L’UNICITÀ DEL LINGUAGGIO UMANO

L'unicità del linguaggio umano

Partecipano: Andrea Moro, Professore di Linguistica Generale presso la Scuola Superiore Universitaria ad Ordinamento Speciale IUSS di Pavia; Giorgio Vallortigara, Professore Ordinario di Neuroscienze presso il Centre for Mind/Brain Sciences dell’Università degli Studi di Trento. Introduce Marco Bersanelli, Professore Ordinario di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.

 

MARCO BERSANELLI:
Bene, buongiorno a tutti, ce l’abbiamo fatta! Qualche piccolo problema tecnico… se c’è un tema affascinante, misterioso, semplice e al tempo stesso inesauribile è proprio quello del linguaggio umano. Non c’è in effetti un’esperienza più elementare di questa nostra capacità di usare il linguaggio, di esprimerci con la parola. Ne facciamo uso quotidianamente, ne sto facendo uso io ora. Ma dal punto di vista della ricerca scientifica quale sia la natura del linguaggio è un problema talmente profondo che forse solo oggi con molta difficoltà si sta incominciando a capire qualcosa, ma certamente molto di più è quel che ancora non si comprende. È un tema che abbiamo già affrontato qui al Meeting altre volte e abbiamo voluto ritornare su questo argomento perché come vedremo è profondamente legato proprio al tema di questo Meeting. Noi tutti ci rendiamo conto che da una parte il linguaggio appare essere una prerogativa dell’uomo, del nostro essere uomini; d’altra parte ci rendiamo tutti conto anche che certi animali in qualche maniera, in qualche misura rudimentale finché si vuole comunicano senz’altro fra di loro. Oggi anche le macchine in qualche senso hanno un linguaggio, anzi sicuramente lo hanno, parliamo di linguaggi diversi con cui noi comunichiamo con le macchine e le macchine a loro volta ci danno delle risposte in qualche senso. Ma appunto, in che senso? Addirittura oggi sappiamo che ci sono macchine che spontaneamente tendono a comunicare tra di loro, è una notizia molto recente. Sono nuove domande che emergono. M allora che cos’è il linguaggio umano? È soltanto una versione quantitativamente più estesa, un po’ più sofisticata del linguaggio animale, in generale? Oppure una sorta di variante tra le mille possibili dello stesso tipo di linguaggio con cui le macchine possono comunicare? Oppure nell’uomo c’è un salto qualitativo, che lo rende qualcosa di unico nel panorama naturale? E poi, per noi esseri umani, il linguaggio è solamente un modo di comunicare o ha a che fare con la possibilità stessa del pensiero, con la nostra capacità di riconoscere e di cercate il senso delle cose? E fino a che punto l’indagine scientifica con la sua metodologia è in grado veramente di affrontare fino0 in fondo e di cercare una risposta a queste domande? E a che punto siamo dal punto di vista della ricerca scientifica su questo? A condurci al cuore di questi interrogativi oggi abbiamo due ricercatori italiani, ma che sono due ricercatori di fama internazionale. Andrea Moro e Giorgio Vallortigara. Li ringraziamo per essere con noi oggi. Andrea Moro è Professore di Linguistica Generale presso la Scuola Superiore Universitaria ad Ordinamento Speciale IUSS di Pavia, che recentemente è stata federata con la Scuola Normale di Pisa e con la Scuola Sant’Anna. È studioso del rapporto tra la struttura delle lingue umane e il cervello. È stato visiting scientist al MIT e alla Harvard University, è stato tra i fondatori del dipartimento di scienze cognitive della Fondazione San Raffaele a Milano, nonché presidente del corso di laurea in Neuroscienze cognitive. Studiando il verbo essere – è il suo grande cavallo di battaglia – studiando il verbo essere ha scoperto strutture simmetriche nelle lingue umane, poi penso che ci dirò qualcosa a riguardo, e utilizzando le grammatiche artificiali ha fornito prove sperimentali che le regole del linguaggio sono condizionate dall’architettura neurobiologica del cervello, la struttura del cervello in rapporto al linguaggio. Ha pubblicato numerosi articoli sulle più importanti riviste scientifiche e Andrea non è solo un grande scienziato, è anche un grande divulgatore, ha scritto numerosi libri, tra cui “I confini di Babele”, “Parlo, dunque sono”, “breve storia del verbo essere”, appunto e “Le lingue impossibili” e vi confido, perché mi ha dato il permesso, che Andrea sta scrivendo, anzi ha già scritto e presto uscirà un romanzo giallo da lui scritto, quindi penso che saranno cose interessanti. Andrea tanti di noi lo conoscono già per me è un grande amico, ed è un compagno del Meeting da moli anni, gli dobbiamo molto per questo tema che ha portato al Meeting, è intervenuto diverse volte e ricorderete due anni fa insieme in quel memorabile evento insieme a Noam Chomsky.
Andrea, tanti di noi lo conoscono già, è per me un grande amico. Ed è un compagno del meeting da molti anni. Gli dobbiamo molto per questo tema che ha portato al meeting
È intervenuto diverse volte, ricorderete due anni fa insieme in quel memorabile evento insieme a Noam Chomsky.
Giorgio Vallortigara è invece professore di neuroscienze presso il Center for Mind/Brain Sciences alla Università di Trento di cui è stato anche direttore tra il 2012 e il 2015. Attualmente è prorettore alla ricerca all’Università di Trento.
È stato adjunct professor alla School of biological, biomedical and molecular sciences alla University of New England in Australia ed è uno dei massimi esperti di cognizione animale e delle sue basi neuronali.
Ha dato dei contributi importanti, fondamentali allo studio della asimmetria del cervello, della cognizione dello spazio, degli oggetti e del numero negli animali e di nuovo vedremo dal vivo quasi potremmo dire, no?, esempi di questo che ci faranno riflettere e ci porteranno più al cuore del problema.
Suoi numerosissimi lavori sono pubblicati nelle maggiori riviste scientifiche internazionali. È membro di varie società scientifiche , ha ottenuto vari premi che ora non sto ad elencare.
Dico solo che il più recente che lo scorso anno ha ricevuto la laurea honoris causa alla Università di Ruhr in Germania e anche lui oltre alla ricerca scientifica svolge una intensa attività di divulgazione collabora con diverse pagine culturali di quotidiani, di riviste qui in Italia ed è autore di diversi libri. Solo per citare i più recenti: “La mente che scodinzola”, dice tutto, “Cervelli che contano” oppure “Equivoci tra noi animali”.
Ecco, io incomincio dando la parola ad Andrea Moro.
Grazie.

ANDREA MORO:
Grazie Marco e grazie a voi per la vostra presenza.
Dunque, mi permetto di iniziare questo incontro scientifico con una osservazione che appartiene più alla tradizione letteraria.
Quando un autore vuol far capitare qualcosa di insolito al suo protagonista, gli fa ricevere un’eredità. Perché? Che cos’ha un’eredità di prototipico?
È inaspettata, è gratuita, è immeritata e cambia il destino di una persona.
Ora, se noi guardiamo queste proprietà (inaspettata, gratuita, immeritata, che cambia il destino), ci viene da dire che la nostra vita è un’eredità, è tutta un’eredità.
Soltanto che non ci capita spesso di rendercene conto, anestetizzati come siamo dall’acqua in cui viviamo.
Allora quello di cui vi vorrei parlare oggi è un’occasione che ci da la vita per capire davvero in che senso noi ci troviamo nella condizione di dover riguadagnare qualche cosa che noi riceviamo in eredità.
E questa occasione ci rende in un certo senso protagonisti per forza.
Non possiamo sottrarci a questo evento.
L’evento a cui faccio riferimento è il fatto che noi esseri umani nasciamo senza conoscere una lingua; partendo da zero, abbiamo qualche anno per uscire dall’infanzia, termine magnifico che vuol dire esattamente incapacità di parlare, apprendendone almeno una. Poi, nei contesti di linguis siamo fortunati, ne possiamo apprendere più di una
Dunque l’apprendimento del linguaggio è in un certo senso un’esperienza prototipica in cui noi ci troviamo nella situazione di doverci riguadagnare qualche cosa che abbiamo in qualche modo ereditato.
Naturalmente parlare di linguaggio è un po’ come un fisico parlare del mondo: bisogna scegliere necessariamente una prospettiva, non possiamo parlare di tutto, sennò non faremmo scienza.
Allora cosa facciamo nel caso del linguaggio? Scegliamo una delle proprietà del linguaggio e la facciamo diventare una specie di fenomeno guida per farci capire qual è la struttura e qual è la necessità della nostra esperienza.
