“MA MISI ME PER L’ALTO MARE APERTO”. L’ULISSE: QUANDO DANTE CANTÒ LA STATURA DELL’UOMO

Ma misi me per l'altro mare aperto

Presentazione della mostra. Partecipano due dei curatori: Carmine Di Martino, Università degli Studi di Milano; Simone Invernizzi, Università degli Studi di Milano. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

EMILIA GUARNIERI:
Buongiorno, soprattutto a voi che siete qui e anche agli altri che sono altrove, ma a noi, soprattutto. Iniziare la giornata con la poesia è un po’ come iniziarla con la preghiera. Non a caso, don Giussani tante volte ha raccontato che, dopo la comunione, si ripeteva Leopardi, quindi, un buongiorno particolare. Al Meeting di quest’anno, lo avrete visto dal programma, c’è una grande sovrabbondanza di poesia e di musica. Proprio perché, in questo Meeting dedicato al cuore e al desiderio di cose grandi, niente più della musica e della poesia evoca questo desiderio e questa commozione, questo struggimento che il cuore ha per le cose grandi. Non so chi di voi ieri sera abbia assistito al Caligola di Camus, avremo la lettura di Leopardi, le musiche che suonava la Marija Judina, avremo il samba, abbiamo la mostra su Flannery O’Connor, avremo Fellini, le letture poetiche di Davide, ma soprattutto – e il “soprattutto” è per gli amici che sono qui adesso, ma è un soprattutto perché di Dante è difficile non dire “soprattutto” – abbiamo questa bellissima mostra dedicata a Dante, in modo particolare al XXVI dell’Inferno, “Ma misi me per l’alto mare aperto. L’Ulisse: quando Dante cantò la statura dell’uomo”. Volutamente ho detto che questa mostra si inserisce nel grande percorso di poesia e di arte di questo Meeting. Questa mostra parla – come gli amici ci diranno – della statura alta dell’uomo, la poesia parla di questa statura alta dell’uomo e la bellezza è proprio ciò che, anche dentro il limite, anche dentro la contingenza, suggerisce la grandezza. “Ma sul deserto delle nostre strade Lei passa” – la bellezza, diceva Pasolini – “rompendo il finito limite e riempie i nostri occhi di infinito desiderio”.
Nel contesto di questa suggestione, di questa preferenza che la poesia e la musica si sono guadagnate nel Meeting di quest’anno, si colloca appunto questa mostra che l’amico Carmine Di Martino ci presenta: amico perché è amico, ma ormai sta diventando un grande amico e un grande riferimento anche per il Meeting. Come sapete, l’anno scorso dobbiamo a Dima il grande intervento sul tema e quest’anno gli dobbiamo una delle più grandi mostre che abbiamo qua al Meeting, quindi, credo proprio che gli siamo veramente grati. Il professor Carmine Di Martino è docente all’Università degli Studi di Milano e, insieme ad altri docenti, ricercatori e studenti, ha realizzato appunto la mostra. E questa mattina saranno Di Martino e Simone Invernizzi, dottorando alla Statale di Milano, che ci introdurranno al percorso di questa mostra. Io mi permetto solo di fare una nota, rispetto al lavoro che hanno fatto. Una sottolineatura che motiva proprio il nostro ringraziamento. Questa mostra documenta il rischio dell’avventura di un’interpretazione. E’ così evidente che anche la modalità stessa espositiva dice che ci sono la volontà, il gusto e il rischio di un’interpretazione. Tant’è che, addirittura, in mostra discutono dal vivo. Su questa parola, interpretazione, volevo soffermarmi un attimo, perché la poesia, e in modo tutto speciale la poesia dantesca, è una poesia allegorica, cioè una poesia costruita su immagini, su storie, come le parabole del Vangelo. Il campo, la zizzania, il seminatore, sono storie, sono immagini, allegorie, tant’è che quando non le capiscono, Gli chiedono di spiegarle, e Lui le spiega, dicendo però: se foste attenti alla storia, se foste attenti ai segni, capireste anche da soli.
La poesia, soprattutto una poesia allegorica come quella di Dante, vive contestualmente alla sua interpretazione, l’interpretazione non è un’aggiunta ma un aspetto totalmente contestuale, esattamente come nelle parabole del Vangelo. Nella parabola del Vangelo, la storia ha il suo senso ma l’interpretazione è strutturale, contestuale all’immagine stessa. Interpretazione, ecco, vorrei proprio spogliare questa parola da un uso molto ridotto e molto soggettivistico a cui il relativismo moderno ci ha abituati e condannati, per cui l’interpretazione è ciò per cui ognuno ha la sua interpretazione, ognuno pensa quello che vuole e non esiste mai qualcosa che sia vero o, per lo meno, che sia più approssimato alla verità. L’interpretazione, viceversa, è proprio il tentativo di entrare dentro una vicenda, perché una vicenda non è cinquanta verità possibili, una cosa è una cosa, quello che il poeta ha detto, per il poeta era uno, non erano cinquanta. Qual è il nostro problema? Il nostro problema è che uno rischia. Scusate se lo dico con convinzione, ma fa parte del mio lavoro. Quando faccio scuola, faccio così, ai miei ragazzi dico sempre: “guardate che io vi do una interpretazione ma chiunque vi dà un’interpretazione”. Dove sta la questione? La questione sta che l’interpretazione deve avere il coraggio di paragonarsi con la realtà, cioè di mettersi in verifica di fronte alla realtà. E l’ipotesi interpretativa che più spiega quell’aspetto della realtà è la più vera fino a quando non ne troverò un’altra che mi spieghi di più quella realtà.
Di fronte al XXVI Canto dell’Inferno, cui la mostra è dedicata, la questione non è se un’interpretazione sia simpatica o meno, la questione è se l’interpretazione che loro questa mattina ci propongono spieghi il XXVI° dell’Inferno: quanto spiega l’intero percorso di Dante, quanto rende ragione della poesia di Dante? Questo è il test di verifica di un’interpretazione. Quindi, l’interpretazione è esattamente il contrario del soggettivismo, è proprio un’ipotesi che uno mette di fronte alla realtà, lasciando che sia la realtà a giudicarne la consistenza e la veridicità. Quindi, grazie a chiunque fa questo lavoro di interpretazione. Al professor Di Martino ed al dottore Simone Invernizzi, la presentazione della mostra. Prima il dottore.

SIMONE INVERNIZZI:
Si immagini ora un uomo a cui, insieme alle persone amate, vengono tolti la casa, le abitudini, gli abiti, tutto, infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere se stesso. Tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte, al di fuori di ogni senso di affinità umana, nel caso più fortunato in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine campo di annientamento e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo. Con queste parole, Primo Levi descriveva la sua esperienza nell’inferno di Auschwitz nel suo romanzo Se questo è un Uomo. Ma, pur ridotto a sofferenze e bisogno, dimentico di identità e discernimento, chiediamoci se l’uomo è solo questo. No. Chiuso nel cieco carcere del lager, Primo Levi ricordava commosso le parole dell’Ulisse dantesco: “considerate la vostra semenza /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza”. Dice Primo Levi, “come se anch’io lo sentissi per la prima volta, come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono. Piccolo” – il compagno a cui Levi cerca di insegnare l’italiano con le parole di Dante – “mi prega di ripetere. Come è buono Piccolo, si è accorto che mi sta facendo del bene o forse è qualcosa di più, forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio e noi in specie, che riguarda noi due che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”.
L’Ulisse dantesco è un simbolo insuperato della statura dell’uomo perché testimone di quella sete di significato che, come diceva Thomas Mann, dà fuoco e tensione ad ogni nostra parola, urgenza, ad ogni nostro problema. O, parafrasando il titolo del Meeting, ci fa desiderare cose grandi. Questo è l’uomo. E potremmo ancora usare le parole di Leopardi, in una pagina dello Zibaldone che sembra fatta apposta per descrivere l’inquietudine che animò Ulisse in tutti i suoi viaggi, “considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo ed il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà che si veggia nella natura umana”. Ulisse, questo navigatore ardito e inesausto che percorre l’ampiezza interminabile dello spazio o, come dice Giussani, l’uomo intelligente che vuole misurare con il proprio acume tutte le cose, che, spinto da una curiosità irrefrenabile, giunge sulla soglia del Mistero. La novità principale del mito dantesco, il suo elemento di maggior fascino, è la rappresentazione tutta positiva dell’impeto del cuore umano, della sua tensione a comprendere il significato dell’esistenza, a penetrare l’ignoto. Infatti, nonostante tutti i limiti che la natura strutturalmente pone a questo desiderio, la ragione non rinuncia a voler conoscere il Mistero. In tutte le letterature antiche non si trova niente di paragonabile all’Ulisse dantesco.
Punto primo: il mito antico. Ulisse ed Icaro. L’Ulisse antico a un certo punto si era fermato sulla sua isola, Itaca. Terminata la guerra di Troia, durata dieci anni e vinta grazie allo stratagemma del cavallo escogitato proprio da Ulisse, l’eroe aveva ripreso il mare, dopo infinite avventure, infinite sofferenze. Tutti ricordiamo la storia di Polifemo, delle Sirene, la visita nella terra dei morti, Calipso, Circe. Ulisse riesce ad abbracciare la moglie Penelope, il figlio Telemaco ed il vecchio padre Laerte. L’eroe, che ha vinto la guerra ed il mare, che, spinto da una curiosità irrefrenabile, ha percorso il mondo in cerca di un significato, approda infine ad una meta, la casa, simbolo della pace ritrovata e di una risposta in cui si risolve l’inquietudine del suo vagare. Ora può finalmente riposare, ma la storia non è finita. Omero si accontenta di un lieto fine che è per forza di cose provvisorio. Sulla vita del grande eroe, non è ancora stata detta la parola definitiva. Infatti, nonostante la patria raggiunta e gli affetti più cari, Ulisse non riesce a sfuggire al tempo che vince e divora ogni cosa. Commenta così Giussani ne Le mie letture: “Ma il tempo vince ogni volontà e pretesa di autonomia e blocca ogni tipo di violenza. Il tempo infatti può essere considerato come una violenza che sull’Ulisse antico vince catastroficamente, inevitabilmente: tutti i divi dell’antichità, infatti, sono uccisi, mentre l’unico che se l’è scampata è stato Ulisse, ed è morto vecchio. Ma per un uomo così irrequieto, che ha girato tutto il mondo, quale umiliazione più grande, quale catastrofe più grande che quella di morire vecchio, bloccato nella sua isola!”.
Ma c’è un’altra grande figura del mito che Dante ha ben presente inventando il suo Ulisse: è Icaro. Precisi riscontri lessicali autorizzano questa lettura e l’immagine del folle volo di Ulisse ricorda da vicino la storia di Icaro. Chi era Icaro? Icaro era il figlio di Dedalo, l’inventore del labirinto fatto costruire a Creta per rinchiudere il Minotauro. Minosse, il Re di Creta, dopo che Dedalo aveva terminato l’opera, invece che lasciarlo libero lo rinchiude nel labirinto perché non sveli a nessuno il segreto di quest’opera. Dedalo ed Icaro, però, riescono a fuggire costruendo le ali con delle penne di uccello tenute insieme da cera. I due prendono il volo lasciandosi alle spalle l’isola di Creta, ma ben preso Icaro comincia a salire sempre più in alto attirato dallo splendore del sole. Vani sono i richiami e gli ammonimenti del padre. Icaro continua a salire, sino a quando il calore del sole non fonde la cera che teneva assieme le sue ali e il giovane precipita in mare morendo. Anche Icaro è un simbolo, l’aspirazione senza fine che anima l’uomo non regge ed Icaro si schianta a terra. Il mito di Icaro ricordava agli antichi che l’uomo non doveva spingersi oltre: medén ágan, nulla di troppo, recitava il motto posto sul tempio di Delfi. L’uomo deve imparare a tenere a freno il desiderio e ridurlo nella sua portata, se non vuole incorrere nella punizione divina. La saggezza antica insegnava a non ambire a mete superiori alle proprie forze, a non infrangere il limite stabilito dagli Dei per l’uomo. L’Ulisse dantesco rappresenta il superamento di questa saggezza.
Punto secondo. L’Ulisse di Dante. Dante affronta a viso aperto il problema della morte di Ulisse lasciato insoluto da Omero. Su questa morte circolavano tradizioni discordanti ma nessuno era in grado di dire come Ulisse fosse morto. Dante approfitta di questa incertezza e ricrea il mito di Ulisse reinventandone la fine. Così, quando nel fondo dell’inferno Dante e Virgilio incontrano Ulisse tra i peccatori di frode, questi racconta loro la sua ultima avventura. A fatica la fiamma dentro cui Ulisse arde prende la parola ed inizia un lungo monologo che occupa più di un terzo dell’intero Canto. Sono versi a noi tutti familiari: “Lo maggior corno de la fiamma antica/ cominciò a crollarsi mormorando/ pur come quella cui vento affatica;/ indi la cima qua e là menando,/ come fosse la lingua che parlasse,/ gittò voce di fuori, e disse: «Quando…”. Su questo quando, sospeso a fine verso tra due terzine, proteso sul vuoto come il viaggio di Ulisse, si sostiene tutto il viaggio verso l’ignoto dell’eroe che non doveva toccare la sua fine. Il racconto di Ulisse non comincia dal principio ma in medias res, a viaggio già iniziato. Il lettore è catturato e trascinato a capofitto nell’ultima avventura dell’eroe: “Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse/ me più d’un anno là presso a Gaeta,/ prima che sì Enea la nomasse,/ né dolcezza di figlio, né la pieta/ del vecchio padre, né ‘l debito amore/ lo qual dovea Penelopè far lieta,/ vincer potero dentro a me l’ardore/ ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,/ e de li vizi umani e del valore;/ ma misi me per l’alto mare aperto”.
Ulisse non torna a casa e dice che nulla è stato in grado di vincere in lui l’ardore che sentiva, il desiderio che lo muoveva a divenire esperto dei vizi umani e del valore, per questo riprende il mare. Questo ardore è il sigillo dell’Ulisse di Dante, è una parola che cercheremmo invano nelle fonti antiche, è invenzione puramente dantesca. Ardore ci mette sulle tracce del cuore vero dell’Ulisse dantesco. Al contrario di quanto numerosi critici affermano, questo Ulisse non è mosso da una vana curiositas, una curiosità che si rivolge solo alla superficie delle cose, e nemmeno da una superbia intellettuale. Ciò che anima l’Ulisse dantesco è una sete bruciante di conoscere tutto. Dante la chiama “la sete natural che mai non sazia”, parlando di sé nel XXI Canto del Purgatorio. Una sete naturale che non riesce ad essere saziata. Un imperativo a cui l’uomo non può rinunciare se non venendo meno alla propria natura. Si tratta di un desiderio scoperto nel cuore, “dentro a me”, dice Ulisse, che non può essere arrestato e tacitato nemmeno dagli affetti più cari. Per questo Ulisse riprende il mare. Su un’unica nave insieme ai pochi e fedeli compagni rimastigli accanto, Ulisse percorre le coste del mondo allora conosciuto. In breve, il Mediterraneo è ormai esplorato e lasciato alle spalle.
Anche questa meta si rivela piccina, incapace di placare una sete che nel frattempo si è fatta più grande. Tre versi soltanto bastano ad Ulisse per riassumere anni di viaggi e di avventure. “L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,/ fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,/
e l’altre che quel mare intorno bagna”. Ormai vecchi e tardi, Ulisse e i suoi compagni arrivano alla foce stretta di Gibilterra. Qui la ricerca di Ulisse si scontra con un limite, la fine della vita, la vecchiaia e le colonne d’Ercole che segnavano il confine delle terre abitate. E’ il limite contro cui l’aspirazione infinita del cuore inevitabilmente si scontra. Al di là di Gibilterra, non ci sono più porti sicuri ma soltanto l’oceano sterminato, un oltre ultimamente misterioso. Nel monito di Ercole che invita l’uomo ad arrestarsi, “dov’Ercule segnò li suoi riguardi,/ acciò che l’uom più oltre non si metta;”, rivive l’insegnamento del mito di Icaro: medén ágan, nulla in eccesso, procedere sarebbe follia. Tuttavia resta quella sete martellante. Ulisse sorprende per la sua audacia, che è in realtà coerenza con la propria natura d’uomo. Egli intuisce che il limite non può essere l’ultima parola, che ciò che ha cercato per tutta la vita, la verità definitiva che il suo cuore pre-sente, deve esistere al di là delle colonne. E’ la stessa intuizione dell’Icaro di Matisse, così diverso dall’Icaro antico nella lettura che ne dà Luigi Giussani: “Allora il cerchio rosso dell’Icaro di Matisse cosa significa e simboleggia? È per quel cuore che l’uomo, la figura dell’uomo si libra negli spazi e il tempo e lo spazio non sono solo tomba, ma anche spunto per uno slancio. Quel cuore sim¬bo¬leg¬gia che la figura di Icaro è legata, aspira, cioè dipende da qual¬cosa d’altro, dipende. Dipende da qual¬cosa d’altro.
Se non ci fosse qual¬cosa d’altro, anche evanes¬cen¬tis¬simo, quella figura cadrebbe su se stessa, cadrebbe giù, si spi¬ac¬ci¬cherebbe, come, infatti, è il des¬tino di questa fiaba nella men¬tal¬ità pagana. Nella men¬tal¬ità pagana, cioè nella men¬tal¬ità mon¬dana, l’Icaro è des¬ti¬nato a dis¬trug¬gersi a terra, per¬ché il cuore non tiene, cioè le ali non ten¬gono. Invece quel cuore è il sim¬bolo di un rap¬porto con qual¬cosa; con qual¬cosa: pen¬satelo esilis¬simo fin quanto volete, ma è qual¬cosa d’altro! Questo è l’Icaro di Matisse, esile fin quando volete, ma la percezione di appartenere a qualcosa d’altro. Di fronte al limite, quindi, il desiderio si tende, la sete si esaspera ed il tentare l’impresa è coerenza con sé nonostante tutti i divieti”.
Allora Ulisse prende la parola e si rivolge ai suoi compagni, ai suoi fratelli. Sono i versi che abbiamo già sentito nella citazione di Primo Levi: “Considerate la vostra semenza, fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”. Tornare indietro avrebbe significato rinnegare se stessi e il viaggio compiuto fino a quel momento, avrebbe significato rassegnarsi a vivere come bruti. Le parole di Ulisse non sono l’estremo inganno, come alcuni critici sostengono. Al contrario, in esse riluce chiara e netta la coscienza della propria natura di uomo, come dice con immagine potente il poeta russo Osip Mandelstam: Ulisse ubbidisce ad una legge, perché è il sangue stesso che contiene in sé il sale dell’oceano. L’inizio del viaggio è già dentro il sistema dei vasi sanguigni, il sangue è planetario, solare, salato. Ulisse dunque decide di proseguire ed inoltrarsi nell’oceano infinito. A questo punto si colloca l’altra grande invenzione del Canto: la navigazione “di retro al sol” nell’oceano sconfinato. Questa è l’immagine che dà corpo e sostanza narrativa all’ardore dell’eroe, ne rivela tutta l’inesauribile portata. Spostando la meta del viaggio oltre Gibilterra, Dante radicalizza il desiderio di Ulisse e supera il mito antico.
La meta di Ulisse, dell’Ulisse dantesco, infatti, non è più Itaca, la sua isola, ma l’oltre misterioso nel quale si trova il significato dell’esistenza. Nella Commedia, il viaggio di Ulisse non si presenta più solo come un viaggio in orizzontale, lungo le coste del Mediterraneo, diventa piuttosto un viaggio in verticale, verso l’ultima profondità dell’essere. Dove, infatti, domandiamoci, sono diretti Ulisse e i suoi compagni? Dopo cinque mesi di navigazione, appare ai naviganti una montagna bruna per la distanza. E’ la stessa montagna verso cui si sono incamminati Dante e Virgilio, lo scopriremo all’inizio del Purgatorio. E’ la sede dell’Eden perduto, la sede del paradiso terrestre: quello di Ulisse, come quello di Dante, è un viaggio verso il significato ultimo delle cose, solo questo infatti è in grado di soddisfare quella naturale sete che muove ogni uomo. Eppure, si dirà, il viaggio di Ulisse è un “folle volo” – così lo chiama Dante, il verso che non abbiamo letto, che dice quando Ulisse varca le colonne d’Ercole: “dei remi facemmo ali al folle volo”, riprendendo un’immagine dell’Icaro antico, presente nell’Eneide di Virgilio – e si conclude con un tragico naufragio. La gioia per aver avvistato la meta si risolve ben presto in pianto e cito: “Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto”, ci rallegrammo alla vista della montagna bruna dopo cinque mesi di navigazione, finalmente una terra. “Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;/ ché de la nova terra un turbo nacque/ e percosse del legno il primo canto./ Tre volte il fé girar con tutte l’acque;/ a la quarta levar la poppa in suso/ e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,/ infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.
Una tempesta improvvisa investe la nave facendola precipitare in fondo all’abisso, perché? Perché l’avventura di Ulisse porta in sé anche il segno ineludibile di una colpa, ma attenzione, la colpa non è il desiderio che muove Ulisse ma la presunzione di poter raggiungere il mistero con i propri deboli mezzi. Si tratta di un errore che Dante vide in sé ed in molti suoi contemporanei. E, ribadisco, la sottolineatura della presunzione di Ulisse non deve gettare ombre sulla positività con cui il suo ardore è rappresentato nel XXVI Canto dell’Inferno. Questa positività è la ragione per cui noi, dopo oltre 700 anni, leggendo questi versi, ancora ci commuoviamo. Per cui, Primo Levi e tanti lettori come lui, leggendo le parole dell’Ulisse dantesco, sentono in esse vibrare qualcosa di vero. La colpa di Ulisse non sta nel desiderio che lo muove e nemmeno nel suo oltrepassare le colonne d’Ercole e voler penetrare l’ignoto. Questo è il tratto più vero dell’uomo, questa nostalgia dell’origine che anima tutti i suoi atti e che Dio stesso gli ha posto nel cuore: o, come Dante la chiama, si tratta di una “concreata e perpetüa sete del deïforme regno”, una sete che è creata insieme con l’uomo stesso. La profonda simpatia e la partecipazione con cui Dante mette in scena la grande avventura del suo Ulisse indicano che ormai qualcosa è cambiato. Marcano la distanza tra la civiltà antica pagana e la nuova civiltà cristiana e, più radicalmente, tra due concezioni dell’uomo; e si pongono già i presupposti per un altro viaggio, questa volta a lieto fine. Il viaggio fallito da Ulisse sarà infatti portato a compimento da Dante stesso.
Punto terzo, e concludo. L’ardore di Ulisse e l’ardore di Dante. L’ardore bruciante a vedere tutto che anima Ulisse è infatti lo stesso che spinge Dante a compiere il viaggio nell’aldilà e lo muove a scrivere il poema. Cosa è il cammino del pellegrino attraverso le perdute genti, l’Inferno, fino alle beati genti, il Paradiso, se non un “divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore”, un percorso di conoscenza? Né l’audacia di Dante, che immagina di vedere Dio faccia a faccia, è minore a quella del navigatore greco. Per questo – e la cosa non accade con nessun altro dei grandi personaggi della Commedia -, Dante si paragona continuamente ad Ulisse nel corso di tutto il poema, specialmente negli snodi decisivi del suo cammino. L’ardore di Ulisse, il suo volersi spingere oltre le colonne d’Ercole, non solo non è da Dante condannato ma è requisito fondamentale per lo svolgersi del viaggio dantesco. In Paradiso, questo desiderio continuamente acceso e ridestato dalla vista di Beatrice e dagli incontri con i Beati, sarà il motore che consentirà a Dante di arrivare alla meta, di vedere tutto. Di fronte a Dio, l’ardore così scandaloso di Ulisse non è dimenticato ma trova finalmente il suo compimento.
Scrive Dante nel XXXIII Canto del Paradiso, nel momento in cui si trova di fronte a Dio: “E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”. Ritroviamo la stessa parola che aveva caratterizzato l’Ulisse dantesco: “l’ardor del desiderio in me finii”, di fronte a Dio, dove questo “finii” non significa risolsi, esaurii, ma è da intendersi come “portai al suo culmine”. In questa prospettiva, allora – e con queste parole possiamo concludere – acquistano profondo significato le parole dello scrittore argentino Jorge Luis Borges che scrive: “A cosa deve la sua forza tragica questo episodio? Credo che l’unica spiegazione sia questa. Dante sentì che Ulisse in qualche modo era lui stesso”. Grazie.

EMILIA GUARNIERI:
Grazie, prima di lasciare la parola al professor Di Martino, vorrei domandare a chi può – servizio d’ordine, non so – se riusciamo a fare cessare, almeno davanti alla poesia, l’opera rumorosa dell’uomo che da qui sentiamo molto. Chi può faccia qualcosa. Grazie. La parola al professor Di Martino.

CARMINE DI MARTINO:
Grazie. Dopo le parole così eleganti e persuasive, quindi anche controllate, di Simone Invernizzi, io mi permetto di essere più rozzo e anche più sciolto: non farò la felicità dei traduttori, però è il prezzo che bisogna pagare. Dirò cinque cose. La prima: che cosa caratterizza la nostra interpretazione, dopo quello che ha detto l’Emilia? La seconda: il tema che connette la mostra al Meeting. Terzo, qual è la fonte? Quarto, che cosa è in gioco nella diversità delle interpretazioni? Quinto, la storia della mostra, naturalmente in pillole. Trentacinque minuti, cronometra. La prima cosa occuperà un po’ più di spazio, quindi non crediate che sia tutto distribuito proporzionalmente.
L’interpretazione. Ci sono tre grandi interpretazioni, vedrete nel saggio di Simone Invernizzi che sono quattro, ma io riduco le prime due ad una. La prima è quella che legge l’Ulisse dantesco come il testimone ideale assoluto della statura dell’uomo. Ci sono tanti autori che si potrebbero citare, io riassumo solo i contenuti: attraverso il suo Ulisse, Dante compie una schietta ed incondizionata valorizzazione, esaltazione del desiderio di conoscenza che caratterizza l’umanità dell’uomo. Sottolinea in maniera positiva la volontà di conoscere La seconda interpretazione – faccio giocare le due dalle quali la nostra interpretazione si differenzia, e poi la terza – legge l’Ulisse come l’incarnazione della superbia umana che Dante vuole espressamente condannare, avendone egli stesso patito la tentazione. Vuole condannare questo desiderio smisurato, smodato, eccessivo, eccedente, che è quello di conoscere perfino Dio, il significato di tutte le cose, giacché, come ha detto Invernizzi prima, il proprium dell’Ulisse dantesco è l’ardore da una parte, e dall’altra, questa nuova profondità della conoscenza, quella esperienza di “retro al sol”, una meta non solo in orizzontale ma in verticale, verso il significato ultimo. Ecco, questa sete di conoscenza totale è qualcosa di cui ci si deve spogliare, in particolar modo se si è religiosamente caratterizzati, perché occorre lasciare spazio a Dio, non contrastare Dio. Occorre che la volontà umana di conoscere si ritiri per lasciare emergere l’azione divina, non bisogna rubare spazio a Dio: quindi, anche il desiderio va ridimensionato. Capostipite di questa lettura è, immediatamente dopo la stesura della Divina Commedia, nientemeno che Francesco Petrarca. “Disiò del mondo veder troppo”. Questa è la marca fondamentale della lettura, adesso vediamo quali sono le conseguenze delle due interpretazioni.
La prima interpretazione è soprattutto laica ma tende ad oscurare il peso di quel folle nel “folle volo”. Non ci sarebbe niente di folle nel volo di Ulisse, non ci sarebbe dunque eccesso, non ci sarebbe colpa, non ci sarebbe diciamo il fuori misura, ma allora perché l’impresa di Ulisse fallisce? Come si spiegherebbe allora il naufragio, e dunque la morte? Semplice, in queste interpretazioni si tende ad attribuire ad una condizione strutturale il fallimento necessario. Oppure, in maniera molto più insinuante, in una lettura che ci pervade con De Sanctis, e poi con Croce, si configura un’interpretazione diversa, si tende cioè a distinguere in Dante l’animo del poeta dall’animo del teologo. E dunque, ciò che il poeta esalta, non può che esaltare, dall’altra parte il cristiano ortodosso condanna. Ecco perché occorre far naufragare Ulisse e i suoi. La sua impresa non può che fallire, perché? Perché la dottrina cristiana che è all’opera in Dante castra il desiderio smisurato di Ulisse. E dunque questa interpretazione risolve il problema: è vero che Dante esalta il desiderio ma questa è solo una parte di Dante, l’altra parte di Dante, diciamo così, spinge la testa sott’acqua fino a farlo annegare. Viene condannata l’impresa umana legata al desiderio. La seconda interpretazione che ho detto prima, quali conseguenze ha? Ne ha una, in particolare: quella di far ricadere la colpa, diceva prima benissimo Invernizzi, sul desiderio, quella di punire il desiderio. Perché? Semplice, uso un’immagine che vale quel che vale, però appartiene al mio gergo: viene retroflessa la punizione sulla radice stessa del desiderio. L’impresa di Ulisse va incontro al fallimento, il naufragio e la morte, bene. Se il termine di questa impresa subisce la punizione, ecco che viene retroflessa, cioè viene fatta agire all’indietro, la punizione sul desiderio stesso. E dunque, è il desiderio che fin dall’origine contiene qualcosa di perverso: Dante vorrebbe esattamente evidenziare quella perversione che contamina l’origine stessa del desiderio. L’uomo deve stare al suo posto deve accettare il limite, quando diventa tracotante, incontra la punizione divina, “com’altrui piacque”. E dunque, deve rientrare nella misura. Questa è anche, del resto, la saggezza antica, stare nei confini.
Dunque, in questa seconda interpretazione, più religiosamente qualificata, è la radice stessa del desiderio che subisce la condanna, è da qui che si ingenerano tutti quegli equivoci che vogliono Ulisse all’Inferno per l’impresa dell’attraversamento. Mentre come voi già sapete, oppure saprete, vedendo la mostra, Ulisse non si trova all’Inferno per l’impresa del viaggio, né per il desiderio né per l’oltrepassamento delle colonne ma per gli inganni di cui si è reso protagonista prima di compiere l’impresa. Bene. Dicevo che ci sono tre interpretazioni, la terza, quella che noi abbiamo cercato di mettere in scena, non è né la prima né la seconda ma mostra che nell’Ulisse dantesco convivono, senza essere risolte, senza essere, diciamo così, o per un verso esaltate incondizionatamente e quindi senza vedere la follia del folle volo, né per l’altro verso catechizzate, un po’ addomesticate, con una sorta di catechismo nostrano, le punte troppo avanzate del desiderio dell’Ulisse dantesco convivono senza essere ridimensionate due istanze.
La prima, è una valorizzazione senza ombre del desiderio dell’umana statura. La seconda è la denuncia della tentazione in cui l’uomo sempre storicamente cade, pretendendo di identificare l’assoluto con una propria immagine e fissando la strada a tale assoluto. Ma il fatto che Dante non risolva questa tensione è alla radice del fascino della figura del suo Ulisse, che si trasmette da lui fino a noi con una freschezza che, se possibile, aumenta con il tempo, con una capacità di fascino che non si esaurisce. Ognuno di noi, infatti, si identifica nella definizione che Dante ci fornisce in poesia: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. E’ difficile spiegare questo fascino stigmatizzando l’Ulisse dantesco, pensando che Dante abbia voluto proporci questa figura per metterci in guardia da essa, per farci prendere distanza, è difficile pensare che sia questo l’intendimento di Dante. Noi avvertiamo questi versi come la definizione di noi stessi: e d’altra parte, l’Ulisse dantesco non è solo l’affermazione della strutturale e irriducibile aspirazione ad una conoscenza del mistero. L’Ulisse è anche la figura di quella rovina a cui va incontro l’uomo che tenti di soddisfare questa sete con le sue sole forze. Queste due istanze si intrecciano e non vengono sacrificate l’una dall’altra. Dante, infatti, non trascina nella punizione e nella follia né il desiderio né – qui occorrerebbe un supplemento di attenzione – la decisione di varcare le colonne. Fino al desiderio, è abbastanza facile condividere la tensione di Ulisse, dell’Ulisse dantesco, naturalmente. Ma con la decisione, si gioca qualcosa di più trasgressivo, inquietante, eccessivo.
Ebbene, Dante non condanna né il desiderio né la decisione. Faccio ricorso a delle espressioni che solo i filosofi cattivi utilizzano. In Dante, che Ulisse intraprenda il viaggio è folle, sì, ma di una follia che è più sana di ogni sanità. Questa follia è tale solo in rapporto a quella misura, a quella saggezza che vuole ridimensionare la natura dell’uomo, addomesticandolo. Dante non condanna il che del viaggio ma il come, cioè la scelta dei mezzi, grande distinzione che da Dante/Tommaso D’Aquino ci raggiunge. Il come, la scelta dei mezzi: Ulisse presume di raggiungere l’infinito fine con gli stessi mezzi con cui si perimetra il finito. La follia, dunque, non riguarda l’avere intrapreso il viaggio, ma l’aver preteso di misurare l’infinito con gli stessi mezzi con cui si tasta palmo a palmo il finito. Bene, questa è la fine del primo punto, come vedete ho speso un quarto d’ora.
Il secondo: Perché questo tema è così immediatamente riconducibile a quello del Meeting? Ma perché Dante con questo canto celebra l’esigenza più insopprimibile: quid enim fortius desiderat anima quam veritatem? Che cosa infatti l’uomo desidera più della verità? Si può vivere senza tante cose, ma non si può vivere senza il senso, senza il significato e la verità. Detta alla buona, l’esigenza della verità è l’esigenza del significato. Non si può vivere senza cogliere il significato di ciò che ci viene incontro, non sarebbe umano il rapporto con tutto, con niente, dunque, senza la verità, il significato. E Dante con l’ardore fa un passo definitivo nella direzione di una strutturalità: l’esigenza di conoscere, ma dinamicamente intesa, l’ardore. Strutturale l’esigenza, ma dinamicamente intesa, è motore, è scintilla, è dinamismo di ogni azione umana, la ricerca del vero. Anche sotto mentite spoglie, l’uomo è ricerca della verità in ogni atto che compie. Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore. E la dimensione in primo piano del cuore è l’esigenza della verità. Senza questa esigenza, non si capisce più nulla dell’uomo, anche se l’esperienza della verità si declina in tanti modi, anche se nel confronto tra le culture noi vediamo tanti cammini, tante storie, tante accentuazioni. Ma non si può comprendere nulla dell’agire umano, si resta ciechi all’umanità dell’uomo in azione, se non si comprende o coglie l’esigenza che Dante mette in scena con il suo Ulisse.
Terzo punto: la fonte. La fonte di questa nostra interpretazione è una grande fonte. Ma perché non fosse ovvio e, diciamo, subito riconducibile a una tranquillizzante sicurezza, ho atteso a dirla. La nostra grande fonte è una interpretazione di Luigi Giussani che tutti voi potete verificare di persona, leggendo soprattutto il XIV capitolo del suo libro più famoso che s’intitola Il senso religioso o l’Ulisse di Dante, il titolo è interscambiabile. E dice, leggo: “Ma lui, Ulisse, proprio per la stessa «statura» con cui aveva percorso il mare nostrum, arrivato alle colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che era anzi
come se la sua vera natura si sprigionasse da quel momento. E allora infranse la saggezza e andò. Non sbagliò perché andò oltre: andar oltre era nella sua natura di uomo, decidendolo si sentì veramente uomo”. La realtà, nell’impatto con il cuore umano, suscita la dinamica che le colonne d’Ercole hanno suscitato nel cuore di Ulisse e dei suoi compagni. I volti tesi nel desiderio di altro: per quelle facce ansiose e quei cuori pieni di struggimento, le colonne d’Ercole non erano un confine ma un invito, un segno, qualcosa che richiama oltre sé. Non perché andarono oltre, sbagliarono Ulisse e i nocchieri odisseici. Ulisse e i suoi furono folli non perché varcarono le colonne d’Ercole ma perché pretesero di identificare il significato, cioè passare l’oceano, con gli stessi mezzi con cui navigavano tra le rive misurabili del mare nostrum.
Ma allora, quarto punto, cosa è in gioco nella diversità possibile, legittima, variamente motivabile delle interpretazioni che ho schematizzato e delle altre possibili? Due punti fondamentali. Il primo: la concezione dell’uomo, una concezione antropologica. Dico subito il secondo, perché si intrecciano: una concezione del Cristianesimo, e lo dico che si sia cristiani oppure no, basta anche essere occidentali e si ha una determinata concezione del Cristianesimo. Perché le due cose sono strettamente connesse fra di loro? Qual è l’operazione che compiono coloro che, anche in una prospettiva e in buona fede cattolica, o religiosa, interpretano l’Ulisse come una figura negativa, cioè un modello da cui prendere distanza? L’operazione è ben esemplificata da un passo che non citerò, me ne servo solo per indicare la coppia di termini, è un passo di una straordinaria interprete di Dante, alla quale tutti noi dobbiamo moltissimo, la Chiavacci Leonardi che ha fatto uno dei commenti più belli, edito da Mondatori, della Divina Commedia.
Qual è l’operazione che viene fatta? Teniamo presente il punto, ho parlato di una concezione dell’uomo legata a una concezione del Cristianesimo. La Chiavacci, in un certo passo, dice: “Che in questo altissimo presumere e sfidare Dio stesso ci sia un peccato dei più gravi non sembra possa togliersi dal testo dantesco. Non è quello di Ulisse il semplice desiderio della conoscenza, che resta inappagato per la naturale insufficienza umana. Questa è una passione sulla quale si gioca la vita stessa, passione di dominare ciò che Dio ha sottratto all’uomo perché non l’abbia con la forza, ma con l’amore e con la grazia”. La Chiavacci Leonardi distingue desiderio e passione. Quindi, un conto è il desiderio di Dio, di conoscere Dio, un conto è la passione, la brama di conoscerlo. Ecco, se si pone una attenzione a questa distinzione, già lì si trova l’inizio di una interpretazione dell’uomo determinata. Perché la brama di conoscere tutto, in che senso è distinguibile dal desiderio di Dio? È un modo determinato, inconsapevole, forse, ma è uno dei modi in cui si esprime il desiderio di Dio, e a forza di distinguere un desiderio buono da uno che non lo sarebbe, occorre valutare la posta in gioco, se non si ottiene il risultato di ridimensionare il desiderio dell’uomo, come se il desiderio di Dio fosse scorporabile dal desiderio della verità totale, di tutto quello che si ha tra le mani e se non fosse identificabile con quel desiderio che nulla placa, nulla placa, di scoprire il segreto delle cose.
Una volta, Giussani usava l’immagine della barriera elastica, che si sottrae a ogni tentativo dell’uomo di afferrarla. Ma questo è il desiderio di Dio, forse non reso cosciente o non espresso in una maniera determinata. Attenzione, non voglio insistere troppo su questo punto perché c’è l’altro: una concezione del Cristianesimo. Perché le due cose vanno insieme? Per dire questo, io ho usato un’espressione di Proust, che dice che nella nostra vita noi confondiamo spesso i nostri perché con i benché. Diciamo benché e non ci accorgiamo che quello è un perché. E lo applico alla questione in gioco. L’operazione che fa Croce – e che fanno tutti gli interpreti che hanno bisogno di aggiustarsi le cose e che in fondo accettano anche coloro che da parte religiosa spiegano altrimenti una dicotomia che già ammettono – è distinguere il poeta dal teologo. Dunque, benché Dante fosse cristiano, ha esaltato il desiderio dell’uomo. Proustianamente, rovesciamo le cose e troviamo, a mio modo di vedere, la strada. Non benché ma perché: proprio perché Dante è cristiano, può esaltare il desiderio incondizionatamente. C’è una frase che ho sentito citare centinaia di volte, la ripropongo a voi che la sapete meglio di me: “Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo”. È la frase del rettore Mario Vittorino che, dai rostri di Sant’Ambrogio, annuncia pubblicamente la sua conversione. Ma in che consiste il guadagno? Nello scoprirsi finalmente uomo, cioè nella possibilità di sostare senza censure, senza paure, senza fughe davanti alla propria umanità. Non è solo questo, naturalmente, ma è anche questo. È solo nel rapporto con la presenza della risposta che il desiderio può liberarsi in tutta la sua profondità, non benché, ma perché. È perché Dante è cristiano che può accettare anche la perigliosità del desiderio, il carattere inquietante, smisurato, eccessivo, invece che toglierlo. E quale sarebbe il guadagno di smussarne le punte? Nessuno, perché renderebbe soltanto incomprensibile la rivelazione stessa, Dio stesso, il Cristianesimo stesso, l’incarnazione stessa. Perché Dio si dimostra già in quel carattere smisurato ed eccessivo del desiderio. Caligola direbbe: desiderio dell’impossibile. L’impossibile nella sua necessaria esistenza si dimostra già nel carattere smisurato di quel desiderio che ne è l’attestazione: il desiderio dell’infinito è la prima documentazione dell’esistenza dell’infinito. E così non avrebbe senso la rivelazione, che inizia con Abramo e che si compie nell’incarnazione, perché l’incarnazione è la risposta a quella domanda in qualunque modo espressa, a quella brama in qualunque modo vissuta, anche, come dice una bellissima citazione che mi dispiace di non avere raccolto, anche annegata, annegarsi nella disperazione della domanda. Dunque, ne va, nell’interpretazione di questo canto dell’Ulisse, di una concezione del Cristianesimo e dell’uomo, una concezione del Cristianesimo che ha paura dell’umano e che deve stigmatizzare l’umano e i suoi eccessi, oppure un Cristianesimo che esalta l’umano in ogni sua dimensione, che non ha bisogno di addomesticarlo per poter andare d’accordo con esso. Perciò, la grazia che è l’incarnazione, oltre quella creaturale, naturalmente. Perciò l’avvenimento dell’incarnazione ha bisogno dell’Ulisse e non ha paura del suo fuori misura, anzi, riconosce che quel fuori misura è una dimensione strutturale e dinamica.
Quinto punto – ho ancora quattro, cinque minuti, sono addirittura in anticipo -, la mostra, perché noi abbiamo naturalmente considerato l’interpretazione di Giussani come la nostra ipotesi di lavoro, ma l’abbiamo messa alla prova in largo e in lungo, perché da novembre in poi ci siamo sguinzagliati, una cinquantina di persone – i curatori che appaiono sono pochi per evitare un eccesso di inchiostro, lì nella pagina, ma una cinquantina di persone – si sono divise in gruppi e hanno sondato quello che noi abbiamo. Cosa abbiamo di Dante? Non abbiamo Dante, l’Emilia non è Dante a cui possiamo chiedere: scusa, ma cosa intendevi quando hai detto “fatti non foste”? Volevi prenderci in giro, volevi prendere in giro noi poveri mortali affinché ti seguissimo nell’impresa, oppure facevi sul serio, parlavi della natura dell’uomo? Dante in persona non c’è. Noi abbiamo le fonti, il testo, la storia delle interpretazioni. Le cinquanta persone si sono sguinzagliate per attraversare le fonti, il testo e la storia delle interpretazioni. E abbiamo notato con gioia che quella interpretazione dalla quale eravamo partiti era la più in grado di leggere, non solo quel Canto ma la Divina Commedia nella sua interezza. E dunque, dopo questo lavoro ci siamo misurati continuamente con tante obiezioni. Siamo stati lieti del lavoro fatto, soprattutto del lavoro fatto, ma non sarei completo se non vi dicessi come si è svolto il lavoro e che cosa abbiamo imparato o consolidato facendolo come coscienza di noi stessi. Primo: il lavoro è l’espressione di una piccola storia, perché coinvolte erano, sono quelle persone che da cinque, sei anni fanno una cosa che si chiama Esperimenti Danteschi, cioè si sono messi a leggere la Commedia. Simone Invernizzi è uno dei fondatori, sono tre: chi insegna, chi fa il dottorato, chi è all’estero. Loro hanno iniziato questo percorso e hanno fatto quella che all’inizio si doveva chiamare la cattedra che non c’è, perché la riforma universitaria, come voi sapete, aveva decurtato lo studio della Divina Commedia e quindi, dai cento Canti, si era passati ai ventiquattro, e dunque sembrava una mutilazione eccessiva. Loro erano studenti universitari con grande passione e hanno istituito la cattedra che non c’era, non c’era più. E quindi hanno fatto, ogni anno, la lettura integrale della Commedia. Come l’hanno fatta? Invitando a parlare dei professori con i quali hanno interloquito molto vivacemente. Adesso, Esperimenti Danteschi ha prodotto degli atti: una testimonianza del secondo ciclo è raccolta in volumi, in tre volumi che ci sono anche qui, oltre al catalogo. Ma perché ho detto questo? Perché vedrete che la mostra riproduce esattamente questo stile. Noi ci siamo posti questo problema: vorremmo fare una mostra che passasse in un attimo, che durasse quarantacinque minuti ma passasse in un attimo? Impresa che magari poteva essere realizzata. E dunque, pannelli, bellissimi, ovviamente, però… Video? Eh, un po’ freddo. No, né l’uno né l’altro, ma una mostra che accadesse lì davanti. Allora, come potevamo farlo?
Abbiamo riprodotto quello che è avvenuto in questi anni: discussioni fino alla morte, morte metaforica, e quindi tre sale. Un evento drammaturgico che si svolge in tre momenti, tre luoghi, tre sale. La prima sala è quella della proposta: il canto e poi le linee fondamentali dell’interpretazione che Simone Invernizzi e io, un po’ più rozzamente, abbiamo esposto adesso. E poi c’è la seconda, il momento della discussione. Ci siamo detti: come facciamo a rendere il confronto con tutte le interpretazioni possibili e le obiezioni – perché è all’Inferno, perché non lo è, eccetera – evitando che la gente fugga? Come facciamo? Insceniamo la discussione come l’abbiamo fatta tra noi, perciò è la sala della controversia. Vedete lì, un professore con degli studenti che battagliano fra loro, in modo molto civile perché è reso pubblico. E poi, l’ultima sala che ripropone l’interpretazione. Ecco, da dove viene questo stile? Viene dalla storia di questi anni, una storia di condivisone dell’ardore di conoscere, un ardore di conoscere che ci viene da una storia più grande nella quale siamo inseriti e siamo grati di essere. Grazie.

EMILIA GUARNIERI:
È bello che il Meeting, sempre di più, continui ad essere anche un luogo dove impariamo a fare scuola e ad andare a scuola. Ma pensate che ricchezza è avere dei professori così, e pensate comunque che ricchezza è, anche per chi non li avesse così a scuola o all’università, potere almeno guardare che cos’è un modo di studiare, di fare ricerca e di rischiare l’avventura dell’interpretazione anche di fronte alla poesia, anche di fronte all’arte. Veramente, una grande testimonianza. Non vi invito ad andare a visitare la mostra, naturalmente, perché dopo un incontro come quello di stamattina penso sarà una delle mostre in cui più faticosamente riusciremo ad entrare. Prima di augurarvi buon pranzo, volevo solo sottolineare un evento che oggi pomeriggio il Meeting ospita: credo che sia uno degli eventi forse più radicalmente importanti di questo Meeting, sicuramente un evento storico. Il Meeting oggi pomeriggio ospita l’incontro tra il cardinale Erdö, Primate d’Ungheria e Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, e Sua Eminenza il Metropolita Filaret, il Metropolita di Minsk, Esarca Patriarcale di tutta la Bielorussia. Filaret è una delle più grandi personalità dell’Ortodossia, alcuni di noi forse hanno avuto anche occasione di conoscerlo direttamente, il Cardinale Erdö è una delle figure più autorevoli della ecclesiasticità europea. Un incontro storico, proprio perché è un incontro con una profonda valenza ecumenica. Il fatto che tanto il Cardinale Erdö quanto Filaret abbiano accettato di incontrarsi pubblicamente, a pochi mesi da un grande incontro ecumenico, e che lo facciano qui al Meeting, ci carica oltretutto di una responsabilità e dell’esigenza di una consapevolezza proprio storica, ecclesiale, di quello che oggi pomeriggio, in questa sala, alle 17 accade al Meeting. Ecco, ve lo volevo sottolineare perché non possiamo lasciarci sfuggire la portata storica delle cose che ci accadono così da vicino. Grazie e a oggi pomeriggio.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

23 Agosto 2010

Ora

11:15

Edizione

2010

Luogo

Salone B7
Categoria
Testi & Contesti