“L’INCONTRO CON L’ALTRO: GENIO DELLA REPUBBLICA. 1946-2016”: LA CULTURA

“L’INCONTRO CON L’ALTRO: GENIO DELLA REPUBBLICA. 1946-2016”: LA CULTURA

Partecipa Giuliano Amato, Giudice della Corte Costituzionale. Introduce Lorenza Violini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano.

 

LORENZA VIOLINI:
Buonasera. Vi ringrazio di essere qui e ringrazio soprattutto il nostro illustrissimo e graditissimo ospite, il Presidente Giuliano Amato. Il calore di questo applauso non ci esime dal ricordare i grandi percorsi della vita del nostro ospite, che è stato uomo politico, uomo di governo, uomo delle istituzioni soprattutto, e ora Giudice alla Corte Costituzionale e uomo di cultura per le grandi e belle cose che abbiamo letto, che abbiamo imparato, noi indegnamente allievi, dalla sua penna e dai suoi scritti. Dovendo parlare di cultura evidentemente non potevamo avere un ospite più interessante con cui dialogare, anche perché uno dei monumenti della cultura Nazionale è “l’Enciclopedia Treccani “che è sotto la sua presidenza. La nostra domanda oggi, è una domanda in un certo senso profonda, complessa, ma anche famigliare com’è famigliare il titolo del Meeting. Questo titolo, “Tu che sei un bene per me”, ci coinvolge tutti, davvero quest’anno in modo particolare mi pare. Questo abbrivio di Meeting ha visto già una bella vivacità, un sentire questo titolo come parte di ciascuno di noi. Il desiderio che l’altro sia un bene per noi è un desiderio umano, profondissimo, anche se tante volte ci muoviamo come se l’altro non fosse un bene per noi. Quindi nel positivo e nel negativo tutti ci sentiamo toccati da questo Tu e da questa promessa. Ora, è solo una questione personale? Mi sembra che le cose che stiamo vedendo, che abbiamo incominciato a vedere in questo inizio di Meeting, ci suggeriscano che il “Tu” bene per tutti, bene per noi, bene per me, abbia anche a che fare in modo importante con la storia del nostro Paese e con l’attualità. In un certo senso, mi pare di poter dire che, mai come quest’anno, il titolo è declinato, è svolto molto precisamente in tutti gli incontri che si sono svolti fin qui. In particolare questo titolo ci dà una chiave di lettura molto interessante rispetto alla storia del nostro Paese. Alla storia del nostro Paese che oggi ha una tappa importante in quest’anno, perché sono i settant’anni della Repubblica. Per questo, il Meeting, Giorgio Vittadini, il suo staff, Massimo Bernardini, anche tanti altri hanno pensato alla mostra nell’ambito della quale si svolgono questi incontri e che vogliono mettere a fuoco uno per uno alcuni aspetti di questi settant’anni di storia. La chiave di lettura è relativamente semplice. Ancora una volta si vuole che da questi settant’anni emergano tutti quei valori che ci permettono di guardare alla storia come a qualche cosa di molto positivo e soprattutto ci permettono di guardare al futuro come una promessa di positività, una possibilità di sviluppo. La cultura certamente è uno di questi fattori. Il passato, l’Assemblea Costituente, gli anni della ricostruzione, i drammi che la nostra Nazione ha vissuto, ne abbiamo ricordato qualcuno testé di molto importante, e poi il ruolo dell’Italia nel mondo, il futuro. Cultura, dunque. Ci interessa capire, capire insieme e chiedere, dialogando con il Presidente Amato, come guardare, come interpretare, come leggere questa parola negli anni della nostra Repubblica. Per questo mi permetto di ricordare a tutti, perché per me è stato utile, riprendere sia gli interventi di Luciano Violante che di Giorgio Vittadini che hanno introdotto la mostra, sia il Presidente Mattarella che ha aperto, inaugurato la mostra stessa. Non so, tra le cose che ci ha detto, per esempio, mi piace ricordare quello secondo cui (cito): “La Repubblica ci ha aiutato a ricostruire la nostra storia unitaria e a collegare, sul piano etico e culturale, il primo Risorgimento con il secondo, cioè con la Resistenza e la Liberazione”. E poi tanti bei spunti per il metodo che in un certo senso ci appassiona, che è il metodo del dialogo, ricordato con grande enfasi e incidenza da Papa Francesco, e ricordato anche dal Presidente nel momento di apertura. E per tanto al Presidente Amato chiediamo il contributo sulla cultura. Vogliamo imparare perché la cultura è tale se desta una curiosità e se apre all’altro, all’altro che può illuminare e può aiutare il cammino di tutti noi. E’ per questo che siamo veramente contenti che tu sia con noi e siamo veramente desiderosi di ascoltare il tuo contributo e le tue riflessioni. Grazie.

GIULIANO AMATO:
Grazie Lorenza, grazie a tutti voi per essere qui. La domanda che sta al centro di questo Meeting è la domanda giusta, trovare la risposta, le risposte non è cosi facile. Io ci ho riflettuto a lungo e mi sono dato come bussola per percorrere gli anni della Repubblica i grandi cambiamenti che gli Italiani, tutti voi, tutti noi abbiamo dovuto vivere. Cambiamenti che hanno evocato il bisogno del Tu e del riconoscimento dell’altro e che allo stesso tempo però hanno messo in moto dei processi che portavano a cancellarlo. Che cosa ha aiutato gli italiani a mantenere viva la cultura del riconoscimento dell’altro e quindi del bene comune che è il fondamento di qualunque esperienza sociale in realtà? Ecco, da questo punto di vista, e procedo molto schematicamente per tempi diversi, mi appare ancora oggi straordinario l’avvio della nostra nuova vita tra la Resistenza e la formazione della Repubblica, cioè l’inizio dei nostri settant’anni che arrivano quando il ’900 aveva già dato il peggio di sé. Aveva espresso i totalitarismi, aveva dato luogo a due guerre mondiali nate tutte e due in Europa con milioni e milioni di vittime. Aveva prodotto lo sterminio di etnie alle quali qualcuno era ostile, gli Armeni all’inizio del secolo, e poi chiunque fosse di religione ebraica negli anni trenta. Noi iniziamo tra il’45-’46-’47 una sorta di nuova vita segnata da un concorso di culture, cultura politica e cultura delle arti, che devo dire la verità, non avremmo mai più ritrovato e che avevano tra di loro una sintonia straordinaria. Si sarebbe parlato, a proposito di questa sintonia, di impegno civile degli intellettuali, e su questa storia dell’impegno civile ci sarebbero state parecchie polemiche per alcuni, e non solo Benda de Il tradimento dei Chierici ma anche Bobbio avrebbe ritenuto questo un atteggiamento non corretto. Del resto ci fu chi, come Elio Vittorini, si rifiutò di arrivare a quel punto nei confronti del partito al quale era vicino. Ma in quel momento in realtà l’impegno della cultura era l’impegno di chi, dopo anni di evasione – e c’era un regime repressivo durante quegli anni di evasione (vi ricordate il cinema dei telefoni bianchi? Il cinema dei telefoni bianchi impazzava mentre in Italia si applicavano le leggi razziali, mentre c’erano dei nostri concittadini che facevano delazione dei loro vicini ebrei, perché arrivasse qualcuno che se li prendeva e se li portava ad Auschwitz) e la cultura ci faceva vedere quel mondo inesistente, quindi l’impegno che ci fu allora della letteratura e dello stesso cinema che io considero uno degli specchi più importanti degli andamenti culturali di un Paese – si mise a guardare la realtà. Come scrisse Cesare Zavattini, “gli scrittori e i registi hanno voluto guadagnare il tempo perduto, guardare e guardare e guardare, mettere dentro gli occhi gli uomini e le cose che avevano per anni trascurato” e quando arrivano a mettersi negli occhi gli uomini e le cose che avevano per anni trascurato, che cosa trovano? Trovano quel padre di famiglia al quale rubano la bicicletta e che perde il lavoro se non ha la bicicletta e che passerà giornate e giornate per trovare quel “ladro di biciclette”; oppure il vecchio pensionato “Umberto D.”, con tutta la sua dignità di vecchio solo, che non basta ormai a se stesso ma che rivendica la sua dignità di persona. In questo senso l’impegno fu ritrovare la realtà e ritrovarla con una totale sintonia rispetto alla cultura che nel frattempo informava di sé l’Assemblea costituente e che era nata attraverso opere diverse, fonti culturali diverse. Bobbio avrebbe scritto – e lo ricorderà Leopoldo Elia – che quella cultura personalista che informa “Umberto D.”, e informa l’Assemblea Costituente, la si legge nelle lezioni di filosofia del diritto di Aldo Moro ai suoi studenti nell’anno ’45, ’46, e la si legge negli scritti di Giuseppe Capograssi, figura totalmente diversa, e sarà questa la cultura su cui costruiremo la nostra società. Una cultura che è allo stesso tempo antitetica a quella del fascismo ma anche a quella dell’individualismo liberale che aveva preceduto il fascismo: qui è la persona, con i suoi diritti e i suoi doveri, che precede lo Stato, che la deve riconoscere e che vive, prima ancora che nello Stato, nelle formazioni intermedie, nelle comunità in cui ciascuno di noi arricchisce con gli altri la propria personalità e la personalità degli altri. È una cultura questa che ha un inprinting cattolico, indiscutibilmente il primato culturale in Assemblea costituente è di quel manipolo: La Pira, Dossetti, lo stesso Aldo Moro, anche gli altri, ma soprattutto loro, che di questa cultura e dei suoi svolgimenti si fanno portatori. Questo crea un terreno di possibile intesa con la sinistra social-comunista, che molto più difficilmente avrebbe raggiunto l’intesa con una controparte liberal-mercatista ma che sul terreno del solidarismo, del riconoscimento della persona, dei diritti sociali oltre che dei diritti civili, era disponibile all’incontro e l’incontro ci fu. Ecco, teniamo conto di questo, perché può darsi anche che i politici che abbiamo oggi siano, a fronte di quelli di allora, molto più minuscoli, io non lo escludo, ma non attribuiamo a virtù straordinarie degli uomini di allora la loro capacità di trovare un’intesa; in realtà erano le culture che avevano dentro, che portavano verso l’intesa fra di loro. Non è un caso, scusate se insisto ma insomma il vecchio giurista a queste cose bada, se gli esponenti del vecchio stato liberale, pur presenti in Assemblea Costituente, sono ai margini, non vengono chiamati neanche a fare parte della Commissione dei settantacinque che è quella che elabora il testo della Costituzione, che quindi nasce con una cultura in realtà diversa. Ecco, in quel clima nacque e fece i suoi primi passi la Repubblica e anche se il neorealismo durò pochi anni, durarono a lungo quelle grandi culture politiche all’interno delle quali maturò progressivamente l’adesione di tutti alla democrazia repubblicana. A distanza di decenni non ci si rende sufficientemente conto di cosa volle dire che Alcide De Gasperi, che aveva ormai dietro, perché era l’argine contro il comunismo, anche un elettorato di destra, molto nostalgico del vecchio regime fascista, lo abbia portato pian piano a riconoscersi nei principi e nelle regole della democrazia e che dall’altra parte Togliatti, che aveva ancora dei militanti che tenevano le armi pronte nei pagliai, ma seriamente, per il salto di regime, li abbia portati in qualche modo alla democrazia. Questo è un grande merito della stessa Costituzione della Repubblica di essere diventata il terreno di comune riconoscimento e questo è un passaggio che tra gli anni ’40 e gli anni ’50 rimane indelebilmente come un grande passaggio positivo. Ma, i ma cominciano a venire dopo. Noi dopo viviamo due grandi trasformazioni, ne viviamo tante, ma ve ne segnalo due che come tutte le trasformazioni hanno dentro di sé il bene e il male. Il problema che ci siamo trovati davanti è che il male, in entrambi casi, ha incontrato forse meno ostacoli di quanto sarebbe stato bene e ci sono stati dei momenti, e ci sono tuttora dei momenti, in cui c’è chi dubita che il bene sia rimasto. Avemmo il ’68, grande stagione di nuovi e giusti diritti affermati davanti a vecchie e ingiuste gerarchie, la parità uomo donna uscì di lì, non era giusto che la famiglia anziché essere affidata all’accordo paritario tra lui e lei, fosse assoggettata alla potestà maritale, all’uomo capo anche della sua sposa, e non era giusto che i giovani fossero interamente assoggettati, senza aver voce in capitolo, alle scelte dei genitori. Il ’68 portò al superamento di queste vecchie gerarchie, ma ne uscì anche la coda velenosa del terrorismo e la moltiplicazione dei diritti nel tempo all’insegna di un individualismo, e ci tornerò subito, che sembrava non più in grado di cogliere i limiti, i limiti del fattibile. Prima grande trasformazione. Seconda grande trasformazione, prima attraverso l’Europa, poi attraverso l’ immigrazione, la riscoperta delle diversità etniche e religiose che convivono insieme, sono chiamate a convivere insieme. Specie all’inizio, noi italiani avemmo modo di apprezzare, come si suol dire, la ricchezza che da tutto questo poteva venire, memori spero del fatto che la nostra italianità storicamente è figlia delle etnie diverse che sono venute a vivere in questo Paese, in questa penisola, e hanno nutrito ciascuna pro quota una parte della nostra italianità, che sia cultura, che sia architettura, che sia lingua, che sia gastronomia, che sia tradizioni di altro genere. E tuttavia oggi, dopo il flusso cosi intenso delle recenti emigrazioni, non so quanti di noi continuino a pensarla in termini di arricchimento, quel che è certo è che il demone della identità etnica è entrato tra di noi con grandissima forza. Mi fermo qui prima di approfondire, e mi chiedo quanto la nostra cultura ci ha aiutato a vivere queste trasformazioni, difficili da affrontare. Visto che questa è la domanda a cui dobbiamo rispondere, io rispondo un po’ come rispondeva Corrado Staiano, curatore di un libro La cultura italiana del novecento, edito a fine secolo da Laterza, in cui sostiene che la cultura letteraria ha fatto poco per orientarci davanti ai problemi che avevamo. Pensate che poco fa è uscito il libro di un bravo economista. Pierluigi Ciocca, Ai confini dell’economia, elogio dell’interdisciplinarità, in cui Ciocca dice che ai confini dell’economia, parte importante delle trasformazioni che abbiamo vissuto, c’è stata addirittura avversione da parte della nostra cultura. La cultura letteraria è stata segnata da quella che piuttosto Moravia definì l’impegno controvoglia, che porta ad occuparsi di problemi reali, di figure reali, ma senza suggerire percorsi che ci facciano entrare nella società circostante. Rifletteteci, si tratti del male oscuro di Giuseppe Berto, del pasticciaccio di Gadda, o della Solitudine dei numeri primi, più di recente, di Paolo Giordano: sono tutti scavi nell’interiorità umana, illuminanti, affascinanti, ma in fondo senza tempo, non legati ai temi che noi ci siamo trovati davanti. Io l’ho vissuto quel periodo, forse i più giovani non ne possono ovviamente avere ricordo, ma la fine delle vecchie gerarchie e l’espansione dei diritti hanno dato corpo ad un cambiamento di cultura collettiva veramente stravolgente, perché tutto stava cambiando, l’urbanizzazione (noi eravamo abituati a vivere in centri piccoli, i nonni, gli zii, c’era la grande famiglia, ci si riuniva la domenica, i problemi di ciascuno diventavano così i problemi di tutti), la famiglia diventa la famiglia mononucleare, sono un lui e una lei – o, a volte, un lui o una lei soli – che vivono in città. Non c’è nulla dei vecchi legami familiari intorno a loro. Io personalmente ho vissuto questa vita e so cosa vuol dire trovarsi a crescere dei figli, cercare l’ospedale, quale scelta fare quando sei giovane e non hai nessuno intorno. In più, anche il lavoro diventava sempre più individuale col passare degli anni e quindi quei grandi agglomerati che erano stati il tessuto in cui erano cresciute le personalità di tanti venivano meno, ci si trovava soli, soli, soli in queste grandi città, soli a prendere decisioni su se stessi. Notate, era un cambiamento che metteva in discussione il modello su cui si era costruita la società della Costituente, le formazioni intermedie, l’importanza che era stata attribuita loro per la nostra educazione e anche per la nostra sicurezza. Certo, le vecchie gerarchie erano ingiuste, ma diciamo la verità, in esse avevamo trovato repressione ma anche un’autorità di cui potevamo aver bisogno, avevamo trovato divieti ma anche un’esperienza che ci sarebbe stato utile ascoltare, invece ora eravamo soli e le potenzialità di scelta che ci trovavamo davanti col passare degli ani sono diventate sempre più larghe, sempre più vaste. Ci siamo trovati nella condizione di avere un figlio – come era sempre capitato – oppure di prevenirlo con gli anticoncezionali, che prima non esistevano, ed era una scelta, siamo arrivati addirittura a decidere col passare degli anni se fare la fecondazione artificiale, omologa, eterologa. Penso spesso davanti a queste cose a mia madre: non capirebbe, davanti alla fecondazione eterologa dovrei spiegarle dall’inizio di che si tratta. Un qualcosa di completamente nuovo. Quali chiavi avevamo, nella nostra solitudine, per affrontare queste scelte? Chi ci stava dando qualcosa dall’interno della cultura? Devo dire la verità, l’unico che davvero ci spiegò non a che cosa andavamo incontro ma che cosa perdevamo fu Pier Paolo Pasolini: vi ricordate la famosa storia delle lucciole che erano sparite, ma io, per rievocarla insieme a voi, sono andato a ritrovare – me lo ricordavo – la seconda poesia in forma di rosa di Pasolini, in cui lui dice: “Io, del Nuovo/Corso della Storia/- di cui non so nulla – come/un non addetto ai lavori, un/ritardatario lasciato fuori per sempre -/un sola cosa comprendo: che sta per morire/l’idea di uomo che compare nei grandi mattini/dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro,/ con un piccolo bue, o un cavallo innamorato di lui […]/in un piccolo campo […]/a seminare, o arare, o cogliere nel brolo vicino alla casa/[…] i piccoli pomi rossi della stagione/[…]/ a ripetere a uno a uno gli atti del padre,/ in silenzio, o con un riso di timido/scetticismo o rinuncia a chi lo tenti,/perché nel suo cuore non c’è posto/per altro sentimento/che la Religione.”. Questo lo scrive Pasolini, che capisce che veniamo strappati da un mondo di cose da lasciare ma di cose per noi essenziali e in questa solitudine dobbiamo decidere di cose di cui l’umanità non si era mai trovata in precedenza a decidere. In realtà, alcuni, devo dire – sarà perché è un mio vecchio amico – ma il Censis di De Rita fece non poco per spiegarci i rischi che correvamo con un’idea galoppante di libertà che coincideva ormai con la incondizionata ricerca del proprio tornaconto, col rischio di trovare nella nostra solitudine che i consumi tecnologici potevano sostituire le amicizie e le serate passate insieme agli altri. Hanno scritto giustamente Lorenzo Ornaghi e Vittorio Parsi di “particolarismi arrabbiati”, di egoismi senza individualità in cui rischiavamo di cadere – e ci siamo caduti -, qualcun altro ha scritto che questa corsa verso la liberazione – che fu una liberazione degli italiani – era partita con Volare e finì con La febbre del sabato sera, con tutti i guai che questa porta con sé (l’alcool, la droga, il rischio di veder morire i propri figli nella notte perché hanno sbattuto con la macchina da qualche parte). Ci aiutarono a trovare le chiavi per orientarci, poco dopo il girar del millennio, due filosofi non italiani, che riaffermarono le ragioni ineludibili di un’etica collettiva, condivisa, che ponesse fine al rischio che l’etica diventasse individuale, che ciascuno che se la costruisse per sé: erano Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, che nel 2004 – l’uno non credente, l’altro Cardinale della Chiesa – convennero sul fatto che era essenziale riconoscersi in una piattaforma comune di valori condivisi, che fossero costruiti su ciò che in passato tutti avevamo costruito. È stato essenziale, è stato il fondamento di quella che chiamiamo la società post-secolare e non ve lo sareste aspettato che per darvi un modo di vivere meglio la vostra vita, fossero i filosofi che servivano, perché si tende a ritenere che non servono (hanno dimostrato eccome di servire!). Perché noi, nella nostra esperienza, non l’avevamo il bagaglio per rispondere alle domande che ci siamo trovate davanti. Pensate, oggi discutiamo – come si discuteva 100 anni fa – se c’è il diritto di un giovane di conoscere il proprio genitore biologico, ma 100 anni fa conoscere il proprio genitore biologico significava conoscere quel marito fedifrago che aveva avuto una relazione con un’altra donna da cui aveva avuto un bambino, il bambino era stato lasciato alla donna che veniva pagata a condizione che non si sapesse che lui era il padre, perché da bravo signor borghese qual era, il suo onore e la sua dignità sarebbero stati lesi se si fosse saputo ciò che gli era accaduto. Oppure il genitore biologico era la ragazza madre che per secoli aveva portato la sua creatura sulla ruota degli innocenti a Firenze o altrove. Ebbene oggi quella domanda si riferisce a chi rifornisce a pagamento una banca del seme e che magari sarà genitore biologico di decine di bambini di cui non saprà nulla e che certo non avrà ragione di sentire suoi. La domanda perciò cambia senso, ma è accettabile? È accettabile per il figlio in cerca di identità che possa non avere alcun senso? Ci sconcertano queste domande, ci può anche sconcertare la varietà delle risposte, perché ci sono Paesi in cui una certa cosa è ammessa e altri Paesi in cui non è ammessa. Ci inquieta che qui siamo davvero al confine che separa la creatura dal creatore, il confine che Ulisse volle varcare e per questo, nonostante invitasse a seguire “virtute e conoscenza”, Dante lo mette all’Inferno. Pensiamoci, l’Ulisse del “virtute e conoscenza” è all’Inferno perché volle varcare quel confine. Quello che dice Habermas porta ciascuno a recitare la parte di Dio. Attenzione però, come vi dicevo, la cultura non è nuova, la cultura con cui rispondere è sempre quella della Costituente, è sempre quella di “Umberto D.”, è sempre quella che ci deve portare a prendere atto che l’altro, chiunque sia, ha gli stessi diritti e la stessa dignità che abbiamo noi, è la piattaforma comune di Habermas e Ratzinger. È quella che aveva portato lo stesso Habermas, pochi anni prima, a sostenere la indisponibilità del patrimonio genetico del nascituro da parte dei genitori, una indisponibilità che allora lui vedeva messa a rischio dalla diagnosi pre impianto, ma che in realtà ha finito per essere messa in gioco in modo massiccio dalla diffusione in Paesi diversi dal nostro delle banche del seme e della possibilità per chiunque di attingervi scegliendo le caratteristiche della creatura che vuole far nascere da sé o da altra persona. In tal modo, osservava Habermas, mettendo in discussione la libertà che questo futuro nascituro avrà di autodeterminare se stesso. Ecco qual è un punto che ci deve essere chiaro, che davanti a queste nuove domande, a questa espansione dei diritti, le chiavi culturali per rispondere sono sempre quelle che avevamo prima, ma funzionano se noi le applichiamo a tutta la nostra vita e non soltanto a questo. Non possiamo vivere come individui disinteressati degli altri, e interessati ad avere tutto ciò che è possibile avere e poi pretendere da noi stessi di avere un’etica quando arriviamo a quel confine. Se non l’abbiamo avuta prima di raggiungerlo, lo calpesteremo con grande facilità. Il rischio di vivere inconsapevolmente lo corriamo ogni giorno, ogni giorno che la tecnologia ci offre una novità in più. Io ho un vecchio telefono, non ce l’ho l’iphone. Certo c’è l’iphone, perché non avere l’iphone e non disporre di tutto quello che ti offre, posso sapere che temperatura c’è adesso a Timbuktu, perché mi devo privare della gioia di sapere questa temperatura? Posso sapere quanti battiti farà il mio cuore uscendo da questa stanza, e perché non lo devo sapere? Posso parlare attraverso skype con una persona lontana senza pagare un euro e perché non lo devo fare? Tutto ciò che si presenta come fattibile è qualcosa che noi siamo pronti a fare. Qui viene quella che giustamente Papa Francesco chiama “l’anestesia dell’assuefazione”, noi arriviamo all’assuefazione di cose che soltanto pochi anni fa erano inconcepibili, e questo diventa un anestetico che non ci fa accorgere del dolore che provochiamo, la lesione che provochiamo ai valori essenziali della nostra vita quando questo accade. Non accade con l’iphone, non accade con skype, ma se mettiamo tutto nella stessa sequenza, ecco tutto questo può accadere. Io faccio un cenno solo, perché non voglio allungare troppo, ma ecco, c’è qui davanti a me Marta Cartabia che io ho trovato essere, rispetto a me più anziano di lei, il giudice anziano della Corte costituzionale quando ci sono entrato. Ecco, nel nostro lavoro l’anestesia dell’assuefazione non è entrata. Noi ci rendiamo conto di ciò che è stato spiegato oltre che da chi ha una fede anche da chi non l’ha, come Isaiah Berlin, grande pensatore liberale, che ci sono situazioni tragiche nella vita in cui dobbiamo scegliere. Su questa terra non esiste un’armonia nella quale per nostro comodo tutto si componga, no, dobbiamo saper scegliere e, dice Berlin, la scelta dell’altro è dentro la nostra coscienza necessariamente la scelta prioritaria, perché sappiamo che c’è e lo possiamo ignorare solo se dimentichiamo che è lì, e quindi lo cancelliamo come se non ci fosse. Ecco, alla Corte a volte ci troviamo in questa situazione, sappiamo di dover scegliere, sappiamo di dover bilanciare, sappiamo che a volte non tocca a noi farlo ma tocca piuttosto al Parlamento, quando noi non troviamo nella Costituzione la bussola chiara della scelta che dobbiamo fare. Ma questo ve lo posso assicurare, quell’individualismo che sembrava senza freni, nella Corte non ha udienza. L’individualismo ha trovato nuova forza di fronte all’altra nuova grande trasformazione che più di recente ha investito le nostre società, quella del ritorno alla convivenza con gli appartenenti ad altre etnie e ad altre religioni, che era un ritorno naturale rispetto alla storia umana. E’ stata solo quella, che per la storia lunga è una parentesi, quella degli stati nazionali, quella degli stati nazionali specie dopo la pace di Vestfalia, che ha assegnato a ciascuno stato un’etnia e una religione. È stata una parentesi quella che ci ha abituato a società monoetniche e monoreligiose. Ma tutte le società che sono nate al di fuori del vecchio Stato nazionale europeo, sono nate e cresciute fatte dai rami più diversi. Noi italiani siamo uno dei tanti rami su cui è intessuta la nazione americana, si tratti degli Stati Uniti, si tratti del Canada, e l’Australia è fatta allo stesso modo. E’ un problema qui europeo, ci siamo abituati a vivere da soli e questo ha creato spesso ostilità nei confronti dei nuovi arrivati. Ora è il pregiudizio, ora è la paura di chi non si conosce, ora è l’avversione per chi al proprio interno non riconosce i diritti essenziali come quelli della donna e dei minori, anche se fatemelo dire tra quei diritti essenziali c’è il diritto di fare il bagno con il costume a un pezzo, con il costume a due pezzi e c’è qualcuno che lo fa pure senza costume ed essere scostumati è consentito tranquillamente dalle nostre regole. Ora, sono ragioni di cui comunque chi governa deve tener conto. Vorrei che questo vi fosse chiaro, se scontro c’è, guardate che questo scontro è con la rivoluzione più grande che la storia umana abbia mai vissuto, una rivoluzione che venne solo annunciata al suo tempo da quel Gesù di Nazaret che fu il primo a impostare la propria filosofia sulla eguaglianza di tutti gli esseri umani e che non riuscì ovviamente a trovare un riscontro al suo tempo, quando tutte le economie funzionavano attraverso il lavoro schiavistico e quindi era troppo eversivo. Ma la sua rivoluzione, quando col passare dei secoli si è venuta affermando, è rimasta, rispetto a nostre credenze consolidate, eversiva. Perché noi continuiamo a pensare ciò che ci insegnarono oltre duemila anni fa, che i diritti spettano solo ai cittadini, mentre i diritti spettano a qualunque essere umano si trovi a vivere su questa terra. Questa è la verità, ma la verità di tutti, non è una verità rivelata, è una verità che si è fatta strada, fu enunciata due secoli fa da qualcuno che scrisse che tutti gli uomini sono creati uguali, ma mentre lo scriveva manteneva uomini e donne schiavi al proprio servizio. Non poteva durare, questi schiavi pretesero di essere esseri liberi e nelle nostre società i diritti e le libertà furono dati ai possidenti e a chi aveva studiato. Non poteva durare. Chiunque altro fosse possidente o no, avesse studiato o no, aveva gli stessi diritti e così si è venuta affermando e si è venuta allargando. Le carte dei diritti di cui ci compiacciamo sono tutte carte nelle quali il titolare dei diritti proclamati è chiunque. Ora, non c’è dubbio che il principio di proporzionalità deve essere applicato, che vi sono diritti che costano, che non aver contribuito mai alla vita di una specifica comunità rende più deboli al fine del riconoscimento integrale, dei diritti di tutti e di chi è appena arrivato, ma non giustifica mai il diniego. Notate, sono gli organi costituzionali, non gli organi politici, che stabiliscono i diritti degli immigrati e anche degli illegali. Perché per la politica è particolarmente difficile, perché qui pesa la cultura dell’ostilità e quindi porta a negare ciò che oggi non è più negabile. Il bambino di un immigrato che si trovi qua, sia legale o illegale, deve andare a scuola, altrimenti sarà un adulto di serie B. Una donna che deve partorire, deve essere assistita in ospedale e nessuno le deve chiedere se è legale o clandestina, perché altrimenti lei non ci andrà e allora quella povera creatura chissà come farà a nascere. Ma questo lo devono dire le Corti. Ecco, per concludere, fatemi dire che però, io sono abbastanza convinto oggi che, sebbene siano particolarmente loquaci coloro che sono contrari, c’è una cultura del riconoscimento dell’altro e della disponibilità ad essere solidali, di cui un tempo quelli del volontariato erano gli unici portatori, ma di cui oggi sono in realtà i battistrada, non i portatori esclusivi. C’è una cultura dell’impegno che si manifesta in mille modi e che si trova negli episodi più diversi. Io ho visto persone non legate ad alcuna organizzazione di volontariato recarsi a Roma, dietro la stazione Tiburtina, dove erano arrivati degli immigrati, per portare loro sapone, carta igienica e del pane, perché erano le cose essenziali di cui avevano bisogno, in quanto esseri umani e non animali, per iniziare la loro giornata. Una ricerca del Censis, sempre di tre anni fa, sosteneva con dei dati, forse c’era anche un po’ di optativo, ma plausibile, che la stagione dell’individualismo era finita e che negli italiani stava crescendo la percezione di una volta, della solidarietà. Mi ha colpito, e vi do solo questo numero: come sarà l’Italia del 2020? E la domanda era fatta a distanza di otto anni. Avrà più stranieri, sarà meno benestante, sarà più solidale. Sarà più solidale. E non vi sembri retorica da parte mia, da vecchio professore, ma l’esperienza che io continuo ad avere dei giovani che frequento, che conosco, è un’esperienza che mi dice che tra i giovani, questa cultura del riconoscimento dell’ altro, è molto più forte di quanto pensiamo. Lo sanno loro come nasce, da quali canzoni, da quali letture, da quali preghiere, da quali esperienze. Ma quello che mi colpisce è che soprattutto nei giovani preparati, la loro medicina, la loro antropologia, il loro management sono naturalmente al servizio dell’altro che ne ha bisogno. Combinano la loro innovatività nel sapere e nel gestire, rispetto all’innovatività rispetto al vecchio individualismo, che non è fatta solo di pietas o di solidarietà, attenti, è fatta di accettazione del mondo com’è. Accettazione di un mondo in cui ci sono io, ci sono gli altri. Ne ho preso atto e gli altri sono come me. E quindi io lavoro con loro, per loro, come farei in qualunque altra comunità. Certo in questo c’è un conflitto, che già si vede in Italia, un conflitto generazionale. Perché le vecchie generazioni non la vedono così. Tra quelli della mia generazione c’è, ovviamente, una maggior propensione alla chiusura, a diffidare dei cambiamenti, alla paura del futuro; perché di futuro anche ce n’è poco per chi è vecchio. Mi sono domandato e mi domando, ed è l’ultima domanda che pongo anche a voi: come possiamo fare per evitare che ne esca un vero e proprio conflitto, che già si intravede nell’andamento del voto? Non entro ora in questo perché porterebbe via tempo ma, il voto dei giovani tende andare da una parte, il voto degli anziani tende ad andare da un’altra. Ecco, bisogna tener conto anche delle ragioni di chi diffida, ma non perché le ragioni della diffidenza siano fondate, ma semplicemente perché se ci chiedono: ma allora dobbiamo accogliere tutti coloro che arrivano? Su, lo sapete che questa è la domanda. La risposta è no, questo non lo chiede nessuno. Non l’ha chiesto nemmeno Papa Francesco, a cui viene attribuito, il quale chiede una cosa diversa, attenti, che nessuno resti indietro. C’è un bel librettino, che io ho presentato sere fa in Maremma, di Alborghetti, che è proprio sulla vita di questo Papa, personaggio straordinario, credo che nessuno di voi sappia, senza aver letto quel libro che lui ha fatto anche il buttafuori di discoteca da giovane, per lavorare e che è abituato a far tutto da solo, questo lo si è capito. “Che nessuno resti indietro”, vuol dire un’altra cosa, vuol dire portarli indietro nei loro Paesi, non in chiave di espulsione, non con il “vietato l’ingresso” di cui parlava ieri qui Sergio Mattarella, ma con quel ritorno assistito, che costa molti pochi soldi, che costa molto meno che foraggiare coloro che vivono degli immigrati, mantenendoli più a lungo possibile nei centri di accoglienza e di identificazione. Costa molto meno. Basta essere organizzati, basta parlarci, basta prospettargli un futuro. Io vi racconto questa piccolissima cosa: un vù cumprà, che io ho conosciuto mentre faceva su e giù dalla spiaggia, sovraccarico di borse falsamente griffate, che fortunatamente gli compravano, era un uomo di grande intelligenza, ci ho parlato più volte, ora è nel suo Paese e ha messo su un’azienda di produzione agricola. E’ bastata una piccola somma data in garanzia, neanche spesa, data in garanzia e lui è stato felice di tornare là. Gli esseri umani, che sono tutti come noi, non sono felici di far i vù cumprà sulle spiagge, facendo su e giù e stancandosi in modo forsennato per pochi euro. Se gli si dà l’opportunità, sono felici di tornare. E noi questo dobbiamo saper fare. Il nostro patrimonio umano, di solidarietà, usiamolo anche per questo. Ed è così che arrivo a concludere davanti a me stesso e davanti a voi che, se fu bello l’inizio della Repubblica e che se tante traversie abbiamo dovuto passare incrociando il male, spesso cascandoci, ora abbiamo ottime possibilità di un nuovo inizio di questa Repubblica, più ricca di umanità e più aperta al mondo di quella con la quale abbiamo incominciato. E speriamo che la diagnosi che vi ho fatto dei giovani, come asse portante, sia una diagnosi capace di coinvolgere il numero più ampio di loro e di dare serenità a tutti, anche agli anziani che non si fidano e che dobbiamo portare a fidarsi del fatto che, insomma, il mondo può essere bello solo se ciascuno di noi è in pace, non soltanto con se stesso, ma con gli altri.

LORENZA VIOLINI:
Ringraziamo il Presidente Amato, perché questa lezione sulla storia culturale del nostro paese, è una lezione di cui fare tesoro e vogliamo anche noi guardare a questa prospettiva che ci ha aperto, con il massimo del realismo, ma anche con il massimo dell’apertura e della speranza. Siccome abbiamo ancora qualche minuto, forse, se consenti, ci potrebbe essere qualche domanda da parte dei nostri giovani. Prego.

DOMANDA:
Buonasera Presidente, lei all’inizio del suo intervento ha detto che non fu tanto la grandezza dei politici di allora, quanto la grandezza che era dentro di loro a favorire l’incontro fra i costituenti. Lei faceva l’esempio di De Gasperi e Togliatti, come portavano a riconoscersi nei valori e nei principi della democrazia da una parte l’elettorato di destra nostalgico del fascismo, dall’altra gli uomini con le armi nei pagliai. Per cui, in realtà, anche la mostra sui settant’anni della Repubblica, insiste molto su questo punto del compromesso. Per cui da studente universitario, mi interessava approfondire quale fosse questa cultura di cui parlava, anche in vista di questo nuovo inizio di cui ha appena parlato prima di concludere il suo intervento.

DOMANDA:
Presidente, lei ha parlato di una cultura un tempo comunitaria, inclusiva e di una cultura oggi, al contrario individualista, in cui si prediligono i particolarismi arrabbiati. D’altra parte parlava anche di grandi possibilità di fronte a noi, le volevo quindi DOMANDAre: è ancora possibile una visione politica come quella dell’Assemblea Costituente? Quali sono i fondamenti costituzionali per cui la politica non sia solo scontro ideologico? Inoltre, visti i molteplici cambiamenti culturali che lei ha sottolineato con numerosi esempi, a settant’anni di distanza dall’inizio della Repubblica, ha ancora senso festeggiare tale ricorrenza?

DOMANDAI:
Presidente, a differenza di quanto sottolineava rispetto a un mondo oggi fortemente egoista, il titolo di questo Meeting, “Tu sei un bene per me”, può essere l’origine di una cultura sussidiaria che in Italia, è ancora presente. Le chiedo: quali possono essere le personalità, gli strumenti, le linee di pensiero presenti in Italia che possono permettere lo sviluppo di questa cultura sparsa ed emarginata?

DOMANDA:
Signor Presidente, lei ha parlato di una cultura in cui la persona con i suoi diritti e i suoi doveri precede lo Stato stesso, ma lo Stato a cui assistiamo, si presenta con una natura fortemente interventista. Quali sono i percorsi e gli orizzonti per valorizzare il potenziale del nostro Paese? Che cosa è chiesto allo Stato e che cosa al singolo? Grazie.

GIULIANO AMATO:
Ora, quando dicevo prima: “Badate, non è questione di virtù degli uomini, ma è questione di culture”, ovviamente queste culture si traducono anche in virtù degli uomini. Volevo soltanto dire una cosa che poi emerge dalle vostre domande: una politica che sia figlia non della ricerca del consenso, ma di una visione della società, verso la quale io vorrei portare coloro a servizio dei quali svolgo la mia attività politica, rende più virtuoso il politico, e gli dà un humus nel quale la sua virtù affonda le radici. Il ceto dei politici delle prime generazioni della Repubblica, era in realtà un ceto che apparteneva alla medesima area a cui apparteneva chi scriveva libri o poesie. Io sono stato molto vicino a un politico che asseriva di essere un non politico che era Antonio Giolitti, che si vide chiamato alla politica dall’impegno antifascista della resistenza e che visse a mezzadria fra il Parlamento e la casa editrice dove con Calvino e Pavese lavorava sui manoscritti che mandavano gli scrittori Italiani. Ma non c’è bisogno di figure come queste, avete mai letto i diari di De Gasperi? De Gasperi è un letterato e scrive con una penna che se non fosse stato De Gasperi probabilmente avrebbe finito per essere noto per i diari, come altri scrittori, cioè erano persone colte che leggevano le stesse cose che leggevano i letterati, erano tutti più o meno figli dell’idealismo, nessuno ignorava Croce – anche coloro che non erano d’accordo con lui – di quelle generazioni. Ora tutto è cambiato e io non posso pretendere che chi ha trent’anni oggi abbia le stesse letture che avevo io. Infatti, ogni tanto io sono indotto a domandarmi, da vecchio qual sono: “Come fanno questi ragazzi a orientarsi nel mondo, se non hanno letto La Montagna Incantata di Thomas Mann, o Delitto e Castigo?”. E poi penso: “Abbiamo avuto tanti bravissimi italiani tra il ’700 e l’800 che si sono formati senza leggere né Dostoevskij né Thomas Mann, perché sono venuti dopo, questi autori”. Perciò ci si può formare in modi diversi. Il problema è che spesso si ha la sensazione che la politica sia diventata un’attività che si alimenta sulla mera comunicazione, sul fatto di saper parlare agli altri, di saper cogliere ciò che gli altri si aspettano che tu dica, e di dirlo meglio degli altri, e tener conto delle reazioni per dar loro ragione. Ecco, se ci riduce a questo, è chiaro che manca la cultura e manca la virtù. Festeggiare i settant’anni della Repubblica – e poi gli ottanta e i novanta e quel che è – ha senso perché serve a ricordare questo. Guardate: non disprezzate gli anniversari! Gli anniversari li disprezzano coloro per i quali il passato non esiste. Ma coloro per i quali il passato non esiste, date retta a me, non saranno mai in grado di dare un futuro né a se stessi né agli altri. Io di questo sono convinto. Io ho fatto l’esperienza del Centocinquantesimo: ero Presidente del Comitato per le celebrazioni del Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Ho girato molte scuole, nelle quali straordinari insegnanti avevano fatto lavorare i loro studenti, anche piccoli, sui centocinquant’anni; non necessariamente su Cavour, Garibaldi e Mazzini, ma hanno riscoperto figure eroiche del proprio Paese. Una ragazzina lesse – ce l’ho ancora negli occhi – la storia del suo bisnonno, che aveva fatto il primo sciopero nella miniera nella quale lavorava, e che, grazie a questo, si era saputo mettere al servizio degli altri. E lei era orgogliosa del suo bisnonno, e, grazie a questo scavo fatto nel passato, aveva trovato parte della sua identità. È così importante questo: noi siamo il nostro passato, e che lo siamo senza conoscerlo è soltanto un nostro limite. È importante conoscerlo. Ora “Tu sei un bene per me”, è la cultura emergente del nostro tempo, questo ho cercato di dirvi nella parte finale del mio intervento, avvalendomi anche di una ricerca del Censis intitolata “I valori degli italiani” – è uscita mi pare nel 2012 -, dove proprio si sosteneva la fine per esaurimento dell’individualismo egoista ed il ritorno del bisogno di relazioni. Questa era la tesi del Censis. Io sono convinto che la leva portante di questo è, appunto, quel giovane che noi abbiamo, che è più abituato a vivere circondato da persone diverse. Ma buona parte dei nostri nipoti – come i miei, i più piccoli – frequentano scuole dove trovano i diversi da sé, e familiarizzano. C’è una famosa storia in cui il padre indica al figlio se si trova d’accordo con gli altri quello della foto, che è quello col viso nero. E il figlio gli risponde: “Chi, quello col maglione rosso?”. Quindi il figlio distingueva l’altro non dal colore della pelle, ma dal maglione. E il padre no, dal colore della pelle. Ora questa è una differenza importante, perché finalmente i nostri giovani sono usciti dallo Stato Nazionale post-Westfaliano, sono tornati alla condizione in cui erano gli europei nel ’500, nel ’400, nel ’300 e anche prima. Nessuno si stupiva che il Moro di Venezia fosse moro, in realtà, mentre lo stupore è venuto tutto dopo. Loro sono gli assi portanti della cultura del futuro, ma, per non creare il corto circuito con i vecchi, devono avere l’intelligenza di giocare la partita su tutta la scacchiera, che è fatta del nostro Paese e dell’accoglienza di cui può essere capace, ma è fatta anche, ripeto, del ritorno incentivato e rafforzato nella possibilità di svolgere un’attività in loco. Badate che non è la stessa cosa che dire: “Spendiamo là per lo sviluppo dei Paesi d’origine”. Quella è un’altra cosa. Qui noi abbiamo già gli esseri umani, sono qua, vicino a noi, desiderano un futuro: non è obbligatorio che lo trovino sotto i ponti dove spesso li condanniamo a vivere! Possiamo noi stessi aiutarli a trovarlo in patria, e ne saranno essi stessi contenti. Un’ultima cosa, potenziale del nostro Paese: non entro in un discorso ampio sui beni culturali, sulle possibilità che abbiamo, anche troppe guardate: tra qualche anno chissà come faremo! Mi diceva l’altro giorno Dario Franceschini che il suo collega cinese gli ha detto: “Guarda, sono circa cento milioni i cinesi che ora si muovono verso i vostri Paesi per vederli, tra dieci anni saranno cinquecento milioni”. Quindi avete voglia a vendere acqua minerale a costi proibitivi a poveri cinesi. Insomma, speriamo di trattarli meglio col passare degli anni. Ciò che davvero dovete pretendere per utilizzare il potenziale del nostro Paese è – io condivido l’impianto dell’ultima domanda che mi è stata fatta – di non avere Governi che arrivino a dirvi “guarda quante cose ho fatto per voi”, ma che caso mai rimuovano ostacoli che voi incontrate nel fare, e che alla fine consentano a voi di dire: “Guardate quante cose abbiamo fatto insieme”. E questo è il vero potenziale che possiamo sfruttare.

LORENZA VIOLINI:
Grazie di cuore al Presidente Amato per questo suo intervento, per questa sua disponibilità a rispondere alle nostre domande. La questione culturale è una questione fondamentale, questo noi l’abbiamo sempre saputo. Monsignor Giussani all’inizio del suo percorso con noi diceva che le tre dimensioni dell’agire umano sono la cultura, la carità, e la missione. Ma tutto questo sta dentro la possibilità d’incontro con persone che ci aiutino, ci facciano capire il senso della nostra strada, e ci diano la capacità di riporre sempre le domande fondamentali, perché questa battaglia culturale sia una continua ricerca e ci apra a essere davvero aperti al nuovo, all’importante e al fondamentale. Grazie a Giuliano Amato, grazie a tutti voi che avete ascoltato, buona serata!

Data

20 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Illumia B1
Categoria
Incontri