STATO E PROSPETTIVE DELLA PICCOLA PESCA TRADIZIONALE IN ADRIATICO

In collaborazione con Regione Emilia-Romagna. Partecipano: Massimo Coccia, Co-presidente di Alleanza Cooperative Italiane Emilia Romagna e di Alleanza Cooperative Italiane settore Pesca; Arnaldo Rossi, Presidente della Cooperativa dei Pescatori di Cesenatico; Guido Milana, Vicepresidente della Commissione per la Pesca del Parlamento Europeo e Membro della Delegazione dell’Assemblea Parlamentare Euromediterranea; Corrado Piccinetti, Responsabile del Laboratorio di Biologia Marina di Fano della Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna; Attilio Rinaldi, Presidente di Fondazione Centro Ricerche Marine; Piergiorgio Vasi, Responsabile per l’Emilia-Romagna della Gestione delle Politiche della Pesca Marittima e dell’Acquacoltura. Introduce Simone Pizzagalli, Consigliere Delegato della Compagnia delle Opere Agroalimentare.

 

STATO E PROSPETTIVE DELLA PICCOLA PESCA TRADIZIONALE IN ADRIATICO
Ore: 15.00 Sala Tiglio A6
In collaborazione con Regione Emilia-Romagna. Partecipano: Massimo Coccia, Co-presidente di Alleanza Cooperative Italiane Emilia Romagna e di Alleanza Cooperative Italiane settore Pesca; Arnaldo Rossi, Presidente della Cooperativa dei Pescatori di Cesenatico; Guido Milana, Vicepresidente della Commissione per la Pesca del Parlamento Europeo e Membro della Delegazione dell’Assemblea Parlamentare Euromediterranea; Corrado Piccinetti, Responsabile del Laboratorio di Biologia Marina di Fano della Alma Mater Studiorum Università degli Studi di Bologna; Attilio Rinaldi, Presidente di Fondazione Centro Ricerche Marine; Piergiorgio Vasi, Responsabile per l’Emilia-Romagna della Gestione delle Politiche della Pesca Marittima e dell’Acquacoltura. Introduce Simone Pizzagalli, Consigliere Delegato della Compagnia delle Opere Agroalimentare.

SIMONE PIZZAGALLI:
Buon pomeriggio a tutti, prego i relatori di avvicinarsi al tavolo. Stato e prospettive della piccola pesca tradizionale in Adriatico. Il tema è vasto e complicato, l’intento di questo incontro è fare il punto della situazione con rappresentanti della Regione, del Parlamento Europeo e della cooperazione. Volevamo capire, facendo il punto sull’evoluzione della politica europea per la pesca, alla vigilia del nuovo periodo di programmazione – come sapete dal 2014 ci sarà un nuovo periodo di programmazione della politica comune della pesca – e in particolare valutare, il possibile futuro della piccola pesca tradizionale dell’Adriatico. Vorremmo toccare un po’ tutti gli aspetti legati alla questione: per questo abbiamo invitato il dottor Piergiorgio Vasi, Responsabile della pesca marittima e acquacultura della Regione Emilia Romagna. Poi sentiremo il punto di un operatore, Arnaldo Rossi, Presidente della cooperativa pescatori di Cesenatico. Poi abbiamo chiesto a due esperti di aiutarci a capire l’aspetto tecnico delle problematiche: sono Corrado Piccinetti, Responsabile del laboratorio di biologia marina di Fano, dell’ Alma Mater studiorum, Università degli Studi di Bologna e Attilio Rinaldi, Presidente della fondazione Centro Ricerche Marine. Infine, a Massimo Coccia, presidente di Federcoopesca e Confcooperative e Guido Milana, Vicepresidente della Commissione per la Pesca del Parlamento Europeo e membro della delegazione per l’Assemblea parlamentare euromediterranea, abbiamo chiesto di aiutarci a capire, anche un punto di vista istituzionale, la problematica. A questo punto chiederei ai relatori di stare il più possibile nei tempi che gli ho dato, non ruberei altro tempo perché il tema è lungo e complesso. Direi al dottor Piergiorgio Vasi di aprire.

PIERGIORGIO VASI:
Grazie, innanzitutto devo portare le scuse dell’Assessore Regionale Tiberio Rabboni che non è potuto essere presente all’iniziativa per motivi di carattere istituzionale, in quanto sono sopraggiunti impegni a cui non ha potuto assolutamente rinunciare, ma sicuramente la volontà di questo convegno nell’ambito del Meeting è sua e noi, come dipendenti regionali che si occupano del settore, l’abbiamo fatta nostra. E’ una tradizione ormai l’appuntamento con le tematiche della pesca, del pescato e dei pescatori in Emilia Romagna, al Meeting, una tradizione che si rinnova in questo nostro convegno di oggi che ha uno scopo sia divulgativo che di riflessione, una riflessione importante rispetto anche al tema del Meeting in cui si parla di “emergenza uomo”, ma anche dell’uomo inserito nell’ambito del contesto più generale dell’ambiente in cui vive. Ecco perché l’Emilia Romagna – che ha solo 120 km di costa sui migliaia dell’Italia, ma che comunque rappresenta all’incirca la quinta Regione italiana per attività ittica, con circa il 9% della produzione, dopo la Sicilia che occupa il 21% e la Puglia con il 16%, il Veneto e le Marche, entrambe al 10,7% – rappresenta una realtà importante. 150 milioni di euro è il ricavato medio degli ultimi anni del settore della pesca in Emilia Romagna, a cui bisognerebbe aggiungere probabilmente altrettanto fatturato, se andiamo ad inserire dentro quelle che sono le specificità regionali, per quanto riguarda gli aspetti della trasformazione e della cantieristica, quelle che sono tutte le attività correlate al settore della pesca. Due eccellenze anche nell’acquacoltura, la mitilicoltura e la molluschicoltura, cioè la venericoltura, per quanto riguarda gli impianti di mitili di tutta la costa emiliano-romagnola, che sono veramente una eccellenza, e gli allevamenti di vongole veraci, soprattutto nell’ambito della Sacca di Goro, che rappresentano in questo momento circa il 50% della produzione nazionale di vongole veraci. In più, abbiamo la vecchia tradizione delle vongole tradizionali ovvero le poverazze, come sono conosciute in Romagna, che certamente oggi hanno alcuni problemi che andremo ad affrontare. Tutto questa nostra tradizione è legata all’uomo: da altre parti ci sono armatori che hanno molteplici imbarcazione da pesca, imprenditori che stanno a terra e mandano a pescare altri, ma l’Emilia Romagna in particolare, un po’ come in tutto il nord Adriatico, è legata a una pesca di carattere tradizionale, in cui l’armatore è il proprietario dell’imbarcazione. Vedo qui in sala anche alcuni dei sindacati che in Emilia Romagna, negli ultimi anni, si affacciano come interlocutori importanti del settore, proprio perché la realtà del lavoratore era quasi inesistente in Emilia Romagna, in quanto il lavoratore era quasi sempre comproprietario dell’impresa di pesca. Poi i tempi sono evoluti e anche qui si è andati verso una pesca di carattere più industriale: cambia il ruolo delle rappresentanze dei lavoratori nell’ambito del settore e la necessità di avere un dibattito più ampio sull’argomento. Ma quello che ci interessa come Regione, è la nuova politica comune della pesca, il nuovo Fondo comunitario per il prossimo quinquennio: siamo di fronte a una nuova fase legislativa e normativa di tutto l’assetto della pesca e ci preoccupa che possa in qualche modo influire sul settore, comportando l’allontanamento da una realtà che ormai tradizionalmente si è consolidata fra gli uomini e il mare. Nella regione Emilia Romagna la pesca è una tradizione anche se i romagnoli non sono pescatori: fondamentalmente, i pescatori in Emilia Romagna sono di provenienza veneta, di provenienza istrio-veneta, come ricorda l’antica lingua parlata fino al 1914, 1915 nel quartiere di San Giuliano di Rimini; oppure sono di origine marchigiana, sono pochi quelli di origine romagnola tout court. Però, certamente, il legame consolidatosi in questi 200, 300 anni che hanno visto i pescatori dell’Emilia Romagna legarsi sempre di più al proprio mare, ha fatto sì che ci fossero uomini attenti a quello che sta avvenendo in mare. Io credo che Rossi sarà buon testimone di questo antico legame che fa dell’uomo e del mare dell’Adriatico un unicum inscindibile che vorremmo mantenere. Ecco perché abbiamo chiesto aiuto a biologi di fama come il professor Piccinetti, per quanto riguarda l’Università di Bologna ma anche il Centro di biologia marina di Fano, che sicuramente, assieme al Centro di ricerche marine di Cesenatico, con Attilio Rinaldi, è uno dei fari della ricerca in Adriatico. E soprattutto sentiremo la voce del dottor Coccia, in rappresentanza di quelle che sono le associazioni cooperative regionali e nazionali, e infine la testimonianza fondamentale dell’onorevole Milana, onorevole al Parlamento Europeo che, oltre a essersi preoccupato di quelli che sono gli aspetti legati alla nuova politica comune della pesca, sicuramente ha avuto un ruolo importantissimo nella Direttiva per la strategia dell’Adriatico e dello Ionio, una nuova Direttiva europea che impegnerà nei prossimi mesi la Commissione e poi il Parlamento e il Consiglio dei Ministri, ad affrontare un tema molto particolare come la regolamentazione, una regolamentazione specifica per l’area del Mediterraneo e dello Ionio. Una regolamentazione specifica che abbiamo chiesto da più tempo come comunità nazionale italiana, e che sempre di più è importante oggi che, finalmente, buona parte dell’Adriatico rientra sotto le stesse regole della Comunità europea: perché abbiamo bisogno di avere regole condivise, più attente a quelle che sono le esigenze dell’Adriatico, di questo mare molto particolare che rimane uno dei più pescosi del mondo. L’entrata della Croazia, e quindi di tutta la costa dalmata e la costa istriana, dopo l’entrata della costa slovena nella Comunità europea, sicuramente ci pongono di fronte ad una sfida a cui imprenditori, istituzioni locali, istituzioni nazionali non possono sottrarsi. In questo ambito, un grande strumento a cui abbiamo creduto moltissimo rimane il Distretto di pesca dell’alto Adriatico, cui la Regione Emilia Romagna, il Veneto, le associazioni internazionali, con il riconoscimento del Ministero hanno dato vita due anni fa, e su cui contiamo moltissimo per riuscire ad avere uno strumento di governance vera, da parte delle istituzioni locali, su quelle che sono le tematiche che dovranno affrontare i pescatori dell’Adriatico e i commercianti di pesce dell’Adriatico. Grazie.

SIMONE PIZZAGALLI:
Grazie a Vasi. Adesso lascio la parola ad Arnaldo Rossi: entriamo nel vivo della questione, gli chiederei di affrontare la situazione dal punto di vista dell’operatore. Come vi dicevo, Arnaldo Rossi è Presidente della cooperativa dei pescatori di Cesenatico.

ARNALDO ROSSI:
Buongiorno a tutti, vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori del Meeting, che hanno offerto questa sede prestigiosa per parlare delle problematiche del mondo della pesca. Ringrazio inoltre l’Assessore Tiberio Rabboni, per aver ritenuto che un intervento di un rappresentante della marineria di Cesenatico potesse fornire un contributo utile ai lavori dell’odierno convegno.
Mi auguro di essere all’altezza di questa attestazione di stima, della quale, devo ammettere, sono lusingato. Vorrei infine ringraziare gli illustri relatori di questo convegno che, con le loro indiscutibili competenze, permetteranno ai ragionamenti odierni di raggiungere un livello alto e qualificato.
E’ importante che in questo convegno si parli delle prospettive professionali ed economiche delle imbarcazioni che esercitano l’attività di pesca con il sistema dello “strascico”. Importantissimo che si parli del destino delle piccole imbarcazioni che esercitano questo mestiere di pesca, che da alcuni anni stanno affrontando difficoltà grandissime, che quotidianamente mettono a dura prova la loro capacità di sopravvivenza. Negli ultimi anni, il mestiere dello strascico, in particolare in Alto Adriatico, ha imboccato una deriva che va sempre più assumendo le caratteristiche di un declino senza possibilità di risalita. In questo declino, la legislazione comunitaria ha avuto un ruolo rilevante. L’Unione Europea, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha avuto la responsabilità imperdonabile di adottare, soprattutto per il segmento dello strascico, politiche di indirizzo profondamente sbagliate, purtroppo ancora vigenti, che costituiscono l’origine del disastro che tutti noi oggi siamo qui ad esaminare. E’ stato un errore capitale produrre una legislazione che ha equiparato i grandi mari del Nord Europa e l’Oceano Atlantico a bacini più piccoli, con bassi fondali, come il mare Mediterraneo ed in particolare il mare Adriatico. Consentire l’accorpamento delle licenze di pesca delle imbarcazioni e favorire così la messa in esercizio, in piccoli bacini come il mare Adriatico, di imbarcazioni enormi in grado di uscire in mare anche con condizioni meteo proibitive, dotate di apparati motore potentissimi capaci di trainare attrezzi di pesca giganteschi, ritengo sia stata, soprattutto alla luce degli effetti prodotti, una scelta puramente demenziale. Queste scelte hanno compromesso irreparabilmente l’equilibrio fra la capacità di ripopolamento del nostro mare rispetto allo sforzo di pesca praticato, e in larga parte determinato quel fenomeno di desertificazione dei fondali, con il quale i pescatori sono oggi costretti a misurarsi. L’Unione Europea ha continuato a sbagliare attraverso l’adozione del Regolamento Comunitario N°1967/2006, che ha imposto il divieto di pesca entro le tre miglia dalla costa e l’utilizzo di reti a maglia quadra di 40 millimetri o romboidale di 50 millimetri, che anziché centrare l’obiettivo di ridurre lo sforzo di pesca e ricostituire gli stock ittici, che i suoi stessi indirizzi avevano in gran parte determinato, ha solo acuito la difficoltà delle imprese, soprattutto quelle che detenevano piccole imbarcazioni. Voglio ricordare che il Regolamento Comunitario N°1967/2006 ci ha imposto addirittura il paradossale divieto di esercitare alcune “pesche speciali” di animali adulti
(rossetto), che assicuravano reddito e sopravvivenza alle piccole imbarcazioni dello strascico, durante il periodo invernale. Nell’insieme queste scelte, spacciate per una operazione di razionalizzazione della pesca a strascico in ragione delle esigue risorse ittiche disponibili, si sono rivelate un fallimento, il cui risultato evidente è solo quello di avere sfasciato quella straordinaria rete di piccole e medie imbarcazioni che negli anni, attraverso uno sforzo di pesca compatibile con il nostro mare, sono servite ad elevare socialmente il pescatore dal ruolo di semplice prestatore d’opera a quello di imprenditore ittico e sono state strumento di crescita economica per i pescatori e le comunità ove essi hanno operato. Negli ultimi anni, in Emilia Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia, sono sprofondate in una crisi gravissima ben 400 imprese di pesca e sono stati messi a rischio 4.000 posti di lavoro, se consideriamo anche l’indotto che opera al servizio di tali imprese. Credo proprio che peggio di così non si potesse fare! La nostra cooperativa, per anni purtroppo inascoltata, ha fatto il possibile per osteggiare gli indirizzi imposti dall’Unione Europea, così come in tutte le sedi ha cercato di contrastare l’entrata in vigore del Regolamento CE 1967/2006, producendo uno sforzo enorme, conclusosi purtroppo con una sconfitta. Ciò che ci ha rammaricato maggiormente non sono state le nostre sconfitte quanto piuttosto che, con esse, è stata sconfitta anche l’idea di una pesca più responsabile e in armonia con la capacità di ripopolamento del nostro mare. Nell’Alto Adriatico la condizione nella quale versano le imprese dedite alla pesca a strascico è gravissima, sintetizzabile nei seguenti punti:
• le catture nelle aree di pesca ove abitualmente operano le nostre imbarcazioni sono letteralmente crollate. A questo occorre aggiungere che a soffrire maggiormente sono i motopescherecci di piccole dimensioni che in larga parte effettuano la sola pesca “frontaliera e giornaliera”, che sono oggettivamente impossibilitati a raggiungere aree di pesca lontane e più pescose;
• le imprese hanno subito una grave perdita di redditività, al punto di non essere più in grado di sostenere gli oneri finanziari relativi agli investimenti realizzati nel passato e affrontare quegli interventi di manutenzione straordinaria che la proprietà di un peschereccio ciclicamente impone;
• il costo di acquisto del carburante ha subito negli ultimi anni un incremento del 30%;
• l’introduzione di nuovi obblighi burocratici legati alla sicurezza nei luoghi di lavoro e nuove norme igienico-sanitarie, hanno appesantito la gestione di imprese ormai prive di margini cui attingere;
• le retribuzioni degli addetti del settore determinate con il metodo “alla parte”, se si esclude il periodo settembre-novembre, non riescono più a raggiungere i 1.000 € mensili e necessitano pertanto della sistematica integrazione al minimo garantito da parte del proprietario dell’imbarcazione a favore del personale dipendente imbarcato;
• la crisi ha determinato una forte perdita di valore commerciale delle imbarcazioni, che non sono più alienabili attraverso il mercato;
• le banche, dopo aver perseguito per anni una politica di erogazione del credito irresponsabile, che ha concesso tutto a tutti, hanno adottato una linea estremamente restrittiva, che insieme alla crisi strutturale del settore che abbiamo illustrato, ha portato le nostre imprese dello strascico, gli addetti e le loro famiglie al limite del collasso.
Oggi, finalmente, l’Unione Europea afferma attraverso il proprio Commissario alla Pesca e agli Affari marittimi Maria Damanaki, e io aggiungerei grazie anche al contributo dell’Onorevole Milana, dopo anni di politiche sbagliate e errori macroscopici commessi che, “i maxi pescherecci hanno prosciugato i mari, che Bruxelles ha spesso preso decisioni in maniera troppo centralizzata, senza tenere nel dovuto conto le esigenze delle diverse aree, che il mar Baltico ha problematiche diverse da quelle del Mediterraneo e infine che lei stessa, da oggi in poi, si farà promotrice di una riforma della pesca, la cui parola d’ordine sarà regionalizzazione”. A questo punto, il timore è che la definizione di nuovi indirizzi, coerenti con questi buoni intenti, potrebbero arrivare tardi rispetto all’emergenza contingente che stiamo affrontando. Nell’aprile 2012, a Cesenatico, è stato realizzato un bellissimo convegno per affrontare le tematiche che sono oggetto anche dell’odierna discussione. In quell’occasione, al Vicepresidente della Commissione Europea Pesca, Onorevole Milana, e all’Assessorato regionale Economia Ittica, vennero formulate una serie di richieste che oggi siamo lieti di poter affermare sono state in larga parte accolte e tradotte nelle seguenti azioni:
1. il fermo di pesca è stato realizzato, diversificando per grandi aree di pesca il periodo di attuazione. In questo modo si sono favorite una migliore valorizzazione della produzione ittica e una maggiore continuità nella fornitura dei mercati con pesce italiano fresco, in periodi di grande crisi e concorrenza come gli attuali;
2. è stata introdotta la regola per la quale le imbarcazioni che effettuano la pesca con i sistemi dello “strascico” e della “volante”, possono esercitare la loro attività, durante tutto l’anno, per non più di 4 giorni la settimana e nelle 10 settimane successive al fermo di pesca, per non più di 3 giorni la settimana;
3. attraverso il FEP e ulteriori fondi regionali, sono state stanziate risorse per ammodernare i mercati ittici della nostra regione, di cui hanno beneficiato in prima istanza quelli di proprietà pubblica, a cominciare dal Mercato Ittico di Cesenatico;
4. Emilia Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia hanno realizzato bandi regionali, mettendo a disposizione 6,5 milioni di €, per consentire la demolizione, con premio di ritiro, di una parte dei natanti di piccole dimensioni (fino a 15 metri di lunghezza) adibite allo strascico in Alto Adriatico. Obiettivi di questi bandi, determinare una ulteriore riduzione dello sforzo di pesca praticato, favorire un’uscita dall’attività non traumatica per i soggetti in maggiore difficoltà, altrimenti destinati al fallimento, infine fornire un contributo al recupero di sostenibilità economica alle imprese che rimarranno in attività. Con questa iniziativa saranno demolite circa 70 imbarcazioni. Siamo in attesa che venga pubblicata la graduatoria delle imprese ammesse, che a questo punto dovrebbe essere imminente.
Delle proposte formulate in quella sede dalle marinerie dell’Emilia Romagna, resta soltanto da introdurre il divieto di pesca, entro le 6 miglia dalla costa, alle imbarcazioni più grandi, oltre i 18 metri di lunghezza, una ulteriore limitazione all’esercizio della pesca a strascico, che si andrebbe ad aggiungere a quelle già vigenti:
• divieto permanente di pesca entro le 3 miglia dalla costa;
• divieto di pesca entro le 6 miglia, nelle 10 settimane successive al fermo di pesca;
• 40 giorni consecutivi di fermo di pesca ogni anno;
• utilizzo di reti con maglia quadrata da 40 millimetri e/o romboidale da 50 millimetri;
• pesca consentita per quattro giorni la settimana durante tutto l’anno e per soli tre giorni nelle 10 settimane successive al fermo di pesca;
A questi limiti posti all’esercizio dell’attività, vanno aggiunte le aree di ripopolamento e le innumerevoli zone ove la pesca a strascico è vietata:
• zone di Tutela Biologica;
• poligono di tiro di Casalborsetti;
• allevamenti offshore per la produzione di mitili;
• centrali di estrazione gas e centinaia di km di tubazioni ad essa afferenti.
A questo punto, credo si possa ritenere che non vi siano più margini per imporre ulteriori limitazioni agli operatori del settore, che in questo senso, nel corso degli anni, hanno dato ampiamente il loro contributo. A meno che non si voglia anche accettare supinamente pure l’ultima “idea comunitaria” che, per eliminare i rigetti in mare del pesce non commerciabile, occorrerà installare a bordo delle imbarcazioni, una sorta di video-sorveglianza ! Va aggiunto, per completare l’analisi, che anche sul fronte delle agevolazioni tributarie e sull’abbattimento degli oneri previdenziali, non ci sono spazi su cui operare. La pesca marittima, su questo versante, è disciplinata dalla Legge N°30/1998 che già assegna importanti benefici sulla tassazione dei redditi prodotti e riduce in modo robusto il peso degli oneri previdenziali, così come il carburante, principale costo di gestione del comparto, non è soggetto ad alcuna tassazione (Accise e Iva). Negli ultimi 15 anni, nonostante le imbarcazioni in esercizio e gli occupati del settore siano diminuiti di quasi il 40%, e nonostante le recenti azioni adottate, che come detto abbiamo proposto e riteniamo corrette, constatiamo purtroppo che la sofferenza delle imprese dello strascico dell’Alto Adriatico non accenna ad attenuarsi. In Alto Adriatico, la difficoltà dello strascico non dipende dalla mancanza di aiuti pubblici e neppure da una insufficiente valorizzazione del pescato, quanto piuttosto dalla mancanza di pesce. Questo mestiere pare essersi trasformato in una “attività stagionale”, che nel periodo che va da gennaio al fermo di pesca, anziché realizzare reddito, produce perdite. Le imprese non hanno risorse da destinare alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle imbarcazioni che, essendo in genere costruite “in fasciame” e piuttosto vetuste, rischiano di diventare insicure per gli addetti che le utilizzano e in generale un pericolo ambientale, a causa di una maggiore esposizione al rischio di affondamento. Permettetemi una digressione, quando parliamo di sicurezza della pesca e della navigazione, occorrerà cominciare a dire che, prima delle procedure e dei sistemi di rilevazione elettronici, viene prima un buono stato di conservazione delle imbarcazioni con cui si effettuano queste attività! Cosa si può fare a questo punto? Nelle condizioni date, è indispensabile recuperare l’equilibrio economico delle imprese dello strascico, attualmente ancora piuttosto lontano dall’essere raggiunto. In assenza di questa condizione indispensabile, non è possibile immaginarne un futuro.
• Probabilmente la demolizione delle 70 imbarcazioni che si otterrà attraverso il bando realizzato dalle regioni dell’Alto Adriatico, non basterà. Sarà necessaria una appendice di ulteriori demolizioni con premio di ritiro;
• in mare continua ad esserci pochissimo pesce e questo fenomeno non può essere spiegato soltanto, come si è fatto in questi anni, con l’eccessivo sforzo di pesca praticato, anche perché in questo senso i pescatori hanno fatto e stanno facendo la loro parte;
• con l’aiuto della ricerca, cominciamo a riflettere seriamente sul peso che hanno avuto l’innalzamento della temperatura delle acque marine e la mutata natura e quantità degli apporti dei fiumi, sul fenomeno di “desertificazione” con il quale ci stiamo misurando. Occorre sapere con certezza se questi fenomeni, negli anni, hanno modificato l’habitat marino, causando la migrazione di alcune specie verso altri siti;
• verifichiamo se le operazioni legate al funzionamento del grande “rigassificatore” presente al confine Nord dell’Emilia Romagna possono determinare fenomeni che disincentivano gli insediamenti della fauna ittica;
• verifichiamo le modalità di sfruttamento e le politiche di pesca adottate dagli Stati extra comunitari che operano nel Mediterraneo e agiamo affinché perseguano anch’essi un programma finalizzato al ripristino degli stock ittici, altrimenti tutti i nostri sforzi non serviranno a nulla.
L’Italia importa il 70% del pesce che consuma ed è per tre dei suoi lati circondata dal mare.
E’ pensabile che, da qui a qualche anno, ci si possa trovare, soprattutto in Alto Adriatico, in una condizione per cui non sia più economicamente conveniente detenere un motopeschereccio che esercita la pesca a strascico? Se aggiungiamo che anche la pesca con sistemi fissi e il mestiere della “volante” devono misurarsi con crescenti difficoltà, il tema dei prossimi anni potrebbe essere, “se in futuro potrà essere economicamente conveniente l’attività di pesca in Italia”, un interrogativo inquietante che va drammaticamente ad inserirsi nella condizione generale dell’economia del nostro Paese, nel quale tantissime imprese chiudono ogni giorno e il lavoro è diventato un miraggio, soprattutto per i giovani. Ricordiamoci tutti, però, che per quanto riguarda la pesca, le difficoltà di oggi sono figlie di macroscopici errori di programmazione commessi dall’Unione Europea e da vigliaccheria, opportunismo e inerzia di tutti noi. Grazie.

SIMONE PIZZAGALLI:
Grazie a Rossi, che mi sembra abbia svolto perfettamente il suo compito, mettendo veramente parecchia – in questo caso non carne – al fuoco: veramente parliamo di pesce alla griglia. La domanda da cui vorrei ripartire, è quella che faccio a Corrado Piccinetti, Responsabile del Laboratorio di Biologia Marina di Fano: Rossi ha detto che in Alto Adriatico la difficoltà dello strascico non dipende dalla mancanza di aiuti pubblici e neppure da una insufficiente valorizzazione del pescato, quanto piuttosto dalla mancanza di pesce. Piccinetti.

CORRADO PICCINETTI:
Buongiorno. Effettivamente, i problemi che ha sollevato Rossi sono una triste realtà, e sono quasi totalmente condivisibili perché le cose che ha detto rispecchiano molto spesso la situazione reale. Forse bisogna tener conto però di una situazione che è un pochino più complessa. Le risorse ittiche che stanno in Adriatico sono risorse che – salvo le vongole, le cozze -, nella maggior parte dei pesci si spostano, hanno cicli biologici per cui stanno una parte nelle acque italiane, una parte nelle acque internazionali, una parte nelle acque croate o slovene. Se noi pensiamo che le sogliole si riproducono davanti alle coste dell’Istria, e poi i giovani vengono da noi e determinano quanto ne possiamo pescare… Le triglie si riproducono nella parte centrale, il novellame cresce da noi però si sposta, cosicché quelli che sono gli agostinelli, che sono davanti alle coste romagnole, marchigiane e venete, adesso, a fine ottobre, sono tutti in acque croate. Questo cosa determina? Che le risorse nel loro complesso vanno studiate. Non è possibile vedere la risorsa davanti alla costa del Veneto diversa dalla costa delle Marche o quello che è. Uno deve seguire l’insieme della risorsa come si evolve: chi la prende, quanto ne prende. Questo cosa vuol dire? Che l’effetto della pesca in un’area si riflette su quello delle altre aree, tant’è vero che i pescatori croati, quando abbiamo fatto un fermo pesca non perfettamente in linea con il ciclo biologico delle risorse, hanno risentito una diminuzione enorme di triglie, come hanno risentito un aumento del quantitativo delle triglie quando abbiamo fatto il fermo pesca che ha prodotto questa risorsa. E questo cosa significa? Che quando noi diciamo: non ci sono i pesci, dove, non ci sono? Sono davanti a casa nostra o sono fuori? La pesca è cambiata? Ma certo che è cambiata, la pesca! Se voi oggi andate a pescare sui fondi dei trittici del lago, quelli che sono chiamati volgarmente i fondi sporchi, trovate pochissime barche: una volta c’era una buona parte della flotta (i fanesi, i chioggiotti) che andava a pescare lì; solo che lì bisogna fare le calate di cinquanta minuti al massimo, tirare su la rete, buttare via alcune tonnellate di materiale che non è buono e tirare fuori quaranta chili di pesce per ogni ora. Evidentemente, è una faticaccia: uno preferisce andare a pescare su un fondo di fango, fa la calata di due ore, due ore e mezzo, tira su il pesce pulito, ci mette una persona di meno a bordo, fatica e lavora di meno, ed evidentemente chi cattura delle specie diverse cattura di meno. Però ci sono dei fenomeni biologici che sono incontrovertibili; ditemi come mai quest’anno sono venute fuori tante razze. La razza detta volgarmente la raggia che, a un certo momento, in certi mercati, abbiamo trovato in abbondanza. E’ un organismo che è lento a crescere; eppure adesso diventa facile pigliarla. Se fosse una pressione eccessiva ovunque, non ci sarebbe. La pressione eccessiva c’è, ma è nelle acque più vicine alla costa. Perché giustamente, come ha detto il Presidente della cooperativa, una barca oggi non va a pescare a quaranta, cinquanta miglia dalla costa quando può pescare a quindici miglia: consuma meno carburante, va più vicino alle coste, diminuisce i tempi di trasferimento e i consumi di carburante, e quindi opera lì. E questo ci deve dare però un’idea della prospettiva o del futuro della pesca. Noi oggi abbiamo tipologie di pesca che risentono negativamente, come qualunque impresa dove ci sia la diminuzione del prodotto, la diminuzione degli impiegati, la diminuzione del fatturato: probabilmente non sarebbero felici, gli amministratori, probabilmente i soci della società li sbatterebbero fuori a pedate, però normalmente nella pesca questo non si può fare, ma il risultato è disastroso. Questo risultato disastroso che lui ha chiaramente illustrato, abbiamo la possibilità di cambiarlo? A parer mio, sì, va ricercata soprattutto in quelle attività o in quelle linee che devono rispondere a un criterio di quella che sarà la pesca che vogliamo nel futuro, una pesca che sia ecologicamente, ambientalmente sostenibile, che prende i pesci, le specie, le dimensioni che vogliamo. Questo non è facile, perché se io calo una rete a strascico mi prenderà una rana pescatrice che ha la testa grossa, me la prende anche quando è molto piccolina, quando ha tre mesi, quattro mesi di vita, e me l’ammazza. Mi prenderà pesci di piccole dimensioni quando poi io voglio pescare delle altre specie: evidentemente non può essere selettiva, è il tipo di rete che non lo consente. Diverso è se vado verso la piccola pesca, quelle forme di pesca artigianale che hanno una tradizione, perché nella realtà italiana la piccola pesca rappresenta il fulcro maggiore come numero di addetti. La piccola pesca, fatta con attrezzi da posta, ami, nasse, reti da posta, e tutte le attrezzature che noi possiamo avere, reti di circuizione, mettiamo già anche le draghe idrauliche, è un’attività mirata ad una sola specie prevalente: ogni volta ne piglia uno, quindi l’attrezzo può essere selettivo. Noi a volte diciamo che il pescatore della piccola pesca è quello che deve avere un bagaglio culturale più ampio di tutti gli altri pescatori, perché deve conoscere il ciclo di ogni specie, quando quella specie passa nella sua zona, e quindi cercare di prenderla, di catturarla con quegli attrezzi che prendono prevalentemente questa specie. Oggi noi abbiamo questa tipologia di pesca, è la pesca delle seppie con le nasse, la pesca dei lumachini con i cestini, la pesca con il tremaglio, una, due, tre specie alla volta. Ecco che allora la pesca non diventa distruttiva, diventa mirata, la posso fare selettiva. Però c’è qualcosa da dire: oggi come oggi questa pesca non permette di vivere bene, perché cerchiamo di andare avanti con gli attrezzi della tradizione, che spesso non sono adeguati a quelle che sono le tecnologie moderne o le modalità per farlo. Ecco dove abbiamo bisogno di mettere uno sforzo di tecnologia, per fare in modo che quell’attrezzo che viene usato nella piccola pesca diventi un attrezzo selettivo ma, al tempo stesso, catturi un quantitativo di risorse economicamente valido per poter elaborare e continuare a vivere. Ecco che allora abbiamo delle barche che non devono essere grandi, grandissime, con dei grandi motori che consumano un’enormità di carburante: devono essere delle barche piccole, magari veloci, per fare il trasferimento, poi le operazioni di calo, di salpamento della rete, e ritorno rapido a casa. Ed ecco che sono operazioni di poche ore di tempo, che valorizzano l’aspetto sociale del pescatore che potrà stare a terra quelle ore o lavorare a terra la maggior parte del tempo, pulire le reti o pensare alla commercializzazione, e stare in mare lo stretto necessario. E’ un qualcosa che va ripensato, è il futuro della pesca. E su questo, l’UE potrebbe darci un grosso vantaggio, solo che il numero dei pescatori è grande, il costo di ogni attrezzatura è modesto, perché non è che abbiamo bisogno di attrezzature supercostose, quindi cambia tutto, il ruolo del Paese e delle Regioni in particolare, perché la situazione della pesca in ogni regione è diversa: nell’Emilia Romagna è diversa da quello che è nel Veneto, che ha delle lagune molto ampie, come a Goro, che nel resto della regione non ci sono. E’ diversa da quella che può essere la Puglia, è diversa dalla Sicilia, dalla Campania o dal Lazio. Sono regioni, ciascuna ha le sue particolarità: ecco che allora in ogni regione uno può sviluppare la tecnica, la tipologia di pesca che può permettersi. E ci vuole un investimento fatto dalle associazioni, dalle amministrazioni regionali, per cercare di adeguare gli attrezzi di pesca alle catture; attrezzi che devono essere selettivi, pigliare possibilmente gli animali vivi, perché se io vado con una rete da pesca, li ammazzo tutti, ma se lo prendo con una nassa, la specie protetta la posso lasciare libera e tranquilla. Ecco allora i nassini per canocchie. Noi abbiamo mai pensato in Emilia Romagna ai nassini per canocchie? Se pensiamo che nel Friuli ci sono decine di pescatori che campano calando i nassini per canocchie, le pigliano vive, le vendono vive e gli valgono di più, evidentemente è una tipologia interessante: perché da noi non si fa? Perché non l’ha mai fatto nessuno, noi caliamo il tramaglio, e sono morte. Però, se lo faccio col nassino e la prendo piccola, la rilascio nell’acqua e la ripiglio tre mesi dopo più grande. Ecco che c’è quindi una possibilità, la piccola pesca ci può dare un futuro. Vedo molto bene quel discorso del Presidente della cooperativa, quando mi dice: questa pesca oggi ha una serie di problemi che sono stati aggravati enormemente da una normativa comunitaria, non solo diretta ma anche indiretta. Pensate quando lui mi deve fare il controllo, la barca deve avere gli strumenti e tutti devono sapere dove sta, per evitare che vada a pescare nelle zone sbagliate. Lo devo sapere quando qualcuno sbarca, per evitare false dichiarazioni e vendere poi in nero il prodotto: me lo deve dire prima di arrivare in porto, cosa c’è a bordo, poi mi deve fare la dichiarazione di partita e tutte queste cose. Sono strumenti che però richiedono che qualcuno scriva a bordo, che vada nei computer, che imposti questa roba, che ci metta del tempo. Il pescatore non ha questa mentalità, non rientra nel nostro mondo della pesca tradizionale italiana, qualcuno che manovri con i computer, che giocherelli così. Tutto questo comporta un cambiamento. Nella piccola pesca può esser attenuato, può essere ridotto: nella piccola pesca, ci sono due persone a bordo, non dieci, le quantità sono più modeste ma il prodotto ha una qualità meravigliosa, per cui si può ottenere un ottimo risultato. Quindi, io vedo un futuro possibile in una piccola pesca rinforzata, razionalizzata, migliorata e tenendo conto che ci sono delle forme di pesca che hanno una storia, una tradizione, un ruolo che a un certo momento, in alcuni casi, possono richiedere un aiuto per essere accompagnate a far uscire dal settore quelle persone che vogliono uscire perché non ce la fanno più a resistere: il premio per la demolizione, l’uscita, i finanziamenti per ristrutturarsi o passare ad altre forme di pesca. Però diventa difficile oggi pensare a un futuro della pesca ecologicamente compatibile, che porti a uno sviluppo notevole della pesca a strascico, soprattutto nella fascia dalle sei alle dodici miglia, quella delle acque territoriali. Adesso abbiamo la normativa del fermo pesca, prevede fino alle sei miglia un divieto fino a ottobre, è già un passo avanti, che richiede che i pescatori siano d’accordo, ma si può fare di più. Comunque, è la strada da percorrere, credo che su questa strada ci sia abbastanza da lavorare. Grazie.

SIMONE PIZZAGALLI:
Grazie Piccinetti, grazie anche per aver rispettato i tempi e per l’interessante intervento. Adesso invece, al professor Rinaldi, volevo chiedere di continuare questo approfondimento sullo stato del mare, sulla situazione marina attuale.

ATTILIO RINALDI:
Sì, spero di riuscire e di parlare anche un po’ dell’Adriatico, anche perché probabilmente molti interlocutori che sono presenti a questa riunione magari non sono a conoscenza delle caratteristiche che adesso cerco di elencare in pochi minuti. L’Adriatico è questo: per quanto riguarda la parte alta, se osservate questa immagine, si può notare come la massima profondità che abbiamo è di soli 50 m, sul transetto Rimini-Pola, si tratta di un mare davvero poco profondo. Profondità più rilevanti le troviamo al largo di Pescara o addirittura al largo di Bari, dove abbiamo 1200 m di profondità. Il tutto poi si ricongiunge al Mediterraneo, allo Ionio e così via, attraverso lo stretto di Otranto che è largo appena 60 km. Vedete, un mare particolarmente lungo e poco profondo, soprattutto nella parte settentrionale. Un’altra condizione importante per meglio capire i meccanismi che poi cercherò di sintetizzare, è la questione correnti. Noi abbiamo le correnti che entrano come correnti dominanti dallo Ionio, che lambiscono tutta la costa croata per poi girarsi nella parte alta e scendere lungo il versante italiano. Strada facendo, vedete che ci sono anche dei vortici che di fatto tendono a rallentare un po’ la forza della corrente, però grosso modo questo è il suo andamento. Poi sappiamo benissimo che ci sono situazioni stagionali con venti di scirocco che prevalgono nella stagione estiva e venti dei quadranti settentrionali nella stagione invernale, che un po’ vanno a modificare questa situazione. Un’altra caratteristica essenziale per questo mare sono gli apporti dei fiumi. In Adriatico arrivano un terzo di tutte le acque dolci che si riversano nel Mediterraneo, e queste arrivano soprattutto attraverso il fiume Po, che butta in mare 47 km cubi di acqua dolce all’anno, e dai fiumi costieri della nostra regione, con circa 7 km cubi. Una quantità di acqua dolce straordinaria che tende ad assumere questa distribuzione che va da nord verso sud e da costa al largo. Attraverso le acque dei fiumi, arrivano anche sostanze indesiderate, in particolare carichi eccessivi di azoto e fosforo, che a volte tendono ad innescare processi che portano guai al mare Adriatico. Noto è lo stato di eutrofizzazione di questo mare, che a seguito di queste condizioni tende ad essere particolarmente sviluppato nella parte nord-occidentale. Ma si nota molto bene come la realtà, le condizioni che possono essere assimilate a una condizione di eutrofia, vale a dire eccessiva quantità di nutrimenti e quindi di alghe, le abbiamo solo nella parte nord-occidentale: il resto dell’Adriatico è oligotrofico. L’eutrofizzazione è questa, ma al di là dell’aspetto legato alla colorazione anomala, quindi una questione di natura estetica, possiamo avere – è il vero guaio dell’eutrofizzazione, il problema numero uno dell’Adriatico nord-occidentale, in particolare delle acque prospicienti l’Emilia Romagna – condizioni di carenza di ossigeno nelle acque di fondo. Qui ho riportato alcuni esempi, anche quest’anno abbiamo avuti problemi di anossia nel ferrarese, un po’ meno nelle parti meridionali, soprattutto nella stagione estiva, quando le acque sono molto calde e abbiamo apporti con una certa rilevanza del Po. Queste condizioni tendono a formarsi con morie di organismi bentonici, e qui mi riallaccio un po’ a quel discorso di Arnaldo Rossi che diceva: “Ma non è solo sorte di pesca”. In effetti, abbiamo altre concause che, soprattutto nelle fasce costiere, concorrono. Per farvi un esempio di quello che vuol dire un’anossia nelle acque di fondo, guardate questo schiacciamento di cannelli. Purtroppo il Po quest’anno ha buttato più acqua del normale nella stagione estiva calda: per le condizioni del mare molto caldo e la stratificazione, l’ossigeno sul fondo si è abbassato a un punto tale da scomparire e far morire gli organismi di fondo, in questo caso i cannelli. Un’altra peculiarità molto importante dell’Adriatico, che è già stata in qualche modo accennata da Corrado Piccinetti, è questa: per alcune specie, in particolare le sogliole, le mazzole, abbiamo una condizione di riproduzione che viene individuata nell’Adriatico nord-orientale contro il versante croato-sloveno. In primavera, i riproduttori si incontrano, mettono le uova, dalla uova si schiudono larve che, con il gioco delle correnti, si portano nella zona di nursery dove crescono. Ed è lì che in primavera, tardo inverno, abbiamo piccole sogliole, piccole mazzole che poi si portano nelle acque più profonde nel tardo autunno. Crescono in una zona dove l’Adriatico è ricco di fitoplancton e zooplancton, dove c’è tanta roba da mangiare. Gli apporti del Po, già qui si capisce abbastanza bene, nel bene e nel male rappresentano il motore dell’Adriatico. Il Po rappresenta il motore per gli aspetti biologici, perché apporta nutrienti che innescano la catena alimentare, condiziona le correnti adriatiche e anche gli aspetti chimici legati alle concentrazioni di nutrienti e altri elementi. Quindi, nel bene, in quel fattore che porta a far sì che il mare sia sano e riproduttivo, e anche nel male, che è legato al fatto che spesso abbiamo condizioni di eutrofizzazione acuta che vanno a sfociare nella cosiddetta anossia delle acque di fondo. Qui occorre senz’altro riprendere il discorso dell’ecosistema padano-adriatico, un concetto poco diffuso tra i ricercatori. L’Adriatico non sarebbe così se non ci fosse il Po, nel bene e nel male. Quindi, se dobbiamo ulteriormente mitigare queste fenomenologie indesiderate, dobbiamo senz’altro riprendere una discussione sul bacino padano. Il tempo per parlare in maniera esaustiva di queste cose non c’è, voglio sintetizzare solo alcuni concetti. Il Mediterraneo sta andando incontro sicuramente al processo di tropicalizzazione, le sue acque si sono scaldate di circa un grado e mezzo nella stagione estiva-autunnale rispetto alla norma. E questo favorisce l’immissione e la conservazione, in termini anche riproduttivi, di specie proveniente dai mari caldi. Lo stesso fenomeno ha favorito anche il predomino della meridionalizzazione, di spostamenti di specie che vivevano nel basso Mediterraneo verso il nord del Mediterraneo. Ed è per questo che sono diventati estremamente comuni pesci come la sardinella unita, una cosa molto interessante perché è un pesce che fino agli anni Settanta non era così abbondante, lo è diventato in seguito. E’ un pesce plactofago, magia soprattutto fitoplancton e zooplantcon, il suo popolamento è cresciuto in maniera esponenziale, geneticamente non è predisposto alle botte di freddo, quando il mare diventa freddo muore in massa, soprattutto se è rimasto nell’alto Adriatico, e non succede tutti gli anni. Eventi del genere, con spiaggiamenti che andavano dal delta del Po fino a Fano, si sono verificati nel 2002 e nel 2010. E poi, vabbè, l’arrivo di organismi invertebrati provenienti dai mari di tutto il mondo attraverso le acque zavorra di mercantili: vi faccio vedere un paio di queste specie nelle lagune e nelle acque costiere della nostra regione. Ecco la rapana venosa, questo bellissimo gasteropode che trovate tranquillamente sulle scogliere e nelle lagune. Ecco delle specie aliene che sono arrivate nell’Adriatico: è difficile dire se abbiano avuto un impatto effettivo nella competizione con le specie indigene autoctone, ancora non abbiamo capito. Di sicuro, per alcune sì, perché hanno una diffusione invasiva soprattutto in alcune lagune dove stando creando qualche problema. Ovviamente, il mare dell’Adriatico, soprattutto quello davanti all’Emilia Romagna, è iper controllato, vi sono strutture che lo seguono quotidianamente. E’ in atto un monitoraggio che è partito nel 1997 ed è tutt’ora funzionante, al punto tale che siamo forse una delle poche realtà mediterranee – io direi l’unica – che emette settimanalmente bollettini sullo stato del mare dal punto di vista ambientale. Non solo mette questi report sintetizzati ma anche mappe delle varie condizioni, cioè della distribuzione dell’ossigeno nelle acque di fondo, che vengono molto utilizzate dai pescatori, soprattutto dagli allevatori di mitili. L’informazione è fondamentale per chi voglia un po’ capire come le cose stanno andando. Chiudo, non vi sto qui a leggere tutto perché altrimenti finiremmo a ora tarda. Queste sono le cose che su scala globale vengono raccomandate perché la pesca è in crisi a livello mondiale: purtroppo la domanda sta superando di gran lunga l’offerta. Pensate al merluzzo, ad esempio, che viene pescato da Stati Uniti, Canada, Islanda, Paesi scandinavi e Inghilterra: sono Paesi che hanno i più grandi istituti di ricerca al mondo, eppure, denunciando la minaccia di estinguere il merluzzo, non si è mai a riusciti a convincere quegli Stati a prendere misure efficaci. Oggi il merluzzo ha avuto un tracollo del 70, 80%, il famoso baccalà, per intenderci. Perché ovviamente la ricerca, purtroppo, ha sulle decisioni un potere che oscilla attorno al 4, 5%. Chi governa le decisioni sul settore della pesca è soprattutto il mercato, la domanda, poi a questo si aggiungono altri fattori come le lobbies o cose di questo genere. Il caso Adriatico è emblematico, l’Adriatico non è un mare per grandi pescherecci, soprattutto la parte centrale-settentrionale. E’ un mare, come hanno già detto altri, per la piccola pesca, la pesca tradizionale e artigianale. Occorre senz’altro andare verso la creazione di zone a cattura zero, laddove ancora queste non siano state istituite: penserei a tal riguardo a zone della parte centrale dell’Adriatico, soprattutto quelle che sono state fortemente impattate da alcune forme di pesca legale a strascico come quella dei rapidi. E’ una riflessione che andrebbe fatto. Protezione normale delle specie non gestibili: lasciamo perdere perché riguarda soprattutto i tonni; protezione della catena alimentare. Mi colpì l’affermazione di una ricercatrice americana che disse: “Se continuiamo a trasformare il pesce azzurro in farina di pesce, corriamo il rischio di mandare al tappeto gli ecosistemi dal basso”. Cioè, togliamo cibo ai predatori, è una questione sulla quale occorre riflettere. Non riguarda probabilmente l’Adriatico, che è ancora molto ricco di pesce azzurro, però gli altri mari evidenziano questa questione. Chiudo con l’educazione del consumatore: qui c’è una questione che, soprattutto agli adriatici, andrebbe portata con forza. Dobbiamo diffondere la cultura culinaria legata al pesce piccolo. Il pesce azzurro è abbondante, costa poco, ha qualità alimentari straordinarie e può essere cucinato in mille modi. Vorremmo cercare di convincere un po’ di più il consumatore a orientarsi su questa specie, perché vorrebbe anche dire dare lavoro a chi la pesca in Adriatico dove è abbondante. E togliere un po’ l’attenzione dalle specie più minacciate nella storia della pesca, da questioni legate ai pesci di fondo, ai grandi predatori, ai tonni. Queste sono a mio avviso le cose che andrebbero considerate su scala globale ma che trovano un riscontro anche su scala locale, molto, molto puntuale nel caso dell’Adriatico. Grazie.

SIMONE PIZZAGALLI:
Grazie, professor Rinaldi. Massimo Coccia è, tra le altre cariche, Presidente di Federcoopesca, quindi è un osservatorio molto attento. La domanda è sulla politica italiana sulla materia, alla luce delle politiche europee. Un’altra domanda molto più semplice: sarà conveniente avere un motopeschereccio per la pesca a strascico nei prossimi anni?

MASSIMO COCCIA:
Questa è provocatoria! Ringrazio per l’opportunità che mi è stata data di raccontare alcune cose del mio lavoro che è iniziato molto tempo fa, quando i consumi di pesce in Italia erano poco superiori ai 7 kg pro capite l’anno, ora sono intorno ai 20 kg, il momento in cui la Comunità Europea finanziava la costruzione di grossi pescherecci con grossi motori: e anche questo faceva parte della politica comunitaria. I pescatori italiani sono cresciuti, le imprese sono cresciute, in termini qualitativi e ovviamente quantitativi. Pochi anni dopo, la stessa Europa finanziava le demolizioni e sta continuando a farlo oggi. Io rappresento un settore che, assieme ai colleghi di Agci, Agrital e Lega Pesca, di fatto rappresenta l’80% della produzione nazionale, in termini reali. Ovvero, l’80% della produzione nazionale si fa con pescatori che appartengono a qualcuna delle cooperative di queste tre associazioni che hanno deciso di iniziare un percorso unitario, come tutto il movimento cooperativo storico italiano sta iniziando. Io sono co-Presidente dell’Alleanza cooperative pesca, sono Presidente di Confcooperative in Emilia Romagna e anche co-Presidente di Alleanza delle cooperative dell’Emilia Romagna, in tutti i settori. L’evoluzione che ha avuto la rappresentanza della pesca negli ultimi anni ha visto una frantumazione, io dico eccessiva, altri dicono drammatica, della rappresentanza, come in tutte le rappresentanze politico-sindacali. Nella pesca, ha determinato spinte e controspinte in un settore che per anni ha vissuto senza sapere se la competenza doveva essere regionale o nazionale, o di tutti e due assieme. L’indebolimento della rappresentanza ha voluto dire meno partecipazione delle categorie alle decisioni, quindi meno sussidiarietà, se volete, a fronte dell’invadenza europea che arriva a determinare fin nei minimi particolari la vita quotidiana degli addetti o delle imprese. Sui grandi temi assente, sul particolare quotidiano invasiva, ha determinato un progressivo allontanamento dalla possibilità di far capire quali sono i veri problemi e come risolverli senza nuove leggi, senza nuovi regolamenti ma con la co-gestione, attraverso un sistema di autogestione delle categorie. Dicevo prima all’onorevole Milana, che ringrazio perché veramente ci sta aiutando – ringrazio un po’ meno la Damanaki, anzi, sta raggiungendo lo scopo, in maniera indolore per l’Europa, ovvero quasi senza soldi, di strangolare un settore giorno per giorno senza particolarmente occuparsi del contraccolpo sociale che potrebbe avere, perché questo sta succedendo -: si deve diminuire la capacità? Benissimo, si diminuisce la capacità. Diminuire la capacità vuol dire demolire le barche oppure fare in modo che vadano vendute. Poi non ci si preoccupa di sapere cosa succede un minuto dopo. Ma al di là di questo, la schizofrenia europea è parzialmente cambiata dopo il trattato di Lisbona, dove in qualche modo la co-decisione ha messo in campo più democrazia. Il Parlamento fino a quel momento era soggetto a decisioni di commissari che nessuno ha eletto, messi lì da accordi fra gli Stati dopo le elezioni parlamentari europee, che non rispondono a nessuno. Col trattato di Lisbona, si è aperta la possibilità di una rappresentanza consultiva delle associazioni a Bruxelles. Quando i pescatori ci dicono: “Ma voi, a Bruxelles, cosa fate?”. Niente, non possiamo fare niente in maniera forte, per il semplice motivo che l’attuale Ministro degli Esteri, spiace dirlo, quando era commissario ha deciso che le commissioni consultive non fossero rappresentate, ma solo le associazioni europee alle quali noi poi aderiamo. Quindi, noi aderiamo come Federcopesca, come Lega Pesca, ecc., ad un’organizzazione europea dentro la quale ci ammazziamo per trovare le mediazioni su dei problemi, perché tutto si può dire ma non che il Mediterraneo sia tutto uguale, perché non è così. Abbiamo già una differenza tra il Friuli Venezia Giulia e le Marche, nella politica regionale della pesca, figuriamoci a livello di bacino. La mediazione di questa mediazione viene portata in commissione consultiva. Che forza può avere per l’Italia? Nulla. La nostra unica speranza è avere degli interlocutori parlamentari seri, che abbiano la capacità di partecipare portando anche gli interessi nazionali, e che abbiano poi una maturazione nella enunciazione di nuovi regolamenti che vadano verso un sistema dove la sussidiarietà sia orizzontale e verticale: orizzontale significa che il Paese membro possa essere più libero di affrontare i problemi locali di quello che è adesso, dove tutto è omogeneizzato, quello che vale qui, vale in Catalogna, a Malta piuttosto che in Grecia. Non va bene. Le dodici miglia, le acque territoriali, almeno queste sono l’Italia. Non dico le acque internazionali, ma insomma. Per l’Adriatico, è arrivata la Croazia, beh, la Croazia per noi non è un problema ma potrebbe esserlo. Una visione così vecchio stampo a noi non va più bene, una rappresentanza come prima non va più bene. Stiamo costruendo l’alleanza delle cooperative: su questo tema, si deve fare molto in termini di democrazia economica, di democrazia di rappresentanza: e quindi bisogna avere coraggio e affrontare con metodi diversi quello che per anni invece abbiamo affrontato attraverso la deriva di un metodo che è durato dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, Novanta e ora non può più essere come prima. Avere coraggio vuol dire anche prendere coscienza, e mi rivolgo ai pescatori, che non serve chiedere continuamente provvedimenti o interventi o nuove regole per cercare di mettere ordine in un settore che amavamo chiamare “sistema pesca italiano” ma che non lo è più. Perché non esiste più un sistema pesca italiano, esistono quindici Repubbliche marinare con quindici interlocutori che si spaccano in quattro per accontentare i propri cittadini regionali, dimenticando che più si spezzetta, la pesca, più si indebolisce. Avere coraggio vuol dire prendere atto che il 20% della flotta produce l’80% della pesca italiana. Che questo 20% è il più invasivo, dal punto di vista ambientale, ma sicuramente quello a maggior costo energetico e quindi più a impatto energetico. Che il bilancio di queste aziende è sempre più vicino al deposito dei libri in tribunale perché sono in perdita da anni, i pescatori si stanno mangiando il capitale di famiglia per poter mandare avanti l’azienda. E questo non è più possibile. Bisogna avere il coraggio di recuperare quello che si era abbandonato, cioè la vecchia tradizione di pesca, mi riferisco in questo caso all’Adriatico, e magari convincere anche l’Europa a lasciare più libertà di autogestione. Se fossi un giovane, oggi investirei nella pesca, probabilmente non in quella a strascico.

SIMONE PIZZAGALLI:
Bene. Grazie, Massimo Coccia. Ha lanciato ulteriori provocazioni. Chiederei all’onorevole Guido Milana, che è stato anche lusingato all’inizio dal Presidente della cooperativa, di tracciare le conclusioni e di aiutarci proprio a capire quali sono le nuove politiche comuni della pesca.

GUIDO MILANA:
Provo, non a concludere ma a dire un’opinione, magari cercando di riassumere qualcosa che è stato detto, fornendo un’opinione più che un discorso conclusivo, soprattutto perché i tempi non consentirebbero di essere sufficientemente puntuali nelle argomentazioni. Comincerei da un concetto molto semplice: che cos’è il mare? E’ una miniera dalla quale si potrà prelevare ad libitum o è un luogo che dobbiamo cominciare a considerare in maniera diversa rispetto al passato? Magari più vicino ad un grande campo da coltivare che a una miniera dalla quale prelevare? Io propendo per la seconda. Ritengo che una delle grandi trasformazioni che impone la modalità con la quale l’umanità, prima ancora che il pescatore di Cesenatico, ha utilizzato questo strumento, imponga una riflessione diversa, quella di non considerarlo più una miniera inesauribile, che vive in totale autonomia, trovando il suo equilibrio biologico e producendo in maniera infinita. Nel mondo, la quantità di pesce consumato, tra virgolette, non è cambiata solo in Italia, come diceva qualcuno prima di me, è cambiata nel mondo. Oggi ci sono tre miliardi di persone che consumano pesce, cinquecento milioni di persone nel mondo senza pesce probabilmente sarebbero a rischio fame. Il prelievo, negli ultimi cinquant’anni, è decuplicato: questo enorme contenitore, vuoi o non vuoi, non ce la fa più e le ragioni sono molte, non soltanto l’eccesso di pesca ma anche, in Adriatico, l’atrofizzazione. Apro e chiudo una parentesi su questa cosa. A me sembra che si sia dimenticata una politica per combattere l’anossia nel nord Adriatico. Io ricordo, alla fine degli anni Ottanta, iniziative molto pesanti legate alla limitazione di immissione di fosforo e di azoto in Adriatico, a cominciare dalle regole un po’ più ferme sulle porcilaie nel mantovano. Ho la sensazione che siano grandi produttori di fosforo e di azoto, e quindi di nutrienti: i temporali primaverili dilavano i terreni, quindi portano giù fosforo e azoto. Ecco, credo che forse si dovrebbe riprendere qualche ragionamento di maggiore controllo sulle immissioni di questi nutrienti, perché altrimenti rischiamo di constatare che il malato è grave, che sta morendo ma non gli diamo neanche l’aspirina. Con questo chiudo la parentesi. Ma è un problema più complesso: questo grande contenitore trova una debolezza strutturale nell’assenza di pianificazione. Non ci si occupa del contenitore. Io sto conducendo una battaglia importante, che sembra non avere a che fare con la pesca ma invece ha a che fare. E’ la pianificazione spaziale del mare. Noi abbiamo un approccio culturale in cui pianifichiamo e programmiamo, facciamo straordinari piani regolatori, nei nostri Comuni, nelle nostra città, per sviluppare le economie, per garantire abitazioni, attività produttive, costruzioni di iter amministrativi legati allo sviluppo: ma tutte si fermano sul bagnasciuga. Gli atti di pianificazione, anche tecnico-giuridici, si fermano sul bagnasciuga. Bisogna uscire da questa logica, fare in modo che il contenitore diventi un soggetto, un oggetto di pianificazione. La pianificazione spaziale del mare è l’elemento principale attorno al quale si può costruire una prospettiva. Guardate, apro un secondo, piccolo flash su una cosa di cui non si è parlato molto oggi, che è l’acquacoltura. Forse perché si dice che l’Adriatico non è un luogo privilegiato per fare acquacoltura, non è così, tra l’altro, ma dovremmo fare un altro convegno. Noi in Europa consumiamo 5 milioni e mezzo di tonnellate di pesce che proviene da acquacoltura, produciamo 1 milione e 200mila tonnellate di pesce d’acquacoltura. L’80% di questo prodotto che consumiamo, attenzione, che mangiano i nostri figli a scuola o alla mensa scolastica, è un prodotto che viene importato. Tra l’altro, la nuova politica della pesca, il nuovo fondo si occuperà di sostenere questa operazione, ma occorre pianificare gli spazi, creare un piano di certezze in cui si dice: “Questo è il luogo dove si fa turismo”, giustamente, perché il mare è anche un luogo straordinario che produce altre ricchezze. Questo è un luogo dove si fanno estrazioni, questo è un luogo dove si può pescare, questo magari è il luogo dove non si deve assolutamente pescare perché magari lì c’è una area privilegiata all’interno della quale c’è una riproduzione di pesce, questa è l’area nella quale si dovrà fare acquacoltura per produrre un po’ di più: ecco, credo che ci debba essere questo grande salto di qualità. Per me sarebbe facile tirare missili e uccidere tutti i miei predecessori che in Europa hanno sbagliato queste politiche. Ma non voglio fare questo esercizio fisico, ginnico, non mi interessa. Mi interessa capire come porto un’idea innovativa, perché il ruolo del nostro Paese in Europa è marginale, spesso siamo la parte lamentosa dell’Europa, sempre pronta a criticare ma raramente a battere i pugni sul tavolo per affermare. Costringere l’Europa a dire”domani mattina bisogna costruire norme perché il mare sia pianificato”, significa probabilmente ricondurre tanta della discussione di oggi e tanto dibattito che c’è attualmente nell’intera Europa, all’interno di un ragionamento pianificato, che elimini la contraddizione del finanziare un giorno la costruzione e il giorno dopo la demolizione. Non costruisco le condizioni per cambiare le norme in assenza, facendo finta che tutti siano d’accordo per poi scoprire, dopo quattro anni, quando queste norme non vengono applicate, che non eravamo d’accordo, ma nessuno l’aveva detto prima. Anzi, abbiamo cominciato a urlare l’attimo dopo che le norme sono entrate in vigore, mi riferisco alle cose iniziali che diceva il Presidente della cooperativa, cioè al regolamento mediterraneo che, ricordo, è stato pensato nel 2000, discusso per sei anni fino al 2006, nel 2006 approvato, entrato in vigore nel 2010. Il nostro Paese si è svegliato nel 2010 a contestare quelle norme che erano vessatorie! Io ritengo che siano vessatorie, lo condivido, ma il tema vero, qual è? La parte piagnona, si dice a Roma, dell’Europa diventa l’Italia, che piange il giorno dopo: invece nella fase ascendente bisogna partecipare. Io ringrazio Coccia che riconosce questo ruolo nuovo del Parlamento che oggi può sviluppare un’idea migliore. Il trattato di Lisbona consente al Parlamento, e quindi ai rappresentanti eletti dal popolo, di esercitare un controllo e indurre quelle scelte. Fino a ieri non era così. E mi auguro che questo ruolo che stiamo svolgendo possa essere utile. Del resto, abbiamo una stagione che si apre da gennaio. La nuova pianificazione finanziaria del fondo europeo della pesca, dal 2014 al 2020, si sta definendo in queste settimane. Così come la nuova politica della pesca che si sta facendo grazie al fatto che qualcuno ha detto: “quella vecchia non funzionava”. Se no, non se ne faceva una nuova, perché quando una politica funziona, non c’è bisogno di cambiarla. Inizia questa fase nuova, è la prima fase nella quale il Parlamento stia svolgendo un ruolo, e allora, cos’è che vorrei lanciare come messaggio, stasera? Occorre che il sistema in Italia faccia un po’ più quadrato. Non per difendere in maniera bruta, qualche volta, l’indifendibile, perché a volte noi siamo anche portatori di proposte indifendibili. Ma per cercare di essere un soggetto Paese che è in grado di orientare: la mia più grande soddisfazione è far subire una scelta maturata in Italia ai danesi o ai tedeschi. Perché dobbiamo pensare che subiamo le scelte che mettono in piedi gli altri? Guardate che, se progettiamo bene, siamo più bravi degli altri. Abbiamo capacità, abbiamo fantasia, abbiamo potere di coinvolgimento e possiamo svolgere un ruolo di grande alleanza nel Mediterraneo, per fare in modo che non ci sia più questa offesa alle nostre esigenze ma che ci sia una fase attiva. Io penso che il nostro futuro dovrebbe essere caratterizzato così. E in questo c’è bisogno di un grande dialogo tra la parte produttiva, il mondo scientifico così com’è rappresentato a questo tavolo, la parte della rappresentanza sindacale e il ruolo del nostro Governo che, devo dire anch’io, senza polemizzare, che forse qualche momento di debolezza ce l’ha, all’interno, nonostante io sia un sostenitore della necessità di avere un Governo stabile in questo Paese: soprattutto in questa fase, non è che brilli eccessivamente per costruire questa rete. Bisognerebbe che ci fosse uno sforzo maggiore dei Ministri che si occupano di queste cose. Allora, il punto è: quale dovrà essere la prospettiva che abbiamo di fronte e qual è il futuro della piccola pesca in Adriatico? Negli ultimi mesi abbiamo promosso un’iniziativa, il Parlamento ha promosso un’iniziativa che riguardava proprio l’Adriatico, che provasse a sostanziare quella che si chiama regionalizzazione, all’interno di un ragionamento che non può che essere complessivo: il mare è unico, il pesce viaggia, Piccinetti ci ha spiegato prima che tra noi e la Croazia non è condividiamo soltanto le due lingue diverse, le triglie parlano la stessa lingua, di qua o di là. Se nascono di qua, viaggiano di là e muoiono dall’altra parte. Le seppie fanno la stessa cosa. Quindi, il tema è che c’è necessità di avere un coordinamento complessivo, una regia complessiva, una strategia comune. Nonostante questo, abbiamo la contraddizione di dover far rispettare norme invece molto tipiche, qualcosa che ci fa riconoscere come portatori di un’idea puntuale, precisa, locale, che abbia la possibilità di governare quel percorso. Io sono uno di quelli che pensa che i pescatori devono diventare le più grandi sentinelle del mare. Devono essere quei coltivatori del campo. La differenza tra il campo e il mare è sostanziale, perché il campo ha una proprietà e il mare non è di nessuno. Il pescatore pensa di essere un predatore, non un coltivatore. Ecco perché non c’è questo amore. Allora bisogna costruire le condizioni perché anche il mondo della pesca inizi questa fase che è culturale, umanistica. Cosa oso dire? Ha qualche sintonia, questa nuova fase, con il tema del Meeting, al di là della pesca, il fatto cioè di diventare le sentinelle di questo percorso. E per farlo, il Parlamento ha indicato una strada, ha detto: costruiamo una strategia per l’Adriatico, sapendo che l’Adriatico è quello che diceva il professore prima. Ha una caratteristica morfologica particolare, ha una convivenza di Paesi comunitari ed extracomunitari, ha un quadro di riferimento in cui la struttura produttiva è anche abbastanza avanzata. Chiudo, ancora due minuti. Ci può essere una grande sperimentazione che, all’interno di quei parametri generali di politica europea, costruisce, cuce un abito addosso a questo mare, cercando di mettere in piedi un ragionamento secondo cui il rapporto tra noi, la Croazia, la Slovenia, il Montenegro, non sia un rapporto di Paesi comunitari e non comunitari, magari in attesa di entrare, un rapporto soltanto di mediazione di interessi, ma sia un rapporto di condivisione di strategie. E quindi, fare in modo che le risorse, piuttosto che essere destinate a questa o a quell’altra misura diretta, siano destinate all’implementazione delle stesse regole, da una parte o dall’altra. Io faccio un esempio di questi giorni, per cui c’è un po’ di polemica sui giornali. Stamattina sentivo, venendo qui, un’intervista del Direttore generale di Federpesca, che è l’organizzazione di Confindustria, che lamentava e criticava il fermo così com’è fatto. L’ultima cosa che i tedeschi mi hanno spiegato è stata: “Volete continuare a fare in modo che noi spendiamo i nostri soldi per non mandare la gente a pescare?”. Pensateci, perché il fermo pesca è oneroso, l’Unione Europea paga, per questo. Mi sono fermato perché sto diventando come san Paolo sulla via di Damasco, colpito dal fatto che bisogna far respirare il mare: il fermo non può essere un tratto permanente, a meno che non diventi utile. Insomma, in un mare come l’Adriatico, fare un fermo senza che la stessa cosa si faccia o si coordini dall’altra parte, potrebbe essere inutile, bisognerà riflettere. Il tema è che noi spesso siamo abituati ad avere l’obiettivo di spendere i soldi pur di spenderli, piuttosto che misurare sino in fondo l’impatto che quei soldi hanno nella spesa. E abbiamo vissuto il fondo, oggi, lo dobbiamo dire con chiarezza perché se no ci prendiamo in giro, non come supporto fondamentale ad una indicazione del mondo scientifico che ci fa recuperare, ma come ammortizzatore sociale per dire che, siccome c’è la crisi nella pesca e si guadagna meno, vi diamo questi quattro soldi per fare in modo che ci sia un sostegno sociale. Ma questa è una verità che purtroppo bisogna mettere sul tavolo per correggere questo comportamento e, dalla correzione di questo comportamento, costruire una prospettiva. Io sono del parere che il fermo biologico sia importante e abbia necessità di essere perseguito come uno strumento validissimo, che concorre a fare quell’operazione che ho detto all’inizio, cioè a fare in modo che il mare sia aiutato a produrre di più. Chiudo con questo, perché il tempo è tiranno, con un messaggio molto semplice: il futuro deve scaturire anche dalla piccola pesca, sta nel futuro del pesce. Può sembrare una grandissima ovvietà ma se noi non garantiamo il futuro al pesce, non garantiamo il futuro ai pescatori, e se non facciamo un salto culturale in cui cambiamo la nostra opinione sul contenitore, e non mettiamo in piedi azioni che aiutano il contenitore a produrre di più, probabilmente non ci sarà spazio né per un peschereccio a strascico né per una rete da posta importante, un tramaglio, per dirla in termini un po’ più tecnici. Credo che oggi la fase politica che abbiamo di fronte sia importante, siamo alla vigilia del prossimo settennato, in cui, se il Paese svolta e fa il sistema Paese, probabilmente fra qualche anno non dovremo piangere sul latte versato ma forse, magari, constatare qualche miglioramento in questo malato, perché c’è un malato che è la pesca e un secondo malato che è il mare.

SIMONE PIZZAGALLI:
Grazie a tutti i relatori e a voi che siete intervenuti a questo interessante convegno. Vi invito a visitare i padiglioni della fiera, il Meeting di Rimini, se non lo avete ancora fatto, e vi auguro una buona serata.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

22 Agosto 2013

Ora

15:00

Edizione

2013

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus