PASSIONE PER LA STORIA

Incontro con Giampaolo Pansa, Giornalista e Scrittore. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

MODERATORE:
Benvenuti a questo momento di dialogo con Giampaolo Pansa, che mancava dal Meeting da venti e passa anni, ventidue anni. Allora il Meeting era una cosa molto più piccola, oggi le dimensioni sono aumentate ma il cuore, l’animus con cui facciamo il Meeting non è mutato, e l’invito che gli abbiamo rivolto è per essere in qualche modo aiutati nel dialogo con lui a renderci più consapevoli della realtà, di ciò che nella realtà vale e di ciò che non ha significato. E siccome lui è da tutti riconosciuto come un protagonista nel mondo dell’informazione che ha segnato i decenni recenti della nostra storia, abbiamo voluto invitarlo a un dialogo. Io mi ricordo che la prima volta che ho visto Pansa, facevo l’addetto stampa del Movimento, del defunto Movimento popolare, era all’antico congresso di un partito che si chiamava Democrazia Cristiana, nella seconda metà degli anni ottanta, e ho ancora negli occhi la fotografia di quel giorno. C’era lui seduto sui banconi della stampa, sul fondo della sala, che con un binocolino da teatro…

GIAMPAOLO PANSA:
No, uno Zeiss tedesco…

MODERATORE:

Scusate, con lo Zeiss tedesco scrutava le facce dei maggiorenti democristiani che sedevano in bella posa sugli scranni della presidenza del congresso. Quella immagine me la sono sempre portata dentro, poi, iniziando a leggerlo, sono sempre stato colpito dalla sua accanita attenzione alla realtà, fino ai suoi dettagli. E così quando ha deciso che per lui, forse, era venuto il tempo, oltre che per il giornalismo, di dedicarsi alla storia, la cosa si è fatta più interessante, perché la curiosità per la storia cioè per il passato è indice sicuramente di intelligenza umana. Nell’uomo che non è interessato a quel complesso di fatti, circostanze che ha prodotto il suo presente, è come se si tagliasse le radici, è come se si tagliasse la possibilità del futuro. E allora oggi io vorrei provare, non ci siamo messi d’accordo, a fare qualche domanda a Pansa, per cercare di illuminare i tratti di questa passione per la storia, come abbiamo intitolato il nostro incontro, che si è trovato addosso e che lo ha reso protagonista di una serie di libri, l’ultimo dei quali nella forma di romanzo è come un condensato di questi suoi anni di studi su un capitolo drammatico fino alla tragicità, della nostra storia italiana, la guerra, la fine della guerra, la lotta partigiana, lo scontro tra i vincitori e i vinti, I tre inverni della paura che è, come al solito, un successo editoriale, che sta presentando in giro per l’Italia. Allora io vorrei provare a dialogare con te a partire da tre questioni, che io ho rintracciato e ho estratto da un libro di don Giussani che si intitola Il rischio educativo. Nella nuova edizione che uscì nel 1995, don Giussani premise al libro una introduzione in tre punti che io vorrei offrirti come spunto per tre contributi tuoi, perché io li ritengo, oltre che preziosi per tante ragioni, anche perché mi sembrano tre linee guida di metodo storico, di metodo di ricerca storica, perché riguardano il passato, il presente e la critica. Se sei d’accordo io ti leggerei le poche righe di ciascuno di questi punti e ti chiederei di reagire, e poi vediamo come proseguire per il tempo che ci resta. La grande premessa è questa, che spiega anche perché ti abbiamo voluto al Meeting.. Dice don Giussani: “L’idea fondamentale di un’educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società, perciò il grande problema di una società è innanzitutto educare i giovani. Il tema principale per noi in tutti i nostri discorsi è l’educazione, come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l’educazione, una educazione che sia vera”. Il Meeting nasce da questa grande preoccupazione educativa, cioè di introdurci alla realtà non attraverso una fiera di discorsi, di idee, ma attraverso l’incontro con degli uomini, che raccontandoci di sé, ci mostrano come si può fare il percorso umano. Prima questione, dice Giussani: “Per educare, occorre proporre adeguatamente il passato, senza questa proposta del passato, della conoscenza del passato, il giovane cresce cervellotico o scettico. La tradizione infatti è come un’ipotesi di lavoro con cui la natura butta l’uomo nel paragone con tutte le cose”. Allora, domanda: quale valore ha per te il passato, la conoscenza della storia che ci ha preceduto?

GIAMPAOLO PANSA:
Ma, prima di provare a rispondere, devo dirvi che sono rimasto più che stupito, quasi attonito vedendo il Meeting, però il Meeting mi ha impressionato ma non molto, perché non era una cosa che mi riguardava personalmente. Sono rimasto a bocca aperta quando ho visto questa sala. Tra l’altro, nel mio cinismo di giornalista con i capelli bianchi, siccome alla stessa ora Andreotti dialogava con Tremonti, ho detto: povero Savorana! Povero Pansa, sarà un forno pazzesco, quattro gatti, e avevo continuato ad avere la stessa impressione, finché sono entrato qua. Adele Grisendi, che è qui in prima fila e che è la mia padrona da vent’anni, mi ha detto: “Guarda, guarda questa sala”. L’ho guardata, sono scosso, e vorrei che la vedessero certi Soloni del giornalismo, anche del giornalismo al quale appartengo anch’io, chiamiamolo repubblicano, di centro sinistra, quando dicono che l’opinione pubblica in Italia è scomparsa, è scomparsa. Siccome l’opinione pubblica che questi Soloni hanno sempre cercato di formare, di spingere, non di educare, per tornare alla parola di cui parleremo fra un istante, sta al tappeto, era come sgonfia avrebbe detto mia madre, pensano che allora non esista nessun’altra opinione pubblica. Ecco, vedendo questa sala, ho pensato: forse dovrebbe passare da queste parti anche qualcuno che conosco con la barba bianca, mettere la testa dentro e poi dire cavolo! Quindi, grazie di essere venuti, avete fatto un grande regalo a me e anche un regalo ad Alberto Savorana, che è un ragazzo bravo, educato certamente nel modo giusto, e che mi mette sempre nei pasticci con queste domande, per me troppo complicate. Naturalmente uno si ripara dietro don Giussani, è troppo facile, troppo facile. Allora io sono stato educato alla storia sempre, perché in casa mia, dove non c’era la radio, la televisione non era ancora stata inventata, c’era la guerra in compenso, che era la televisione più impressionante che presentava spettacoli tutti i giorni, non ci facevano altro che raccontare storie, cioè vicende. Io sono stato educato da una nonna che era analfabeta, che era rimasta vedova a 33 anni con 6 bambini da crescere, e che – le signore mi devono scusare – d’inverno portava i mutandoni di lana fatti a maglia, d’estate come tante signore della sua età non aveva le mutande, faceva la pipì in piedi, perché avevano gli abiti lunghi. Questa nonna mi ha riempito di storie fin dal primo momento, di vicende, quasi sempre drammatiche, storie inventate, di briganti che assalivano le cascine isolate, di draghi che spuntavano all’improvviso e mangiavano le bambine, di tradimenti, di accoltellamenti, di nascite strane…storie, tante, e soprattutto sono stato educato alla storia, specialmente alla storia che sto raccontando nei miei libri, perché sono stato un bambino della guerra, perché sono nato il 1 ottobre 1935 e quindi alla fine della guerra avevo nove anni e mezzo e andavo verso i dieci e ho visto tutto. E ho imparato una cosa, non sapevo che don Giussani avesse scritto che i giovani che non sanno niente della storia del loro paese o della storia in generale diventano cervellotici o scettici. Ecco io avrò dei difetti anche peggiori, ma non lo sono mai diventato, perché fin da piccolo sono stato educato a raccontare quello che era avvenuto. Attenzione: adesso che sono anziano e che questa società mi fa molta paura, non quella che vedi in questa sala naturalmente, raccontare la storia e continuare ad educarmi alla storia è rassicurante, perché so già che cosa è accaduto, i missili sono già partiti e si sa già dove sono arrivati, i campi terribili sono stati aperti ma sono stati anche chiusi, le persone si sono scannate ma per fortuna ha vinto, penso all’occidente, la mia parte, cioè la parte buona, la parte giusta. Quindi scrivere di storia oggi per me è molto più rassicurante che fare un bestiario alla settimana, perché so già come è fatto il terreno sul quale metto i piedi. Però quando mi rendo conto che i professori di storia, spesso, non tutti naturalmente, non voglio offendere, parecchi non sanno fare il loro mestiere o lo fanno male, perché sono ideologizzati, hanno in testa il chiodo della loro parte politica, pensano sempre che educare voglia dire anche plasmare, in senso politico, condizionare, ecco allora mi intristisco, e mi rendo conto che bisogna sperare solo nei giovani storici. Qui ne abbiamo uno di fronte, Tommaso Piffer, speriamo che butti bene, come avrebbe detto mio padre. Quindi la storia per me è questo, è la tranquillità rispetto a un futuro del quale non so niente e del quale non so neppure quanto vedrò, perché il giorno che il Padre eterno deciderà che non dovrò più occuparmi di nulla, lo conosce soltanto lui quel giorno, io non lo conosco.

MODERATORE:
Proviamo a dialogare con don Giussani, seconda questione: lui la chiama “urgenza”. “Il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente, che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore, vale a dire dentro un vissuto presente che dia le ragioni di sé. Solo questo vissuto può proporre, e ha il diritto e il dovere di riproporre la tradizione e il passato”. Allora ecco la domanda: questo passato, che è stato il tuo presente di bambino, in cui la nonna ti raccontava storie incredibili, che è stato l’attraversamento da testimone oculare della violenza della guerra, che cosa dice al tuo presente, in che cosa il tuo presente riverbera o è ricco di questo passato?

GIAMPAOLO PANSA:
Il mio presente è praticamente sempre pieno del mio vissuto, io però intendo l’affermazione di don Giussani anche in un altro modo che adesso dirò, devi ricordarmelo, che poi diventa per me anche una delle condizioni per essere credibile quando scrivi di storia. Anzi lo dico subito, bisogna che i possibili lettori, quindi i possibili ascoltatori della lezione che tu in modo a volte immodesto cerchi di dare, abbiano fiducia di te, abbiano stima di te, ti credano, magari possono non approvare il modo di pensare, però devono sapere, se lo sanno già metà del cammino è stato fatto, che sei un uomo reale, che sei un uomo onesto, che non cerchi di truccare il gioco, che non cerchi di spacciare lucciole per lanterne, che non hai una verità in tasca e che non cerchi di imporla agli altri. Però, certo, il vissuto conta. Quando mi chiedono: “Perché scrivi o hai scritto così tanto della guerra civile in Italia?”. Perché, non soltanto i libri di cui si parla adesso, che sono sei o sette, ma io ho scritto molto, anzi devo dire che ho scritto e studiato talmente tanto che non c’è nessuna barba di accademico, professore, soprattutto di sinistra, che sono quelli più arroganti e più stupidi, che possa mettermi nel sacco su quel tema, perché, a proposito del mio vissuto, io sono stato il primo studente italiano, lo dico perché ci sono dei laureandi qua, il primo studente italiano che nel 1959, mi ricordo che era estate, non avevo ancora compiuto 24 anni, si è laureato con una tesi di laurea sulla guerra partigiana. Allora non si poteva usare l’espressione “guerra civile”, era proibita. Ho fatto una tesi mastodontica, intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po, che quindi era la storia di quello che era accaduto nelle mia provincia, quella di Alessandria, dalla pianura del Po e dalle prime colline del Monferrato fino alle alture appenniniche sopra Genova. Tra l’altro quella tesi di laurea mi è valsa poi il premio Einaudi, non dalla casa editrice Einaudi, attenzione, ma di Luigi Einaudi, e sono entrato nel giornale per quello. Ero stato spinto a fare quella tesi perché le cose che si vedono quando si è bambini, anche se si è molto protetti dalla famiglia, in questo caso le donne e anche i maschi della mia famiglia a cominciare da mio padre proteggevano molto me e mia sorella, mio cugino, i miei cugini piccoli, ti rimangono impresse, e ho capito di essere stato un bambino della guerra un giorno che a L’Espresso è arrivata una giornalista francese, di cui non ricordo il nome, che era venuta a fare un servizio in Italia per una catena televisiva importante francese, e mi ha detto: tu sei Pansa vero, tu sei come me un “pampino” della guerra. E io dico, cosa vuol dire? che io e te abbiamo la stessa età, siamo del 1935, tu sei cresciuto in Piemonte, io sono cresciuta a Lione, ma abbiamo visto cose che poi non dimenticheremo più. Allora, le cose viste con gli occhi dei bambini sono delle memorie molto persistenti e sono anche delle memorie molto dettagliate. A proposito di dettagli, una delle cose che ha scritto don Giussani, ho imparato che nel mio lavoro, come disse quel tale, il diavolo si nasconde nei particolari, cioè si nasconde nei dettagli, bisogna stare attento anche a quello, è il vissuto che aiuta, non posso accettare certe ricostruzioni che non soltanto sono infedeli dal punto di vista dei fatti ma molto partigiane dal punto di vista ideologico, se poi dopo cercano di rifilarti dei dettagli sbagliati. Non so se rispondo nel modo giusto ma non me ne frega nulla.

MODERATORE:
Terza questione, che è quella più intrigante secondo me. “La vera educazione deve essere una educazione alla critica. Fino a 10 anni” scrive don Giussani, parentesi, adesso forse anche prima, “il bambino può ripetere ancora l’ha detto la signora maestra, l’ha detto la mamma, perché per natura chi ama il bambino mette nel suo sacco, sulle sue spalle, quello che di meglio ha vissuto nella vita, quello che di meglio ha scelto nella vita. Ma ad un certo punto la natura dà a chi era bambino l’istinto di prendere il sacco e di metterselo davanti agli occhi. Deve dunque diventare problema quello che ci hanno detto, se non diventa problema non diventerà mai maturo. Portato il sacco davanti agli occhi ci si rovista dentro. La critica perciò consiste nel rendersi ragione delle cose. Il ragazzo deve prendere questo passato e queste ragioni, mettersele davanti agli occhi, paragonarle con il proprio cuore e dire: è vero, non è vero, dubito”. Allora tu ad un certo punto hai preso il tuo bel sacco pieno di cose e hai cominciato a rovistarci dentro, hai cominciato a rovistare in questo guazzabuglio che è la storia recente del nostro paese. Cosa ci hai trovato, che cosa ti è sembrato fosse degno di essere conservato e cosa abbandonato perché un inutile fardello?

GIAMPAOLO PANSA:
Prima di provare a rispondervi dico una cosa a proposito della critica. A volte persino i bambini cedono alla critica. Mia madre dice che io ero un criticone perché criticavo sempre, perché non credevo mai a nessuno. Tanti anni dopo Ronchey, il vecchio direttore della Stampa, oggi vecchio allora giovane, mi diceva: “Tu non lo sapevi ma coltivavi il dubbio metodico prescritto da Norberto Bobbio”. “Per carità, ero solo un rompiballe in casa, un rompiballe che oscillava fra due atteggiamenti. “Mamma, o nonna o papà o zio o zia, sono sicuro che…”, e mia madre diceva: “Non devi dire mai così, c’era un cane che si chiamava sicuro, è finito sotto un camion davanti alla caserma dei carabinieri del Valentino”, che era il posto per mia madre più sicuro del mondo. Oppure dicevo: “No, questa cosa non mi piace, è sbagliata”. Quindi, sono stato un criticone, sono sempre stato così anche quando ero ragazzo, mia madre diceva “sempre a cercare il pelo nell’uovo”, però questo dipende un po’ dagli esseri umani, dalla natura. E ho continuato a fare così, ho continuato a fare così prima di tutto nella mia attività professionale corrente, che è quella, come tutti voi sapete, del giornalista. Ma anche nel tentare di raccontare la storia più vicina del nostro paese. Che cosa ho trovato da buttare? Diciamo che è più facile per me dirlo, farò soltanto due o tre esempi. La prima è questo concetto marmoreo e arrogante che parla soltanto chi vince e chi perde deve stare zitto. Allora, le guerre si combattono sempre in due, c’è sempre chi vince e chi perde, ed è quasi fatale che nei primi due anni, tre anni, la storia sia raccontata soltanto dai vincitori, perché gli sconfitti sono dispersi, sono spaventati, sono uccisi, sono sottoterra, rischiano di andarci e quindi devono in qualche modo non elaborare il lutto, ma elaborare la loro sconfitta. Però questa cosa non può durare per decenni; qui siamo nell’Italia del 2008, sono più di sessant’anni dalla fine della guerra e io a volte leggo ancora sui giornali, ahimè sempre di sinistra, che chi ha perso deve stare zitto e non ha diritto di parola, cioè è la filosofia del “sasso in bocca”, una filosofia, una filosofia mafiosa, una filosofia contro la quale io mi sono battuto sempre, ma con maggior vigore quando ho cominciato prima con i miei romanzi che avevano per protagonista spesso ragazze che erano state con la Repubblica sociale, e poi con i miei libri di documentazione storica, I figli dell’aquila e poi Il sangue dei vinti. Quindi la prima cosa che io ho trovato da buttare era questa. L’altra cosa che mi è sembrato giusto buttare, ho continuato a buttarla, è stata che la resistenza fosse un blocco politico unico, unitario e tutti i resistenti, tutti i partigiani la pensassero nello stesso modo, ragion per cui il 25 aprile era una data di unità nazionale. Mi dispiace, non vorrei anche deludere, se c’è qualcuno che la pensa in modo opposto al mio in questa sala, io non penso che sia così: la resistenza non è stata per niente un fenomeno unitario e non è stato nemmeno un grandissimo fenomeno dal punto di vista del numero delle persone che vi hanno partecipato. Tra l’altro non capisco questa abitudine di gonfiare i numeri, tra l’altro si rende poco onore anche ai pochi che hanno scelto di fare quella strada invece di un’altra, del resto anche qualche storico marxista, tanti anni dopo, è arrivato a riconoscere che la guerra civile è stata combattuta tra due minoranze, con la minoranza che si ispirava alla Repubblica Sociale Italiana, un po’ più grande dell’altra, se non altro perché l’Italia era un paese che veniva da un regime fascista. Però, anche guardando soltanto la storia interna della resistenza, la cosa da buttare è che tutti i partigiani combattessero per lo stesso motivo. Non è affatto vero, cioè c’era certamente il desiderio, non di sconfiggere i tedeschi e i fascisti, perché le forze erano troppo ridotte, ma di accompagnare in qualche modo, con un gesto di ribellione, quindi di riscatto morale, l’avanzata di quelli che noi chiamavamo alleati e che fino all’8 settembre erano stati i nostri avversari, cioè gli Inglesi e gli Americani. Ma per molti partigiani, la maggioranza, anzi, dei partigiani, che erano partigiani comunisti, il 25 aprile era soltanto la prima tappa di un traguardo, l’altra tappa era la conquista violenta del potere politico, per far diventare l’Italia una specie di Ungheria del Mediterraneo, cioè un paese satellite dell’Unione Sovietica, che fatalmente avrebbe portato con sé i gulag, le polizie politiche, gli interrogatori, le carceri speciali, le torture, le eliminazioni dei dissidenti, la scomparsa di famiglie intere, la punizione di chi non la pensava come il despota che aveva il comando assoluto su quel paese. Ecco, su questo ormai io sono pronto a sostenere qualunque contraddittorio, perché conosco bene la storia come è andata. Questa è un’altra cosa da buttare. La terza cosa da buttare – però mi fermo a questo numero tre che, come sempre, è un numero perfetto -, l’altra cosa da buttare è l’arroganza dello storico, che pretende che ogni suo libro sia definitivo. Io ho imparato che non è così, quindi che il problema del revisionismo non è soltanto un problema che riguarda il contenuto dei libri di storia, che può essere, anzi deve essere sempre rivisto, completato, raccontato in un altro modo, ma ha a che fare soprattutto con il cervello di molti degli storici italiani. Guardate, io sono abbastanza anziano per averli conosciuti, non dico fin da bambini, ma molti da ragazzi o da studenti, molti sono stati anche miei compagni di corso all’Università di Torino, e la loro arroganza, specialmente quando si tratta di storici chiamiamoli “rossi”, perché ormai le parrocchie delle sinistre sono talmente tante che, in questo caso, poi si confondono tutte in questo colore, si ritengono dei “padri eterni”, si ritengono dei “Dio in terra”, avrebbe detto mia madre. E questa arroganza non soltanto spesso gli fa male, perché, quando mettono fuori la testa dai loro uffici dell’università, si rendono conto che il pubblico li ignora e che quindi il loro insegnamento non vale nulla, ma, soprattutto se ne rendono conto quando si mettono a confronto con degli storici più giovani, più intelligenti, più duttili, nel senso di più pronti a riconoscere quello che è avvenuto. Qui ne abbiamo uno di fronte – l’ho già nominato, non voglio farlo arrossire e quindi non lo nomino più – e lo invidio, perché non ha dovuto liberarsi di questo “cappotto pesante” che quelli della mia generazione hanno portato, perché guardate che il tupè, mia madre avrebbe detto hai un bel tupè, per dire hai una bella faccia. Il tupè del Pansa che, quando sta per laurearsi nel ’59, va a un convegno sulla Storiografia della Resistenza e osa criticare, in termini persino eccessivi, come succede ai giovani, un libro cult di quel momento, La storia della resistenza Italiana di Battaglia, o di dire che il libro famoso di Longo, Il popolo alla macchia, uscito nel ’47, non soltanto non era stato scritto da Longo, ma da un intellettuale comunista, e poi Longo l’ha pasticciato, l’ha un po’ corretto, l’ha censurato dove doveva censurarlo, ma era un libro falso dalla prima parola all’ultima, ce ne voleva. Però quelli erano tempi diversi, i comunisti avevano ancora il miraggio del socialismo reale, e quindi non è che intervenissero sui temi storiografici, anche perché la storia era un terreno che dominavano loro. Adesso che le cose sono un po’ cambiate, che non gli è rimasto che l’osso dell’antifascismo, molte sinistre italiane stanno molto più incazzate di prima, e, appena vedono Pansa, cercano di morderlo, però, Pansa se ne frega.

MODERATORE:
Tu hai detto tre cose da buttare, ma in quello zaino in cui hai rovistato, che cosa ti è parso, invece, prezioso per una conservazione nel presente e per guardare al futuro?

GIAMPAOLO PANSA:
Ma guarda, I tre inverni della paura è pieno di queste storie, perché è un libro che è dedicato soprattutto alle donne di quell’epoca, quelle che poi non si sono schierate né da una parte né dall’altra, che avevano una vita difficile – vedevo le donne della mia famiglia – con i maschi lontani perché erano in guerra, o dispersi, o morti o prigionieri chissà dove; un mio zio è finito persino in India prigioniero degli Inglesi, tornava e diceva: “Ho visto gli Indiani, prima mi sono stupito, non avevano le penne, come quelli”. “No, guarda” dicevo “zio, quelli sono i pellerossa”. “No, quelli sono gli Indiani e avevano il turbante”. E’ partito nel 1941 ed è tornato nel ’47, pensate un po’. C’erano molte cose da conservare. Dunque, un anno fa voi al Meeting di Rimini avete fatto una mostra dedicata al “Solitario”. Chi era il “Solitario”? Era un partigiano cattolico, bianco, di Reggio Emilia, che tra l’altro è citato in questo libro, ma mi hanno detto che questa mostra, che è stata fatta al Meeting un anno fa, era molto bella, ero stato anche invitato a venire, ma non potevo e non sono venuto. Ecco se devo dire che cosa mi è rimasto di quel tempo, mi è rimasto il coraggio di tanti giovani, che, senza essere spinti da un fanatismo politico ma soltanto dall’idea della libertà, hanno deciso, pur sapendo che il loro sforzo bellico non sarebbe stato nulla rispetto a quello che facevano gli alleati, di fare un gesto e di andare in montagna e darsi alla macchia. Io ne ho conosciuti tanti di questi, persone che poi, dopo il 25 aprile, sono tornate alla vita civile, hanno ripreso a studiare se studiavano, o a lavorare se avevano cominciato a lavorare, e molte di queste figure le ho in mente, li vedo sempre come dei ragazzi con degli occhi limpidi, nei quali non brillava nessun fanatismo, nessun odio verso gli altri, che avevano attraversato questo rogo immenso della guerra civile, salvando l’animo del bambino. Ho scritto anche un libro, Il bambino che guardava le donne, che era proprio un romanzo, ma che aveva dentro un libro in questo libro, che erano 150 pagine sulla cattura e sull’uccisione dei 70 ebrei della mia città. Io credo molto all’infanzia, forse perché sto regredendo, perché sono anime pulite, e a volte, qualcuno mi dice: “Ma ti comporti come un ragazzone”, anche ingrassato, magari pure invecchiato, che però ragiona ancora con il candore e con il piacere di essere amico del prossimo, che ho io. Una delle cose che mi hanno insegnato tanto questi libri è che non bisogna mai avere paura di perdere degli amici che è bene perdere, perché tanto incontrerai degli amici che non conosci e che ti vorranno bene e che ti stimeranno. Ecco qual è il grande regalo che mi hanno dato questi libri e del quale ringrazio voi, che siete qua stasera.

MODERATORE:
Però, negli anni in cui tu smettevi il “cappotto pesante”, insomma, non doveva essere così facile, perché era un cappotto sì pesante, ma anche comodo, perché, come dire, rassicurava dentro un contesto in cui pensarla in un certo modo, interpretare la realtà in un certo modo era appagante, permetteva anche una certa riuscita sociale. Perché? Chi te l’ha fatto fare? Cosa ti ha mosso a questa cosa?

GIAMPAOLO PANSA:
Sì, però, da questo punto di vista – uso una parola che non dovrei mai pronunciare all’interno del Meeting – io sono un laico, cioè sono uno che sa di avere poche idee e spesso malferme, per cui è sempre pronto a metterle in discussione, e invidio sempre, con simpatia, chi ha più certezze delle mie. Ma che cosa me lo ha fatto fare? Me lo sono domandato tanto e ne ho parlato tante volte con Adele, prima di cominciare a scrivere questa serie iniziata nel 2002 e poi sfociata nel 2003 con Il sangue dei vinti. All’inizio è stato solo il mio fastidio di vedere come, specialmente dopo la caduta del muro di Berlino e gli anni di crisi terribile dei vari partiti di sinistra italiani, a cominciare da quello più grosso, cioè l’ex PCI, poi diventato PDS, e poi DS, non avendo più nulla a cui aggrapparsi, si aggrappavano al monopolio dell’antifascismo. A me i monopoli non sono mai piaciuti, neanche quello delle sigarette, ho voglia di fumare, vado dal tabaccaio, se vedo una sigaretta turca dico: “Toh, provo a fumare pure la turca”. So che non mi approverete, ma… Quindi, la prima cosa è stato questo rifiuto, questo fastidio delle celebrazioni del 25 aprile sempre più retoriche, dove si dava spazio anche a gente della sinistra che sfiorava il terrorismo, che non avrebbe dovuto neanche mettere piede in certe piazze, e, invece, abbiamo visto lo sconcio dell’ultimo 25 aprile a Milano, con i compagni dei nuovi brigatisti arrestati, che portavano alla processione del 25 aprile le gigantografie dei loro amici in carcere. Il mio primo atteggiamento è stato questo, cioè la mia prima molla è stato questo fastidio, che dovevo, in qualche modo, attenuare. L’altra ragione del perché l’ho fatto, era un percorso quasi obbligato. Io ho scritto tantissimo sulla crisi italiana tra il ’43 e il ’48, ne ho scritto quando ero ragazzo e ne ho scritto quando ero adulto, ne ho scritto molto sui giornali, il mio interesse di giornalista politico nasce anche da questo continuo raffronto tra il passato e quello che ho di fronte, per cui ci siamo detti in casa con Adele: “Ma non posso non fare il passo successivo”. Il primo passo è stato quello di raccontare la storia di un ragazzo – e qui siamo ai Figli dell’aquila – un ragazzo che, invece di scegliere di andare a fare il partigiano, era andato a fare il soldato per la Repubblica Sociale Italiana, come tanti italiani dell’epoca hanno fatto. Adesso non abbiamo il tempo di raccontarcele, ma ci sono storie di illustri intellettuali di sinistra nati nel 1920, ’21, ’22, ’23, ’24, che sono stati con Salò e hanno sempre cercato di nascondere questa esperienza, altri, invece, che l’hanno rivendicata, questo è il problema. Facciamo un nome per tutti: il direttore de L’Espresso del periodo più importante di questo settimanale, quando dal grande formato, il “lenzuolo”, è passato al formato americano, Livio Zanetti, Livio Zanetti considerato da tutti noi non soltanto un grande giornalista, un grande direttore, un creatore di settimanali, io non mi sono mai chiesto che opinioni politiche avesse, comunque non lo chiedo quasi mai ai miei interlocutori, perché ascolto tutto quello che hanno da dire, mi interessano gli esseri umani, non le tessere di partito o il voto segnato sulla scheda. Questa è anche la grande lezione. Ecco, una delle cose che ho trovato nel famoso sacco e che ho cercato di tenere, in questo aveva ragione – faccio una parentesi – un grande storico laico, Gaetano Salvemini, che ci diceva: “Ricordatevi sempre che le idee camminano sulle gambe degli esseri umani”. E’ l’essere umano, è l’uomo che mi interessa: questa è stata un’altra delle cose che mi ha spinto a non pensare, a non usare il criterio della lavagna. Vi ricordate? Qualcuno più anziano, a scuola, se lo ricorderà: la maestra doveva uscire – oggi Brunetta avrebbe detto che andava a fare la spesa – durante l’orario di scuola, ma magari andava solo dal farmacista dell’angolo. Allora diceva al capo classe – io l’ho fatto spesso -, mi dava il gessetto e diceva: “Toh, tira una riga, buoni e cattivi. Nel quarto d’ora che sto via chi fa il buono lo segni, chi fa il cattivo lo segni”, che si può applicare in una classe elementare, oggi non so se si potrebbe, ma come si fa ad applicare con la storia? Perché tutti quelli che hanno combattuto per una parte erano buoni e tutti gli altri cattivi, così come viceversa? Questa è la storia. Quindi una delle tante ragioni che mi ha spinto, una delle tante ragioni, è che ho detto: “Basta con questa vicenda del buono e del cattivo”, c’erano i buoni di qua e i cattivi di là, poi le cause andavano giudicate, certo. Sento qualcuno che dice: “Ma la causa giusta era quella della resistenza”, sì, di metà, se va bene, della resistenza, ma non dell’altra metà, perché, come ho raccontato ne I tre inverni della paura, quando gli squadroni della morte comunisti andavano in giro per la provincia di Reggio ad ammazzare i preti – ecco, facciamo solo questo esempio -, come il povero don Pessina, non è che lo facessero per difendere la democrazia in Italia, no, lo facevano perché, in base a un motto che Mao Tze Tung non aveva ancora pronunciato perché non era ancora Mao Tze Tung, e che le Brigate Rosse non avevano fatto loro, cioè “colpiscine uno per educarne cento”, che era il motto, poi, della rivoluzione cinese maoista, in tal modo spaventavano tutti. Mi sono ribellato anche a questo schema della lavagna, e, soprattutto, mi sono detto: “Apriamo finalmente questa porta blindata del 25 aprile”. Ma perché tutte le storie della guerra interna – chiamiamola in questo modo – devono finire in quella data? Qualcosa è venuto dopo, e anche lì mi ha soccorso un ricordo da bambino della guerra. Posso dirlo? Posso raccontarlo? Una stoia che non troverete mai su nessun libro di storia scritto da storiografi comunisti e che io ho ricostruito abbastanza bene in uno dei miei libracci. Siamo a Casale Monferrato, siamo nel luglio del 1946, per la precisione siamo all’11 luglio, quando un signore, che passa, di mezza età, che passa in bicicletta attraverso un fianco dei giardini pubblici di Casale per andare alla stazione e per poi proseguire verso la pensione in cui abitava, la pensione “Paradiso”, viene fermato da un ragazzo in bicicletta che gli dice: “Scusi, è lei Mario Acquaviva?”. “Sì, sono io”. Beh, questo ragazzo tira fuori la pistola e gli spara cinque colpi e lo ammazza. Poi arriverà in ospedale moribondo, in ritardo, perché l’ambulanza non aveva benzina, hanno dovuto prendere la vecchia lettiga della Croce Rossa con il cavallo, insomma questo Mario Acquaviva è morto, nel frattempo questo ragazzo, dopo aver sparato, si mette a gridare: “Hanno ucciso una spia fascista”, e fugge poi con un complice che lo aspetta con una motocicletta, abbandona la bicicletta sulla strada e se ne va. Chi era Mario Acquaviva? Mario Acquaviva non era un fascista, Mario Acquaviva era un ingenuo, idealista, e aveva costruito insieme ad altri, pensate un po’, il Partito comunista internazionalista. Che cosa era? Il grande PCI li definiva “trotskisti”, cioè eredi di Trotsky, in realtà erano dei comunisti libertari e dissidenti ,che pensavano che Stalin fosse un despota totalitario, come Hitler e come Mussolini – e in quello non sbagliavano, anche peggio era -, e che quindi non si doveva sperare nell’Unione Sovietica, e che il PCI di Togliatti fosse succube di questo regime totalitario spietato quanto il nazismo. Soltanto per questo, siccome non bisognava che nessuno disturbasse il grande partitone, Mario Acquaviva è stato ucciso. Io ho sentito raccontare questa storia da bambino, quando quella sera di luglio, sera di zanzare, ce ne erano tante anche allora a Casale, mia nonna se ne stava sulla ringhiera abbastanza tranquilla, perché aveva l’unguento, con un mio cugino grande, che aveva combattuto nell’ottava armata britannica, nei commandos insieme ai polacchi: “Mamma mia – diceva – pregavano sempre questi polacchi, allora mi sono messo a pregare anch’io”. Mia nonna: “Non hai fatto male, tutto sommato”. Era l’unica che stava lì, che aveva l’unguento e lo difendeva dalle zanzare, quando arriva nel cortile di questo grande palazzo di ringhiera un signore, era un operaio dell’Eternit – l’avete sentita nominare, la famosa fabbrica dell’amianto – “Hanno ammazzato Acquaviva, hanno ammazzato Acquaviva”, piangeva, evidentemente lo conosceva, era un ragioniere di Asti, io poi ho conosciuto bene sua nipote, che mi ha aiutato a ricostruire la storia. Ecco, il primo dei miei romanzi, che rompe il fronte del 25 aprile, tutto bello pulito, tranquillo, con la libertà che comincia il giorno dopo, ma l’amore no, è uscito nel ’94. Pensate un po’, il personaggio centrale, Ernesto Galimberti, era Mario Acquaviva. Ecco un’altra storia sempre taciuta, sempre negata, il Partito comunista su queste vicende ha eretto un muro di omertà, sono stati uccisi altri piccoli dirigenti di questo gruppo. Questo cosa c’entrava con la guerra partigiana? Niente. Acquaviva non era un fascista, neanche un collaboratore dei nazisti, era un signore che disturbava, pur essendo un microbo rispetto a un gigante, un partito come il PCI, perché poteva instillare negli iscritti, ma, soprattutto, negli elettori possibili del partitone rosso, dei dubbi sul carattere del loro padrone che stava a Mosca. Tutta la storia della guerra civile è fatta di queste cose. Io non mi domando mai come la gente mi vedrà quando sarò morto, mi accontento di vivere nel modo più onesto possibile, però, certamente, quando non ci sarò più, forse verrò ricordato non per i tantissimi libri che ho fatto prima di questi, ma perché in questo caso ho reso un atto di giustizia a tante persone vittima di una ingiustizia. Vi do soltanto un numero: Il sangue dei vinti è uscito nell’ottobre del 2003, nei quattro mesi successivi, quindi, è uscito all’inizio di ottobre, ottobre, novembre, dicembre, gennaio, un po’ febbraio – io allora lavoravo ancora a L’Espresso, ero codirettore, quindi lettere mandate a L’Espresso, alla casa editrice, c’è chi aveva scoperto il nostro indirizzo – abbiamo ricevuto 2200 lettere, in quattro mesi, guardate che 2200 lettere sono un numero impressionante. Queste 2200 lettere, l’80% erano state scritte da donne – ho poi imparato dopo, leggendo anche dei testi di storia sugli archivi familiari, che la donna molto più dell’uomo custodisce bene le memorie familiari – e tutte queste lettere, arrivate da tutta Italia, scritte in modi sempre diversi, lettere colte, incolte, scritte a mano, scritte con i computer più sofisticati, tutte cominciavano nello stesso modo: “Ho letto Il sangue dei vinti, ma non ho trovato la storia di mio padre, di mia madre, di mia nonna, dei miei nonni, dei miei zii. Siccome anche noi abbiamo subito un’ingiustizia, voglio raccontarle la mia vicenda”. Ecco, poi posso dire l’ultima cosa che ho trovato nel sacco e che mi ha insegnato come deve essere anche esercitata la pietas verso i defunti. Me ne sono ancora reso conto in queste settimane andando in giro a presentare i miei libri, quando molti signori e signore anche più anziane di me mi ripetono la stessa cosa: “Il dramma vero, il problema reale per cui certe ferite non si riescono mai a curare, è che noi non sappiamo neppure dove sono stati sepolti i nostri cari”. Questa è la cosa terribile, questo soprattutto nei delitti avvenuti dopo la liberazione. Io mi sono reso conto non soltanto dalle testimonianze che ho raccolto, dalle lettere che ho ricevuto, ma parlando in pubblico, che questo è un tema sentito. Un giorno, una signora mi ha detto: “Ma lei si rende conto che io il 2 di novembre non posso nemmeno portare un fiore sulla tomba di mia sorella, perché so che l’hanno arrestata, so che l’hanno violentata, so che l’hanno torturata, che l’hanno uccisa, ma non so dove l’hanno sepolta, e nessuno me l’ha mai detto?”. C’è un’altra cosa che voglio aggiungere con una crudezza e una radicalità che non ho mai usato in pubblico. Perché non si sa dove tanti corpi di giustiziati, magari anche per delle ragioni fondate agli occhi di chi li ha ammazzati, oppure così, perché si pensava fossero dei nemici del passato, dei nemici del futuro, perché non si trovano? Perché c’è sempre stata omertà. Ancora oggi sono vivi dei partigiani, molto anziani, che hanno più di ottanta anni, ma non hanno mai aperto bocca per dire: “Dove è stato sepolto suo padre? Io lo so, ma non voglio dirlo”. Allora, è soltanto l’omertà di partito che li spinge a tenere questa bocca serrata? Io non credo che sia soltanto quello, credo che sia ancora una cosa più profonda, la consapevolezza di aver commesso, come diceva mia madre, una cattiva azione, cioè un delitto, di aver fatto una cosa sbagliata e nefanda, di cui ti vergogni, ma non hai più la forza di rivelarlo in pubblico dicendo: “Ebbene sì, abbiamo commesso questi delitti assurdi, che non avevano niente a che fare con la lotta contro il fascismo, abbiamo sepolto i corpi in quel posto, provate a cercarli”. A parte il fatto che ormai, specialmente nelle città emiliane, i prati dove sono stati sepolti centinaia di giustiziati dopo la fine della guerra non esistono più, sono coperti dai centri commerciali, dai grandi espositori, dagli uffici bancari,…Praticamente la verità è questa, che la guerra civile è una specie di gatto arrabbiato che ti insegue sempre, perché le ferite che ha prodotto sono ancora qua e si trasmettono di padre in figlio, di madre in figlia, e spesso con i nipoti, per cui bisognerà che passino parecchie generazioni, e, soprattutto, ci vorrebbe – questa sarebbe la cosa fondamentale – un gesto di pacificazione, che però comporta un gesto ancora più pesante, che è quello della confessione da parte di quei due, o di un grande partito di sinistra che è rimasto, e che si arroga il diritto di rappresentare quella esperienza. Ma non lo vogliono fare e non lo faranno. Quante volte io ho detto a Fassino, ho detto a D’Alema, ho detto allo stesso Veltroni: “Ma parlate, ma cosa vi costa? Siete stupidi a mettere al bando i miei libri, dovreste farmi senatore, io poi rifiuterei, naturalmente, perché vi ho offerto la possibilità tanti anni dopo, a costo zero, di chiudere una guerra, però, per chiuderla davvero, dovete avere il coraggio di aprire i libri nascosti che tenete nelle vostre piccole cantine, o grandi cantine, e aver il coraggio di leggere le ultime pagine”. Non ce l’hanno, e questo è l’indice che quella parte politica – mi dispiace perché l’ho votata molte volte e sono cresciuto in quell’ambiente, seppure non da militante -, quella parte politica non solo è destinata a morire, ma è già morta.

MODERATORE:
Posso farti un’ultima domanda? Ci dici qualche cosa del titolo di questo Meeting, in particolare come identifichi tu la figura del protagonista, tu che, anche per la testimonianza che ci hai offerto oggi, sei protagonista?

GIAMPAOLO PANSA:
Anzi, io ho scritto per una delle riviste di Comunione e Liberazione, Atlantide si chiama, mi hanno chiesto di fare un pezzo sul protagonismo, e io ho detto a questo giovane giornalista: “Ma io non so farlo, è un argomento troppo…”. “Ma no, lo deve fare, il direttore ci tiene…”. Allora ho detto: “Farò un pezzo sui giornalisti protagonisti”, poi mi sono reso conto che c’è un solo protagonista che è sempre il “barbapapà”, Eugenio Scalfari, e il titolo di questa lungo articolo…. Quei disgraziati che fanno Atlantide l’hanno intitolato Il protagonista libertino”. Attenzione, quindi, quando Eugenio lo leggerà, apriti cielo. Perché libertino? Perché, cosa ha fatto lui? Ecco, perché il protagonista? Mi riferisco a quell’esempio, che è quello che conosco meglio, perché ho lavorato per lui 14 anni a La Repubblica, e 11 al L’Espresso, ma, grazie a Dio, lui su L’Espresso non comandava fino in fondo, non mi piace mai il comando di un uomo solo. Prima di tutto perché il vero protagonista è quello che fa nella propria professione una specie di rivoluzione copernicana, cioè cambia completamente le regole del gioco. Quali sono le regole del gioco che Scalfari ha cambiato nel mestiere della carta stampata? Prima di lui tutti i direttori, sia pure in misura diversa, si ritenevano, non dico succubi, ma, insomma, sottomessi, quasi per obbligo, al potere politico dominante, che per anni è stata la Democrazia Cristiana, ma affiancata dal PCI, perché anche il potere dell’opposizione poteva essere asfissiante. Lui ha detto: “No, il sole non sono i partiti, il sole sono io e tutti i partiti sono dei pianeti che girano intorno a me”. Primo esempio di protagonismo. Che cosa fa, poi, il protagonista? Il protagonista non si fa impedire neppure dalle regole che si è dato, infatti mi ricordo che Eugenio diceva: “Per fare bene il direttore di un settimanale, ma anche di un quotidiano, bisogna essere un libertino”, e io gli dicevo: “Che cosa vuol dire Eugenio essere un libertino?”. “Vuol dire non aver impacci, vuol dire essere pronti a cambiare opinione da un giorno all’altro, vuol dire appoggiare uno e il venerdì appoggiarne un altro, vuol dire cambiare le regole del gioco quando è in corso il gioco, cioè praticamente vuol dire fare come detta il tuo interesse”. Poi per uno che dice che l’opinione pubblica in Italia è morta, e che Berlusconi ci ha insegnato ad avere cura del proprio interesse personale, è un bel paradosso, non è vero? Mi pare. Siete d’accordo?

MODERATORE:
E’ inutile chiederti un accenno a ciò su cui stai lavorando, se stai preparando già un nuovo libro?

GIAMPAOLO PANSA:
Io sto preparando un nuovo libro che, però, non sarà sulla guerra civile. Dico una cosa che non ho mai detto, me l’hanno già chiesto anche oggi. Sarà un libro che farà incazzare come delle bestie tanti big di sinistra.

MODERATORE:
Capite che per ingaggiare una battaglia per la storia si esige una grande condizione. Io ne ero abbastanza convinto, conoscendolo a distanza per le letture, ma oggi è stata abbastanza solare questa evidenza, che la passione per la storia è direttamente proporzionale alla passione che un uomo ha per la propria umanità, all’interesse che ha per se stesso, sia esso un bambino cui la nonna racconta le storie, o un uomo maturo noto e famoso. In questo, io credo, possiamo sentire Pansa un prezioso compagno di strada, per la battaglia culturale che è in atto nella nostra società, che è la battaglia per la difesa dell’universalità, dell’oggettività della condizione umana. Per questo noi abbiamo bisogno di uomini che siano già in battaglia su questo fronte, perché lui ha fatto professione di laicità, poi alla fine dell’ultimo intervento ci ha parlato di pietas, di pacificazione, di azioni cattive,…ci ha messo pure la confessione, capite? Queste sono parole cristiane, ma le parole cristiane non sono altra cosa dalle parole umane, ne sono la verità. Allora io capisco che, proprio per questo, siamo insieme, perché tutti, poco o tanto, abbiamo il cappotto che la mentalità che domina ci mette addosso, e bisogna che incontriamo qualcuno che ha cominciato a toglierselo, a vedere come si fa. Perché da soli non ce la facciamo, siamo troppo fragili, oggi poi…Diceva lui che è arrivato il momento in cui bisogna chiudere una guerra, solo che per chiudere una guerra ci vuole una grande condizione: uno deve amare la verità più che se stesso, deve essere disposto, incontrando qualcosa di vero, di bello, di buono, di giusto, a lasciare tutto per seguirlo, e capite che questa è una cosa tanto semplice, quanto impegnativa per quelli che credono di sapere già e che per presunzione o vergogna non si arrendono allo spettacolo di qualcuno che fa vedere che è possibile cambiare. Il Meeting cerca, come può, di dare una testimonianza a questo in termini laici, perché noi siamo cristiani, perché riconosciamo l’assoluta preminenza della nostra umanità e senza la nostra umanità il nostro cristianesimo sarebbe dalle nuvole in su. Per questo io ringrazio Pansa di aver fatto il sacrificio di venire da noi a raccontarci la battaglia quotidiana per la verità contro la menzogna. Grazie.

GIAMPAOLO PANSA:
Per non vestirmi di panni e di penne che non merito, volevo concludere con una battuta allegra il discorso molto importante che ha fatto Savorana. Prima di tutto nel mio mestiere è fondamentale non montarsi la testa, e cioè rimanere tranquilli e io in questo ho due esempi, uno che mi viene da mia madre e uno che mi viene da mio figlio: quando sono tornato dalla laurea a Torino, era estate, mia madre stava sulla porta del suo negozio di mode, sulla via centrale della città, a Casale Monferrato, “Mode e Pansa” c’era scritto, un omaggio, avrebbe dovuto fare “Mode e Cominetti”, mi vede arrivare e mi dice: “Allora?”. “Allora mi sono laureato”. “E allora?”. “Allora ho preso 110 e la lode”. E mia madre fa: “E allora?”. Io le ho detto: “Beh, ho preso anche la dignità di stampa”. E mia madre: “E allora?”. E io le dico: “Scusa, e allora che cosa?”. “E allora, quando te ne vai di casa che ho già trovato chi compra la tua camera da letto?”. Punto primo, mai montarsi la testa. L’esempio, invece, di mio figlio Alessandro mi viene da quando era piccolo: in seconda elementare arriva una maestra nuova, la mitica maestra Cinquetti, la leggenda familiare sosteneva che fosse zia di Gigliola Cinquetti, mentre invece abbiamo interpellato una volta, Adele ha interpellato la magica Cinquetti, ha detto che non ricordava di avere una zia maestra, ma comunque si chiamava Cinguetti. Allora guarda l’elenco di questi ragazzini, scuola elementare comunale del centro di Milano: “Pansa, mi ricorda qualcosa, Pansa Alessandro, alzati”. Alessandro si alza, era un po’ timido allora, poi è cambiato: “Ma tu sei figlio del famoso giornalista?”, e mio figlio fa: “Beh, famoso, dipende”. “Scrivimi un tema su tuo padre, il mestiere di mio padre”. Alessandro ha scritto un tema che era questo: mio papà fa il giornalista e quando torna a casa la notte vuota il frigorifero… Perché non c’erano le mense dei giornali, allora. Grazie.

Data

27 Agosto 2008

Ora

19:00

Edizione

2008

Luogo

Sala B7
Categoria
Incontri