PICCOLO È BELLO, NANO ANCOR MEGLIO: LE MERAVIGLIE DELLE NANOTECNOLOGIE

Piccolo è bello, nano ancor meglio: le meraviglie delle nanotecnologie

Piccolo è bello, nano ancor meglio: le meraviglie delle nanotecnologie

Partecipano: Mauro Ferrari, Professor and Chairman of The Department of NanoMedicine and Biomedical Engineering at the University of Texas, Health Science Center at Houston; Marco Pierotti, Direttore Scientifico Istituto Italiano dei Tumori di Milano. Introduce Marco Bregni, Presidente Associazione Medicina e Persona.

 

MARCO BREGNI:
Benvenuti a questo incontro sulla nanomedicina. Nulla è così strutturale al desiderio dell’uomo quanto il desiderio di approfondire la conoscenza della realtà e di poterla modificare a proprio vantaggio. La conoscenza scientifica è una parte molto importante del processo conoscitivo per entrare nella realtà. La cosa interessante è che in questo processo l’uomo cambia, diventa più cosciente dei propri limiti e della grandezza della realtà: questo è interessante, perché le persone che affrontano in modo serio questo desiderio, questa curiosità e questo stupore per la realtà, e che utilizzano metodi scientifici per approfondire questa conoscenza, effettivamente si trovano cambiati. Questo è il motivo per cui abbiamo invitato questi due scienziati e ricercatori a parlare qui al Meeting. Sono due persone che hanno fatto della conoscenza della realtà, attraverso il metodo scientifico, la propria professione: il Dottor Marco Pienotti, Direttore Scientifico Istituto Italiano dei Tumori di Milano, e il Professor Mauro Ferrari, Direttore del Dipartimento di Nanomedicina alla Scuola di Medicina all’Università del Texas. L’ambito specifico di cui parliamo oggi è la nanotecnologia, la nanomedicina, di cui il prof. Ferrari è sostanzialmente l’inventore. È un ambito di ricerca che è destinato a rivoluzionare, sia in ambito diagnostico che in ambito terapeutico, molti settori della medicina. È con grande curiosità che oggi ci apprestiamo a conoscerlo: lui non ci presenterà solo i risultati delle sue ricerche ma ci parlerà anche della sua esperienza di ricercatore in questo settore. Chiedo a Marco Pienotti di iniziare, introducendo l’argomento della diagnostica e della terapia dei tumori, partendo dalla conoscenza del menoma.

MARCO PIEROTTI:
Buongiorno a tutti, ringrazio Marco Bregni per questa introduzione. Ringrazio anche Mauro Ferrari per aver accettato un invito che nasce da una conversazione tra me, Marco Bregni e Giancarlo Cesana, in cui abbiamo condiviso la riflessione secondo la quale questo desiderio – che tra l’altro ho imparato dal Card. Scola che deriva da de-sidera, cioè dalle stelle, quindi è un verbo che lega il nostro essere terrestri con l’infinito – è stato caratterizzato da alcuni progressi tecnologici. La tecnologia ha dato negli ultimi venti anni un’impronta alla ricerca nella scienza della vita, e anche in altre discipline come, per esempio, l’astrofisica. Quello che mi propongo oggi, avendo come tema conduttore le tecnologie, è sostanzialmente darvi lo stato dell’arte della ricerca oncologica, tenendo i tumori come paradigma della medicina attuale, che è contraddistinta dall’aggettivo molecolare. Vediamo di capire i meccanismi – introducendo scenari che poi il Prof. Ferrari svilupperà meglio -, per far vedere il salto di qualità, i progressi che ci aspettiamo in questo campo, con l’applicazione delle nanotecnologie. Voglio però raccogliere anche l’invito di Marco a raccontare come questo mestiere mi abbia cambiato. Devo dire, con un po’ di imbarazzo e tremore, che ho avuto il privilegio e la fortuna di condividere dei momenti con Giussani, e il suo invito a fare questo mestiere mi ha posto due limiti. Mi ha detto: “Tu devi continuare a fare il ricercatore finché sarai stupito da quello che andrai a conoscere e finché sarai umile nel capire che quello stai conoscendo ti è dato, non è un qualcosa che dipende solo da te”. Dopo quasi 40 anni, credo di avere ancora un po’ di questo stupore, e quindi insisto a fare questo mestiere.
Prima di parlare della parte centrale di quello che voglio dirvi, cioè dello stato dell’arte della nostra comprensione della malattia tumorale, volevo fare una breve digressione, provocato dal fatto che tra pochi mesi, il prossimo febbraio, ci sarà il decennale di due lavori fondamentali apparsi sulle riviste scientifiche più importanti. Il primo è quello apparso su Science and Nature il 15 e 16 febbraio del 2001, quindi dieci anni fa, dove si presentava per la prima volta la decodificazione del genoma umano. E’ stato un passo fondamentale e ha avuto una ricaduta importante sulla medicina, ma ha anche avvicinato una delle domande a cui il nostro cuore desidera rispondere: la passione per il destino dell’uomo, cioè scoprire chi siamo e da dove veniamo. Il DNA, nella sua semplice architettura, ci risponde che – per qualcuno può essere preoccupante, qualcuno lo dà per scontato, altri invece preferirebbero essere colpiti da questa scoperta – tra noi e le scimmie antropomorfe c’è un’identità del 98,7%. Non commenterò le posizioni dei cosiddetti scientisti che non hanno dubbi e dicono: “Siamo tutti scimpanzé”. Fanno parte di quella categoria di cosiddetti scienziati (o scientisti, forse) atei che hanno il darwinismo integrale come posizione culturale. La cosa che mi interessa sono le domande che i veri scienziati si sono posti: come mai questa identità dà esito a differenze che sono evidenti anche solo morfologicamente?
Sono tre i punti che gli scienziati evoluzionisti – non è il mio mestiere – ci hanno insegnato: il primo è che l’uomo è l’unico essere vivente in cui all’evoluzione biologica si sia innestata l’evoluzione culturale, partita proprio con il linguaggio. Credo che durante il Meeting ci sia stato un incontro interessante su questo: è molto affascinante capire lo sviluppo del cervello rispetto alla capacità di sviluppare un linguaggio che, con un’operazione semplicissima, permette di trasmettere a un bambino di due anni migliaia di anni conoscenze acquisite da chi è arrivato prima. Gli animali e anche le scimmie antropomorfe non fanno una cosa del genere. La seconda caratteristica dell’uomo è che sviluppa strumenti per costruire altri strumenti ancora più sofisticati; le nanotecnologie nascono dalla continua miniaturizzazione di uno strumento che permette di creare un manufatto sempre più piccolo. Il terzo punto, che è lasciato aperto, non ha risposta. Come proposta di riflessione, probabilmente c’è spazio per il cuore, che solo l’uomo ha.
Un’altra cosa mi ha sempre molto impressionato, giusto per chiudere questa piccola digressione su questi grossi temi riguardo a chi siamo e da dove veniamo. E’ il fatto che, mentre per gli astrofisici è più facile, perché spesso fanno riferimento al Big Bang, che dimostra l’inizio, cioè dimostra che il tempo non è esistito da sempre, in biologia si dimentica una cosa interessante. L’ha citata qualche anno fa Rubbia, durante un suo intervento all’Accademia Pontificia dei Lincei: la materia vivente è costituita da mattoni elementari, gli aminoacidi che costituiscono le proteine. Le proteine costituiscono quello che noi siamo. In laboratorio, è possibile sintetizzare gli aminoacidi che, colpiti da luce polarizzata, deviano la luce a destra o a sinistra, chiamandosi conseguentemente destrogiri o levogiri. Quando si va ad analizzare gli aminoacidi in natura, si fa una scoperta che francamente mi stupisce ancora: tutti gli aminoacidi della materia vivente sono levogiri. Questa è una conseguenza, se volete, drammatica: dice che l’origine della vita è un singolo evento. Purtroppo non è familiare come il Big Bang, eppure tutto coincide. L’origine dell’uomo è monocentrica: qualsiasi altra teoria sul caso, per esempio il famoso Il caso e la necessità, non spiega perché l’uomo non avrebbe potuto nascere in situazioni diverse. L’origine umana è monocentrica e la tecnologia ha aiutato a dimostrarlo formalmente, analizzando per esempio i polimorfismi, che sono la maniera d’essere dello stesso gene in diversi individui. Per esempio, il colore dei capelli: il polimorfismo del gene, o di più geni che regolano il colore dei capelli, può rendere diverso un biondo da un nero. Con questi polimorfismi, quelli sul cromosoma Y per l’uomo o quelli dei mitocondri, piccoli organi cellulari che ereditiamo solo dalla mamma, è stato stabilito che l’origine dell’uomo è monocentrica. È stato usato lo stesso nome biblico: Adamo ed Eva nascono dall’Africa e poi si diffondono.
Questi progressi di conoscenza nascono dallo sviluppo di tecnologie che hanno portato alla decifrazione del genoma umano, frutto di un progetto iniziato storicamente nel 1990. Si prevedeva che durasse 15 anni e che costasse circa 200 milioni di dollari all’anno, coinvolgendo 1100 ricercatori. Si è visto poi che la tecnologia aiuta: il progresso ha fatto progredire questo approccio in maniera estremamente significativa, i tempi si sono accorciati, nel 2001 il progetto è finito e i costi adesso si sono talmente ridotti che oggi un genoma costa 1000 dollari. Mentre prima, con le tecnologie già abbastanza avanzate ma non così perfezionate, occorrevano circa cento giorni per sequenziare un intero genoma, adesso questo risultato si ottiene in una settimana. Gli inglesi, che sono sempre pronti e molto entusiasti di queste rivoluzioni tecnologiche – hanno emesso un francobollo nel 2003 – introducono il concetto di una medicina genomica che sarà quella che verrà utilizzata sempre di più nel nostro futuro.
Arrivo al cuore della mia presentazione. Quello che posso dirvi tranquillamente è che il modello più autorevole, rispetto alle verifiche sperimentali su che cosa sia il cancro, è quello che la ritiene una malattia dei geni della cellula. Questa malattia non accade in un momento solo ma avviene come conseguenza dell’accumulo nella stessa cellula di una serie di lesioni che interessano geni fondamentali per la crescita e lo sviluppo di una cellula normale. C’è stata una rappresentazione di questo, in un articolo di una rivista americana che diceva: “Enemy within”, e cioè: il nemico è dentro. Diversamente da molte altre patologie, infatti, dove ci sono agenti infettivi che arrivano dall’esterno, da traumi o da altre cose, il cancro è quasi l’altra faccia della medaglia della complessità cellulare degli organismi multicellulari. È un nemico dentro, è un evento che si crea nel tempo per l’accumulo di queste lesioni. Devo anche aggiungere che le alterazioni di questi geni, nella stragrande maggioranza, sono dovute all’interazione tra il nostro menoma e l’ambiente esterno, quindi stili di vita, l’inquinamento, ecc. C’è uno spazio di poco meno del 10% per i geni che vengono ereditati, quindi, tumori come le malattie genetiche di distrofia muscolare o emofilia, ecc., e un altro piccolo spazio per gli accadimenti spontanei.
Per caratteristica, il DNA è abbastanza ipermutabile e ha sistemi di riparazione che a volte non sono efficienti. Con le tecnologie, si è cominciato ad affrontare il problema cancro a questo livello, cioè partendo dal modello dei geni che si alterano, arrivando anche a conoscere l’intera struttura di intere famiglie geniche, come le cosiddette chinasi, che sono enzimi che svolgono un ruolo fondamentale nella crescita, differenziamento e morte delle cellule. Sono degli enzimi, e quindi sono una forma attiva o inattiva. Fisiologicamente, la forma attiva è regolata molto bene: nel cancro, questa forma è sempre attiva, e questo è il punto che fa la differenza.
Con questo approccio, cercando cioè la mutazione nella cellula tumorale con le tecnologie del sequencing, sono però sorti subito dei problemi. Il primo è stato che sfortunatamente una cellula tumorale acquisisce decine, forse centinaia di mutazioni, di cui quelle rilevanti per la patologia sono solo qualche decina. Quindi, il primo problema è distinguere le mutazioni cosiddette driver, quelle che causano la malattia, da mutazioni che vengono definite passengers, che sono lì solo come ipermutabilità del genoma di una cellula tumorale. L’altro problema è che può capitare che, nello stesso tumore, alcuni depositi metastatici abbiano lesioni genetiche diverse: quindi, c’è un problema di eterogeneità. Già noi avevamo visto, a livello di decifrazione del genoma, che c’era qualcosa che ci sorprendeva. Sostanzialmente, due cose: la prima era che in fondo sembrava che il numero dei geni non contasse poi molto. Noi abbiamo un migliaio di geni in più di una piccola piantina, addirittura meno geni di altre specie viventi. La seconda cosa era che il 97% del DNA sembra non codificare per nulla, e infatti viene chiamato dagli anglosassoni junk DNA. Allora, si è incominciato a pensare che non era tanto l’hardware, cioè il DNA come architettura, quello che faceva la differenza, ma il software, cioè come si controllano questi geni nella loro espressione, accesi o spenti. Qui è cominciata a nascere una generazione non di nano ma di microtecnologie che, grazie a sistemi miniaturizzati, riescono a interrogare un intero genoma per capire quali siano i geni che esprime o, viceversa, non esprime. A questo punto, si è potuto anche paragonare la cellula tumorale alla cellula normale, per capire se, per esempio, le differenze fossero più ridotte o più significative di quanto non fossero le mutazioni.
Per tornare brevemente al genoma, mi fa piacere ricordare che uno dei papà della sua decodificazione, Francis Collins, ha detto una cosa bellissima: “L’uomo è qualcosa di più della somma dei suoi geni”. La possibilità di valutare questa espressione ha fatto nascere una tecnologia che oggi, riguardando indietro, era molto artigianale. Consisteva nel potere aggiungere molecole che emettono una luce colorata se colpite da una luce a particolare frequenza. Mettiamo delle bandierine su tutto l’RNA, che è la traduzione, il passaggio necessario perché il DNA si esplichi in una proteina: c’è questo intermediario che si chiama RNA, verde, se deriva dalla cellula tumorale, rosso, se deriva dalla cellula normale. Mischiamo queste specie molecolari e depositiamole su vetrini che contengono fino a 20.000, 30.000 piccoli spot, che sono geni che andiamo a interrogare per capire quelli che sono espressi nel tumore, diversamente da quelli che sono espressi nel normale. Ecco una mappa che si chiama hit-map, che rappresenta il campione, normale o meno, espresso dal singolo gene. Prevale il verde, se non è espresso, il rosso, se è più espresso nel tumore. Queste sono le macchine di allora, che fanno sorridere; immaginate tutta questa questione, ridotta a quelle macchinette in cui si fa il caffé mettendo la cialda dentro. La tecnologia adesso si è evoluta: interroga tutti i geni espressi da una cellula con una specie di juke box, dove si mette la cialda e si tira giù la maniglia, facendo arrivare le informazioni.
Il passaggio alla conoscenza è l’informazione: l’informazione deve essere elaborata in conoscenza, la conoscenza diventa cultura. Quindi, l’informazione di per sé non è molto. Quella che arriva, è un’informazione complicata, perché è una hit-map di qualche centinaia di cellule di tumore, interrogato per 5000 geni: abbiamo un milione e più di informazioni. È la bio-informatica che gestisce questo, e ha un grosso peso nelle nanotecnologie. Si sta evolvendo come una disciplina importante, quasi a sé stante. La storia non è finita: grazie a queste nuove tecnologie, abbiamo scoperto che quel 97% di DNA che sembrava non servisse a niente, serve tanto. Abbiamo due specie molecolari che prima erano ignote: i cosiddetti micro-RNA, e i SIRNA, cioè Small Interference RNA.
Entrambe queste specie hanno un ruolo fondamentale: non fabbricano proteine ma costituiscono quella rete di interazione tra geni che spiega che la complessità non è nel numero dei geni ma nelle loro interazioni. In uno studio di questi micro-RNA nei tumori del colon, si vede che lo stesso micro-RNA controlla un assetto di geni diversi: alcuni fanno crescere la cellula, altri non la fanno crescere. In questo 97% di DNA che sembra non servire a nulla, si sono scoperte anche le cosiddette strutture ripetitive ultra conservate nelle diverse specie, che sembra servano da spugna per sottrarre all’ambiente questi RNA, e quindi per modificare gli equilibri. Stiamo cercando almeno di capire questo. Per dare una rappresentazione più familiare di questa interazione, i geni non agiscono mai sotto una campana di vetro, da soli, ma fanno parte di pathway, cioè percorsi che possono essere assimilati alla mappa della metropolitana, con le varie stazioni. Se per esempio una stazione viene chiusa per lavori, è chiaro che io non riesco a raggiungere la mia meta. È questo il concetto: quando questo gene viene eliminato, i geni che stanno sul suo percorso vengono anch’essi eliminati. Viceversa, se questo gene viene esaltato nella sua funzione, tutti gli altri geni verranno anche loro esaltati. Questo, per darvi l’idea di dove sia il problema: il network e l’interazione.
Come questo ha cambiato lo scenario nel cancro? Il primo livello è il più semplice: quasi sempre, nella sequela delle nuove scoperte della biologia, il primo settore che viene influenzato è la diagnostica. La diagnostica del passato, che è ancora presente in certi ambiti, è quella della diagnosi fatta su pura base morfologica: si guarda il vetrino, si vede il tumore, la struttura del tumore e si definisce il tumore come, per esempio, tumore duttale infiltrante della mammella. A questo approccio, si è incominciato ad aggiungere una diagnosi molecolare molto modesta, gene per gene, che poi guida la terapia. Il nuovo scenario è molto diverso: grazie a queste tecnologie e ai costi ridotti che introducono, noi possiamo fare il profilo molecolare di ogni singolo tumore per ogni paziente, portando ad una caratterizzazione molecolare precisa, che ha come conseguenza una nuova classificazione che va al di là dei limiti della morfologia, cioè una classificazione dei tumori su base molecolare.
Piccoli esempi veloci: tumore duttale infiltrante della mammella. In realtà, a livello di espressione genica, con quella microtecnologia descritta prima, si scopre che noi possiamo costruire dei sottogruppi ben precisi, almeno cinque, di diverse condizioni, per cui l’esito è lo stesso (tumore mammario duttale) ma i percorsi per raggiungere questi risultati sono diversi. Questo ha delle conseguenze molto importanti, in quanto spiega perché la stessa terapia funzionava, o almeno in parte, ma funzionava, in certe donne con questo tipo di tumore e non funzionava in altre. La seconda nuova possibilità è di predire se quel tumore in quel momento sarà altamente aggressivo, richiedendo quindi una terapia molto forte, oppure avrà un andamento meno aggressivo. Si può capire, quindi, la predizione sull’espressione genica dell’aggressività del tumore e, addirittura, se quel tumore andrà a colonizzare organi diversi.
Ci sono state, perciò, anche alcune conseguenze sulla terapia. La conoscenza del profilo molecolare ha portato a sviluppare dei farmaci – questo è importantissimo – non più basati su una citotossicità differenziale tra tumore e cellula normale, ma basati sul meccanismo che ha generato il tumore. Per la prima volta nella storia dell’oncologia, possiamo avere la presunzione di curare la malattia cancro attraverso i meccanismi che la generano, perché abbiamo incominciato a conoscerli. Questo ha cambiato, per l’industria farmaceutica, alcuni paradigmi che sembravano intoccabili, come quello di una medicina per una patologia. Nel nostro caso, abbiamo una trasversalità, perché diverse forme tumorali, condividendo la radice, cioè il meccanismo, possono essere curate con lo stesso farmaco. Questo è chiamato il paradigma dell’Imatinib, una molecola risultata decisiva per la leucemia mieloide cronica ma anche per altre forme tumorali. L’altro concetto che è stato destrutturato è quello che vuole che tumori uguali vadano trattati con lo stesso farmaco. Il concetto di personalizzazione, non sul paziente ma sul tumore, vuole che sia il profilo molecolare del tumore a dettare la terapia.
L’ultima frontiera, e qui aspettiamo un grande aiuto dalla nanotecnologia, è di andare al prodotto ultimo, alla proteina, che è molto difficile da studiare, in modo da dimostrare che all’interno dello stesso tumore, o a metastasi dello stesso tumore, si abbiano profili molecolari molto diversi. Per l’industria farmaceutica, il messaggio è: terapia a bersagli multipli per sradicare la malattia. L’Economist, qualche anno fa, prometteva che la molecular technology, in cui le nanotecnologie hanno un posto di grande rilievo, avrebbe trasformato l’oncologia. Questo è lo scenario che si apre, la cosiddetta medicina molecolare, o medicina delle quattro p, definizione inventata da Lee Hood, uno dei padri delle tecnologie. La nuova medicina deve essere: predittiva (abbiamo visto come può predire l’andamento della malattia); preventiva (abbiamo delle ipotesi di prevenzione, chemio prevenzione, addirittura prima che il tumore insorga, personalizzata nel senso della terapia); partecipatoria. Partecipatoria – e qui mi riallaccio a chi ha organizzato questo incontro, Medicina e Persona – perché ormai tutti adesso stanno riscoprendo la persona. Questo è anche rischioso, perché nell’accezione anglosassone la partecipazione è vista come, ad esempio, le associazioni dei pazienti. E va benissimo, ma non dobbiamo mai dimenticare il singolo, la singola persona che è al centro.
Le nanotecnologie saranno lo strumento essenziale per passare dalle varie genomiche, proteomiche, alla biologia dei sistemi. Voglio ricordare quello che era riportato in un frammento del IV secolo Avanti Cristo, da Democrito: “còsmos anthropos micròs cosmo”, cioè l’uomo come ricapitolazione dell’universo. È abbastanza singolare che tra le misure della galassia, a miliardi di chilometri di distanza, e le nanotecnologie che lavorano da 109, le misure dell’uomo stiano esattamente nel mezzo. Grazie per l’attenzione.

MARCO BREGNI:
Grazie, Marco, chiarissimo. Invito subito Mauro Ferrari a fare la sua presentazione.

MAURO FERRARI:
E’ molto difficile parlare dopo un relatore eloquente della profondità di Marco, in particolare per chi, come me, dopo ventisei anni di Stati Uniti, si è ridotto a un italiano maccheronico. Abbiate pazienza, chiedo scusa in apertura. Vorrei riprendere l’invito fatto da Marco a parlare non solo di aspetti scientifici, di cose nanotecnologiche, nanomediche, ma anche di aspetti personali, a parlare anche di cuore. Non si può parlare di cuore se non si parla di se stessi. E allora mi accingo a fare una cosa che mai e poi mai mi sarei sognato di fare, ispirato dal fatto che siamo qui. Io sono un novizio di questo incontro ma sono onoratissimo di farne parte. Mi hanno detto che questo è un incontro di amici che hanno in comune la fede. Allora, con tensione incredibile, vi racconterò alcune cose che hanno a che fare con il percorso, con i nostri percorsi. Una dovuta ricapitolazione dei miei incarichi attuali, che terminano tra qualche giorno. Non mi hanno licenziato, almeno non ancora; forse, dopo oggi, probabilmente succederà, se mi vedono su Internet! Parlando di percorsi, c’è un’evoluzione e parlerò anche di questo. L’evoluzione sta in una nuova istituzione di cui diventerò Presidente e Amministratore Delegato, altra cosa che non ho mai fatto, passare dall’altra parte, di un nuovo Istituto di ricerca che è grande, ha più di mille ricercatori, con settecento clinical trials, un istituto indipendente ma che fa parte del principale sistema ospedaliero degli Stati Uniti e sta a Houston, dove sono da cinque anni. Prima stavo al MD Anderson e all’Università del Texas; resterò ancora a MD Anderson ma dall’Università del Texas passerò qua.
Maria Luisa in questa foto ha 21 anni. Ci siamo incontrati e dopo pochi mesi ci siamo ritrovati su una spiaggia a celebrare la nostra luna di miele. Allora avevo ventiquattro anni, quindi si tratta di non pochi anni fa. Devo confessare un’altra cosa che non confesso mai in pubblico: per sposarci, siamo scappati di casa, non ditelo a nessuno, certamente non ai miei figli. È stata una di quelle cose che si fanno in gioventù, e poi, a ripensaci, dici: “Ma come si fa a fare cose così da imbecilli!”. Perdonate un momento di comicità per rompere il ghiaccio, erano tanti anni fa. Vengo da una famiglia in cui nessuno era mai andato all’Università, quindi, l’idea di andare a studiare era una cosa un pochino rischiosa. Avevo vinto una borsa di studio per andare a Berkeley, una grande Università della California, dove allora c’erano diciassette Premi Nobel, una cosa impensabile. Avevo appena incontrato Maria Luisa e l’idea di andare e lasciarla non mi sembrava bella. Quindi, abbiamo precipitato un pochino le operazioni e ci siamo sposati. Siamo andati in California, a Berkeley, dove ho iniziato scrivendo la tesi e sono rimasto quindici anni, per fortuna non tutti a scrivere la tesi. In realtà, sono uscito come Professore Ordinario, ho fatto il PHD da loro. A quel tempo, studiavo matematica. A Berkeley ho fatto il Dottorato in Ingegneria. Arrivarono anche i piccoli, arriva Giacomo e arrivano le gemelle Kim e Chiara. A questo punto, mi sono tagliato i capelli per non spaventarle e per non fare pensare loro che, come diceva Marco prima, se non è vero che siamo tutti scimpanzé, qualcuno gli assomiglia molto.
Arrivate le gemelle, Maria Luisa, con grandissimo senso dell’umorismo, inizia la sua raccolta di fotografie, mettendo piccole annotazioni vicino alle immagini. Le chiama “i miei fiori”. Se venite a trovarmi in Texas, alcuni li ho ancora, sono i suoi fiori. Questo è Giacomo con una delle gemelle, Kim o Chiara, non so quale, per ragioni ovvie. Il senso dell’umorismo di Maria Luisa dice, tra questa foto e quella dopo: “Cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia”. Come vedete, qui Maria Luisa è molto più magra di prima, anche se è passato poco tempo. Da lì in poi, è il precipizio: scopriamo che è gravemente ammalata di una malattia irreversibile, di un cancro. Questa è l’ultima foto di Maria Luisa. Dalla scoperta della sua malattia alla sua morte, passarono pochi mesi. Questa foto la mostra quando aveva dolori incredibili già da diversi mesi, tanto che, prima ancora che le fosse diagnosticato il male, era carica di morfina. E si vede chiaramente la differenza. Questo è il compleanno di Kim e Chiara. È morta da lì a poco. È morta tra grandi dolori, sebbene fossimo in un posto di alta medicina, a Stanford. Sulla base dell’esperienza della sua morte atroce, abbiamo creato una Fondazione a suo nome. Di questo, magari, si può parlare un’altra volta. Questa è l’immagine di Maria Luisa che è apparsa sui giornali quando è morta. Questa luce, questa bellezza, non può essere descritta a parole. Questo è il suo abito, l’abito col quale l’ho accompagnata fino allo sportello del forno, quando, forse commettendo peccato per cui chiederemo perdono al Signore, è stata cremata, e le sue ceneri sono state disperse nella baia di San Francisco.
Perché vi racconto di Maria Luisa? Perché – cambiamo tono, un istante – io ero Professore a Berkeley, stavo seduto con tutti questi Premi Nobel, in questo magnifico ambiente che era la Silicon Valley: allora, tra Berkeley e Stanford, c’erano quasi quaranta Premi Nobel in circolazione, quasi tutti fisici, chimici. Il centro della tecnologia mondiale. Con l’ingenuità di uno che ha studiato Matematica e viene da Udine, avendo studiato poi Ingegneria a Berkeley, chiedevo ai medici: “Come è possibile che sappiate già che questa ragazza – mancano due anni alla morte – così piena di vita, che sta bene, che non ha problemi fisici, morirà entro poco tempo? Com’è possibile che siamo arrivati a questo punto, e che non possiamo farci niente?”. La risposta mi ha scioccato, per la mia ignoranza straordinaria sul cancro. Mi hanno detto: “Non siamo riusciti a scoprirlo in anticipo, non abbiamo test per scoprire in anticipo la stragrande maggioranza dei cancri”. Allora chiesi: “Quanto ci vuole perché un cancro si sviluppi fino a fare veramente male?”. “Dieci, quindici anni”, mi risposero. “Ma come, non abbiamo strumenti per intercettare il processo di modifiche molecolari generate dall’instabilità, naturalmente genetica, del cancro? Possibile che non riusciamo, come è possibile?”.
La seconda cosa che mi fu detta, che Marco ha presentato con grande eloquenza, è l’eterogeneità del cancro, non solo tra diverse persone ma anche nella stessa persona: con ogni passo della cascata metastatica, le differenze nelle colonie metastatiche rispetto al cancro primario si amplificano in maniera spaventosa. E una persona con una malattia avanzata ha centinaia di cancri diversi dentro il corpo. Semplicemente, non abbiamo gli strumenti. Uccidere le cellule del cancro è facile, ma è difficile portare il farmaco giusto nel posto giusto. È un problema molto serio. A me sembrava che fossero problemi fisici, problemi di ingegneria, perché si trattava di fare il taxi giusto, lo strumento che riuscisse a portare la medicina nel posto giusto, oppure sviluppare degli strumenti tecnici – come quelli che usano il genoma umano – che permettessero di analizzare un campione biologico nella sua interezza. Erano concetti ovviamente molto ingenui. Dieci anni dopo, è uscito un articolo di Nature Review in Cancer, che introduceva la nanotecnologia applicata al cancro, dove le sfide che nacquero per me dalla vicenda di Maria Luisa, che tanta gente molto più intelligente di me aveva capito tempo prima, vengono ricapitolate nelle visioni di sviluppo degli strumenti nanotecnologici.
Tra Stanford e Berkeley, c’era una montagna di tecnologia intorno a me che poteva essere utilizzata per risolvere quei due problemi fondamentali nella cura del cancro: trovare il male il prima possibile e riuscire a portare la terapia nei posti giusti, al momento giusto, scoprendo prima possibile se funziona, e convincendo la biologia locale a intensificare il processo di cura. Questa è la nanotecnologia applicata alla medicina. Continuando la storia, ho avuto la grande fortuna di sposarmi di nuovo con Paola. Cosa succede? Paola di lì a poco tempo è in dolce attesa di gemelle. Ed eccoci qua con le gemelle, Federica e Ilaria. Le seconde gemelle sono eterozigote, quindi non sono uguali; una coppia così, una coppia cosà, incredibile. E devo dire che ci sono momenti in cui, se uno tiene le orecchie aperte, ha la forte sensazione che Nostro Signore, nella sua infinita generosità, ci stia parlando. C’è stato quel momento in cui gli ultrasuoni, guardando nella pancia di Paola, ci hanno mostrato due piccole teste. Se pensate alla situazione, alla tragedia passata, quello è stato un momento di folgorazione mentale. Ho detto: “Grazie. Cosa ti devo dire? Non so come è successo”. Paola, grandissima donna – che il Signore la benedica – aveva una grande carriera diplomatica alle Nazioni Unite. Ha deciso con grande generosità di venirsi a occupare di noi ed è passata da zero a cinque figli nel corso di undici mesi. Un’accelerazione veramente sensazionale. Ecco la famiglia riunita alla NASA, a Houston; vi ricordate noi stiamo a Houston, dove c’è la NASA? “Houston, we have a problem!”, quella. Diversi dei nostri progetti che hanno a che fare con la fisica del cancro nei termini di quei due problemi di cui parlavo prima, sono ispirati dalla ricerca spaziale. Farò un paio di riferimenti più tardi.
Allora, cos’è la nanotecnologia? Non voglio fare il pedante accademico: le nanotecnologie sono cose molto piccole, fatte a mano, artefatti umani che hanno delle proprietà speciali per il fatto che sono molto piccoli. Non basta essere piccoli, bisogna essere piccoli e avere proprietà speciali della fisica nuova, della chimica nuova, della biologia nuova, proprietà emergenti. Per parlare di dimensioni: come avete visto dalla presentazione del Professor Pierotti, le molecole di base della vita, gli acidi nucleici e le proteine, sono nell’ordine di qualche nanometro. Il passo – la proprietà emergente, se vogliamo – in biologia, è quando riusciamo a combinare tante piccole molecole in contenitori più grandi che le fanno lavorare insieme. Il passo è straordinario negli oggetti vivi, nelle cose vive, negli organismi vivi, il più piccolo dei quali naturalmente è la cellula. Nano oggetti integrati, con funzioni superiori, come solo il Signore sa fare. Il tipo di nanotecnologia di cui mi occupo, dopo aver lavorato su nano oggetti per tanti anni, è quello che fa assemblare nano oggetti per fare cose più importanti, perché i problemi da risolvere per avere un impatto forte sulla diagnostica del cancro sono veramente molto difficili.
Einstein diceva: “Bisogna fare la teoria più facile possibile, ma non semplificarla troppo, se no si perde tutto”. E questo, diciamo, è un po’ il corrispettivo di quella cosa. Il mio lavoro sulle nanotecnologie sta nel fare pezzetti e assemblarli insieme. Farò vedere qualche esempio. La nanotecnologia, di per sé, nel cancro c’è da molti anni. Ci sono intere classi di farmaci, iniziando dai liposomi che da quindici anni e più sono in uso nelle cliniche oncologiche in tutto il mondo, sono già utilizzati. Non è una grande novità, alla fine. La vera novità è riuscire a fare delle cose più importanti di quelle che si riuscivano a fare prima. Con l’evoluzione della professione, siamo andati via dalla California, siamo andati in Ohio. Perché? Perché fondamentalmente mi sono reso conto di voler fare qualcosa di importante in medicina, che è diventata la missione della mia vita, e cercare di trasformare l’energia che viene dal dolore in cose utili. Il significato della vita, che uno sia religioso o no, non è tanto lontano da quella cosa: trasformare il proprio dolore in cose utili per gli altri. Questo è quello che credo sia la chiave di tutto. Ci tornerò alla fine.
Siamo andati in Ohio per trasformare la medicina dall’interno. Sono passato – una cosa sorprendente per l’ordinamento accademico italiano – all’Università Statale dell’Ohio, una buona Università, come Ordinario di Medicina. Io, che studiavo Ingegneria, ho fatto Matematica. Dopo due o tre anni che, per meriti di ricerca – non certo perché mi facevano mettere le mani sui pazienti -, avevo messo su un laboratorio, quando tutte le cose stavano andando avanti, mi è venuto un certo imbarazzo: “Sarò anche professore di Medicina Interna, vado ai congressi, scrivo i libri, ecc., ma non so niente. So tante cose dei piccoli argomenti su cui lavoro, ma sulla vastità della medicina, cosa so?”. Allora ho fatto un concorso e ho ottenuto un permesso speciale per iniziare a studiare Medicina. E’ stato un momento abbastanza buffo, in cui ero in contemporanea Ordinario di Medicina, Professore, eccetera, e studente del primo anno: facevo i corsi come tutti, è stata una situazione da film di Woody Allen. È stata una cosa interessante. Fra l’altro, i ragazzi potevano essere tutti miei figli. Ho iniziato a 43 anni, quindi, immaginiamoci. In America, il Corso di Medicina dura quattro anni, perché è una seconda laurea: prima ci si laurea, poi si va a studiare Medicina. I primi due anni si studia sui libri, durante il terzo e quarto si fa pratica clinica. Il mio grande progetto era fare tutti gli esami, come ho fatto, e poi prendere un anno sabbatico, perché nel frattempo stavo lavorando ancora a tempo pieno come Professore. Prendere un anno sabbatico, fare un po’ di clinica, e poi chiudere in qualche modo. Invece, allo scadere del secondo anno, mi è arrivata una telefonata da questo signore, Andy von Eschenbach: non sembra, ma è italiano, di origine calabrese da parte di madre.
Andy era allora Direttore del National Cancer Institute, che è l’Ente Federale degli Stati Uniti per la Ricerca sul Cancro, il più grande ente al mondo per la ricerca sul cancro. Poi diventato Commissioner del FDA. Mi arriva la telefonata dall’ufficio di Andy von Eschenbach, e io penso: “Avrò parcheggiato nel suo parcheggio, mi stanno dicendo di spostare la macchina”. E invece: “Abbiamo sentito parlare di questa cosa, la nanotecnologia, non sappiamo bene cosa sia ma, se serve a qualcosa, vorremmo averla anche noi. Vediamo se possiamo lanciare un Programma Federale”. Allora, riassumendo una storia un po’ complessa, mi sono presentato a loro e ho passato là i seguenti due anni in servizio federale, a mettere insieme il Programma nazionale degli Stati Uniti in nanotecnologia applicata al cancro, lanciato nel 2005 e rilanciato nel 2009 con settecento milioni di fondi. Ci sono migliaia di persone negli Stati Uniti che lavorano su problemi nanotecnologici. Quello è stato uno di quei grandi momenti nella vita in cui uno deve dire: “O faccio la cosa che mi scaldava il cuore, cioè un po’ più di medicina, la clinica, e ottengo il titolo a cui tengo veramente tanto, o mi metto al servizio della comunità, vado e perdo soldi, tempo, energia, sonno”. Credo ci sia naturalmente un obbligo etico: quando c’è la possibilità di fare qualcosa di utile, si è anche, credo, in dovere di farlo.
Due anni in servizio federale a Washington, a Bethesda, nel Maryland, al National Institute of Health, a mettere insieme il Programma di Nanotecnologia Oncologica. Questo è il gruppo a cui facevo riferimento. Questa è la mia Advisory Board, che mi prendeva a bacchettate in continuazione. Il mio lavoro consisteva nello scrivere il Programma federale: lo portavo a loro, mi bacchettavano, lo correggevo e tornavo indietro. Avete già avuto l’impressione, credo, dell’entità di questo gruppo: sono quasi tutti vincitori di Premi Nobel. Questo è James Watson, appunto, il papà del DNA, questo è Bert Vogelstein, che non ha ancora vinto il Nobel, però non manca tanto. Bob Weinberg, questo è Hartwell, Baltimore, tutti: lavorare con questi personaggi fu un’esperienza straordinaria, un grande privilegio. Poi, finito il servizio federale, sono andato in Texas, dove sto ancora adesso, all’università del Texas, un’esperienza magnifica. Mi dispiace moltissimo lasciarli. Una delle cose che abbiamo fatto è stata fondare il primo Dipartimento nella storia di nano medicina, all’interno di una Facoltà di Medicina. I nostri studenti di Medicina – siamo la sesta scuola di Medicina più grande negli Stati Uniti – hanno un programma di quattro anni: sono le prime classi di medici pronti a utilizzare le nuove tecnologie, quando finiscono i loro studi. Questi sono gli articoli di Nature e Nature Medicine, che hanno appunto celebrato questo fatto. Houston, tra l’altro, è la culla della nanotecnologia: i primi tre Premi Nobel per la nanotecnologia in chimica sono stati vinti a Houston, uno dei tre era il grande padre ispiratore della nanotecnologia, Rick Smalley, morto di cancro nel 2005. Fu anche la persona che si rese conto che, nata la nanotecnologia a Houston, dove c’è il più grande Centro medico degli Stati Uniti, forse del mondo, bisognava creare un’alleanza multi istituzionale per portare le nanotecnologie in clinica. Queste sono le otto istituzioni.
Parliamo un po’ di scienza. Ho detto prima che le quattro componenti dell’individualizzazione della medicina, della personalizzazione della medicina, secondo me passano attraverso le nanotecnologie. Le nanotecnologie sono condizione necessaria – non sufficiente, perché ci vuole della gran biologia molecolare – per riuscire ad individualizzare, e poi ad andare nel posto giusto al momento giusto e, se funziona, ad ingaggiare i servizi della biologia in un processo di guarigione! Mi ha fatto una grandissima cortesia, dottor Pierotti, a raccontare alcune delle cose fondamentali, quindi posso andare avanti più rapidamente. Lo stato di salute sta nelle molecole prodotte tramite le informazioni contenute dai geni, cioè dalle proteine. Ci sono molte di queste proteine, saranno trentamila geni, ma c’è più di un milione di proteine, per una serie di ragioni diverse, in circolazione nel sangue. Andare a fare una analisi del sangue, andare a pescare la proteina giusta, è già difficilissimo di per sé, perché c’è questa grandissima complessità di messaggi molecolari, a concentrazioni diverse, con moltissimi ordini di grandezza, fino a dieci ordini di grandezza di concentrazioni diverse, quindi proteomicamente complicate. Il problema è andare a pescare queste firme molecolari, che non sono mai singole. Non è mai la singola proteina, che è dipinta di blu e, vedendola blu, capisci che il paziente ha il cancro. E’ una combinazione di concentrazioni, che viene sbilanciata in qualche modo: le tecnologie per andare a raccogliere queste informazioni sono complesse, sono difficili. Da qui ci siamo messi a lavorare.
Per sottolineare il concetto di prima: questo animale, in queste due fasi della sua vita, è lo stesso animale, ha lo stesso genoma? Credo che siamo d’accordo che le differenze di proteoma gli danno delle caratteristiche molto diverse, quindi la nostra attenzione va sul proteoma. Hanno avuto fortuna, quelli del genoma: era un problema semplice, relativamente parlando, e risolubile con tecnologie che a guardarle adesso sono abbastanza elementari. Io posso fare le stesse cose, adesso, così come molti altri, a dieci nanometri, il che vuol dire che abbiamo un fattore di cento miliardi di amplificazione di dati che possiamo ottenere nella stessa quantità di spazio. Quindi, abbiamo sviluppato questi nanotraps, questi cips, da utilizzare sui fluidi biologici per estrarre informazioni, che per noi si esprimono come intensità di picco, con una tecnologia, nota ai chimici, che si chiama spettrometria di massa.
L’importante sono questi affari che vedete nell’immagine: superfici strutturate in maniera speciale, con dimensioni delle nanostrutture che sono nell’ordine dei singoli nanometri. Le diverse caratteristiche di queste superfici permettono di catturare fisicamente e chimicamente diverse sottopopolazioni di proteoma, nel plasma, nel sangue, in modo da poter essere analizzate in seguito. Un esempio pratico, che viene da una collaborazione con un gruppo di Padova, è questo. A nessuno piace fare colonscopie: queste sono su pazienti per le analisi del proteoma del sangue, dal siero che permette di classificare abbastanza chiaramente, senza bisogno di esami ulteriori, da lesioni precancerose a cancri fondamentalmente curabili, fino a cancri fondamentalmente incurabili. Le implicazioni sulla terapia sono straordinarie: possiamo occuparci di chi sta in questi stadi, possiamo pensare alla qualità della vita, come alla cosa principale su cui porre l’attenzione. Sono persone salvabili, che non occorre operare: l’importante è che le cose non progrediscano. Se, nel corso della terapia, il pallino rosso si muove verso il giallo, o il giallo verso il blu, vuole dire che la terapia sta funzionando: questo è il concetto di massima. E questa che vedete è la parte di monitoraggio.
Secondo concetto: vediamo cosa possiamo fare nel caso in cui il cancro invece si sia espanso ed evoluto, quando comincia ad essere una ragione di rischio. Nella storia della nanotecnologia, ci sono già molti nano farmaci in commercio, alcune famiglie di nano farmaci che fondamentalmente si basano sul fatto che i vasi sanguigni afferenti a un tumore sono diversi, almeno in una fase della loro vita, dai vasi sanguigni sani. Per capirsi, una delle differenze grosse sta nel fatto che ci sono queste fenestrazioni: in medicina, lo sapete, non ci piace usare termini semplici come buchi. Se un medico ti dice: lei ha delle fenestrazioni che rendono l’endotelio iper permeabile, che suona molto scientifico, vuol dire che ci sono buchi dove entrano delle palline abbastanza piccole. Questo può essere il portale per andare nel cancro. Ecco un esempio di liposoma: il farmaco sta dentro, poi c’è la particella intorno, in questo caso sono grassi, e intorno c’è un’altra molecola che si chiama PEG, che permette alla particella di restare in circolazione abbastanza a lungo. Senza PEG, ogni particella viene catturata dai filtri del corpo, perché il corpo ha tutte le sue difese contro l’aggressione da invasori esterni, soprattutto il fegato e la milza, che catturano le particelle istantaneamente. PEG permette di restare in circolazione un pochino di più, in modo che si possano trovare le fenestrazioni e tuffarcisi dentro. Questa è l’idea di massima. Il primo farmaco che è andato in commercio in forma nano particellare è un farmaco di grandissima importanza nel cancro, ed è sviluppato in Italia: l’Adriamicina.
Riassumendo brevemente lo stato attuale della nanotecnologia nel mondo: queste cose, io le chiamo di prima generazione, perché sono cose già presenti in clinica, alcune da molti anni. C’è poi un grande mare magnum, perché il 97% delle ricerche in tutti i laboratori del mondo, compresa l’Italia, ha a che fare con particelle funzionalizzate, con più capacità. Non solo capacità di riconoscimento molecolare: per esempio, due farmaci insieme, un farmaco e un agente di contrasto, per vedere dove vanno, o altre combinazioni e variazioni sul tema. Ci sono particelle, esse stesse attive, farmaci di per sé, che non hanno dentro nessun farmaco tradizionale; e ci sono particelle che possono essere attivate dall’esterno, dopo che arrivano dal cancro, con raggi esterni, che si riscaldano e cucinano il tumore, lo uccidono per ablazione termica, per dirlo in maniera un po’ più scientifica.
Ci sono una ventina di cliniche, in giro per il mondo, di queste seconde generazioni; e centinaia, se non migliaia di prodotti in via di sviluppo, in tante parti. Tornando all’analogia di prima, se la vita è fatta da cose nanoscopiche, che insieme si mettono a lavorare e creano cose straordinariamente più complesse se raccolte in un sacco microscopico, io mi interesso della terza generazione. Mi sono occupato abbastanza della prima e della seconda, voglio fare terza generazione. Perché? Perché il fatto che il corpo abbia tutte le sue barriere difensive, è il problema che deflette sia gran parte delle terapie nano che le terapie normali, quelle chemioterapiche, che si impiantano su una di queste barriere o su più barriere. Per arrivare alla stanza del tesoro, all’interno del castello, bisogna aprire tutte le porte, non solo superare il fossato con i coccodrilli: ci sono quelli con le frecce, calderoni di olio bollente, e tutto. Bisogna aprire tutte le porte, non basta aprirne nove su dieci, bisogna arrivare fino alla decima: è un problema di fisica, è un problema di trasporto. Tutte queste barriere si presentano una dopo l’altra, sono sequenziali, sono seriali di natura.
Il problema è trovare dei contenitori, dei vettori, dei taxi, che siano capaci di svolgere azioni in sequenza, una dopo l’altra. Noi che stiamo a Houston ci siamo ricordati che questa è la strada con cui sono arrivati sulla luna. Per arrivare sulla luna, che è molto più facile che arrivare su un tumore, non potevano usare una palla di cannone, hanno dovuto fare i missili multistadio, perché diverse parti del viaggio richiedono strumenti diversi. Allora, noi facciamo lo stesso, noi facciamo i farmaci anticancro multistadio, qui rappresentati graficamente: questa è la particella di primo stadio, che atterra sul vaso sanguigno, e anche se non c’è il buco nel posto giusto, lo facciamo noi. Questa permette al secondo stadio di entrare, e poi il modulo lunare, se vogliamo, il LEM, a questo punto raccoglie e va nella parte giusta della cellula. Tutto parte da una quantità straordinaria di matematica: queste particelle sono disegnate in forma discoidale, non solo per farvi pensare agli UFO ma anche perché le particelle sferiche sono le peggiori possibili, dal punto di vista del trasporto. E’ una cosa che il mondo della nano medicina non è tanto contenta di sentire, ma noi ci siamo impegnati su un programma di molti anni, che soprattutto ha avuto a che fare con matematici italiani, bravissimi, che hanno scoperto le leggi del trasporto delle particelle o delle molecole, nel corpo, in particolare nei vasi sanguigni. Hanno scoperto che la forma ideale – non c’è forma ideale – deve essere personalizzata. L’unica cosa che sappiamo di sicuro è che la forma sferica è la peggiore possibile. Mi dispiace, purtroppo, perché quasi tutte le nanotecnologie esistenti sono sferiche, e quindi abbiamo un problema ma anche una grande opportunità: siccome non c’è una forma che vada bene per tutti, così come non c’è un farmaco che vada bene per tutti, come si fa a sapere che vettore va bene, per che paziente o in particolare per che lesione? Si trova il modo per lavorare con i più grandi radiologi e ricercatori di radiologia nel mondo, che hanno sviluppato sistemi che permettono di visualizzare fino ai vasi sanguigni più piccoli esistenti, i capillari più piccoli del corpo, su animali, e osservando la vascolatura di uno specifico tumore, ci possono dare le informazioni che poi, nei codici di calcolo, nei codici di progetto, ci permettono di sviluppare la forma ideale per quella lesione: neanche per quel paziente, per quella lesione.
Personalizzazione: dal punto di vista del trasporto, è il vettore che va personalizzato. Il problema è che poi capita spesso che il matematico venga e ci dica: “Per questa cosa, la forma che mi serve è una mezza noce di cocco porosa e circa centocinquanta nanometri di diametro”. Vai a fare una cosa di quel genere! Non è facilissimo, perché gran parte della nanotecnologia si rifà ai principi massimi della chimica, che mette cose in una fiaschetta, le agita alla temperatura giusta abbastanza a lungo, e per le ragioni termodinamiche vengono fuori sferiche. Questo controllo di forma e dimensione è molto, molto difficile, ma per fortuna il mondo della microelettronica, che è nato e si è sviluppato, cambiando la vita di noi tutti, nella tecnologia di materiali, in particolare del silicio, usando i metodi della fotolitografia, viene a soccorrerci.
Prima ho fatto vedere foto di famiglia, adesso altre foto di famiglia, microscopiche: queste sono le particelle nella loro lotta lacoontica con la cellula traghettata. Va studiata anche la biologia dell’internalizzazione. In un gruppo di ricerca, abbiamo circa 120, 130 persone: la più grande sottocomponente di questi sono biologi, abbiamo appena una quarantina di biologi cellulari molecolari, e poi tanti ingegneri, fisici, matematici, un po’ di tutto, è un grande zoo. Come diceva il professor Pierotti prima, c’è il grande sogno di dire: voglio arrivare in parti diverse della cellula, voglio personalizzare il trattamento a livello sub-cellulare. Questo è uno studio recentissimo, dove membri del mio gruppo dimostrano che posso parcheggiare parte delle mie particelle in luoghi diversi: in parte negli endosomi, dove possono fare da deposito, in parte nel citoplasma, in parte entrano nel nucleo. Posso decidere che parte va dove, e in parte negli exosomi, che vanno a comunicare alla cellula vicina. Io posso non solo personalizzare il trattamento alla cellula, al micro-ambiente, con la fisica, ma posso anche dire a una cellula: dì questo alla tua amica. Capito? Possiamo personalizzare il trattamento del vicinato, per capirci.
Per riassumere, questo è un documentario fatto dalla televisione francese, credo che anche la RAI lo stia comprando: qui la particella supera la prima barriera biologica – non so bene cosa sia, è una licenza poetica dei documentaristi -, poi attraversa questa che credo sia una cellula tumorale, il meccanismo di uptake fisiologico è corretto, ed entra qui sotto, nel tumore, e rilascia i farmaci. Se il film francese non vi è piaciuto, questo è un film vero. Questo è un topo fluorescente verde – c’è un signore che ha vinto il Premio Nobel perché ha scoperto come fare -, con la fluorescenza verde vediamo i vasi sanguigni e qui vediamo le particelle, una alla volta. Ognuna di queste è una particella, hanno dimensioni diverse: quelle rosse sono 600, quelle blu sono 1.000 nanometri, progettate come dicevo prima. Guardando come si muovono nel vaso sanguigno, possiamo estrarre matematicamente delle informazioni che possiamo riportare poi al progettista del vettore, per raffinare la progettazione e arrivare nei posti giusti. Queste sono cose che potete vedere soltanto da noi. Parlavo prima della NASA. Alcuni anni fa sono venuti a trovarci e a dirci che avevano preso l’impegno, col Governo Federale, di portare astronauti su Marte entro l’anno 2020: un Programma che con Obama è stato cancellato. Arrivare su Marte non è facilissimo: arrivarci è facile, ma la parte difficile è portarci qualcuno, soprattutto vivo e che ritorni indietro. Ci vogliono 9 mesi per andare e 12 mesi per tornare, e bisogna aspettare 8, 10 mesi per l’allineamento giusto dei pianeti: il problema fondamentale è che non ci servizi sanitari nelle vicinanze. La biologia umana si è splendidamente adattata alla vita sul pianeta ma lassù non è facilissimo, ci sarebbero tanti problemi: la perdita di massa muscolare, le radiazioni, problemi psichiatrici: chi mai penserebbe di stare tre anni in una lavatrice? Comunque, ci sono una serie di problemi seri: servirebbero cose che assomigliano alle ghiandole umane, che sappiamo funzionano bene, per esempio, per fare l’insulina, il glucagone o la glicemia, che nella vita dello spazio non ci sono. Lì nasce il progetto Nano ghiandola, in realtà era nato un pochino prima, ma quella è la nuova interpretazione: il rilascio controllato di farmaci da contenitori sottocutanei.
La chiave di tutto questo sono i nano canali. Questo è un esempio di nano canale: sono cose che abbiamo inventato a Berkeley, di dimensioni così piccole che tutti questi puntini che vedete qua sono atomi. Le leggi del trasporto dei nano canali sono diverse dalle leggi del trasporto che abbiamo studiato a scuola. Sia nel trasporto passivo che nel trasporto attivo, elettrosmoticamente attivato, c’è una fisica diversa, difficile, complicata, con tanti fattori, uno dei quali sono gli effetti inerziali di gravità. Una volta ho detto per scherzo a due giovani, a casa mia – uno era mio figlio e l’altro uno dei miei giovani ingegneri al Politecnico di Torino, Alessandro Gattoni -: “Sarebbe bello andare a fare un esperimento nello spazio, togliere la gravità e vedere gli altri effetti, studiare un po’ di fisica come si deve”. Loro, a mia insaputa, hanno fatto domanda a questo concorso: poi mi chiamano dicendo che andiamo davanti alla commissione della NASA e che devo andare anch’io perché sono il capo. Siamo andati, abbiamo sciaguratamente vinto e a gennaio andremo nello spazio: è il primo esperimento scientifico a bordo di una navicella spaziale del settore privato. La cosa importante è che la scienza che nasce da questo esperimento ci permette di controllare il rilascio in modo da poter personalizzare la legge di rilascio al paziente. In realtà, abbiamo un’azienda che sta sviluppando queste cose per la medicina: non occorre andare nello spazio. Pensiamo per esempio di dare, a chi deve fare la chemioterapia, andare in ospedale e stare lì tre giorni con la flebo, la possibilità di avere la farmacia sotto la pelle. È una cosa che, sia dal punto di vista della convenienza che dal punto di vista terapeutico, è un vantaggio straordinario.
Non crediate che tutte queste siano tecnologie costose che poi arrivano solo ai ricchi o nei Paesi ricchi. Il modello tipico è che si sviluppa una tecnologia, pensiamo ad una risonanza magnetica, che richiede un macchinario grandissimo e costosissimo, e poi le grandi aziende ne regalano qualcuna ai Paesi poveri. Stessa cosa per i farmaci. È chiaro che la strategia che forse va ripensata è di partire con questi nuovi strumenti tecnologici, con i pezzi, con i concetti, con le tecnologie nuove, e sviluppare approcci che permettano di diminuire l’ingiustizia e le diversità nella distribuzione di soluzioni ai problemi della salute. Sono arrivato, per vostra fortuna, alla fine, e voglio dire ancora due cose: questi sono i nostri sponsor, per fortuna negli Stati Uniti la ricerca è ancora finanziata molto bene e noi abbiamo più o meno un centinaio di milioni di fondi di ricerca nel mio laboratorio e nei laboratori consorziati. La ricerca non va con le sue gambe, da sola, dal laboratorio alla clinica. C’è un solo modo per arrivare alla clinica, dove vogliamo tutti arrivare: è un processo di commercializzazione e noi non ci tiriamo indietro.
Vorrei chiudere tornando a Maria Luisa. Quando è successa la tragedia di Maria Luisa, io mi occupavo di cosmologia relativistica, scrivevo teoremi che poi nessuno leggeva. Quella è stata una svolta, una chiamata. Non è bello parlarne in pubblico, tante volte è anche un po’ imbarazzante, però, conoscendo chi lavora nella medicina, si scopre che tantissime volte la scelta di occuparsi di medicina nasce da cose personali. Non credo, quindi, che sia qualcosa di cui fare segreto. Per me, chiaramente, è stata la chiamata alle armi: a quel punto non me la sentivo più di fare teoremi sull’evoluzione delle galassie. Non voglio criticare chi li fa, ognuno ha la sua vita, i suoi percorsi. A quel punto, per me è stata una chiamata, il cui tramite è stato il dolore. Il dolore è un grande mistero, no? Come il male, in generale per noi tutti il dolore è un grande mistero, così come la morte è un grande mistero. Da non teologo, mi viene da pensare che, se san Francesco parlava della morte come sorella morte, io non mi sento tanto lontano da riconoscere il dolore come fratello dolore. Non che qualcuno lo cerchi o lo desideri, non fa parte della vita sana, naturalmente, però è un segno vitale ed è una grandissima sorgente di energia, e apre gli occhi. In un testo di Flannery O’Connor, quella scrittrice di cui c’è la mostra qui vicino, c’è quest’immagine bellissima, che Sofia mi ha raccontato ieri. Dice: “Quel che mi è successo è come quando si va da una stanza buia in una stanza inondata di luce e di sole. Gli occhi fanno male, gli occhi hanno una reazione istintiva di dolore, ma poi si vede di più, c’è la luce, c’è il calore, ci sono tutte queste cose”. Io credo che il dolore sia uno straordinario portale di comunicazione con Nostro Signore, e che ci permetta di riconoscere qualche volta la missione, i significati, non so cosa.
Fratello dolore è una cosa impegnativa, ma credo che alla fine ricordi a tutti noi la nostra missione. E se c’è modo per guardarsi con serenità nello specchio la mattina, mai con tanta serenità, ma con un po’ più serenità, è quella di dire che sto cercando, al meglio delle mie forze, di tradurre questi messaggi dolorosi che mi sono arrivati in cose per il nostro prossimo, per chi ci sta vicino, per chi soffre. E gli strumenti di questa trasformazione, questa alchimia del dolore in un’energia utile, sono poi le doti che Nostro Signore ha regalato a tutti noi, tutte diverse: un po’ più di questo, un po’ più di quello, ma non fa alcuna differenza, ognuno ha le sue, e sono doni, no? E credo che il messaggio doloroso qualche volta ci aiuti a ricordare che questi doni vengono dal Signore e devono tornare a Lui, tramite i lavori che possiamo fare al servizio degli altri.

MARCO BREGNI:
Grazie, perché non c’è altro da dire di fronte a una persona che apre il suo cuore così come hai fatto tu, Mauro, con noi oggi. E anche noi ci associamo al ringraziamento al Signore, perché tutto questo è dono, il fatto che il dolore si trasformi in lavoro e riconoscenza, è un dono. Quindi, grazie ancora.

MAURO FERRARI:
Intanto grazie, sono molto commosso. Mi sono dimenticato una cosa, posso dirla? Ho messo nel titolo Simone di Cirene: perché? Simone di Cirene, poverino, era di Cirene, non era neanche di Gerusalemme, stava lì, ha visto tutta questa gente. “Cosa succede? Vado a vedere”. Sappiamo tutti che era la Via Dolorosa di Nostro Signore, sappiamo tutti che poi un centurione gli ha detto: “Senti, te, vieni qua, guarda che c’è questo poveraccio qui che non riesce più a portare la croce, prendila te e portala su ancora un pezzo”. Simone non c’entrava niente, ma non è che ha detto: “No, perché io? Deve andarci lui, che è più grosso, che c’entro io, ma ho da fare, mi aspetta il barbiere”. Cos’ha fatto? Si è preso la croce e se l’è portata. Era lì per caso, gran parte delle cose importanti della vita capitano per caso, e non ha detto: “Non ho studiato questo settore qui, non ho fatto queste cose, non sono specialista di portare la croce”. Ha detto solo: “Ha chiamato me, mi ha chiamato anche tramite un centurione, pensa te!, mi ha chiamato, sono qui”. È per questo che mi piace Simone di Cirene.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

27 Agosto 2010

Ora

11:15

Edizione

2010

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri