governa il sistema. Quello che governa il sistema sono i tanti piccoli risultati di tutti i giorni, lavorati con continuità, con assiduità, con una caparbia notevolissima. E’ così che si arriva a dei cambiamenti che sono quelli nella aspettativa di vita che vi ho dato, la cui stragrande maggioranza non sono stati ottenuti con la pillola miracolosa, che non esiste. Sono stati ottenuti con una sforzo completo e con una assistenza che ha dato sempre più possibilità terapeutiche e a questo punto diciamo che questo è il giusto approccio per andare avanti.
Penultima. Opportunità dell’Italia nel network di ricerca. Sempre più mirata ed integrata, l’industria farmaceutica non deve essere farmacocentrica e non deve essere al centro del sistema, deve fare parte del sistema, bisogna trovare dei sistemi che portino il meglio in assoluto e non ho citato Microsoft a caso, perché non c’è nessun dubbio che Bill Gates, che ne è il fondatore, sia stato negli ultimi anni uno dei principali promotori della scienza internazionale, perché facendo dei bandi di ricerca per molte centinaia di milioni di dollari e avendo le migliori menti in assoluto vicino a sé, con questa selezione, è riuscito a promuovere ricerche e a dare vaccinazioni a interi paesi africani. Penso che sia l’unico uomo sulla faccia della terra che può dire di avere salvato parecchie centinaia di migliaia di vite.
L’ultima. La farmaceutica nasce dalla scienza. La persona è al centro del suo sviluppo. Bisogna essere umili, l’umiltà è il cuore della ricerca farmaceutica: non pensare che le proprie soluzioni siano migliori di quelle degli altri, metterle a confronto con grande umiltà, così quasi sempre si trova che quell’elemento era parte della verità, ma non era la verità assoluta, per cui io mi auguro caldamente che il professor Vescovi abbia i fondi per andare avanti con le sue ricerche e sono quasi sicuro che le sue ricerche, allo stato di oggi, non sono quelle che lui si aspetta oggi, ma sono molto fiducioso che anche attraverso quelle ricerche si spinga sempre la ricerca verso possibilità di cura sempre più avanzate. E se questa non è una conoscenza avvenimento, ditemi voi qual è la conoscenza avvenimento, grazie.

UBALDO CASOTTO:
Grazie per due cose, il realismo e la passione con la quale vive e comunica il suo mestiere.
Sull’aspetto della generazione della speranza e delle false attese torneremo nel prossimo giro, perché mi ha molto colpito come giornalista.
Tema per il ministro: la sussidiarietà anche in questo campo può essere un criterio per rendere equo ed efficace un criterio della ricerca? E può un criterio meritocratico come chiedeva Dompé fare capolino nel “mare magnum” dei finanziamenti a pioggia del sistema meritocratico che premia i risultati e la ricerca plausibile?
E questo può avvenire in collaborazione tra pubblico, privato e non profit, senza le demonizzazioni alle quali assistiamo?

MARIASTELLA GELMINI:
Devo dire che se in apertura Angelo Vescovi ci ha consegnato la sua inquietudine di ricercatore, anche chi ha la responsabilità di reggere un Ministero importante e difficile come quello dell’Istruzione, Università e Ricerca, condivide questo stato d’animo e anche le difficoltà che si affrontano giorno per giorno in un settore cosi complesso.
Rispondo subito positivamente alla domanda che mi è stata rivolta, perché prima Sergio Dompé ha fatto un intervento lucidissimo ma soprattutto volto a creare il sistema nazionale della ricerca ed è forse qui al Meeting che si sente questa impostazione e questa consapevolezza.
Ho partecipato nei giorni scorsi a convegni su temi molto diversi, ma non è mai mancata la centralità del sistema della formazione e della ricerca come volano per lo sviluppo del paese, per mantenere la competitività, per rispondere alle esigenze dei giovani, di coloro che oggi forse vivono una realtà più difficile di quella dei loro padri.
E allora io credo che dobbiamo partire da qui, che il paese debba maturare, non solo qui al Meeting, ma soprattutto fuori, la consapevolezza che noi possiamo uscire da una crisi economica ma anche di valori, se davvero non rendiamo un vuoto slogan l’economia della conoscenza, la società della conoscenza.
Dobbiamo dare contenuto e sostanza alla ricerca, alla centralità della conoscenza, ma per fare questo io credo che non si possa eludere il tema delle risorse.
E’ chiaro che sarebbe più facile agire con un maggior margine di manovra, con risorse più abbondanti.
Ma io credo che la pochezza delle risorse non debba diventare un alibi per non cambiare quei meccanismi che oggi forse sono i primi ostacoli alla ricerca.
Allora io credo che il governo, che ha una maggioranza così forte, non possa esimersi dal prendersi le proprie responsabilità fino in fondo, che significa dare davvero attuazione a quelle riforme che valorizzino il capitale umano.
Io oggi condivido in parte quello che diceva Dompé prima: è chiaro che la fuga dei cervelli, se determinata, ma non obbligata, da condizioni uguali a quelle italiane, può anche essere un modo per diffondere la creatività, il genio, il talento, le capacità nel mondo.
Ma quando la fuga è necessitata, allora questo diventa un problema, così come un problema non può non essere considerato l’assenza di ricercatori stranieri in Italia, e quindi questa assenza di mobilità, di opportunità và affrontata con decisione.
E certamente la risposta è l’applicazione concreta del principio di sussidiarietà.
Oggi credo che questa non sia più nemmeno una ricetta ideologica, ma l’unica scelta possibile.
Diversamente, la politica continua a perdere tempo nella polemica sui tagli, sulla mancanza di risorse. Questa è una realtà.
Don Giussani ci ha insegnato che la vita è “qui e ora” e quindi le scelte politiche sono oggi con le condizioni date.
Il debito pubblico che abbiamo è noto a tutti, la poca efficienza della spesa è un’altra condizione di partenza, ma io credo che, pragmaticamente, utilizzando il buon senso, sia importante occupare al meglio le risorse che abbiamo a disposizione. Devo dire che ci sono fondi legati al Mezzogiorno, fra poco andremo anche a distribuire i fondi FAR,
abbiamo la possibilità dei fondi Pony, e poi il governo sta pensando a degli incentivi fiscali: ricordo la detassazione degli utili investiti in ricerca, che è inserita nel provvedimento anticrisi, e poi anche altri provvedimenti sul credito d’imposta, certo, con la prenotazione, e questo è un passo indietro rispetto a prima, ma è l’unica cosa che oggi è possibile fare ed è comunque un aspetto importante. Credo che dobbiamo cominciare ad avere la consapevolezza di un progetto di ricerca che coinvolga tutti gli attori pubblici. D’altra parte è di ieri la notizia di una giovane promessa, Eva Coppola, una classe 1977, che volerà negli USA per una full-immersion sul biotech. E’ stata giudicata forse il miglior cervello d’Europa, a giudicare che la materia prima, ovvero il talento, la passione, la competenza, dei nostri ricercatori non teme confronto ed è apprezzata in Italia come all’estero.
E questo ci deve far sperare, ma ci deve anche rendere fortemente responsabili sul piano di quelle riforme che noi abbiamo cominciato ad avviare.
Per esempio, quest’anno abbiamo distribuito 530 milioni di euro alle Università in maniera virtuosa, sulla base della valutazione. E’ chiaro poi che qualcuno si è lamentato, perché per la prima volta le risorse non sono state distribuite a pioggia, ma sulla base della qualità dei risultati.
Fra l’altro, la valutazione si è basata prevalentemente sulla ricerca: voglio dire con chiarezza che non esiste Università senza ricerca.
Se le Università non fanno ricerca, non sono le sedi del sapere, hanno un’altra funzione.
Ma noi abbiamo la necessità di legare fortemente il sistema accademico alla qualità, ai risultati della ricerca.
Allora abbiamo utilizzato i parametri del Civr, che erano stati stesi con il ministro Moratti ed abbiamo fatto una prima valutazione.
Non sono mancate le critiche. C’è chi ha detto che la valutazione non era attuale.
Io credo che un punto di partenza di partenza ci debba essere, perché questo paese deve passare dalle parole ai fatti, dai convegni sulle valutazioni alle applicazioni concrete.
E questo vuol dire merito ed equità.
Un sistema che non si apre ai giovani, che non dà opportunità ai ricercatori, diventa un sistema chiuso come quello italiano, in cui si diventa ricercatori a 37 anni e lo si rimane per tutta la vita, anche se non si fa più ricerca in modo adeguato, ed un sistema in cui il 95% dei posti di professori va ai candidati interni.
Ecco, io non credo che sia un sistema aperto ai giovani, che davvero sia competitivo.
Per cui su questo non si tratta di lanciare accuse o di fare dietrologie, ma di affrontare i problemi e noi lo vogliamo fare all’interno di una riforma che presenteremo in autunno e che andrà a toccare il tema del reclutamento, perché solo se c’è correttezza, se c’è trasparenza nella valutazione dei talenti, delle capacità, dei risultati, i giovani possono farcela, ed allora vale di più il diploma, la laurea, rispetto alla raccomandazione ed all’essere figlio di…
Ed è questo un percorso che noi abbiamo avviato, ma che certo necessita dell’aiuto e del contributo da parte di tutti.
Voglio anche ricordare che abbiamo intitolato a Rita Levi Montalcini un progetto che vuole finanziare e sostenere la ricerca di giovani, che non siano legati a lobby e che quindi abbiano la possibilità di avere sostegno economico per la loro ricerca.
Sono 6 milioni di euro, ancora una cifra limitata, ma io credo che sia un segnale importante, come è importante eliminare gli steccati, perché per troppo tempo si è pensato che il sistema dell’Università, anche l’organizzazione ministeriale, dovessero essere lontane da imprese, industrie, dal privato. Oggi questa possibilità di fare ciascuno in proprio non esiste più, perché la competizione è sempre più forte, su scala globale, e peraltro se vogliamo davvero competere, io sono andata qualche volta al Consiglio d’Europa e la lamentela che viene mossa nei confronti dell’Italia non è l’assenza di idee o l’incapacità nel recuperare fondi, perché tante volte a livello internazionale raggiungiamo i migliori risultati, la difficoltà è nel fare sistema, nel riconoscerci in un progetto che sia frutto non di tanti particolarismi, di tanti progetti piccoli, di tante microiniziative, ma la capacità di individuare, con linee strategiche, gli obiettivi fondamentali. E oggi noi abbiamo una chance, che è rappresentata dal Programma nazionale di ricerca, che stiamo stendendo, e che deve rappresentare la possibilità di voltare pagina, di superare il burocratese, di superare le divisioni, le contrapposizioni, quel provincialismo che qualche volta non ci aiuta a crescere e che non ci fa vedere le straordinarie opportunità che il paese ha e che in particolare ha il mezzogiorno, perché il mezzogiorno può vincere la sfida della competitività se punta sulla ricerca e se punta su un sistema di istruzione qualificato. Io non accetterò mai i livelli di dispersione scolastica che oggi abbiamo, come un elemento sul quale fare i conti o rassegnarci. Noi dobbiamo, se vogliamo essere veramente un paese equo, dare a tutti i giovani, a tutti i ragazzi, indipendentemente dal luogo di residenza o dal ceto sociale, la possibilità di accedere ad una buona scuola, ad una buona università, e poter raggiungere i massimi livelli di sviluppo della propria carriera professionale, basandoci sulla conoscenza, sulla professionalità, sull’impegno e sulla serietà. Per fare questo occorre davvero puntare sulla ricerca, vuol dire però sposare il cambiamento, e credo che questo sia compito della maggioranza, senz’altro, perché noi abbiamo i numeri in parlamento e quindi vi è il dovere di non tirare a campare, ma di fare scelte anche difficili, che possano essere significative e determinanti per il futuro del nostro paese. Sarebbe opportuno discutere di questi temi anche con la partecipazione dell’opposizione, non discutendo solo in maniera demagogica, ma affrontando le questioni, compresa quella del precariato. Io so perfettamente che questo paese, oggi, se ha una piaga sociale, in primo luogo è quella del precariato, dei tanti giovani a cui sono state vendute promesse, aspettative che poi si traducono spesse volte in delusioni, perché mancano le condizioni. Penso ai molti ragazzi che si trovano all’interno di graduatorie per accedere all’insegnamento, penso anche ai molti ricercatori precari, però occorre cambiare le regole, occorre cambiare il sistema, diversamente non facciamo nessun passo in avanti. E credo che invece la politica abbia il dovere, anche in un momento di crisi, soprattutto in un momento di difficoltà economica come questo, di non accampare scuse o alibi, ma di andare al cuore dei problemi, approvando quelle riforme che oramai il paese aspetta da troppo tempo.

UBALDO CASOTTO:
Grazie, signor ministro. Giornalisticamente sono molto interessato. Aspettiamo queste due notizie che lei ci ha dato: la riforma del regolamento, che dovrebbe arrivare in autunno, e questo Progetto nazionale di ricerca. Auspico che l’opposizione… devo dire che il ministro Gelmini è il ministro che più accoglie consensi anche nella sinistra per le sue riforme in campo scolastico, da pochi, illuminati politici e professori, che nella sinistra… No, per dire che la cosa non solo è auspicabile, ma è anche possibile.
In un secondo più breve giro di interventi, io volevo partire dalla considerazione che ha fatto Dompé sulle speranze che il mondo scientifico – il mondo para-scientifico direbbe Vescovi, e noi giornalisti a ruota – dà, dicendo: c’è la cura, c’è il rimedio, c’è l’operazione, c’è il trapianto, c’è la cellula, no? Io credo che su questo, oltre alle responsabilità della comunicazione, di cui faccio ammenda, ci sia una grossa responsabilità anche di educazione, nel senso che mi sento di dire che la nostra scuola, e credo che molti test a livello internazionale lo dimostrino, avverta poco la significanza della scienza e sia molto ignorante in questo senso. Allora, se fate un giro su questo, vorrei dare la possibilità, avendo qui il ministro, sia al ricercatore, sia all’industriale, diciamo così, di rivolgere in conclusione di ogni intervento una domanda al ministro. Prego.

ANGELO LUIGI VESCOVI:
La domanda la faccio alla fine, anche se mi ha già risposto, ma la rifaccio lo stesso. Tutti sanno che ho un pessimo carattere e Dompé in qualche modo ha risottolineato questa cosa, quindi non le mando mai a dire, non sono un piaggiatore, al limite sto zitto, l‘ho imparato per sopravvivere. In questo caso farò il piaggiatore, se così vi piace, perché condivido quasi tutto quello che ha detto il ministro Gelmini; le faccio solo un augurio, ministro, di riuscire a implementare queste cose, perché questo sistema è talmente grande, talmente incancrenito, ha talmente tanti punti di resistenza, che, come discutevamo prima, richiederà anni perché questo avvenga, e ci saranno fortissime resistenze sotterranee che nessuno di noi vede. Voi non vivete nell’ambiente della ricerca, io ci vivo da trent’anni. Ho visto Sergio delineare un profilo della ricerca in Italia che è molto piacevole, in parte corrisponde al vero, ma non è tutto oro quello che luccica. Adesso poi ci ritorno. Vorrei unire le tre cose: la speranza dei pazienti, la fuga dei cervelli e la domanda, in qualche modo, al ministro.
Era il 4 gennaio del 1991, pioveva e c’era una nebbia impressionante. Mi sono svegliato alle quattro, mi hanno caricato su una macchina, avevo i lacrimoni agli occhi, ancora mi vengono adesso, e sono partito per il Canada. In totale ci sono stato cinque anni. Della vita che avevo allora non è rimasto nulla. Ho perso tutti gli amici, la fidanzata che era dei tempi… questa è la vita del ricercatore. Ve lo dico per dirvi che anch’io ci sono passato. Rifarei tutto dall’inizio. E’ stata dura, poi sono tornato, a un certo punto, e qui rispondo a Dompé, perché è vero, io ho la foga, e questo può condurre a delle conclusioni a volte erronee riguardo a quello che sto dicendo, però quello che ha fatto la differenza, probabilmente, tra me e altre persone che sono probabilmente cinque, dieci volte più brave di me, è che io ho la testa di un mulo, cioè sono un bergamasco e non mollo mai. E questo sistema… stavo cercando di spiegare qual è il problema che sta alla base del ritorno dei cervelli, perché il problema non è la fuga; la fuga, come giustamente ha detto Sergio, l’interscambio di cervelli è un fenomeno fisiologico, anzi va stimolato. Ha detto bene il ministro, qui non abbiamo ricercatori stranieri che vengono in Italia, e questo perché? Perché il nostro sistema della ricerca non accetta nemmeno i propri giovani di ritorno. Quindi io, su questo, Sergio scusami, ma proprio non riesco ad essere d’accordo. E’ un problema, quello della fuga dei cervelli, nel senso che è fuga e non interscambio, cioè i cervelli non riescono a tornare, e quando tornano, io l’ho esperito di prima mano, il tipo di vessazioni che si possono imporre a un giovane ricercatore, a quel tempo ne avevo 36, sono assolutamente incredibili. Faccio un esempio pratico: io ero tornato nell’anno 1999, pubblicai credo 17 lavori, di cui uno su Science, Nature, Bio-technology … Era l’apoteosi, avevo due grossi finanziamenti della Comunità europea e altri finanziamenti sparsi; era il momento. Sono tornato in Italia, ho fatto quattro anni senza laboratorio. Mi è stato detto che me lo avrebbero dato, poi il capo che avevo ai tempi m’ha detto: le cose che fai tu non mi interessano, le dai in appalto, le farai da un’altra parte. Io ho tirato dritto e ancora oggi tiro dritto. Ho avuto un’emorragia all’occhio; non ci vedo più da un occhio perché sono uno che gli sale la pressione, quindi succedono queste cose… Queste cose sono solo la punta di un iceberg, ci sono modi molto sottili di vessare i giovani ricercatori: non gli dai lo spazio, gli togli il piccolo finanziamento, gli impedisci l’accesso ad una determinata area, lo copri di lavori amministrativi da fare… Dici: va bene, ministro, è uno dei grossi problemi; e come li spendiamo i soldi? Voi dovreste vedere: che cosa non ci costa, a noi, un reagente in Italia? Lo stesso reagente negli Stati Uniti costa quattro volte di meno. C’è tutta questa problematica, che fa sì che i nostri ricercatori, quando tornano, poi ci aggiungi il nepotismo, la mancanza di meritocrazia, non vogliono stare a dire; io ne conosco tanti che sono tornati e poi se ne sono riandati, e vi posso garantire che ogni sei mesi sono lì lì anch’io per prendere e tornare via un’altra volta; non crediate che le opportunità non ci siano; la differenza è purtroppo in questo sistema la caparbietà, non deve più essere così, deve essere veramente la capacità, perché io conosco tanti giovani che sono molto più bravi di me, mi fa un po’ pena ammetterlo, ma ci sono e avrebbero diritto di rientrare, Sergio, ma non riescono a rientrare. E poi ci sono anche le lobbies, quelle meno conclamate, che lottano contro i giovani ricercatori. Tornando al carattere brutto, ti ringrazio della puntualizzazione, perché serve sicuramente. E’ mia intenzione dare l’idea che, domani, c’è la terapia, è pronto tutto. Una prece in tuo favore. La terapia con le cellule staminali in questo paese e in Europa, meno male che è stata adottata così, è una terapia farmacologica: la cellula è equiparata al farmaco, in tutto e per tutto, nei criteri di produzione e di validazione, quindi noi non arriveremo mai in Italia a fare una sperimentazione tra virgolette campata in aria, o pericolosa. In quattro anni sono andati a produrre materiale scientifico, per poter procedere con questa sperimentazione. Quindi nessuno pensi, per l’amor di Dio, neanche per un secondo, che abbiamo fatto un salto nel vuoto. Io citavo Barnard, per dire che a volte ci sono situazioni in cui bisogna avere il coraggio di rischiare la carriera, perché io lo so che noi ci rischiamo la carriera. Ma il problema delle false aspettative dei pazienti non è nemmeno nell’occhio del paziente; è innanzitutto nel sistema di queste cliniche paramediche, che generano delle speranze assolutamente assurde; e poi purtroppo, spiace dirlo, della strumentalizzazione, perché ci sono comunque interessi intorno a queste malattie. Vi faccio un esempio pratico, così si capisce. Per fare questa sperimentazione, siamo andati a fare una raccolta pubblica di fondi dicendo: stiamo cercando di fare questo. Devo aver schiacciato diversi piedi, tipico mio. A un certo punto ho deciso di fare delle lettere, precise, documentate, dicevano che cosa stavamo facendo. A un certo punto ho detto: guardate, forse a luglio riusciremo a depositare la richiesta, non ve lo garantisco, perché non sappiamo. Sapete cosa è successo, tanto per darvi un’idea di che cosa è la falsa speranza? E’ successo, scritto eh!, caratteri cubitali, “a luglio forse presenteremo”. All’inizio di giugno, non dico chi, hanno chiamato l’istituto superiore di sanità e l’AIFA, chiedendo perché l’istituto superiore di sanità e l’AIFA bloccavano la sperimentazione di Vescovi. Ammesso che non è la mia sperimentazione, sapevano benissimo che non c’era nessuna sperimentazione. L’istituto e l’AIFA hanno risposto: guardate che veramente noi non abbiamo qua nessuna domanda. “L’istituto smentisce Vescovi”: questo, Sergio, è il tipo di personaggio, che poi irretisce i pazienti, creando in loro l’idea che noi generiamo false speranze. No. Noi siamo gente che ha lavorato come onlus, come me tanti altri, raccogliendo i soldi con Vasco Rossi, con Maurizio Costanzo, con tanta gente, per dare una speranza a delle persone che speranze non hanno più. La Sla è una malattia letale, che non ha cura e la scienza dice che è giunto il momento di provare. Tutto si fonde in un unico argomento in realtà, che è quello del sistema. Il ministro lo ha descritto molto bene: è un sistema che resiste, resiste all’innovazione, resiste alla creatività, resiste all’ingresso di nuovi elementi che possono destabilizzare, non c’è un grande vecchio dietro a tutto questo, ci sono consolidate abitudini e consolidati interessi e privilegi. Grazie, ministro.
A questo punto io concludo, chiedendo al ministro solo una cosa, glielo chiedo davvero, perché io adesso ne ho 47 di anni, sono stanco, questa è la volata, dopo di che mi fermo e non rompo più le scatole a tante varie associazioni che mi amano, vedo, talmente tanto. I giovani? Perché i giovani sono veramente il motore di questo paese; loro hanno bisogno di avere spazio, denaro e la possibilità di esprimere le loro capacità, unito a un serio processo di valutazione, bisogna anche dargli tempo, tre, cinque anni, perché si inneschi il loro processo di produttività e lì si vada a valutare con criteri oggettivi, facendo come fanno in Svezia o in Germania, come dicevamo prima, creando dei comitati misti. Io parto adesso, vado in Svezia, perché sono in un comitato svedese, poi in uno tedesco; vengono gli americani, vengono i tedeschi, ci sono gli italiani a valutarti. Non è più un comitato locale, che può avere i suoi interessi. I giovani, chiedo solo quello.

SERGIO DOMPÉ:
Per chiudere immediatamente la questione, diciamo, sulla fuga dei cervelli. E’ evidente che la mia è una battuta. Il discorso è: non c’è il problema della fuga dei cervelli, se a monte c’è una situazione che genera l’attrazione. Se questa situazione che genera attrazione non c’è, il problema della fuga e del ritorno dei cervelli è un falso problema, perché il vero problema, mi spiego, è di cambiare la situazione e fare in modo che ci sia una attrattività, una voglia, una capacità di espressione di quelle capacità, che a livello individuale noi abbiamo, in molti posti, compreso il sud. Io non voglio annoiarvi, ma sarei in condizione di dirvi almeno una quindicina di eccellenze reali, che sono nel sud d’Italia, sulla ricerca. E’ chiaro che è fior da fiore, perché ci sono degli istituti dove addirittura c’è il singolo ricercatore, competentissimo, e che ha quattro o cinque o 27 succhiaruote, mi spiego, che non valgono, diciamo, la punta dell’alluce, ma con il sistema che il ministro sta cercando di modificare oggi, prima venivano più o meno finanziati nella stessa maniera, anzi, siccome chi non lavorava, davvero, chi non era capace, stava tutto il giorno a studiare, c’era il rischio, oltre al danno di avere anche le beffe, perché questo, naturalmente, creava tutti gli anticorpi verso quello che cercava invece di portare su il livello. Do atto al ministro, che questo primo suo cambiamento è, secondo me, una pietra epocale della ricerca in Italia. Allora è assolutamente illusorio, stupido, pensare che attraverso questo cambi tutto, ma dire che questo è un primo elemento, importantissimo, determinante, questo mi sento di dirlo, anzi, sotto questo punto di vista io pubblicamente, diciamo, applaudo al ministro Gelmini, perché sta avendo, diciamo, il coraggio e, lo dico nel senso buono, ministro, naturalmente, l’ingenuità, la voglia giovane di cambiare e di cercare di rompere un meccanismo che ha ragione Angelo, quando dice: attenzione, perché stai, diciamo, cercando con un petardo di far crollare una diga, ma attenzione, che anche le dighe più potenti, quando cominci a creargli una piccola crepa, poi piano piano incominciano a lasciar passare acqua e a quel punto il gioco cambia completamente.
Due parole sul futuro. Il problema è che noi viviamo in una azienda, l’azienda Italia, che è un’azienda che davvero ha tanti problemi: ha tanti anziani, ha privilegiato per tanti anni le pensioni, politiche sociali che sono secondo me uno dei cardini morali del nostro paese, ma che comportano una organizzazione che offre anche i costi correlati a questo. E cosa succede? Che il ministro, è un ministro la cui spesa andrà ad avvantaggiare le performance del paese fra 8, 10, 12 anni. Sotto questo punto di vista il suo è un incarico estremamente ingrato, perché riuscire a strappare soldi in una situazione di questo genere, per premiare le politiche meritocratiche, per premiare i giovani, per premiare chi davvero fa ricerca competente nel nostro paese è difficile. Al di là del fatto che sono tutti d’accordo, poi quando c’è da andare a trattare con Tremonti, non è cosa facile, ma non perché Tremonti sia cattivo, perché Tremonti naturalmente è lì che deve dire no, è il signor no, no, mi spiego, a qualsiasi cosa diciamo no; anzi sotto questo punto di vista, visto che “il bergamasco” mi spiego, ha il cervello, ha la testa, diciamo, bella dura, possiamo utilizzarlo come ambasciatore per andare a trattare.
Un’ultima considerazione, ecco, su quello che era la domanda che lei porgeva, che tu porgevi. La ricerca è un’attività moralmente dolorosa. Perché vivi con l’entusiasmo, con la voglia di strappare fuori delle cose nuove per il tuo ego, per la tua scienza, e anche per il beneficio delle persone. Poi cosa succede nel 99% dei casi? Piano piano si ridimensiona quello che tu avevi trovato e subentra una specie di delusione, che diciamo è quasi una sorta di spinta depressionale del ricercatore, quasi sempre, no, quasi sempre non è vero, ma molto spesso. Perché nelle frange di quella ricerca c’erano invece degli accidentments, magari non eclatanti, ma importanti, che messi insieme a tanti altri, poi danno la differenza sulla terapia. Ecco perché, dicevo, cercate di essere critici, sospettosi, perché la critica e il sospetto, mi spiego, secondo me sono un’ottima medicina per chi guarda il mondo della farmacologia, il mondo del farmaco, diciamo, da fuori, ma siate anche osservatori attenti, così come fa il ricercatore, che scopre tante cose, che magari sono sotto gli occhi di tutti, ma nessuno è stato capace di vedere. Signori, un paese che non ha la capacità di fare ricerca, non è un paese che ha la capacità di sognare, e senza i sogni, senza la progettualità, senza la spinta verso il futuro, onestamente non è il paese che può affrontare la competizione internazionale, che sta venendo da paesi emergenti di cui onestamente sono molto, molto preoccupato, e non da oggi, diciamo da quattro o cinque anni, e non per il fazzolettino o il bagaglino o la scarpa, mi spiego, ma per quello che loro da anni stanno facendo in ricerca e oggi incominciano ad avere dei risultati molto importanti.
Molti di noi hanno figli che vanno nelle università italiane e internazionali, vedono ragazzi che vengono da queste nuove economie, è gente che ha dentro una luce, una grinta, una volontà di andare avanti che fanno paura a vederli. Allora i nostri componenti di domani non sono purtroppo quelli di fianco, quelli in Germania, sono quelli lì. E se noi non abbiamo lavorato prima per cercare di guadagnarci la competizione, andremo noi a fare i fazzolettini per loro. Grazie.

MARIASTELLA GELMINI:
Io cerco di rispondere alla domanda, che mi è stata rivolta da Vescovi, sul futuro dei giovani. Io credo che non si possa imporre al sistema universitario della ricerca la trasparenza, l’onestà intellettuale o il rigore per legge, però io credo che dobbiamo prendere atto che le regole che oggi informano e governano questo settore, sono nel migliore dei casi superate e credo sia la realtà, l’osservazione banale, quotidiana di ciò che avviene in molti atenei, in molte realtà accademiche, a suggerirci che non sono nemmeno efficaci, perché se oggi il nostro paese stanzia solo quei 530 milioni che equivalgono al 7% del fondo di finanziamento statale sul merito e sulla qualità, è chiaro che la strada da percorrere è ancora moltissima, però ogni percorso, anche molto lungo, comincia con un passo, quindi un primo passo è stato fatto, è chiaro che il successivo deve riguardare il reclutamento e l’apertura ai giovani. Perché il racconto che Angelo ci ha fatto della sua realtà di ricercatore, le frustrazioni, i veti, la mancanza di spazio, questo racconto è molto simile a quello di tanti altri ricercatori che ho avuto la possibilità di ascoltare. Questa è una realtà che va rimossa, come? Io credo che all’interno del decreto 180 abbiamo assunto una prima decisione, quella di rivedere i reclutamento dei ricercatori che prima avveniva sostanzialmente attraverso una cooptazione diretta. Noi abbiamo voluto introdurre una commissione, utilizzando il sorteggio. Perché questo? Per evitare i soliti meccanismi che non sempre hanno promosso il merito e chi più era in grado di ricoprire una determinata posizione o aveva i numeri per andare avanti e quindi dare, come dire, valore e importanza alla ricerca italiana. Mi sono un po’ sorpresa leggendo i quotidiani durante questa estate, perché nonostante per legge sia stata cambiata la normativa sul reclutamento, vedo ancora che alcune università utilizzano qualche scappatoia, allora anziché valutare le pubblicazioni ci si inventa una prova orale, per poter quindi selezionare i ricercatori. Oppure si mette un limite al numero di pubblicazioni, che mi pare francamente un controsenso e quindi si consente l’accesso solo a quei ricercatori che non hanno superato un certo numero di pubblicazioni, che francamente mi pare un non senso. E allora io lo dico qui, riservandomi di andare a verificare la veridicità delle denunce che ho letto sui giornali, ma è evidente che se questi racconti rispondono alla realtà, il ministero si riserva di intraprendere azioni legali, perché la legge è uguale per tutti e va rispettata e non occorre, e non ha veramente senso continuare così. E’ chiaro che sta cambiando l’opinione pubblica nel nostro paese e che c’è una volontà politica ferma di voltare pagina e di andare verso un sistema che sia veramente efficace nella gestione delle risorse e che premi veramente i più bravi, coloro che possono dare un contributo significativo allo sviluppo del nostro paese. E voglio anche chiudere con un cenno sull’internazionalizzazione, sull’esperienza all’estero. Anche questo è tragicamente vero, purtroppo chi fa esperienza all’estero fatica a tornare nel nostro paese perché c’è una forma di chiusura e di mancato riconoscimento delle esperienze maturate in altri contesti di ricerca, per altro in molti casi estremamente qualificati. Noi abbiamo cominciato, pur nella difficoltà di reperire risorse, con il rifinanziare il fondo che incentiva le chiamate da università estere e vogliamo puntare su una maggiore mobilità. Gli atenei si devono aprire, non esiste che si faccia una carriera da professore, da studente fino al massimo grado dell’insegnamento nella stessa facoltà, nella stessa università, senza che ci sia alcuna esperienza in altri contesti, perché questo credo che non risponda alla qualità e faccia sorgere anche qualche sospetto. Quindi la strada è sicuramente lunga, io ho già un minimo di esperienza di ciò che raccontava Angelo prima, cioè delle difficoltà, delle resistenze, delle lobbies che veramente sono contrarie ad ogni forma di cambiamento e di riformismo, ma non essendo bergamasca, bensì bresciana, sono altrettanto determinata e quindi sicuramente non demorderò. Credo che i tempi veramente siano maturi per dotare il nostro paese, per valorizzare quelle eccellenze che esistono ma anche per dotare in maniera uniforme tutte le nostre riforme, tutte le nostre regioni, il nord come il centro come il sud, di un sistema della formazione, dell’alta formazione veramente all’altezza dei tempi. E’ una sfida ardua, ma io credo che, con determinazione ed anche un pizzico di incoscienza e di ingenuità, come diceva Sergio Dompé, ce la possiamo fare.

UBALDO CASOTTO:
Abuso, mi permetto di abusare della pazienza vostra e del Ministro, ma Dompé si è dimenticato di fare la domanda e voleva farla, ci teneva.

SERGIO DOMPÉ:
Mi permettevo proprio per la fiducia e la stima, diciamo, che ho per questo Ministro e perché so che realmente ci crede al 100% alle cose che dice e ho avuto molte testimonianze della determinazione che ha saputo portare avanti. Un progetto straordinario che leghi insieme le eccellenze che abbiamo in Italia, alcuni giovani ricercatori che magari sono in giro per il mondo e le competenze industriali, provare anche con questo a lanciare con pochi soldi ma con un progetto che abbia la capacità di guidare un primo cambiamento, vedrebbe contrario il Ministro?

MARIASTELLA GELMINI:
Assolutamente no! Anzi io credo che progetti come questi possano rappresentare il paradigma di come iniziare a fare ricerca nel nostro paese, mettendo insieme l’energia, mettendo insieme i talenti ed anche le capacità economiche e quindi ben venga anche l’appoggio di Farmaindustria, perché significa che ci darà una mano in questo senso.

UBALDO CASOTTO:
E’ concreta, è concreta. Bene, ringrazio i tre ospiti per la verità e la schiettezza con la quale si sono confrontati e ringrazio voi per la vostra attenzione e credo a nome di tutti di dover fare gli auguri al Ministro per il lavoro che deve fare. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2009

Ora

11:15

Edizione

2009

Luogo

Sala A2
Categoria
Focus