Il fenomeno che noi, che io ho inteso mettere in luce in questa discussione , in questa presentazione insieme a voi, è questa capacità straordinaria che noi esseri umani abbiamo di ricombinare degli elementi finiti in un modo infinito.
Ci sono tanti livelli in cui questa cosa funziona.
Per esempio, gli esseri italiani hanno circa ventisette/ventotto suoni che corrispondono un po’ compressi alle ventuno lettere del nostro alfabeto.
Noi queste lettere le ricombiniamo per formare le frasi, per formare delle parole innanzitutto.
È interessante vedere quantitativamente cosa ci troviamo di fronte.
Nel caso di una parola per esempio come “sostenevano”, un parola di undici lettere, Marco, pensa che il numero delle combinazioni possibili di parole con undici lettere dell’italiano raggiunge delle cifre paragonabili a quelle con cui hai a che fare tu di solito: sono diciotto milioni di miliardi di parole possibili.
E noi siamo capaci di sceglierne una e di costruirla rendendola in modo comunicativo.
In realtà l’impronta digitale della mente umana si disvela nel linguaggio proprio nella capacità di generare significati infiniti ricombinando gli elementi, ma in modo preferenziale non tanto ricombinando le lettere dell’alfabeto, i suoni, ma ricombinando le parole.
Anche in questo caso voglio cavarmela con un esempio
Immaginiamo di avere un micro-dizionario fatto solo di tre parole: uccise, Abele e Caino.
Noi esseri umani siamo bravissimi a generare due frasi possibili da questo dizionario: Caino uccise Abele, Abele uccise Caino.
Due storie opposte, le stesse parole, l’ordine diverso, genera due significati diversi.
Ecco, noi esseri umani siamo gli unici esseri viventi che ricombinando gli stessi elementi., le stesse parole, possono generare significati nuovi.
Questa non è una scoperta recente. Il fatto che la sintassi, cioè la capacità di ricombinare le parole per generare frasi sia un fatto umano e solo umano lo sapeva anche Cartesio
Sentite cosa dice dalle sue parole proprio nel “Metodo” , uno dei suoi testi principali:
“Non esistono persone [..] che non siano capaci di disporre insieme delle parole e con esse comporre un discorso con il quale far intendere il loro pensiero. Ed al contrario non esiste un altro animale tanto perfetto o posto in una condizione tanto favorevole da poter fare una cosa simile”
Capite che io sono arrivato ad un bivio: da una parte si presenta l’analisi del linguaggio umano, dall’altro quello animale, ed è il motivo per il quale ci siamo suddivisi quest’incontro nelle due prospettive.
Quindi sugli animali non dirò niente di più se non la citazione di un esperimento che mi sta a cuore, condotto tra l’altro da una persona che è anche una mia cara amica che è Laura-Ann Pettito, malgrado il cognome anglofono è canadese, che in un famoso esperimento negli anni settanta, condotto alla Colombia University, insegnò il linguaggio dei segni a una scimmia che si chiamava Nim Chimpsky, ogni assonanza è puramente casuale.
E questo cucciolo di scimpanzé imparava le parole come le imparavano i bambini; arrivò fino a centoventotto parole. Ma quando si trattava di generare il significato, mettendo le parole in ordine diverso, su diciannove mila frasi non una cambiava significato per l’ordine.
Dunque immaginiamo di voler seguire dunque all’interno del linguaggio questa capacità di ricombinazione di parole come linea guida per capire che cos’è questo oggetto misterioso di cui tu parlavi che stiamo utilizzando in questo momento tra di noi.
Per farlo, anche in questo caso ho scelto un esempio perché ho sempre avuto la sensazione che nelle presentazioni in pubblico si debba arrivare, seppur semplificando, però arrivando a dare una idea concreta di quello che sta dietro, perché la semplice allusione non convince mai. Allora vi faccio questo esempio.
Capirete dopo perché è l’immagine è storta.
Immaginiamo una frase;
[Ugo corre].
Abbiamo un nome e un verbo. A un altro livello di analisi diremmo che abbiamo un soggetto e un predicato, cioè abbiamo una frase in cui due parole sono vicine, si tengono bene insieme e formano una frase.
O noi possiamo dire anche [Ugo [che Ada conosce] corre].
Cosa abbiamo fatto? Abbiamo costruito un’altra frase, l’abbiamo immersa all’interno della prima.
Ma non ci fermiamo:
possiamo anche dire [Ugo [che Pietro dice [che Ada conosce] corre]].
[Ugo [che Isa sa [che Pietro dice [che Ada conosce] corre]]].
Vedete, la slide finisce quindi non andrò avanti di molto, però ancora una concedetemela:
[Ugo [che Peo sostiene [che Isa sa [che Pietro dice [che Ada conosce] corre]]]].
Nessuno normale dirà mai una frase del genere, in amicizia, sennò si perde l’amicizia, a meno di non conoscere linguisti.
Però al di là di questo, no, c’ho dei trucchi, non invitate mai a cena un linguista sennò vi rasserena con le sue battute, però la cosa interessante è che noi possiamo far emergere la struttura profonda che sta dietro questi esempi.
C’è prendendo due parole qualsiasi X e Y noi possiamo inserire, a patto da sceglierlo bene, tanto materiale della stessa qualità di quello in cui è inserito.
Vedete, in questa formula che avete alle spalle,
[ X …. Y ] [ X … [ Z … W ] … Y ] voi avete il cuore di tutte le lingue umane: la capacità di prendere una struttura e di metterla all’interno di una struttura dello stesso tipo.
Voi capite bene che nel momento in cui adottiamo un elemento di questo tipo cioè che X e Y sono in condizione di accordarsi, per esempio uno si accorda con corre, e di poterla estendere quanto vogliamo, vuol dire che noi possiamo, in teoria, avendo una memoria infinita, produrre un enunciato infinito.
Noi non lo facciamo perché abbiamo dei limiti di memoria, ma il cuore delle nostre grammatiche è questa produzione infinita.
Lo faccio sotto voce, aprendo una specie di micro-finestra nel discorso.
Ci sono altri due domini cognitivi, con cui magari a qualcuno viene in mente subito di fare un paragone, in cui l’uomo fa la stessa cosa, e sono la matematica e la musica.
Forse nel medioevo si conosceva meglio la mente dell’uomo perché matematica, musica e grammatica sono le tre condizioni cognitive in cui noi esseri umani sappiamo rimanipolare elementi finiti per costruire strutture potenzialmente infinite.
Ma che cosa ricaviamo noi da questo dato così appariscente che tra l’altro può essere riprodotto, invece che con le frasi, con i nomi Giovanni, il figlio di Giovanni, un amico del figlio di Giovanni , la sorella di un amico di un figlio di Giovanni , il cugino della sorella dell’amico del figlio di Giovanni (dopo mi fermo perché appunto la memoria è breve)?
Otteniamo il principio fondamentale della sintassi nelle lingue umane
Qual è ?
Ci dice che nessuna regola di una lingua umana può basarsi sulla posizione di una parola in una sequenza.
Perché?
È evidente! Siccome io posso estendere la mia struttura inserendo del materiale, sarebbe stupido fare una regola che dice “fai qualcosa alla prima parola e alla settima” perché posso sempre mettere dentro al mezzo una frase che la allunga.
E quindi nessuna regola si basa su un principio di questo tipo.
Cosa succede quando uno scienziato trova una regola che descrive un fatto del mondo?
Immediatamente prova a costruire l’opposto.
Allora il principio fondamentale della sintassi ci dà anche le istruzioni per costruire una regola linguistica impossibile.
È un po’ quello che succede quando chi si occupa di arte visiva fa una cosa come questa qua:

Immagine

Io tra tutte le immagini che ho trovato questa è l’unica in cui non riesco a capire dove il dado è stato tagliato per combinarla con un’altra.
Comunque, proviamo a vedere insieme come si costruisce una regola impossibile.
Abbiamo una frase: “Pietro legge libri”
Poi il nostro stesso soggetto produce “Pietro non legge libri”.
Un marziano calao sulla superficie terrestre che sente queste frasi dice: “ho capito la regola della negazione che usano i terresti: si mette il non come seconda parola”.
E noi ridiamo perché se invece che “Pietro” fosse “mio fratello legge libri” capite che la frase non sarà “mio non fratello legge libri” ma “mio fratello non legge libri”
Perché? Perché il soggetto è diventato di due parole e ha schiacciato fuori la negazione che è diventata una terza parola.
Però noi abbiamo una regola di questo tipo.
A questo punto noi arriviamo alla scoperta non solo di regole impossibili ma alla scoperta più importante del Novecento dal punto di vista linguistico, cioè che non tutte le regole concepibili si realizzano nella lingua del mondo.
Babele esiste, ma in qualche modo ha dei confini.
È vero che le lingue possono non essere comprensibili une alle altre ma non possono variare a piacere.
E tutte le volte che io nella realtà trovo una restrizione, automaticamente nasce una domanda. C’è una assenza che ci sfida.
Questo è molto interessante dal punto di vista scientifico.
Perché siamo abituati i a pensare che la scienza riguardi ciò che vede, ciò che c’è.
C’è un bellissimo slogan di un premio Nobel per la fisica Perrin che dice che il compito della scienza è di tradurre il complesso visibile nel semplice invisibile.
In qualche modo l’assenza è ciò che va spiegato dalla scienza.
E qual è l’assenza che ci sfida?
L’assenza che ci sfida è chiederci d a dove nascono i confini di Babele. Sono convenzionali? O dipendono da come siamo stati progettati? Il fatto di non aver regole fisse di questo tipo, e naturalmente rispondere a questa domanda equivale a capire la natura profonda dell’eredità linguistica, è un’eredità che noi possiamo in qualche modo riscattare imitando o siamo costruiti in modo tale per cui non possiamo evitarla e quindi, in questo senso, siamo in qualche modo facilitati?
Capite che un punto di questo tipo ha una posta in gioco enorme.
Rispondere a questa domanda, e nessuno ce l’ha fatta ancora completamente, equivale, in fondo, a fare un passo in avanti sul problema dell’evoluzione dell’essere umano rispetto agli altri esseri viventi enorme. Ovviamente come in tutti i tentativi di spiegazione ci sono dei tentativi falliti: io ne ho enumerati cinque, sono cinque illusioni., Guardate, non sono stupidaggini, sono vie che verosimilmente andavano indagate, semplicemente nono sono vie che hanno prodotto dei risultati positivi, ma che anzi hanno fatto capire che queste vie non sono quelle che noi dobbiamo utilizzare. Ne tratterò di queste vie…prima le enumero, poi ho pensato d’accordo, insieme, di lasciare una trattazione dettagliata nello spazio vuoto che viene allestito all’interno della mostra di Euresis, nello spazio Euresis che, tra l’altro ci vedrà di nuovo proseguire questo incontro più tardi, però voglio parlarvene lo stesso: sono le illusioni del significato, cioè l’dea che le regole della sintassi siano in qualche modo deducibili dai significati; questo sembrerebbe del tutto ragionevole – cosa se non il significato ci può dare delle regole – eppure è stata un’illusione. Secondo: l’illusione del gesto: qui viene pertinente la posizione della mia mano sinistra. Qualcuno ha pensato che siccome quando noi parliamo gesticoliamo – poi non è vero che gesticolano solo gli italiani, provate a vedere, ci sono dei filmati bellissimi con Trump che sembra suonare la fisarmonica su Youtube, non so se si può dire o no, però lo dico lo stesso, perché tanto ci sono e sono molto divertenti, tutti gesticolano – qualcuno ha pensato che il fatto che noi utilizziamo le mani per gesticolare potesse essere l’origine dell’evoluzione del linguaggio, cioè che il linguaggio sia un’evoluzione, un’emancipazione del gesto. Anche in questo caso secondo me, si tratta di un’illusione. Poi c’è l’illusione della macchina, cui facevi già riferimento tu, l’idea che la macchina, quindi la simulazione sia il modo per capire la funzione, un po’ come se io facendo fare un’addizione al mio calcolatore ammettessi che quello che succede ne chilo e mezzo di roba molliccia che sta dentro la mia testa, che si chiama cervello, fosse uguale a quello che accade qui dentro. Poi c’è anche l’illusione dell’ingegneria inversa, un termine che ho trovato solo di recente nella letteratura scientifica e vuol dire capire una struttura a partire dalla funzione. Anche in questo caso non sembra esserci possibilità, E poi l’illusione della storia, cioè che tutto possa spiegarsi semplicemente come una concatenazione di fatti storici. Ora, io ho detto che non voglio trattare tutti questi elementi insieme ora, però non voglio sottrarmi alla possibilità di far riferimento almeno a due, quella del significato e quella della macchina. Per farlo vorrei, nell’illusione del significato (li ho messi in rosso perché così sembra veramente la via del diavolo), questa via infernale del cercare di capire come funziona la sintassi, in realtà vorrei condividere in un certo senso in modo sperimentale con voi: io vi do una frase, che è questa: “vogliono sentire questa infermiera prima di contattare quel primario”. A voi chiedo di costruire una frase interrogativa in cui la domanda sia posta sull’infermiera. Dunque la frase quale sarebbe? “Quale infermiera vogliono sentire prima di contattare quel primario?” La frase è possibile. Ora provate a far la stessa cosa su “primario”. Guardate cosa viene fuori: “Quale primario vogliono sentire questa infermiera prima di contattare?” Parlo così alla terza birra (e io sono astemio). Ecco, pensate, capire perché la terza frase è grammaticale è difficilissimo. Non può essere una questione relativa al verbo “contattare” perché si può dire “chi pensano che vogliano contattare?, non può essere qualcosa relativa al fatto che sia un infinito, insomma, la comprensione che c’è ed è quasi al cento per cento della grammaticalità di queste frasi ci fa capire due cose: primo, che ci sono degli errori che noi non capiamo; secondo, cosa ben più importante nessun bambino commette un errore del genere nel procedere verso la propria grammatica, come se qualcosa dentro di lui facesse escludere strutture di questo tipo. Un altro caso che ha avuto anche un ruolo sperimentale importante nella esperienza che ho fatto io proprio al San Raffaele con il gruppo che comprendeva Stefano Cappa, Daniela Perani, Marco Tettamanti, eravamo una vera squadra, è utilizzare parole senza pensieri. Si può, poi c’è una meravigliosa simmetria, non c’entra con quello che dirà dopo Giorgio, però anche in questo caso voglio condividere con voi l’esperienza, nella speranza che non entri nessuno proprio adesso, perché se no si trova a leggere che “il gulco gianigeva le brale”, non ditelo a nessuno, ma voi, anche se il vostro cervello in questo momento sta impazzendo perché c’è un’onda che sta scannerizzando il vostro dizionario rapidamente e scopre che non sanno cos’è un “gulco” (spero, perché poi c’è un dialetto riminese in cui il “gulco” è una roba indicibile, poi sottotitolate) e mi immagino i traduttori simultanei ora cosa stanno facendo, è uno scherzo che faccio alle volte, state tranquilli. Comunque anche se voi non sapete che cosa vuol dire “il gulco gianigeva le brale”, se io vi dico che invece di un gulco ne ho visti due, la frase come sarà? “I gulchi gianigevano le brale”. Mai sentito, ma voi siete in grado di trasformare la struttura, non solo, se volete metter l’accento sul complemento oggetto e quindi costruire una frase passiva, voi direte che “le brale sono state giangiate dai gulchi” e ne siete convinti, è questo quello che ti fa tremare in realtà. Questo per dirvi che anche in assenza totale di significato permane comunque la capacità di manipolare le parole in una sequenza dandole ona coerenza sintattica. Arriviamo alla macchina. La questione della macchina è una questione molto interessante. Cercare di far parlare le macchine è utilissimo, pensate ai call center, pensate a quella signorina a caselli autostradali, pensate a tutti i casi in cui un essere umano non ha vogli a di ripetere la stessa cosa e vuol far dire a una macchina, benissimo; sto dicendo che però un conto è far fare un lavoro a una macchina che simula un qualcosa che non vuol fare l’uomo, un conto è capire come funziona l’uomo. C’è un dato molto interessante: ascoltando una media di venticinque milioni di parole, a tutti noi nei primi cinque anni di età è capitato di apprendere la propria lingua madre. Son circa cinque milioni di parole all’anno, si converge attorno a questa cifra qui. C’è un esperimento in corso tutt’oggi con lavori anche pubblicati, in cui si vede che una macchina, anche se esposta a trenta miliardi di parole, non riesce a convergere neanche a un frammento della grammatica cui converge un bambino. Quindi, comunque il tipo di stimolo di cui ha bisogno un essere umano è infinitamente più piccolo di quello di una macchina per arrivare alla costruzione di un grammatica. Naturalmente il fatto che una macchina possa in qualche modo parlare non è innocente dal punto di vista filosofico e dal punto di vista della osservazione sulla natura dell’uomo. Voglio far parlare, in questo caso, un testimone oculare di un momento storico, sono gli anni Cinquanta negli Stati Uniti, siamo a Boston, sono gli anni in cui si formava Chomsky, uno dei maestri, farò parlare citandolo un logico israeliano, Yehoshua Bar-Hillel che assisteva a questo tentativo di utilizzare tutto quello che si era accumulato durante la guerra, sapete nella guerra il progetto Enigma, insieme al Manhattan e al progetto Radar erano le due cose per far vincer la guerra. Il progetto Enigma era tradurre i comunicati dei nazisti in un modo esplicito, trasparente e lì utilizzarono una macchina per tradurre era diventata –a naturalmente c’è voluta la testa di Turing per capire come funzionava, però c’era l’illusione di utilizzare le macchine per tradurre. Guardate cosa dice Yehoshua Bar-Hillel: “C’era al laboratorio [MIT] la convinzione generale e irresistibile che con le nuove conoscenze di cibernetica e con le recenti tecniche della teoria dell’informazione si era arrivati all’ultimo cunicolo verso una comprensione completa della complessità della comunicazione nell’animale e nella macchina”. Siamo negli anni Cinquanta: comprensione completa animale-macchina. Intanto la prima cosa importante è che l’uomo è sparito. Animale-macchina, non ci siamo più, siamo l’uno o l’altro, verosimilmente animali, ma è sparito e non solo quindi c’è una doppia fiducia, primo di aver capito tutto, secondo quello che in realtà non pertiene all’uomo in quanto uomo, ma in quanto a meccanismo che può essere organico o in qualche modo inorganico. Siccome cantar vittoria porta sfortuna nella scienza, come è capitato nella fisica alla fine dell’Ottocento – basta mettere a posto i decimali delle costanti newtoniane e siamo a posto, Einstein e Planck hanno girato la situazione – quello che voglio dire è cosa resta dell’impossibile, vi presenterò un principio che oserei chiamare elementare: “Quante volte ti ho detto che, una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”. E’ il grande Sherlock Holmes che enuncia in vari punti dei suoi racconti questa idea. In qualche modo fu proprio Noam Chomsky a cogliere questo residuo dell’impossibile per costruire un’ipotesi alternativa. Prese tre ingredienti: la complessità delle lingue, l’abbiamo sperimentata, e l’impossibilità di capire come mai va male con la struttura grammaticale; l’invarianza, il fatto che la struttura grammaticale che vi ho fatto vedere prima va male in tutte le lingue, anche nelle lingue in cui non esiste l’elemento interrogativo spostato a sinistra come il cinese, ad esempio – questo fu una delle grandi scoperte di Jin Huang negli anni Ottanta; terza cosa, i bambini anche se a noi sembra che alcune lingue siano più difficili di altre, ci mettono mediamente lo stesso tempo per apprendere la lingua madre. Chomsky mise insieme questi tre fatti e facendo parlare ancora una volta lui, una frase di questo tipo l’ha detta proprio qui al Meeting in una forma forse più sofisticata, ma la possiamo riprendere in un libricino che si chiamava “Syntactic Structures” scrisse: “Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano delle grammatiche sostanzialmente comparabili, di grande complessità e con notevole rapidità, suggerisce che gli essere umani siano in qualche modo progettati in modo speciale […] con una capacità di natura misteriosa”. I bambini progettati e il mistero. Fanno l‘ingresso nella scienza tre elementi inaspettati, i bambini, addirittura non l’uomo ma i bambini, cioè la versione meno sofisticata della nostra capacità cognitiva, apparentemente, il progetto – naturalmente parla un laico, parla di un progetto biologico – e il mistero. Avere il coraggio di nominare il mistero della scienza vuol dire far capire di aver capito, di non millantare credito. Naturalmente questa situazione non può, tenendo conto di quello che abbiam detto, porre la domanda delle domande, almeno relativamente alla sintassi: dove sono i confini di Babele? Le lingue impossibili, come si diceva prima, sono tali per convenzione o per caso oppure sono l’esito di un progetto geneticamente determinato ? Vedete, questo tipo di domanda, fino agli anni Ottanta rimaneva una domanda interessante ma sulla carta, perché in qualche modo non era possibile produrre delle evidenze sperimentali per dare un qualche tentativo non di risposta completa – non ne esistono in questo settore, almeno nel mio, di risposte complete – ma almeno che escludano altre possibilità o che ti diano qualche suggerimento interessante. Solo che la nostra epoca è un’epoca per certi versi meravigliosa, tristissima per altri, soprattutto dal punto di vista etico, ma dal punto di vista scientifico sembra che sia la prima volta che noi vediamo la terra dalla Luna, chi l’avrebbe mai detto? Questa ipotesi era rimasta nel romanzo greco. E poi siamo anche la prima volta che gli esseri viventi possono vedere un cervello senza aprire la testa, cioè in qualche modo noi possiamo andare oltre la comprensione del cervello tramite la patologia. Il cervello che vedete è uno tra i più famosi del mondo, il cervello di un ragazzo francese che nella metà dell’Ottocento smise di parlare pur avendo tutta la capacità gestuale e mimica di comporre delle frasi e aveva una sola parola, “tan”; questo ragazzo si chiamava Tano (tan-tan), aveva un rammollimento descritto nell’emisfero frontale sinistro, chi scoprì questo rammollimento si chiamava Broca e l’area di Broca è diventata uno degli elementi che entrano in gioco nella comprensione del linguaggio. Ora noi non abbiamo più bisogno di aspettare solo la patologia, ora è possibile valutare indirettamente l’attività cerebrale in soggetti sani tramite la misura del consumo di energia associato al flusso ematico. Badate, non vuol dire capire come funziona il cervello, vuol dire avere un’indicazione sugli aspetti metabolici del cervello su cui poter ragionare e questo di fa per esempio con la risonanza magnetica nucleare. Veniamo in un certo senso a una delle questioni centrali di cui vi parlo oggi, cioè la relazione tra quello che vi ho detto sulle regole impossibili e sul cervello. L’esperimento che vi descrivo è un esperimento a cui ho preso parte con dei ricercatori di Amburgo e di Jena, tra cui Maria Cristina Musso, che è proprio un’allieva di Stefano Cappa, che ho nominato prima. Abbiamo preso un gruppo di parlanti e senza informarli di quello che stava dietro gli abbiamo detto – erano tedeschi, tedescofoni, parlavano solo il tedesco – vi insegniamo l’italiano e il giapponese. Non gli abbiamo detto che tra le regole che gli insegnavamo c’erano delle regole impossibili. Poi cosa abbiam fatto? Abbiamo insegnato loro la lingua e siamo andati a verificare quanto avevano imparato le lingue, quindi abbiamo fatto una specie di graduatoria di padronanza e si vedeva che man mano che vanno avanti le lezioni gli studenti diventano sempre più bravi. Poi cosa abbiam fatto? Siamo andati a correlare la bravura con l’aumento di flusso ematico nell’area di Broca, proprio quell’area che è coinvolta nel linguaggio e abbiamo trovato il dato che ci ha permesso di trarre le conclusioni che vedremo qui insieme., Quando si tratta di regole possibili, più di venti “Bravo”, cioè più ti sposti verso destra sull’asse orizzontale, più viene richiamato sangue nell’area di Broca, cioè avete un andamento di questo tipo, ma con le regole impossibili? Succede alla rovescia, il cervello riconosce che non sono regole dentro il confini di Babele, le scarta e quindi progressivamente lascia che l’area di Broca non utilizzi energia per calcolare. Dunque i confini di Babele sono espressione della nostra carne, l’assenza di alcuni tipi di regole nelle lingue del mondo non può essere un fatto totalmente convenzionale, culturale e arbitrario, perché si correla con l’attivazione di reti diverse nel cervello, che ovviamente non possono essere soggette a convezioni. Voi non potete la mattina dire: domani uso il mio emisfero sinistro, dopodomani quello destro. Qualcuno forse…va beh, lo diciamo un’altra volta, però normalmente si usa tutto il cervello per ragionare e soprattutto non si disattiva poco per volta. A questo punto, vedete, il bello della ricerca scientifica, non sta nelle risposte, ma nelle domande nuove. Io spero che la prossima domanda suoni nuova come è suonata nuova a me. All’inizio del mio lavoro la domanda che sto per fare non avrebbe avuto senso e invece ora sì e uno si può chiedere, dire: ma perché c’è la sintassi’? E uno dice come perché?… Sì, perché esiste la sintassi? Vedrete che ha a che fare con l’eredità. Per farvi capire perché esiste la sintassi la prendo alla larga e voglio che coi riflettiate un secondo sull’arcobaleno. Cosa vuol dire vedere l’arcobaleno? Vuol dire che l’occhio umano è sensibile non a tutta la gamma delle onde elettromagnetiche, ma soltanto a una fettina, la fettina che corrisponde ai colori. Vedete, voi in questo momento state guardando noi, noi stiamo guardando voi, ci guardiamo intorno e vediamo gli oggetti dei vari colori che ci stanno intorno, io se volessi alzarmi posso girare intorno al tavolo senza andare a sbattere, scendere dai gradini e uscire: perché? Perché filtro tra tutti i messaggi quelli che mi rimbalzano contro per la luce, ma noi sappiamo che in questo momento in questa stanza tra di noi stanno viaggiando tutti i canali Rai, i canali Mediaset, i nostri cellulari, tutte le radio private e pubbliche, siamo in una nebbia elettromagnetica; per fortuna i nostri occhi non la vedono tutta, se no le onde elettromagnetiche sarebbero inutilizzabili, sarebbe un pochino come accendere il televisore su un canale morto, quel canale che fa il rumore che son tutti i rumori insieme [sch] – tra l’altro fa capire come mai la gente per far star zitti gli altri fa “Sch”, non fa “Uh”, perché è evidente che tu devi cercare di coprire tutti i suoni possibili, è un’altra delle scoperte fondamentali. Quindi la questione interessante è che forse il motivo per cui nel progetto genetico dell’uomo il cervello è sensibile solo ad alcune grammatiche, potrebbe essere simile al motivo per cui l’occhio non vede tutte le radiazioni elettromagnetiche, perché troppa informazione porterebbe al caos totale; in effetti due volte lo stesso messaggio non vuol dire necessariamente che sia più chiaro, anzi, come vedete in questo caso, può essere confusivo. Ancora due domande e poi passo la mia parola. C’è una cosa bellissima che questa teoria si porta dietro: siccome noi non siamo predisposti alla nascita a una lingua particolare – un bambino nato da una coppia che parla italiano, se viene allevata a Tokyo imparerà il giapponese – vuol dire che noi abbiamo dentro tutte le grammatiche possibili e siccome noi non sappiamo quali sono le lingue che non abbiamo più e quelle che parleremo in futuro vuol dire che noi abbiamo una sovrabbondanza di regole, come se avessimo una mente staminale dal punto di vista linguistico, aperta a tutte le regole di qualsiasi lingua, che è uno degli argomenti che abbiamo trattato in questo articolo che è veramente recente, pubblicato proprio con Chomsky e anche Ian Tattersal che fu ospite qui al Meeting in un memorabile incontro che avevi organizzato tu qualche anno fa. Dunque la domanda che noi possiamo porci adesso è cosa si aspetta? Cos’è la ricerca del futuro? Il futuro della neurolinguistica sta dal passare dall’identificazione delle aree al codice reale dei neuroni, cosa si dicono i neuroni quando si parlano? Voi sapete questo è uno schemino che fa vedere come funziona la trasmissione linguistica, io fino alle vostre orecchie arrivo con l’aria, mediata attraverso il microfono, ma arriva con l’aria, poi dalle orecchie al cervello non c’è più aria, ci sono segnali elettrici; ecco , la domanda è: come sono costruiti i segnali elettrici? Guardate siamo lontanissimi dal capirli completamente, ma qualche cosa di può fare, c’è un esperimento che questa volta ho fatto con una squadra diversa, con un neurochirurgo a Pavia, Lorenzo Magrassi, con un ingegnere elettronico, Valerio Annovazzi, in cui abbiamo provato a verificare cosa succede se io parlo senza parlare, cioè il linguaggio rimane dentro nel cervello, cioè quando chiudo gli occhi e penso delle parole, in fondo io le penso con il suono. Abbiamo utilizzato una tecnica che si chiama chirurgia a pazienti in stato di veglia, sono pazienti che vengono sottoposto ad una terapia e per facilitarne il recupero si utilizza anche un modo per evitare di tranciare delle vie importanti dal punto di vista della trasmissione neurologica. Nel frattempo, noi abbiamo scoperto, che anche in assenza di suoni queste onde elettriche del cervello contengono l’informazione acustica delle parole, cioè in qualche modo, in questo lavoro uscito 2 anni fa, noi saremmo potenzialmente in grado di andare a capire quello che una persona pensa, potendo avere accesso all’onda elettrica del cervello senza che questa persona decida di parlare. Ovviamente l’impatto etico di questo è enorme, potreste costruire apparecchi per aiutare disartrici a parlare, ma potreste invadere la mente delle persone e carpire quello che non vogliono dire. Non vorrei che questa cavalcata appassionata che ho condiviso con voi, vi faccia però pensare che noi siamo alla soglia, ancora una volta, di una comprensione totale del linguaggio. Non siamo nemmeno vicino a una comprensione parziale, soprattutto per un fatto, ciascuno di noi fa esperienza di libertà nel parlare. Questa creatività non si spiega con modelli matematici, va al di là della nostra comprensione. Vuol dire che non c’è nessuna condizione ambientale per cui in questo momento io possa scegliere di dire una parola qualsiasi….. gorgonzola, vi assicuro non esistono condizioni ambientali che la giustificano…. sincrotrone,….. fragolina di bosco. Io posso dire quello che voglio, questa esperienza di libertà non è riconducibile in nessun modo a dei fatti fisici. Allora noi ci troviamo di fronte a una realtà che secondo me è colta in modo non volontario in un quadro. Questo quadro è di un pittore barocco di Innsbruck che ha fatto due soli quadri con lo stesso tema solo che uno è rotondo e l’altro quadrato, questo sta agli Uffizi. E’ molto bello, non si vede tanto ma perché è scuro il quadro, c’è l’autore di spalle che vede se stesso in uno specchio e si rappresentata, si autoritrae su una tela. Ecco in un certo qual modo la mia sensazione è che noi siamo a questo punto della nostra comprensione del linguaggio, sappiamo quello che accade fuori, sappiamo dare una qualche rappresentazione interna, ma ci manca ancora il volto creatore di questi fatti linguistici e non è detto che si volti. E per concludere sono stato molto indeciso se utilizzare o no questa diapositiva, questa citazione però ho deciso di farla, vorrei concludere con questo richiamo che per qualcuno può essere un richiamo letterario, per qualcuno qualcos’altro, ma che va alla radice profonda della cultura ebraica e quindi della cultura cristiana, ed è uno dei primi versi, uno dei pezzi della Genesi: “Allora Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati. In qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”. Questa meravigliosa situazione in cui Dio si ferma, non vi siete mai chiesti quando vi dicono, lo dicevano anche da bambini che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, tu ti guardi allo specchio e dici: siamo bruttissimi non abbiamo squame, non abbiamo piume, non abbiamo peli ovunque, siamo flaccidi chi più chi meno, eppure siamo ad immagine e somiglianza dove, come, perché, forse nella creazione, ma noi non possiamo creare vita, non possiamo creare mondo, noi possiamo creare i nomi da dare al mondo, allora Dio si ferma e ascolta le nostre creazioni che sono la creazione dei nomi e siccome nelle traduzioni contemporanee sapete che la parola docile nel cuore, significa cuore in ascolto, io penso che forse l’eredità più grande di tutti, che in qualche modo abbiamo già, è che noi abbiamo il cuore docile di Dio. Grazie.

MARCO BERSANELLI:
Grazie Andrea. E adesso diamo la parola a Giorgio Vallortigara.

GIORGIO VALLORTIGARA:
Grazie, buon pomeriggio a tutti e grazie Marco, grazie Andrea per questo bellissimo talk. Allora per quel che riguardo quel che ha detto fin qui Andrea c’è poco da aggiungere nel senso che è un fatto assodato ormai per tutti noi del mestiere che…. i sistemi biologici sono più affidabili delle macchine… Riusciamo a vedere?… Great! Dicevo grazie agli organizzatori, grazie per questo invito sono davvero molto onorato di essere qui. Andrea ha spiegato molto bene che gli essere umani posseggono una caratteristica, una dotazione, che noi in biologia diciamo specie specifica che è quella per il linguaggio. Diceva anche che ci sono stati dei tentativi per vedere se altre specie sono capaci di imparare magari usando canali differenti, per esempio il linguaggio gestuale dei sordo muti, imparare una qualche forma diciamo così di sintassi e gli esiti di questi esperimenti sono stati negativi. Io aggiungerei anche per essere, come dire, fair, clementi e considerare il fatto che tutto sommato c’è variabilità biologica anche tra gli essere umani che non sempre, non in tutte le circostanze, anche gli individui della nostra specie mostrano sofisticate capacità sintattiche. Non so mi viene in mente le cantanti pop. (Slide) Questa è Britney Spears, chiedo scusa perché è un esempio un po’ antico, mi rendo conto, molti di voi non sanno neanche chi è però difficile sostenere che la sua sintassi sia più complicata di quella di Nim Chimpsky, in realtà Andrea vi saprebbe spiegare che nonostante tutto questa è davvero sintassi, però non è di questo che voglio parlare nel senso che su questo c’è poco da discutere, da contendere; volevo invece a raccontarvi tre cose. Sulla prima sono abbastanza sicuro, sulle altre due invece sono un po’ delle speculazioni, quindi prendetele con beneficio di inventario, potrei avere torto. La prima cosa su cui credo di essere abbastanza ben documentato è il fatto che gli animali, gli altri animali, perché anche noi siamo animali sono capaci di pensare anche in assenza di linguaggio. Ci sono molte prove, molte documentazioni di questo, io qui non ho la pretesa di raccontarvi qualche cosa di sistematico, ma vi faccio vedere qualche esempio giusto per capirci. Per esempio questi uccelletti sono così famosi che hanno addirittura avuto l’onore di essere effigiati in un francobollo; si chiamano corvi della Nuova Caledonia e in natura costruiscono degli strumenti. Naturalmente, membri della nostra specie sono i campioni nella costruzione di strumenti, siamo i più bravi di tutti, ma non siamo soli, non siamo gli unici. Questi corvi fanno o delle specie di frecce, delle lance con le quali infilzano le larve, gli insetti nei rametti, negli incavi degli alberi oppure lavorano dei rametti e costruiscono degli uncini. Far uncini è una cosa molto complicata che è comparsa tra l’altro nella storia umana piuttosto recentemente nel paleolitico superiore. Alcuni di questi animali sono stati condotti in laboratorio, ce li ha il mio collega Alex Kacelnik a Oxford, e qui ne vedete un esemplare, questo filmato è molto famoso forse lo avrete visto su u-tube, si chiama Betty questo esemplare, è alle prese con un problema: c’è un cestello pieno di leccornie, di cose buonissime dei vermetti, però non riesce a tirarlo su perché ha a disposizione semplicemente un pezzo di fil di ferro diritto. Adesso vedrete che Betty, tra un attimo, si mette al lavoro e utilizzando becco e quello che c’ha attorno costruisce lì immediatamente su due piedi un uncino e poi lo utilizza per tirare su il cestello. Ecco fatto. Risolto. Allora un problema con questo tipo di capacità naturalmente è che sono, come si dice ancora una volta in biologia, specializzazioni adattative, cioè sono cose che gli animali sono preparati, predisposti a fare in un particolare dominio, in un particolare ambito. Questi animali sono bravissimi a fare strumenti, ma non risulta che siano particolarmente dotati in altri ambiti, diciamo così, dell’esperienza. E’ un discorso che vale per altre capacità, come dire, specializzate, la lingua, il linguaggio delle api, la famosa danza delle api è sofisticata e ha elementi del linguaggio, la referenzialità, il fatto di usare simboli, però con la danza delle api voi potete parlare di una sola cosa, cioè del cibo, di quanto distante è, e di quanto è, basta. Noi con il nostro linguaggio possiamo parlare di tutto naturalmente. Nel caso degli strumenti, la cosa è particolarmente interessante perché quello che caratterizza il pensiero umano è la capacità di usare in modo nuovo, creativo, originale gli oggetti e gli strumenti che già esistono. Questo come potete immaginare è difficile da documentare in condizioni di laboratorio negli animali, però in alcune circostanze è stato possibile farlo, per accidente, per come dire serendipità, come si usa dire. Qui vedete un esempio, è un compito simile a quello proposto a Betty, ma non ci sono strumenti a disposizione per risolverlo. (video) Allora c’è un orango vedete, c’è un tubetto trasparente, in fondo al tubetto c’è una nocciolina, qualcosa di buonissimo. L’adulto capisce subito che non ci può arrivare con le dita, il piccolo fa qualche tentativo, ma il grande ha l’ideona (aggiunge acqua), non basta ancora, quindi torna all’abbeveratoio, va a riempirsi la bocca d’acqua e poi ripete l’operazione, così. In questa maniera tira su (la nocciolina). Ecco questo genere di soluzione creativa del problema, è particolarmente interessante negli animali e tra l’altro circola la storia probabilmente apocrifa che in un laboratorio uno scimpanzé è riuscito a risolvere un problema anche in assenza di acqua, cioè non c’era neanche l’abbeveratoio (i più vispi di voi avran già capito come ha fatto). Questo piccolo aneddoto da laboratorio però ha aperto e ha dato la stura alla possibilità in una specie animale completamente diversa, di studiare in maniera controllata questi fenomeni sfruttando una vecchia storia che probabilmente conoscerete e cioè la favola di Esopo. Allora in questo caso, a questi animali, ai i corvi viene proposto una versione del problema che vi ho appena fatto vedere, che è questa: c’è un tubo, c’è del liquido dell’acqua e la larva galleggia, ma ad un’altezza tale per cui l’animale non ci arriva con il becco. Allora, come dire, c’è la possibilità di sfruttare in maniera intuitiva il principio di Archimede di alzare il livello del liquido per arrivarci e in effetti ci arrivano. Alla fine vedete un esempio, notate, in natura questi sono corvi che tra l’altro non usano strumenti e non sono costruttori e utilizzatori di strumenti. Questo è il problema, tubetto trasparente, la larva che galleggia, l’animale si avvicina con cautela naturalmente e si rende conto rapidamente che non ce la può fare, non ci arriva con il becco. Allora a questo punto gli diamo un piccolo aiuto, un po’ di pietruzze. Notate l’animale non è stato addestrato a fare questo, questo comportamento si intende spontaneo, che non vuol dire che non l’ha imparato, deve avere imparato in un ambiente naturale certe caratteristiche proprietà degli oggetti e dei liquidi ma le sfrutta immediatamente, spontaneamente e risolve il problema. Ancora non basta, bisogna alzare ancora un po’ il livello e voilà. Quanto capiscono i corvi di quello che stanno facendo, quanto afferrano in realtà in termini di causalità fisica implica. Beh capiscono abbastanza: per esempio se voi sostituito o gli consentite di scegliere tra differenti tipi di substrato, un liquido e un tubetto pieno di sabbia o di borotalco non ci provano neanche a buttare i sassolini nella sabbia o nel borotalco sanno che li non funzionerebbe. Se utilizzate sassolini di varia grandezza cercano di usare i più grandi a condizione che siano compatibili con l’apertura del foro perché se sono troppo grandi non passano. Se gli fornite oggetti identici d’aspetto ma alcuni dei quali vanno a fondo e altri invece galleggiano, quelli che galleggiano li buttano via, non provano neanche ad usarli, oppure li usano una sola volta, vedono che galleggiano e poi non lo fanno più. Quindi c’è una comprensione intuitiva, implicita di alcuni, come dire, aspetti fondamentali di quella che noi chiamiamo fisica intuitiva del genere di conoscenza che tutti abbiamo del mondo anche senza aver seguito dei corsi formali a scuola. Bene spero di avervi convinto che gli animali sono capaci di pensare; però a questo punto vien la domanda e la domanda è: che cosa dà in più il linguaggio o soprattutto in che modo contribuisce, se contribuisce ai processi di pensiero, ai meccanismi del pensiero? Allora, proviamo prima a guardare alla domanda in una direzione che tipicamente non viene considerata e cioè quella del che cosa eventualmente il linguaggio ci potrebbe togliere. Questa la riconosco è un po’ una speculazione, però guardate questo animale qui è abbastanza famoso, è un giovane scimpanzé che è stato addestrato nel laboratorio di un collega che è anche un caro amico Tetsuro Matzusawa e ha imparato a pigiare su un touch screen una serie di numeri arabi per ottenere un premio, del succo di frutta. Anche questo è molto famoso lo avrete visto probabilmente. Notate la nonchalance con la quale compie e la velocità! Badate, questo non ha niente a che fare di per sé con la matematica, con i numeri, questi qua sono simboli arbitrari e quello che lui ha imparato è semplicemente di pigiarli secondo la sequenza. Questo è già sorprendete di per sé, però quello che volevo farvi vedere è una variante di questo compito che io invece trovo davvero stupefacente e non ha a che fare con i numeri ma con la memoria visuo-spaziale. E’ lo stesso compito, lo vedrete tra un momento, ma quando l’animale pigia il primo numero tutti gli altri vengono coperti da una mascherina e il compito dell’animale questa volta è di ricordarsi dove stava il 2, il 3, il 4, il 5 e così via. Questo compito qua. Potete provare a farlo voi stessi. E’ difficile vero? E’ molto difficile. Giusto perché abbiate un’idea di quanto è difficile vi faccio vedere la prestazione di una assistente del laboratorio, cioè di un essere umano che non è stata scelta intenzionalmente, cioè è davvero una ragazza intelligente è una scienziata, è brava, ha a che fare con una variante del compito che comprende soltanto 5 elementi. Potete provare anche voi. No! No! Insomma sbaglia tantissimo anche con solo 5 non con 9, ma la cosa davvero sorprendente è il modo in cui il giovane scimpanzé risolve questo tipo di problemi che sembra suggerire che lui vede letteralmente quello che c’è dietro le mascherine. Guardate questa situazione qua, anche questa è, come dire, un incidente di laboratorio e cioè durante l’addestramento ad un certo momento l’attenzione dell’animale viene distratta e lui per parecchi secondi sta a guardare dell’altro dopo di che ritorna al compito originale. Guardate, questa è la versione facile con soli 5 elementi, adesso qualcosa distrae la sua attenzione e rimane distratto per un sacco di tempo, nei termini della working memory, della memoria a breve termine come la chiamano gli scienziati cognitivi, poi torna lì, vedete ed è come se fosse rimasta stampata nella sua retina l’immagine degli stimoli. Questo è interessante secondo me, perché ci sono due esempi di capacità simile che sono in un certo senso note e documentate. Una la conoscete tutti, per lo meno tutti quelli che sono tra di voi genitori o nonni, se avete mai provato a giocare a memory con i vostri figli o con i vostri nipoti, conoscete memory quel gioco in cui ci sono delle carte rovesciate, ne girate una compare che so, l’orso poi dovete trovare l’altra carta dove c’è l’orso, poi dovete ricordarvi dove stavano. I bambini piccoli sono straordinariamente bravi, dotati in questo tipo di giochi visuo-spaziali e c’è di più, in realtà gli psicologi sanno che fino ad una certa età i bimbi piccoli sembrano possedere, alcuni, quella che viene chiamata memoria eidetica, cioè mantengono una capacità di ricordare in una forma letterale una scena visiva. Gli fate vedere una scena, anche per breve tempo, poi la coprite e poi gli chiedete dove era la tazza, dove era il cucchiaio ecc. e voi vedete che il bambino lo sa con grande precisione, come se la vedesse, ce l’avesse ancora davanti agli occhi E questa capacità tipicamente scompare pian piano con l’età e con lo sviluppo di altre funzioni o di altre capacità. E poi l’ultimo esempio è questo: questo anche è molto famoso: ci sono delle persone affette da gravissime patologie, per esempio certe forme di autismo, e questo è un caso che è stato molto studiato, si chiamava Nadia. Nadia a tre anni di età faceva questi disegni qua, questi qua che sembrano, come dire, delle cose fatte da Leonardo, vedete, di scorcio in questo modo, con una grado di sofisticazione incredibile. La bambina non era figlia di artisti, non era stata addestrata in alcun modo, non aveva avuto, come dire, istruzione formale nella tecnica delle arti grafiche. Per avere un’idea di quanto sia complicato quello che faceva confrontatela con questa immagine qua che sono i disegni tipici di bambini di quell’età lì. Ora la cosa interessante è che col procedere dell’età e con la terapia, non è una vera terapia, ma insomma tentativo di recuperare un po’ di funzioni, quello che si è osservato, molto curioso, è che a tre anni questa bambina che aveva un QI di 50 e capacità linguistiche praticamente pari a 0, attorno agli 8/9 anni aveva recuperato, poteva parlare, non era una bambina del tutto normale, ma poteva parlare e avere un linguaggio piuttosto sofisticato e a questo punto i suoi disegni erano tornati ad essere quelli di una bambina di quell’età, non avevano più niente di speciale. Ecco la congettura: io sospetto che nella allocazione delle risorse nel cervello, nel sistema nervoso, noi abbiamo a che fare con quello che in matematica si chiama un gioco a somma 0. Cioè se voi ci mettete qualcosa di importante e rilevante ci occupa dello spazio, lo sottraete ad altre funzioni. Quindi può darsi, è una congettura, un’ipotesi, che lo sviluppo di capacità legate al pensiero simbolico, al linguaggio eccetera, ci abbia sottratto delle capacità che noi come dire abbiamo in potenza e che possiamo osservare in certe condizioni, per esempio le possiamo osservare negli altri animali, perché il linguaggio loro non ce l’hanno, nei bambini piccoli, perché in loro il linguaggio è ancora come dire in fieri e forse in certe patologie perché in questo caso il ingaggio non si è sviluppato o non potrà svilupparsi a causa della patologia.
Il terzo punto naturalmente è quello più interessante e complicato ed è: bene, che tipo di vantaggi ha conferito il linguaggio ai processi di pensiero, alle computazioni che noi facciamo per risolvere i problemi, tipo quelli che avete visto per i nostri corvi o la varietà di problemi che noi cerchiamo di risolvere nel mondo e nella vita reale. Per rispondere a questa domanda qua vi propongo un test di intelligenza che è quello che vedete qua: questo è un test di quelli che vi può capitare durante un test di selezione del personale: ci sono delle figure, degli sgorbietti, che sono marcati, vedete, da un più e da un meno. E ci sono delle coppie: quindi in questa coppia questo è più, questo è meno; in questa coppia questo è più e questo è meno. La domanda è naturalmente cosa mettete qua, dove mettete il più e dove mettete il meno. Adesso non ho tempo per interrogarvi tutti quanti, però vi posso dire che per esempio i miei studenti hanno qualche difficoltà, vi devo confessare francamente hanno qualche difficoltà a risolvere il problema. In realtà non è difficile. Badate, non è ovviamente la banale sequenza dei più o dei meno. Si tratta proprio di capire che tipo di relazione c’è tra ciascuna coppia e poi usarla qua. Perché questi elementi, questo sgorbietto e questa ancoretta, ci sono ovviamente anche qua. Il problema forse diventa più semplice se cerchiamo di tradurlo in una forma un po’ simbolica, così. Chiamiamoli A, B, C, D… i vari elementi, oppure anche senza chiamarli, ma diciamo semplicemente che il più e il meno potrebbe stare per: il sette vince sull’ancora, chiamiamola così, giusto? L’ancora vince sullo sgorbietto. Quindi il sette vince sullo sgorbietto. Giusto, ci siete? Sento un silenzio glaciale, in sala.
Va bene dai, questo è più facile. Allora: Aldo è più alto di Bruno, Bruno è più alto di Carlo, quindi siete in grado di concludere che? Aldo è più alto di Carlo, bravissimi. È esattamente lo stesso tipo di problema che vi ho proposto prima, solo che qua è molto facile perché ci sono tre elementi, là invece ce n’erano cinque. Allora questa si chiama inferenza transitiva, tecnicamente, quel genere di cose che vi han fatto fare al liceo, no? Bene, mi duole comunicarvi che per esempio i miei polli sono capaci di risolvere il problema che vi ho fatto vedere prima con grande facilità. Non solo i polli, le scimmie, i pesci eccetera. Come si fa a dimostrarlo? Beh è facile. Devo prima insegnargli le premesse del problema, quindi prendo cinque stimoli, come gli sgorbietti che vi fatto vedere prima – A, B, C, D, E – e poi addestro l’animale con le singole coppie, cioè gli dico: guarda qui, quando c’è il cerchio e quando c’è il quadrato, se becchi sul cerchio prendi il premio, se becchi sul quadrato non prendi niente. Qui invece, quando becchi sul quadrato e non becchi sul rombo prendi il premio, e così via. Non lo faccio in questo ordine, eh, badate. Faccio frammischiando a caso le varie coppie. Ma quello che mi interessa è che gli animali imparino, in ciascuna singola coppia qual è quello giusto e qual è quello sbagliato. E poi alla fine cosa faccio? Gli faccio vedere lo stimolo B e lo stimolo D, questi qui, che sono stimoli che lui ha già visto singolarmente, ma non con quel particolare accoppiamento, giusto? E naturalmente una creatura intelligente e razionale è in grado di capire che, siccome A vince su B, B vince su C e C vince su D, allora B vince su D. I miei pulcini beccano D, bravi! Notate, per quelli di voi che sono più sofisticati che il problema non può essere risolto semplicemente usando regole associative perché gli stimoli B e D sono stati premiati e non premiati esattamente lo stesso numero di volte, cioè nella prima coppia, qui B per esempio non premiato, ma qui B invece è premiato. La stessa cosa per D: qui D è premiato, ma qui è non premiato. Quindi nei termini del numero di volte in cui sono stati premiati e non premiati le due condizioni sono esattamente le stesse. Allora vi ho raccontato questa cosa un po’ complicata e spero che non vi sia venuto il mal di testa perché solleva una domanda, anzi due domande: la prima è: cosa diavolo se ne fanno i polli della capacità di risolvere l’inferenza transitiva? E poi: se lo sanno fare i polli cosa diavolo ci serve ad esempio il linguaggio, il sistema dei simboli per risolvere problemi di questo genere qua? La risposta alla prima domanda è semplice, probabilmente, nel senso che quasi certamente l’inferenza transitiva serve agli animali nei contesti sociali. Cioè per risolvere problemi di inferenziali nelle relazioni tra i vostri simili. Voi sapete che ad esempio i polli hanno il cosiddetto ordine di beccata, c’è l’individuo alfa e giù giù fino a omega. E quando arriva il cibo prima accede alla mangiatoia l’individuo alfa e poi tutti gli altri. Se voi inserite in un gruppo di polli già ben consolidato una gallina nuova succede una gran baruffa all’inizio e poi ciascuno impara, come dire, la nuova posizione nell’ordine gerarchico. Ora ci sono due modi per fare questo: un modo è quello forza bruta, e cioè ciascuna gallina incontra la nuova arrivata e stabilisce se è più forte o è più debole. Poi c’è un modo astuto invece che è quello di sfruttare l’osservazione dell’esito dei combattimenti terzi. Supponiamo: io sono una gallina di medio rango, arriva la gallina nuova e le suona di santa ragione alla gallina alfa. Allora non ho bisogno di andare a combattere con la gallina alfa posso ricavare che, siccome la nuova arrivata è più forte della gallina alfa e la gallina alfa è più forte di me, la nuova arrivata è più forte di me. Non vado a combattere con la nuova arrivata. Questo è quello che gli studi etologici hanno effettivamente mostrato. Gli animali sono capaci di ricavare questo tipo di informazioni. Ma e a noi che differenza fa, in più il fatto di poter scrivere o di poter risolvere quel problema in una forma simbolica? Qualche anno fa un collega tedesco ha provato a fare un esperimento che mi ha molto impressionato e che è poco noto e che tra l’altro mi piacerebbe anche ripetere, che è la ripetizione tale e quale dell’esperimento che avete visto con i polli, piccioni eccetera con degli studenti universitari. In una variante tipo videogioco. E cioè ci sono due porte, sulle porte ci sono i soliti simboli, tipo quelli che vedete qua, e gli studenti imparano a risolvere il problema, il premio non è becchime, naturalmente è crediti universitari. Facile, no? Gli studenti imparano perché ogni volta è una banale discriminazione, uno stimolo è giusto e uno stimolo è sbagliato. Poi a un certo momento surrettiziamente compaiono le coppie strane, B –D, stimoli che avete già visto, ma non in quel particolare accoppiamento, che cosa succede? Succede una cosa notevolissima: alcuni non risolvono mai il problema, va bene di questi ci possiamo disinteressare, ma tra i solutori ci sono due categorie ben distinte: ci sono i solutori chiamiamoli così espliciti, cioè questi sono studenti che risolvono il problema e ti sanno anche spiegare come lo hanno risolto e perché, cioè ti dicono guarda qui c’è una gerarchia lineare degli stimoli – A vince su B, B vince su C eccetera eccetera – perfetto, hanno capito tutto. Poi ci sono quelli che io chiamo solutori impliciti, questi, richiesti, interrogati di dire come hanno fatto, ti dicono bah non lo so. Io ho tirato a indovinare. Si ogni tanto c’erano delle coppie che mi sembravano strane e lì ho sparato a caso. Ma questi solutori impliciti, nei termini della velocità di risposta, numero di errori, numero di risposte corrette, sono indistinguibili dai risolutori corretti. Questo è notevolissimo perché ovviamente torna bene con i dati e con gli animali che ti dicono: non c’è bisogno di linguaggio di simboli eccetera, puoi risolvere come dire.. ci sono delle rotelline dentro la testa, dei neuroni che fanno le cose che ti danno come uscita il risultato giusto e tu non hai neanche bisogno di esserne consapevole. Bene. Ma e quelli che risolvono esplicitamente che tipo di vantaggio hanno o perché succede quella roba lì? La mia idea qui, è che la differenza fondamentalmente sia una differenza sociale e cioè: se tu sei una gallina e ti trovi di fronte a un problema di differenza transitiva nell’ambito della tua società, tutto quel che ti serve è una regola anche implicita, un lavorio del tuo sistema nervoso che ti dà come uscita, come output, vado ad attaccare o non vado ad attaccare quella gallina lì, punto, basta non ti serve altro. Ma se tu vivi in una società complessa come per esempio quella degli essere umani, la storia è diversa, deve essere stata diversa anche per i nostri antenati. Cioè ad un certo momento nella tribù arriva un tale e tu vedi che le suona di santa ragione al capo della tribù e a questo punto, se tu hai il linguaggio, vai a dire a tuo cugino: guarda, non andare a combattere con il nuovo arrivato perché quello lì è fortissimo. E quindi tu ti rappresenti esplicitamente i prodotti del tuo pensiero. Il linguaggio non ha fornito alcun contributo alla macchine del cervello, cioè la capacità di fare inferenze, quella ce l’hanno i polli, ce l’hanno i pesci, ce l’hanno le scimmie, ma tu puoi esternare e comunicare ad altri quello che sai e quello che hai capito attraverso i tuoi processi di pensiero. E questa è la differenza fondamentale, io credo, tra noi e gli altri animali. Spesso mi chiedono, con il mestiere che faccio, cosa c’è di diverso nel cervello dell’uomo rispetto a quello degli altri animali? Io sospetto che per quello che riguarda, fatto salvo le capacità sintattiche in maniera specifica, che la meccanica, cioè le computazioni che sottendono i processi di pensiero, l’inferenza, la navigazione, la logica… tutte queste cose qua probabilmente tra i vertebrati sono largamente condivise. Quello che c’è di diverso della nostra specie non sta dentro il cranio, ma sta fuori. Sta fuori. La nostra intelligenza è legata a quel genere di straordinaria protesi cognitiva che ci fornisce il linguaggio è per l’appunto, come dive il titolo del tema vostro di quest’anno: l’eredità che ci hanno lasciato i nostri padri, quello che fa si che un bambino che nasce oggi è più intelligente di uno di cent’anni fa o di mille anni fa. Non perché il suo cervello sia diverso, è identico a quello di un bambino di anni fa, ma la conoscenza che sta fuori, nei libri, nelle scuole, negli oggetti, nelle biblioteche, in quello che stiamo facendo noi qui ora, questo è quello che fa la differenza. Grazie per la vostra attenzione.

MARCO BERSANELLI:
Beh, verrebbe voglia di star qui a continuare a stimolare un dialogo, ma questo avverrà tra un po’ allo spazio WHAT? per chi fosse interessato. Adesso il tempo ci porta alla conclusione, ma mi ha davvero colpito questo percorso che è tornato dal punto di partenza di Andrea e grazie alle parole finali di Giorgio. Questo linguaggio che ci rende così unici nella natura è qualcosa che abbiamo ereditato e che continuamente ereditiamo. E mi sembra in due diversi modi che sono emersi: uno come seme inziale, perché è come già nella creatura umana in quanto tale, nella sua struttura corporale, cioè cerebrale esistono i presupposti con i suoi limiti e poi confini che ha descritto molto bene Andrea. E questo è qualcosa che si attua dentro un contesto, si attua dentro una relazione, la relazione umana che è quella che ereditiamo non dalla evoluzione del genere umano, ma quella che ereditiamo da padre e madre, da contesto sociale, da rapporti umani. Ecco, tutto questo è ciò che alla fine, come diceva anche Andrea ad un certo punto, ci permette quella esperienza di esprimere noi stessi, cioè di esprimere qualcosa di imprevedibile, di unico, di irripetibile e questo ci fa venire le vertigini perché noi siamo dentro questa natura dentro questo contesto naturale soggetti come tutte le creature ai limiti della natura, ma abbiamo quel punto che ci fra dire io con libertà. Siamo molto grati quindi ad Andrea e Giorgio.
La bellezza di incontri come questo ci fanno ricordare che tutto questo è possibile, è possibile lasciarci educare da eventi come questo perché esiste un luogo come il Meeting in cui possiamo con libertà scavare dentro questi contenuti, confrontarci. Questo è un compito che ci stiamo ricordando in questi giorni e riguarda tutti noi. È possibile come sapete contribuire alla costruzione del Meeting attraverso donazioni. In questo senso esistono nel padiglione, come avete visto, queste postazioni con la scritta “Dona ora” e mi raccomando teniamo in considerazione. Grazie e arrivederci.

Data

23 Agosto 2017

Ora

15:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri