TRE ACCORDI E IL DESIDERIO DI VERITÀ. ROCK’N’ROLL COME RICERCA DELL’INFINITO

Tre accordi e il desiderio di verità. Rock'n'roll come ricerca dell'infinito

Partecipa John Waters, Editorialista de The Irish Times. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

Titolo incontro DO03:
TRE ACCORDI E IL DESIDERIO DI VERITÁ. ROCK’N’ROLL COME RICERCA DELL’INFINITO

Data:
Domenica, 19 agosto 2012

Ora:
ore15.00

Partecipano:
John Waters, Editorialista de The Irish Times.

Moderatore:
Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

MODERATORE:
Buon pomeriggio e benvenuti a questa giornata inaugurale del Meeting per l’amicizia tra i popoli dal titolo la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito, che riprende un espressione resa celebre da don Giussani nel suo libro forse più noto: “Il senso religioso”. Io non ho altro titolo per essere qui oggi pomeriggio accanto a John Waters se non l’amicizia che mi lega a lui ed avere dei figli appassionati di rock che quindi mi hanno comunicato qualche cosa di questa musica così accattivante e strana sulla quale tutti pensiamo di sapere qualcosa, che tutti in qualche modo grandi e piccoli pensiamo di conoscere. Ecco oggi bisognerebbe tutti fare un piccolo sforzo di immaginazione, dimenticare quello che sappiamo, quello che crediamo di conoscere di questo genere musicale che ha segnato gran parte del ‘900 e questo inizio di secolo, lasciandoci prendere per mano da John Waters che è giornalista, scrittore irlandese e che ha tentato una cosa molto rischiosa e coraggiosa, di paragonarsi con il titolo del meeting di quest’anno invitandoci a un viaggio nella storia della musica rock. Diceva la scrittrice inglese Barbara Worker: “gli uomini raramente apprendono quello che credono già di conoscere”. Io sono certo perché è stato così per me ieri pomeriggio visitando la mostra sul rock che John ha ideato e realizzato con la collaborazione di tanti amici stranieri e italiani. Il primo impatto è che sono stato costretto a ricredermi su quello che pensavo di sapere, quel poco che pensavo di conoscere e di sapere perché per chi conosce John Waters, l’esperienze al meeting degli anni passati ce lo hanno reso familiare, lui ha questa dote rara scarsa oggigiorno, di sorprendere della realtà aspetti, momenti, fattori che pur essendo davanti agli occhi di tutti, finché lui non ce li fa notare rimangono in ombra, e così restiamo tutti prigionieri in qualche modo delle apparenze, della superficie delle cose. Lui ha accettato questo rischio, di sovvertire in qualche modo i luoghi comuni su quella che sbrigativamente è stata battezzata la musica del diavolo, o un assommarsi di rumori, di suoni e di grida. E siccome la musica rock ha segnato tanta parte della sua vita, molti dei protagonisti tuttora viventi sono suoi amici, sono persone con cui ha fatto o sta facendo un pezzo di strada; ha provato a offrirci il contributo di questa sua esperienza realizzando una mostra di cui l’incontro di oggi è solo un piccolo aperitivo, un’introduzione, perché bisogna entrare dentro quelle sale, partecipare dell’evento che quella musica, che quei pannelli, che quelle foto, ci invitano a vivere, ed è impressionante scorrendo il percorso della mostra imbattersi nel genio di cantanti, di musicisti che hanno accettato di vivere la vertigine di una ricerca, di una ansiosa, affannosa, a volte tragica, battaglia per dare un nome, dare un senso, dare un significato alla loro esistenza. Mi ha molto impressionato pensando all’incontro di oggi una frase che è contenuta nel messaggio autografo che Benedetto XVI ci ha mandato: “Ogni fibra della mia carne è fatta per trovare la sua pace, la sua realizzazione (in Dio). E questa tensione è incancellabile nel cuore dell’uomo: anche quando si rifiuta o si nega Dio, non scompare la sete di infinito che abita l’uomo. Inizia invece una ricerca affannosa e sterile, di «falsi infiniti» che possano soddisfare almeno per un momento. La sete dell’anima e l’anelito della carne […] non si possono eliminare, così l’uomo, senza saperlo, si protende alla ricerca dell’Infinito, ma in direzioni sbagliate: nella droga, in una sessualità vissuta in modo disordinato, nelle tecnologie totalizzanti, nel successo ad ogni costo […]. Anche le cose buone, che Dio ha creato come strade che conducono a Lui, non di rado corrono il rischio di essere assolutizzate e divenire così idoli che si sostituiscono al Creatore.”. È impressionante come queste parole possano introdurci all’ascolto di John che ci racconterà quello che ha scoperto in questi anni e preparando questa mostra, della grande vicenda umana e musicale dei protagonisti della musica rock, che cosa ha destato in lui, come è accaduto in lui l’accendersi di questo interesse, di questa curiosità che l’ha portato a scoprire cose che forse ci possono far dire che visitando questa mostra vedremo il rock come forse non l’abbiamo mai conosciuto. Grazie John, a te la parola.

JOHN WATERS:
Grazie a te Alberto. Hai parlato del rischio, ed effettivamente il rischio più immediato di cui parliamo attraverso questa mostra è veramente quello di parlare del rock’n’roll perché è veramente pericoloso parlare di questa mostra, nel senso che esiste in certo qual modo per bay passare le necessità del mondo convenzionale. Quindi quando ne parliamo rischiamo di renderla invisibile in un certo qual modo e rischiamo di intellettualizzare qualcosa che non appartiene forse alla testa ma al cuore, alla nostra anima, rischiamo di correre questo pericolo (Lui in verità dice “Become uncool” cioè “diventare goffi”) quando parliamo della mostra in questo senso. Abbiamo cercato (Lui dice “take this risk” “deciso di cogliere questa sfida” e) di creare una zona dove poter esplorare qui al meeting di Rimini qualche cosa che forse non è nuovo, non voglio dire (Lui dice “suggest” forse più appropriato “lasciar intendere”) che ci sia stato detto qualcosa di nuovo in questa mostra, però diciamo, bisogna un attimo capire tante altre cose per capirci tra di noi dobbiamo avere una comprensione più profonda di questa musica qualcosa di più profondo del superficiale che normalmente vediamo in questa musica (la traduzione esatta di quello che dice sarebbe: credo proprio che esista come un’impressione condivisa tra le persone sotto la superficie delle altre cose, sotto la comprensione superficiale di questa musica, che permea la nostra cultura in generale, la comunicazione i media etc.), invece, in questa musica c’è qualche cosa che riguarda l’uomo che non viene spesso riconosciuto anche perché la comunicazione di questo MEZZO (lui dice medium e io lascerei medium) tende ad essere molto narcisistica, creando un atteggiamento, cercando una persona (persona in inglese significa maschera), perciò la comunicazione non è espressa, è invisibile. È anche possibile che tutti voi, chiunque di voi possa già sapere di tutto relativamente a questa mostra e si chieda: “perché?”. Be’, bisogna sapere che i nostri cuori sono simili; che tutti quanti condividiamo delle percezioni è una conferma questa mostra, una conferma che in questi momenti, guardando queste cose, sentiamo tutti la stessa cosa, avvertiamo tutti la medesima cosa. Ecco il rischio che abbiamo assunto. È una mostra fragile, secondo me, sono stato coinvolto con tante persone che hanno contribuito enormemente alla realizzazione della mostra, alla realizzazione delle idee, dei sentimenti che sono alla base della mostra, e naturalmente è una cosa rischiosa tutto questo perché inizia con una intuizione, una mia intuizione che viene dal mio cuore, dal cuore di tutti i miei collaboratori, e si spera che questo genere di intuizione sia nel cuore di tutti i visitatori che vanno a vederla. Però è qualcosa di fragile; tanto per cominciare noi viviamo in un mondo molto oggettivo dove dobbiamo trovare fatti oggettivi, provare tutto, non diamo tanta fiducia al nostro cuore, perciò come fidarsi del cuore? Come riuscire a provare che un fatto è più importante di un altro? se il cuore ce lo dice, la testa dice sempre no, non si fida, dice “no non è sufficiente, non ci sono prove a sufficienza”. Ieri sono venuto dall’Irlanda, dove negli ultimi mesi è stata realizzata la mostra, ed ero molto nervoso, pensavo: “cosa troverò? Quanto della mia sensazione iniziale sarà stato trasferito nella mostra?”. Devo dire che effettivamente c’è tutto. Possiamo costruire una mostra, possiamo costruire i suoi pezzi, possiamo metterli nel posto giusto, però il Mistero, lo Spirito, l’accompagnerà? Il Mistero è di fatto venuto, c’è. Quando si va alla mostra si vedono tante cose, tanti aspetti contrastanti, conflittuali, e tutto questo è intenzionale, la mostra cerca di risvegliare LA COMPRENSIONE SUPERFICIALE (Lui dice: The exhibition really seeks to shake up us from the superficial understanding that we have arrived at in our culture” cioè “la mostra cerca di risvegliarci dalla comprensione superficiale cui siamo giunti”) rispetto al rock nella nostra cultura. Per esempio si vedranno prove di una tradizione, c’è una linea che collega le varie parti della mostra, ma la tradizione non è tutto, non è che si inizi con la tradizione, si inizia con un grido del cuore, il grido originario dell’uomo espresso forse nel blues, espresso forse nella musica folk del mio Paese, dell’Irlanda, che andava ai cuori di tante persone, anche in America dove si è incontrata con altre culture, per dare luogo a nuove culture, a nuove musiche. Quindi la linea della tradizione è facile da individuare nella mostra. La mostra forse è educativa ma non in questo senso letterario e storico, io spero che sia educativa ma non assoluta. Passiamo attraverso diversi concetti della musica tutti correlati tra loro: i ribelli, l’idea del musicista folk, cerchiamo veramente di vedere le cose come le direste anche voi, perché fondamentalmente è così che sono le cose. Si tratta di un’unione di espressione, si tratta di un momento perché effettivamente si vede l’espressione dei nostri desideri cerchiamo tutti qualcosa di nuovo, non per cercare qualcosa di nuovo in assoluto, ma per cercare la verità, perché il vecchio è diventato un cliché, qualcosa che ha portato a dei fraintendimenti più che a delle comprensioni e questo è un aspetto molto importante del rock’n’roll. Io ho avuto un’esperienza bellissima questa mattina alla fine della Messa perché contemporaneamente si apriva la mostra: è venuto da me un signore che avevo incontrato già prima e mi ha detto: si sono già stato alla mostra e ha cominciato a parlarmi e mi ha detto che all’inizio c’è un resoconto della mia esperienza del rock’n’roll, una canzone dei T-Rex “Ride a white swan”, forse non è molto famoso fuori dalla Gran Bretagna ma quando avevo diciassette, diciotto anni ho sentito per la prima volta questa canzone e mi ha impressionato, non so ancora bene perché, avevo sentito qualcosa che mai prima avevo sentito, mai prima avevo potuto immaginare, e aveva risvegliato una parte di me che non sapevo esistesse, volevo andare a fondo, volevo incontrare il musicista Marc Bolan che l’aveva creato. Che tipo di uomo era? Che cosa c’era che aveva risvegliato in me una sensazione diversa? Il signore di stamattina mi dice “non ho mai sentito questa canzone, non conosco questa band, però anche io ho avuto la stessa esperienza con una diversa canzone in un diverso Paese, però ho avuto la stessa esperienza”. È questo che voglio dire, che abbiamo delle intuizioni di questo genere, intuizioni comuni, e ci sono delle cose che le nostre culture ci trasmettono nel cuore, cose uniche, cose eccentriche, magari alle volte vengono etichettate come eccentriche, ma molto spesso rivelano solo ciò che è reale, quello che è di fatto. Molte volte si sopprime il cuore perché appunto la soggettività, la percezione individuale della realtà si pensa sia poco preziosa. Per me era importante riuscire a tradurre questa esperienza nell’esperienza di tutti ed è importante la mostra per questi contenuti, sia per chi conosce già tanto della musica sia per chi conosce poco, è importante riconoscersi in qualche modo in essa. Il rock’n’roll fa parte dello stato della musica, è praticamente contenuto all’interno del pacchetto della musica, gli aspetti superficiali naturalmente sono quelli più visibili, molto spesso si sente il rumore del rock’n’roll, il business, l’aspetto commerciale, il narcisismo, l’ego dell’artista, si sente parlare di droghe, del bere, dell’abuso, della sessualità, dei soldi, degli eccessi di tutto, sentiamo parlare delle rock star che si sono distrutte bevendo o assumendo stupefacenti, e c’è anche tutto un aspetto moralistico, ci sono persone che dicono “è naturale perché hanno troppi soldi, sono troppo famosi, vivono sempre sotto i riflettori ma per troppo breve tempo”. Quando ho sentito quel brano dei T-Rex ho avuto un’intuizione, pensandoci ad anni di distanza ho capito che c’era una cosa veramente fondamentale, era un grido, il grido di un uomo attraverso un nuovo mezzo, gridava, faceva sentire la sua voce attraverso un grido che risultava misterioso per me ma che riconoscevo come grido, non riuscivo ad identificarlo in altro modo, era la sua natura. Quindi quando siamo attratti da questa musica, non è semplicemente per il fatto che vogliamo essere alla moda, o magari perché c’è una sequenza particolare di note che ci sembra particolarmente interessante o nuova o bella, no non è semplicemente per l’eccitazione per il luogo dove, ad esempio, avviene un concerto, non è per l’attrattività dell’icona, della star che è diventata simbolo di questa musica, no. In generale cerchiamo di dimostrare che il fenomeno è diverso da questo, l’input dell’artista, tutto quello che viene generato nel suo cuore si traduce in note, suoni, battute e tutto questo viene portato attraverso una molteplicità di mezzi in una cultura che li interpreta magari come eccesso di suono, di superficialità, e la guarda con indulgenza, però alla fine attraverso tutti questi canali, attraverso tutti questi mezzi, raggiunge le orecchie di tutti, raggiunge le mie orecchie, le orecchie degli altri, nelle sale da concerto, negli stadi, nelle case private, quando si ascolta la musica attraverso l’i-pod, e li si riconosce qualcosa del cuore di un altro uomo o di un’altra donna. Questa è una cosa semplice che la mostra cerca di mettere in evidenza: proprio nella parte iniziale si vedono dei video di tanti artisti mentre stanno cantando, e li si vedono diversi atteggiamenti, saltano, gesticolano, fanno delle giravolte, urlano gridano, poi dall’altra parte ci sono dei video di quegli stessi musicisti nel proprio studio, e lì si vede l’uomo o la donna, si vedono persone impegnate duramente al lavoro, persone come commercianti che comunicano attraverso i loro strumenti parlando una lingua che è conosciuta a tutti loro, dove effettivamente si parla di autenticità, di suoni, di suoni del tamburo, della chitarra, se si devono fermare, se devono essere prolungati, se il vocalist sta cantando troppo forte, parlano di cose diverse, parlano di cose che effettivamente non vengono dette e che vengono comprese tra di loro, la necessità cioè che il cuore esprima qualcosa che sia comprensibile a tutti, parlano, esprimono questa musica attraverso un grido che tutti quanti loro riescono a capire e trasmettono questo grido attraverso i canali dei media moderni, della superficialità moderna. Tutte queste cose che possono essere problematiche e alle volte nella nostra cultura generano sospetto, vanno esplorate più a fondo, io non voglio dire che ci sono cose buone e cose cattive della musica, voglio andare oltre, vorrei dire che c’è una cosa attorno alla musica, la cosa superficiale, che è vitale per la sopravvivenza della musica tanto quanto è vitale l’input, il messaggio, il grido, che viene trasmesso dalla musica. Questa è la natura della nostra cultura e sempre più i nostri cuori vengono fermati dal parlare in modo aperto, io spesso dico che se settant’anni fa fossimo stati qui in questa sala e avessimo anticipato l’arrivo di una società dei mass media dove abbiamo telegiornali ventiquattro ore su ventiquattro, dove abbiamo internet, ci mandiamo messaggi continuamente, radio, televisione, musica, qualsiasi musica si voglia, tutta la notte tutto il giorno, ecco a quel tempo se avessimo immaginato un momento di questo genere avremmo detto che questo era un tempo in cui si può dire qualsiasi cosa, in cui si può esprimere appieno il proprio cuore, affermare le proprie intuizioni rispetto a quelle del cuore di un altro, ma nella nostra cultura effettivamente è avvenuto l’opposto, anziché una estroversione, una espressione aperta del cuore, c’è un’introversione, una voce che ci dice che cosa dobbiamo pensare che cosa dobbiamo sentire, che cosa dobbiamo dire e quindi sempre di più questa voce è la voce che riporta gli impulsi personali all’interno del cuore dell’essere umano e questa è la vera e propria ironia del rock’n’roll, abbiamo questo rumore superficiale, aggressivo, narcisistico, molto egocentrico, ed è la cosa che ha più successo nella nostra cultura, e invece il comunicare questo soffio segreto nel nostro cuore, questo sussurrare segreto del nostro cuore, indipendentemente da quello che si vede del musicista, quello che indossa, questi vestiti strambi, i capelli che porta. Indipendentemente da questo pensate sempre che dietro c’è un uomo, c’è sempre una donna, qualcuno che canta quello che gli viene dal cuore. John Lennon diceva che quando non poteva esprimere ciò che c’era nella sua mente cantava quello che c’era nel suo cuore, e questo è il messaggio della mostra cioè riuscire ad affermare, non è un’idea radicale, nuova, però un modo per dire a tutti: “lo vedete quello che c’è in fondo a questa musica?”. C’è un’altra intuizione che ho avuto quando sono stato coinvolto nella preparazione della mostra, cioè il desiderio di rispondere ad una domanda, una domanda che, retoricamente è stata posta anche da Benedetto XVI tanti anni fa prima che divenisse Papa. Quando è poi stato eletto Papa tanti giornalisti si sono rifatti ai suoi articoli, alle dichiarazioni fatte quando era ancora Cardinale Ratzinger, ce n’è anche una sul rock’n’roll, in cui si era dimostrato molto scettico su questo genere di musica, un’impressione che effettivamente è un po’ in linea con la caricatura della “musica del demonio”, e ha detto qualcosa che è in parte vero ovvero che questa musica fa appello agli istinti di base dell’uomo, proprio a quelli più bassi evitando quelli che sono i centri superiori dell’uomo. Io capisco quello che voleva dire, potrei anche essere d’accordo ma… in un certo senso questa mostra è questo “ma”, cioè dire al Papa: “venga a vedere! C’è qualcosa di più in questa musica! Più di quello che lei ha visto, e capisco il perché, perché ogni volta che affrontiamo questa musica nella nostra cultura viene affrontata in questo modo: quando c’è una band rock in un film americano è sempre qualcosa di negativo, hanno tutti dei capelli lunghi biondi, hanno pantaloni di pelle nera, c’è sempre una connotazione di questo tipo.” Questo è parte di questo pacchetto superficiale di cui parlavo. E vorrei dire al Santo Padre: “venga! Venga a vedere, perché c’è di più in questa musica. Infine c’è stata una citazione in particolare che mi ha molto commosso quando l’jo letta alcuni anni fa, perché io sono stato critico del rock, e leggo anche le critiche che fanno gli altri che riguardano soprattutto questo confezionamento della musica rock e questa sua superficialità. Gray Marker, critico americano ha scritto un libro sui pionieri del rock’n’roll incluso Elvis Preasley, e c’è un paragrafo su Elvis che mi ha fatto quasi piangere perché questo autore descrive I can’t help falling in love with you e dice che quando aveva visto Preasley cantare questo brano era stato colpito dall’idea che questo uomo aveva una capacità affettiva, qualcosa di super-umano. Elvis Preasley aveva la capacità di un affetto super-umano e immaginate che questo sia quello che vediamo, quello che sentiamo, quello che desideriamo quando ascoltiamo questa musica, non soltanto note più o meno interessanti, più o meno nuove, più o meno radicali, più o meno rumorose, o addirittura melodiche se vogliamo, proprio questa capacità di affetto, di affettività che si condivide. Grazie.

MODERATORE:
Mi ero preparato una quarantina di domande ma ne farò due o tre. Mi colpisce troppo quello che ci hai raccontato, perché un ragazzo di diciassette anni, in uno dei momenti più esplosivi della stagione del rock, ascoltando un brano, riesca a bucare la superficie delle parole e della musica, scorgendo in quelle parole e in quella musica un grido, un grido umano che il suo cuore di ragazzo di diciassette anni, non del Waters famoso, non del Waters giornalista e scrittore, ma di un adolescente, pensate che razza di umanità e semplicità occorre per sovvertire in un istante tutti i luoghi comuni. Mentre parlava non ho potuto che pensare ad un altro ragazzo che settant’anni fa ha fatto qualcosa di simile, non c’era ancora la musica rock, ma c’era nella biblioteca del suo seminario Leopardi, e poco meno che alla sua età leggendo i canti di Leopardi, con la stessa immediatezza con cui John ha sorpreso quel grido, ha sorpreso in Leopardi, non il poeta del positivismo, del pessimismo cosmico, l’ateo ma la nota dominante di un desiderio di infinito, di un desiderio di totalità. E quello sarebbe diventato Don Giussani, e quello sarebbe stato l’incontro della vita di Don Giussani. Siccome tu hai detto “sono cresciuto avendo il rock’n’roll come colonna sonora della mia vita”, prova a raccontarci qualche incontro che nella tua vita è stato decisivo con taluni dei personaggi, delle icone della musica rock verso cui ti senti in qualche modo debitore, o grazie ai quali hai scoperto qualcosa che prima non conoscevi.

JOHN WATERS:
Io credo che per ciascuno di noi l’esperienza sia diversa e che molti dei musicisti con cui ho parlato, e sono state molte le esperienze, abbiano contribuito in maniera diversa. Ho ascoltato delle band di musica diversa e molto spesso si vede che i musicisti sono consci del fatto che sono etichettati, questo significa essere ridotti all’interno della nostra cultura a qualcosa che magari non pensano di essere. C’è una certa confusione in questo senso sia tra i critici sia tra il pubblico. Nel nostro cuore noi riusciamo invece a comprendere la lingua del musicista. Ho avuto degli incontri personali, ad esempio con Bono degli U2 perché gli U2 hanno fatto un percorso molto interessante. Hanno cominciato come una band cristiana, provengono dall’Irlanda, erano molto ingenui nella loro espressione della fede, molto naif. Nei primi due album hanno fatto vedere la loro fede, l’hanno mostrata al mondo, hanno sfidato il mezzo secolare, hanno sfidato anche la stampa molto ostile a loro, sia in Gran Bretagna che in Irlanda. Ricorderete forse l’album More dove c’era un video in cui avevano delle bandiere bianche e questo ha causato una derisione dei critici del rock nei loro confronti. Poi hanno fatto un altro album Achtung Baby dove sembravano una band diversa, erano diventati molto più cinici in un certo qual modo, molto più ironici e avevano anche un aspetto diverso, avevano un abbigliamento diverso, avevano per esempio dei costumi quasi teatrali per le loro performances, e avevano tutto un atteggiamento teatrale; i critici britannici improvvisamente hanno detto “meraviglioso, gli U2 sono cambiati, non sono più questa band cristiana stupida, si sono trasformati in una band rock’n’roll più moderna, più cinica, più ironica”, ma la cosa strana è che la musica non era assolutamente cambiata e i contenuti erano pure rimasti uguali. Sono stato colpito da questa cosa, ho scritto un libro sugli U2 e ho dovuto contattare Bono e gli altri componenti della band e sono rimasto impressionato dal fatto che avessero deciso di compiere questo cambiamento e dal fatto che avevano capito che fosse necessario se la cultura fosse stata come adesso magari sarebbe stato diverso, ma la cultura di allora aveva richiesto questo cambiamento da parte loro, non dovevano essere così chiari sulle loro credenze e sulle loro realtà, bisognava stare un pochino distaccati dalle proprie credenze e dalla realtà in quella cultura; questa è stata un’esperienza, il messaggio era cambiato, il messaggio di Cristo rimane comunque per tre di loro, ed è un messaggio che hanno voluto trasmettere nella cultura, portarlo in luoghi ostili, a persone che non avevano avuto occasione di incontrare prima questo messaggio; erano 3 i cristiani degli U2, l’altro componente della band no. Dal punto di vista esterno si potrebbe dire che è un problema avere un “diverso” all’interno della band, uno che non è d’accordo con gli altri, però ho parlato con The Edge una volta e mi ha detto: “io credo che forse sia importante avere un non-cristiano, perché questo è quello che fa sì che la musica rimanga rock’n’roll e rimanga all’interno del suo idioma, perché Adam diceva che quello che si faceva doveva rispondere al pubblico rock’n’roll”; e Edge diceva: “Non ci avevo mai pensato, ma in effetti è vero.” Vediamo aspetti molto interessanti nella storia degli U2, sorprendenti: all’inizio non riuscivano a suonare, Adam era particolarmente scarso da questo punto di vista, però erano già amici fra di loro, si volevano un gran bene; la cosa ovvia sarebbe stata lasciare a casa Adam e prendere qualcuno più bravo a suonare, però gli volevano talmente bene che non lo volevano fare, quindi hanno deciso di compensare la sua inadeguatezza, quindi the Edge ha cominciato a riempire la “parte mancante”, gli spazi che Adam non riusciva a colmare, aveva sviluppato questo stile completamente nuovo, e questo ha dato luogo al “suono degli U2” che è venuto non tanto dalla bravura di the Edge che stava sviluppandosi ma dall’incapacità di Adam, la sua incapacità totale di suonare; secondo me questa è una storia davvero sorprendente. Lo dicevi anche tu prima, Alberto, di non essere un esperto. Però effettivamente non ci sono esperti, né nel suonare né nell’ascoltare, è il cuore che suona ed è il cuore che ascolta, tutti i nostri cuori da questo punto di vista sono degli esperti, perché sono esperti nell’essere cuore. La tecnica: la tecnica alle volte potrebbe essere un problema perché trasforma tutto in clichè, e una delle parti della mostra, “ribelle”, è indicativa di questo: c’è nel rock’n’roll un clichè, quello del ribelle, soprattutto da noi nel regno unito c’è quest’idea di ribellione sociologica e politica espressa attraverso la musica, giochiamo su quest’idea parlando dei ribelli come di qualcuno che è creatore, innovatore, come qualcuno che assorbe la tradizione, la ascolta, si interroga, però fa un passo più avanti. Jimi Hendrix, ad esempio, che si ribella ai clichè, si ribella alla fossilizzazione della musica, si ribella all’idea di, quando sente una sequenza musicale, pensare “la conosco già, l’ho già sentita”; cerca sempre invece di creare una nuova frontiera per il futuro, una frontiera che si muove costantemente. Un altro musicista irlandese che ha significato molto per me è Van Morrison, e c’è tanto nella mostra su di lui. Secondo me è uno dei maggiori artisti dell’era moderna, non solo di rock’n’roll, è uno dei migliori artisti del XX secolo in generale, ed effettivamente si irrita molto quando viene definito come “intrattenitore”, rifiuta di parlare con queste persone e se ne va via, capisco anche perché. Cosa cerca di fare nella sua musica? Cerca di fare una cosa così meravigliosa, così fantastica, che ridurla in questo modo frustrerebbe chiunque. In un’altra parte della mostra si parla del rapporto tra la sua musica e le parole. E’ un po’ un clichè, forse l’avete sentito dire dai genitori, o voi stessi, si dice: la musica che piace ai nostri figli va bene però non si riescono a capire bene le parole, a interpretare bene le parole. Questo è un aspetto interessante: qual è il rapporto tra musica e parole? Quello che impariamo da van Morrison è davvero interessante, lui dice che solo una volta ha a che fare con le parole, quando scrive il brano, dopo quando canta divide le parole in sillabe, è come se le spezzasse con un martello, come se le parole fossero per lui un semplice ostacolo, e questo lo riporta a quello che diceva spesso don Giussani; noi usiamo le parole meno inadeguate, per riconoscere il fatto che vi sto parlando ma non riesco ancora a dirvi perfettamente quello che sento, vi comunico qualche cosa che vi permette di capire col vostro cuore cosa sento, e voi mi dite sì. Questo è il rapporto tra musica e parole, le parole sembrano quasi collassare nel silenzio, sono necessarie, necessarie tanto quanto è necessaria la parola, però l’artista le rompe, le attacca queste parole, le plasma in variazioni diverse tanto da renderle parole irriconoscibili e questo succede anche qui, le parole collassano nella musica; questo è iniziato col blues, questi schiavi fianco a fianco nelle piantagioni gridano, si danno delle risposte, lanciano degli appelli, stessa cosa. Effettivamente c’è un’altra cosa incredibile: Paul Morly, uno dei critici che viene citato nella mostra, dice che l’artista cerca la voce di Dio, qualcosa che abbiamo nel cuore ma non troviamo le parole per esprimere. Ci sono tante cose che esprimono attraverso la musica, ci sono tante cose che accadono in questa musica, dicevo anche all’inizio che può essere pericoloso parlare di queste cose, c’è il pericolo che queste cose, parlandone, si disintegrino davanti ai nostri occhi, diventino troppo ovvie, troppo letterali; quindi magari solo per questa settimana possiamo parlare di queste cose, poi dimenticarcene e tornare ad avere l’atteggiamento precedente rispetto a questa musica, ma almeno in questa settimana possiamo vederla in modo diverso.

MODERATORE:
C’è una cosa interessante in queste cose che ci sta raccontando e che si possono vedere anche nella mostra; ed è che per far emergere quel grido, quella domanda inesausta di uomini e donne, come dici tu, che usano il mezzo musicale e il canto per esprimerla, tu non devi censurare niente; cioè non devi mettere tra parentesi gli aspetti ambigui o contraddittori, che pure emergono nella musica rock. In una recente intervista tu hai detto che il rock permette maschere in cui la purezza dell’intenzione si nasconde, e in un altro caso avevi sottolineato la contraddittorietà del rock, che è tirato tra questa esigenza struggente di significato e il pedaggio pagato allo show-business, al mercato, l’essere protagonisti osannati e inseguiti dai fan. Come ti sei spiegato, approfondendo nel lavoro di questa mostra questa duplicità di ambiguità e contraddizione dentro questo fenomeno?

JOHN WATERS:
Ancora una volta diciamo che si tratta proprio di un uomo vestito da attore, da star, qualcuno che è camuffato e alle volte potremmo essere un po’ deviati dalla spettacolarità di quello che vediamo: c’è intrattenimento, c’è divertimento eccetera, ma alla base sotto sotto ci sono tutte queste altre cose, questo grido per qualche cosa di infinito, assoluto, fondamentale. Io ho una figlia di 16 anni, anche dei nipoti e penso a loro, ai figli di mia sorella; spesso parliamo di musica e la nostra cultura sembra sempre in generale ridurre la capacità di comunicazione tra una generazione e l’altra. Quindi succede che il numero di parole che si possono utilizzare per comunicare con i giovani adesso è ridotto e la musica, secondo me, è sempre una cosa di cui si può parlare coi giovani, tra generazioni. Ma anche questa comunicazione in qualche modo è ridotta perché si arriva a un punto in cui se io comincio a rivelare troppo di quello che la musica significa per me si imbarazzano, perché per loro è segreto questo, è una cosa che non c’è modo di esprimere, se non forse con la stessa musica. In un certo qual modo questa è una cosa un po’ terrificante della nostra cultura, però è un dato di fatto. In questo mezzo, con questi musicisti che diventano delle vere e proprie star, c’è una libertà, c’è liberta di esprimere queste cose, di sentire il manifestarsi di questa espressione. Però, per via di questo dualismo, di queste contraddizioni, ci sono dei problemi, dei pericoli per l’artista che non capisce veramente che cosa stia succedendo; prendiamo Elvis Presley, che ha cominciato come un musicista, un cantante straordinario, una persona che veramente era al crocevia delle culture e ha messo insieme, per esempio, la musica bianca e la musica nera, cosa che mai era stata fatta in passato, a Memphis appunto, in questa danza plastica (come la definisce Bono). Pensate a questa persona meravigliosa, un giovane, aveva una ventina d’anni, che nel corso dei due decenni successivi è cambiato davanti ai nostri occhi: ha cambiato aspetto, proprio. È ingrassato, gli occhi erano diventati più piccoli, si dimenticava le parole delle canzoni. Che cos’è il processo che si è verificato, che cosa è successo? Avrebbero detto tutti: “è una rockstar, naturalmente si faceva di droghe, mangiava troppo, aveva una vita sregolata… io non credo che questa sia una spiegazione del tutto sufficiente. Secondo me il potere di questo artista, il progetto in cui è impegnato è così enorme, è così potente che a un certo punto il peso di questo progetto diventa insopportabile. È un artista che ha un potere straordinario, che deve portare avanti in una cultura ostile, magari, per passare il messaggio dal cuore suo al cuore degli altri; ecco, ciò dà luogo a degli effetti, che si esprimono anche fisicamente, nel cambiamento fisico della persona. Quindi le difficoltà a superare gli ostacoli della società invadono proprio l’aspetto umano, la personalità dell’artista. Io credo che dobbiamo capire tutte queste cose, non tanto per andare a condannare l’uno o l’altro aspetto; naturalmente il giudizio è legittimo, però semplicemente dobbiamo stare lì ad osservare per capire di più. Io l’anno scorso ho avuto una intuizione analoga con la morte di Amy Winehouse. La stessa analisi era stata fatta in rapporto alla sua morte, quindi: faceva uso di droghe, beveva, c’erano tre bottiglie di Vodka di fianco al suo letto. Insomma, c’erano da un lato quelli che dicevano: “Beh, insomma è una rockstar”… che cosa vuol dire? Comunque è una notizia scioccante, è un dramma della vita, una storia che leggiamo molto triste nei giornali. I titoli dicono “Amy Winehouse muore per un’overdose, per l’uso di alcool” eccetera, per intossicazione da alcool, insomma varie definizioni. Io credo che, alla fine, titoli di questo genere siano sbagliati. In una cultura che vorrebbe capire le cose nel modo in cui sono, bisognerebbe dire: “Amy Winehouse è morta del suo desiderio incompreso”.Perchè lei, sul palcoscenico, rappresentava non solo se stessa, ma anche il suo grido, sé stessa, il suo cuore, ma non solo il suo! Anche il grido, il cuore di tutti noi! Sul palcoscenico il suo corpo era fragile, quasi come un filamento di una lampadina di tungsteno. È fragile, qualcosa di fragile che fa luce. È questo il modo in cui interpreto la morte di Amy Winehouse. È morta proprio per il suo genio, per la sua genialità, per quello che era la sua dote.

MODERATORE:
Mentre parlavi mi è venuta in mente una domanda che si pone il Papa sempre nel testo del messaggio al Meeting. Proprio pensando a questa fine tragica di questa cantante, il Papa si domanda: “A questo punto però sorge una domanda. Non è forse strutturalmente impossibile all’uomo vivere all’altezza della propria natura? E non è forse una condanna questo anelito verso l’infinito che egli avverte senza mai poterlo soddisfare totalmente?” E tu dicevi che contro i luoghi comuni è morta suicida perché era una rock star, tu hai sorpreso che quella morte è la documentazione del suo desiderio incompreso. E mentre parlavi mi sorprendeva la profonda compassione umana con cui tu e, in qualche modo, la domanda del Papa, resta e (qui non si capisce il senso della frase), anzi, è ancora più drammatica di fronte a una fine così tragica. Questo anelito all’infinito è una condanna? È una maledizione che ci portiamo addosso?

JOHN WATERS:
Io credo che lo possa essere, però se cerchiamo di approfondire un po’ il discorso secondo me va visto da un punto di vista diverso. Quello che dice il Papa è giusto, non riusciamo a seguire quello che desideriamo sempre, non troviamo in questa dimensione la totale corrispondenza del nostro desiderio. Se seguiamo il nostro istinto, i nostri desideri in maniera ovvia, inevitabilmente andremo a scontrarci contro qualche cosa e bruceremo. Però io credo che con una grande artista come lei il potere del suo talento può essere sostenibile se se ne rendono conto. E secondo me potrebbe essere un po’ difficile fare questa affermazione perché potrei essere frainteso. È interessante il fatto che gli artisti che riescono a sopravvivere di più sono artisti che profondamente sono entrati nella dimensione spirituale di sé, Bob Dylan, Bono degli U2, Bruce Springsteen, Leonard Cohen, sono tutti artisti che si sono resi consapevoli del fatto che quello che fanno è molto più profondo che non l’intrattenimento, non musica per intrattenere la gente o le masse. Questa è la questione. E questo mi porta a un altro discorso, cioè che cos’è possibile per l’uomo, che cos’è possibile per ciascuno di noi: se continuiamo a crescere, a capire, a imparare, in certo qual modo riusciamo ad avvicinarci all’infinito, ci andiamo vicino. Quanto vicino? forse soltanto di poco in tutta la vita, ma comunque andiamo avanti in questo percorso verso la nostra destinazione finale, e questo è la vera e propria libertà. È interessante. Il rock’n’roll è un po’ unito all’idea degli anni ’60 della libertà edonistica, come idea. Effettivamente riguarda il trovare un’espressione per l’istinto, per il desiderio immediato dell’uomo, soddisfare il suo appetito, la sua sessualità o quant’altro. E qui vediamo visibilmente questa cosa che ha evidenziato anche così bene don Giussani, cioè che ci sono due generi di libertà, una libertà che immediatamente si suggerisce, cioè suggerita dall’istinto, dall’appetito, e c’è sempre un disastro alla fine di questa libertà, questa libertà ci porta sempre a una collisione, a una morte. Questa è la libertà che, come diceva sant’Agostino, tutto alla fine porta a disgusto, cioè questa libertà non porta a nulla, se non a disgusto. Poi abbiamo invece tutta una serie di altri artisti che magari hanno avuto un’intuizione, tipo Springsteen: lui ha espresso una certa sensibilità cristiana. Anche Dylan, Cohen, Bono. Hanno detto questi artisti a un certo punto: “Ah! Adesso Lo vedo!”. Dopo magari tanti anni di prove e di esperimenti hanno detto “Ah!”. A quel punto hanno cominciato a fare delle cose straordinarie, hanno cominciato ad avvicinarsi alla luce, alla fiamma, a farci vedere che cosa è possibile attraverso questo mezzo. E quelli che riescono ad essere decodificati, ci hanno fatto vedere quello che è possibile in realtà. Quindi, nella storia di questa musica ci sono tanti aspetti, tante cose, c’è tutta una ricchezza, una vastissima ricchezza che riflette molto strettamente la realtà. In certo qual modo ingrandisce la realtà, perché il mezzo è un po’ grottesco, in certo qual modo, è un po’ più grande della vita, è esagerato, è tutto esagerato, eccessivo. Vediamo però questa condizione espansa, allargata. Ma è molto importante capire, interpretare, commentare, e avere la capacità di decidere senza essere, diciamo, presi dall’aspetto riduzionista della cultura convenzionale.

MODERATORE:
È molto interessante questa osservazione che tu fai a partire dal tema della libertà quando, citando Dylan, Bono, Cohen e altri, dici che in loro questa ansia non è finita tragicamente, e sono sopravvissuti perché hanno raggiunto un livello di esperienza religiosa. Questo è sicuramente una della cose più sconosciute del fenomeno rock. E la cosa interessante è che arrivi a questo – e nella mostra lo si vede – non appiccicando, quasi come un palliativo, quasi come un cerotto che compensa una sproporzione così che si può sopravvivere, ma dall’interno stesso del loro genio musicale tu fai emergere questa percezione, questo presentimento. E questo si associa anche a un altro dato che emerge scorrendo i testi di alcune delle canzoni che sono proposte in mostra, ed è il senso di tristezza che emerge in tanti, e che tu leghi all’affermazione di san Tommaso d’Aquino come “desiderio di un bene assente”. E se puoi velocemente ci fai qualche esempio di qualche brano, di qualche autore in cui questo struggimento, questa tristezza come desiderio di qualcosa che è assente, ma che si riconosce costitutivo, emerge?

JOHN WATERS:
Non voglio rivelarvi tutto quello che c’è nella mostra, però c’è un brano, So cruel, degli U2, che veramente è incredibile. Ci sono tantissimi altri brani che avremmo potuto utilizzare, però secondo me è molto interessante questo esempio degli U2, perché in certo qual modo, pur essendo convenzionale, nel senso che si lamentano del modo in cui la donna tratta l’uomo, “Sei crudele, ecc.”, malgrado questa convenzionalità del titolo e anche il dire “Non essere crudele” ad un cuore che invece è nel suo profondo estremamente vero, tutto questo in certo qual modo è contro la tradizione, è contro la storia, e è un discorso, un messaggio che va alla donna e alla vita in generale, riguarda la donna e la vita in generale. In questa canzone, in questo brano io penso che tutto questo sia manifestato molto chiaramente per cui quasi l’intera mostra potrebbe essere superflua. Basterebbe soltanto questo brano. Non si sa se è sentimento o desiderio, le stesse parole proprio sono molto indicative: “Head of heaven”, per esempio, “fingers in the mire”, queste parole sono molto indicative e sono quello che noi cercavamo di dire attraverso la mostra.
È proprio il sunto di quello che volevo dire al Papa, se effettivamente il rock esprime la parte più bassa ma anche quella più alta dell’uomo. Le nuvole coprono la testa, oscurano la realtà, ma vanno dissipate. Ci sono delle contraddizioni nel mezzo, ci sono sia carne che spirito in questo mezzo, esplora sia l’aspetto, la dimensione spirituale, che quella fisica dell’uomo. Questo è proprio quello che avvertiamo, che sentiamo, quando ascoltiamo un brano ascoltiamo questo. Ci dobbiamo ritrovare nel brano. Alle volte è un problema perché la cultura non ci consente sempre di parlare di questi aspetti, forse sì, forse no. Magari se la cultura capisse la musica in toto, la musica non sarebbe poi nemmeno così buona, chissà…! È proprio forse perché il cuore del musicista deve sempre combattere la cultura per dire le cose in maniera nuova e diversa che la musica è così valida.
Questo è un esempio di un brano, ma ce ne sono tanti altri nella mostra: abbiamo i Coldplay, per esempio, i Mumford and sons. Sono delle straordinarie band, tutte quante. Cominciano a parlare in maniera aperta di problemi fondamentali dopo un periodo in cui non era veramente alla moda parlarne. Ci sono delle band che sembravano aver paura di parlare di questi aspetti. Poi Dylan, Cohen, Janis Joplin, Hank Williams, per andare agli inizi, Robert Johnson, i Blues, i pionieri, insomma, di questa musica.
Io ho avuto un’esperienza, una volta, un po’ strana con mia figlia in macchina. Lei voleva sentire the Killers e band più moderne. Io le ho detto: “Beh, c’è della musica più buona, no? C’è della musica migliore”. Lei mi dice “Che cosa, Elvis?”. Dico: “No, non particolarmente, però, insomma i Killers non li vorrei nemmeno…”. Vediamo tanti esempi di questo genere nella nostra cultura: lo storico guarda a ritroso e crede al passato, e guarda dal presente al passato, non vede come le cose si sono evolute, sono cambiate, si sono trasformate. E ho cercato un pochino di insegnare a mia figlia a mettersi nei panni di Hank Williams, o Robert Johnson, che dovevano suonare la chitarra in modi che nessuno gli aveva insegnato prima, nessuno aveva insegnato loro come produrre dei suoni di quel genere. Questa è veramente una cosa che ci risveglia, come è successo a me, a diciassette anni, quando ho sentito quella canzone Ride a White Swan della band T. Rex. Si è risvegliato qualcosa in me. La novità che c’era in questo brano mi ha risvegliato verso un aspetto diverso della realtà, un aspetto che mi era vicino ma non visibile. Avevo capito che c’era ma era ancora misterioso per me. E riconoscere proprio questo mistero, riuscire a riconoscere questo aspetto strano – io parlo appunto di aspetto strano, di musica strana, ed è giusto parlarne perché è musica un po’ strana, potrebbe essere confusa con questa rumorosità, con questo eccesso di rumore, perché magari la si sente uscire dai bar nelle strade ecc. È importante come si riceve la musica, come la si ascolta, come ci nutre, se riesce a nutrirci. Come dicevo all’inizio è una mostra fragile questa, lo dico nel senso che è costruita secondo un atteggiamento intuitivo, secondo l’intuizione. Non è grazie al mio contributo soltanto, ma grazie al contributo di tutti quelli che sono qui seduti in prima fila. Ho seguito una intuizione, un’intuizione che abbiamo poi verificato l’uno con l’altro. Effettivamente abbiamo seguito un percorso, un percorso che però risultava ancora molto poco chiaro. Come dicevo, ci dicevamo: “Beh, che cosa ci dovrebbe essere qui?”. Abbiamo dovuto cercare continuamente della soluzioni, e inserivamo pian piano i vari blocchi, i vari componenti della mostra. E io spero che quello che riuscite a vedere nella mostra corrisponda a quello che abbiamo noi intuito nel nostro cuore. E ho già incontrato delle persone che mi hanno dato questo tipo di riscontro ed è proprio quello che cercavo.

MODERATORE:
Ti faccio l’ultima delle quaranta domande che avrei voluto farti, purtroppo non c’è tempo e quindi termino: durante il viaggio in Germania il Papa ha invitato a uscire dal bunker delle false sicurezze che ci siamo creati, un bunker in cui respiriamo aria artificiale e vediamo luce artificiale. Tu hai detto che il rock e il contributo di questa mostra può aiutarci in qualche modo a uscire dal bunker in cui ci siamo rinchiusi. Ci puoi spiegare in che senso?

JOHN WATERS:
Di fatto mi piace molto questa immagine data dal Papa al Bundestag, è veramente un’immagine fantastica di quello che sperimentiamo nella nostra cultura continuamente costruendo non soltanto mura e soffitti veri e propri, ma anche mura e soffitti in senso astratto. Io penso che il Meeting sia un luogo fuori dal bunker, perché prima di tutto descrive il bunker, ci rende consapevoli del bunker e lo rende visibile a tutti noi. E poi ci dice: c’è un’alternativa, c’è anche qualcosa di diverso dal bunker; io credo che anche il rock ‘n’ roll faccia questo sforzo, soprattutto come viene trattato nella radio, oppure nei giornali, è una musica, è una colonna sonora del bunker. Però è anche qualche cosa che fa appello ai nostri cuori, se posso fare una metafora, perché all’interno di questa costruzione c’è un qualcosa di prezioso, di particolarmente prezioso, cioè il grido, il grido del cuore umano nella forma più moderna che si possa pensare, cercando di affrontare le situazioni e le realtà più moderne possibili. Sembra improbabile e non so se riuscirò a convincere il Papa, ma lo amo molto questo Papa (credo che sia una delle forze più potenti al mondo); io non so se lui possa diventare un fan dei Rolling Stones o giù di lì, però gli direi una cosa. C’è un qualche cosa di cui non dobbiamo disperarci; c’è una cosa che attrae i nostri figli in questa musica e possiamo fidarci di questa cosa. Il rischio non è dopotutto così grande come alle volte pensiamo, c’è anche qualcosa di bello in questa musica, c’è una cosa fondamentale per l’uomo, qualcosa di speciale. Non ci deve nemmeno sorprendere, perché don Giussani ci diceva sempre di fidarsi della libertà degli altri, dei desideri degli altri: questa è la nostra guida, questa è la nostra evidenza. Io non sto dicendo che tutta la musica rock sia stupenda e faccia delle cose speciali, però c’è qualche cosa che ci deve indurre a continuare a sperare; in qualche modo questa fiamma del desiderio dell’uomo viene tenuta viva all’interno di questo guscio che potrebbe sembrare, magari, poco pieno di sostanza, molto banale. Io credo che questa settimana veramente il dibattito possa essere molto interessante, poi magari possiamo anche dimenticarcene e riadottare l’atteggiamento che abbiamo avuto prima.

MODERATORE:
Dovete convenire che tutti desidereremmo essere amici e confidenti di un uomo così, della sua curiosità, della sua passione per la realtà, in una ricerca accanita delle tracce, dei segni di quella umanità che sta sotto ogni movenza umana. Noi dobbiamo ringraziare John per il coraggio che ha avuto di prendere di petto questo attraverso uno dei punti più contraddittori, più abusati e censurati della nostra cultura, della post-modernità; questo mondo del rock che, come vedete, se è accostato da un cuore semplice, aperto e critico, parla come nessuno di noi immaginerebbe. Senza condannare o assolvere nessuno, ma per questa fiducia di cui ha parlato adesso, questa fiducia nella libertà dell’altro, questa fiducia nel desiderio dell’uomo che è più potente, che è più grande di qualunque tradimento, di qualunque limite, di qualunque contraddizione che è la grande risorsa e che ci riconduce al tema di questo Meeting. Solo un uomo che nel tempo si rende consapevole che l’essere rapporto con l’infinito non è un limite, non è un inghippo, non è un ostacolo, ma è l’unica possibilità per sprigionare tutta la sua energia, fino ad arrivare a quel livello strano, imprevisto, che uno, muovendo le dita su una chitarra inventa – come ha detto lui – qualcosa di nuovo. Cioè qualcosa che non c’era prima per cercare di dare voce, di dare forma, di dare espressione a quello che il groviglio del cuore porta in sé. E questa è la grande risorsa, e questa è la grande possibilità contro cui neanche tutto il potere dei media, neanche tutto il potere del mercato, neanche tutto il potere della mentalità che domina da est a ovest e da nord a sud nel mondo, può tacitare. E che sommessamente cresce, ed esplode, più potente di qualunque resistenza, di qualunque limite. Dopo che ho visto ieri la mostra mi è venuta in mente una cosa che disse don Giussani agli studenti universitari, proprio qua a Rimini, nel 1995, che è strana, come è strana la musica che John ci propone di incontrare di nuovo, per chi già la conosce, o per la prima volta per chi non l’ha mai accostata. Parlando dei giovani e del potere e del mondo in cui sono fragili e inconsistenti, don Giussani dice:” il nulla non è il destino ultimo delle cose, così come lo stesso dissesto non si risolve affatto in un vuoto di speranza. Vi è una eccezione, come il legno che si vede ancora verde e vivo, prima che la fiamma lo riduca a cenere. Si chiama gioventù. “Ma come?” – si domanda don Giussani – “non sono proprio i giovani le vittime?” E’ impressionante la mostra perché a un certo punto c’è un passaggio obbligato e ci sono dei totem con le foto e le date di nascita e di morte di alcuni protagonisti; ed è impressionante perché l’intervallo è breve. Sono morti giovani. “Ma come, non sono proprio i giovani le vittime?”. Giussani risponde: “essere le vittime del nichilismo non toglie nulla alla eccezionalità della giovinezza, si paradossalmente ne sono le vittime, ma rimangono, sia pur vittime, una eccezione. Essi vivono un bisogno, anche quando tutto è negativo, circa la risposta da dare, le indicazioni da offrire. Essi vivono un bisogno senza conoscerlo, senza che nessuno lo dica loro o dia loro una speranza di fronte ad esso”.
Il Meeting quest’anno, la mostra di John, il messaggio che abbiamo ricevuto dal Papa intende fare un passo verso la scoperta, la comunicazione, che questa speranza di fronte a questo bisogno sconosciuto, doloroso, a volte tragico, c’è. C’è perché qualcuno ne è testimone, è testimone di una diversità, essendo uomo come tutti e quindi fragile, contraddittorio, indifeso, peccatore come tutti, eppure porta in sé i segni di una speranza altrimenti impossibile. Buon meeting, e buona mostra, accompagnati da John.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

19 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri