Chi siamo
La fatica di essere giovani
In collaborazione con Cdo Opere Sociali
Alberto Bonfanti, Presidente Portofranco; Claudio Burgio, Cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano; Daniela Lucangeli, Professoressa di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, Università degli Studi di Padova; Dario Odifreddi, Presidente Piazza dei Mestieri e Presidente Consorzio Scuole Lavoro. Introduce Stefano Gheno, Presidente Cdo Opere Sociali. Modera Elisabetta Soglio, Giornalista del Corriere della Sera, responsabile dell’inserto Buone Notizie-L’impresa del bene. In occasione dell’incontro intervento di saluto di Stefano Bolognini, Assessore allo sviluppo città Metropolitana, Giovani e Comunicazione della Regione Lombardia.
L’incomprensione tra generazioni c’è sempre stata, certo che oggi la distanza è così ampia da farci pensare di essere di fronte ad una “mutazione” antropologica. Sono moltissimi i fenomeni emergenti che scavano sempre più profondamente il solco di questa distanza, uno dei tratti comuni ci pare essere una profonda riduzione della capacità di incontro tra giovani e adulti, che pure è uno dei caposaldi della relazione educativa. Vorremmo quindi ascoltare voci diverse che ci permettano da un lato di comprendere al meglio ciò che ci sta accadendo, dall’altro ci aiutino a porre le domande giuste, ricordando che mai come oggi è indispensabile un intero “villaggio” che educhi, mentre ciò che cogliamo sempre di più sono solitudine e isolamento.
Con il sostegno di Consorzio Scuole Lavoro, Tracce.
LA FATICA DI ESSERE GIOVANI
Elisabetta Soglio: Buongiorno a tutti, buongiorno, benvenuti. Ci stiamo ancora accomodando, abbiamo fatto all’ultimo uno spostamento di sala perché questo incontro che è dedicato alla fatica di essere giovani ha richiamato molto pubblico. Dicevamo prima con Monica Poletto: probabilmente richiama gli adulti che di fronte a questa fatica, faticano a dare risposte; e richiama i giovani che probabilmente si riconoscono in questa fatica di crescere. E sono molto contenta di essere qui, sono Elisabetta Soglio del Corriere della Sera, dirigo Buone Notizie l’inserto dedicato alle buone pratiche del terzo settore e nel numero che sarà in edicola domani parliamo appunto di giovani, cerchiamo di – come dire – dare continuità a questo focus che adesso affronteremo insieme e prima di iniziare con gli ospiti che poi vi presenterò uno per volta – e ne approfitto anche per salutare chi ci sta seguendo con le dirette streaming – vorrei chiamare sul palco accanto a me l’assessore Stefano Bolognini, Assessore regionale lombardo. Assessore, ti chiederei di venire sul palco. Grazie Assessore, un gelato te l’hanno dato? Qua, prendiamone uno. Vediamo subito se funziona, facciamo una prova microfono in diretta mentre il pubblico continua ad affluire. Funziona! Se ci aiuti a, così, introdurre un evento che ha un titolo già molto provocante cioè “La fatica di essere giovani”.
Stefano Bolognini: Intanto Buongiorno a tutti. Nessuno vuole banalizzare o sottovalutare una serie di problemi: i dati che il Covid, la pandemia, le nuove relazioni, hanno accentuato – peraltro chi verrà dopo di me lo dirà assolutamente in maniera puntuale e tecnica, perché lo vive ogni giorno – però a me piace vedere, in un momento di difficoltà, tanti giovani che affollano una sala, tanti giovani che hanno consapevolezza, che hanno un’energia positiva straordinaria, che vogliono essere protagonisti e che vogliono essere ascoltati. Quindi penso che il primo applauso vada fatto ai tanti giovani che hanno aspettato fuori per essere protagonisti e ascoltati in questo incontro. I giovani vengono spesso raccontati – e in parte è giusto – in maniera negativa, poi ci dimentichiamo di raccontarli nella loro quotidianità che è fatta di studio, che è fatta di volontariato, che è fatta di sport, che è fatta di amori, che è fatta anche di delusioni che però, se raccontate e valorizzate nel modo giusto, diventano stimolo e gratitudine per loro e, magari, esempio e stimolo per qualche altro giovane. Ecco, io penso che da lì si debba iniziare: l’ascolto dei giovani, la comprensione dei giovani, la valorizzazione. Se posso fare un appunto – e vado alla conclusione, ma è da questa mattina che mi mordo la lingua e l’ho detto prima al Presidente che me lo concederà – il Meeting da questo punto di vista è un’esperienza straordinaria perché i giovani possono essere protagonisti, possono dare, possono ricevere, possono maturare esperienze, possono vivere relazioni, possono nascere amicizie, possono nascere sentimenti, possono nascere stimoli. È un’esperienza bellissima che viene vissuta sempre e che qui esplode con tutta la sua energia. Forse qui abbiamo peccato di una cosa – io per primo -: il convegno che parla della fatica di essere giovani non permette a nessun giovane di essere sul palco con noi boomer; perché noi siamo boomer e baby boomer, quindi io pregherei …
Elisabetta Soglio: È vero
Stefano Bolognini: Lei no, lei no, ma è moderatrice quindi non c’entra.
Elisabetta Soglio: Cioè è giovane
Stefano Bolognini: Io davvero con questo fuori programma – e vado veloce alle conclusioni – a me piacerebbe che uno di loro quattro che sono in seconda fila – io non li conosco: lui perché prima ha salutato don Burgio – venisse sul palco a raccontarci qual è la fatica di essere giovane e che i relatori dopo di me, sulla base di quello che dirà, si confrontassero.
Elisabetta Soglio: Grazie a tutti, grazie assessore Bolognini.
Stefano Bolognini: Dai, sali
Elisabetta Soglio: Grazie Assessore, in realtà…
Stefano Bolognini: Salta su, in due
Elisabetta Soglio: In realtà questa esperienza da boomer
Stefano Bolognini: Dai, dai, via. Se no non ha senso che siano solo gli adulti che….
Elisabetta Soglio: In realtà noi le domande le abbiamo pronte e troveremo anche il modo per dare una risposta. Scusate sono stata spodestata da un assessore, cioè la politica che scavalca il giornalismo. Però ne approfittiamo. Ti chiami?
Giovanni: Giovanni
Elisabetta Soglio: Giovanni. E ti chiami?
Elisabetta Soglio: Gabriele. La fatica di essere giovani. Però intanto siete belli sorridenti e la mascherate anche bene,
Giovanni: Abbastanza.
Elisabetta Soglio: La fatica di essere giovane è un tema che ti fa sentire provocato, su cui vorresti fare una domanda a loro? Tanto poi gliele faccio io, a meno che sale l’assessore e fa anche le domande al mio posto, non so vediamo
Giovanni: Non saprei dire bene
Elisabetta Soglio: Dimmi
Giovanni: Ho visto qualcuno, qualcuno lo conosco, sono andato anche a trovare don Claudio poco tempo fa. Vedo tanta fatica in Università di stare a in Università in presenza, di stare a quello che incontriamo. Però guardando ad esempio Dario, don Claudio – che conosco – vedo qualcuno che ci educa anche a questo e quindi in verità è una fortuna.
Elisabetta Soglio: Comunque è vero che il Covid un po’ ha peggiorato la situazione? – Lo chiediamo magari a lui – Cioè, ha reso tutto un po’ più difficile anche perché vi siete un po’ disabituati a stare in mezzo alle persone, siete stati costretti a stare di più in casa.
Gabriele: Sì esatto. Infatti se devo pensare alla mia esperienza, quello che più mi ha aiutato – cioè vivere la realtà in università – e anche durante la quarantena, penso, ho cercato sempre di non essere da solo, di andare alla ricerca, comunque, per come potevo. E poi rispetto alla fatica – se devo dire – è l’incomprensione, cioè che una persona magari può essere tanto giovane, magari con competenze diverse da un adulto, da un dopo laurea, però questa magari è un po’ più una fatica, rispetto a una mia opinione, però vedo che il Meeting è un’espressione, invece, che da la parola a tutti, tipo adesso. Mi colpisce.
Elisabetta Soglio: Anche a me colpisce, mi ha colpito un casino anche a me… Però noi adesso, adesso ci arriviamo. intanto volevo sapere se il vostro giornale preferito, per caso, è Buone Notizie del Corriere della Sera, l’inserto del martedì?
Gabriele: Lo sarà. Sì!
Elisabetta Soglio: C’è Don Claudio, eh! Allora io vi tengo in affitto e poi andate a diffondere il verbo – come diceva quell’altro più famoso di me -. E in realtà noi la parola ai giovani – poi vi spieghiamo come – abbiamo pensato di darla alla fine di questo incontro in cui in realtà parleremo con persone che con i giovani lavorano e che cercheranno di trasferirci quali sono le difficoltà dei giovani. Però è stato bello avervi ascoltato. E io ho due lettori in più. – Vi controllo eh! Attenzione che vi registro – E quindi vi ringrazio. Però adesso – il microfono me lo lasci – grazie mille. E allora con me sul palco – grazie assessore Bolognini per questo fuori programma, comunque utile – e allora: Stefano Gheno, Presidente della CdO Opere Sociali; Alberto Bonfanti, Presidente di Porto Franco; – Stefano qua – Alberto Bonfanti, ecco Alberto!, Presidente di Porto Franco – la Dottoressa Daniela Lucangeli che è docente di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione all’Università di Padova; Dario Odifreddi, Presidente di Piazza dei Mestieri e del Consorzio Scuola Lavoro e don Claudio Burgio che già conoscete – la ola -. Avete tutti un microfono? Dario hai il microfono? Scusate faccio anche questo… no, ma andiamo bene così… lui è il nostro padrone. Stanno dicendo dalla regia: non va bene così, la Soglio non ha capito dove doveva sedersi, … va bene, però partiamo così. Allora Stefano, chiederei a te di fare -che hai un po’ costruito questo panel – di introdurci e di raccontarci perché siamo qui e perché parliamo di questo tema.
Stefano Gheno: Grazie innanzitutto, grazie a tutti di essere qui. Evidentemente anche le esigenze di spostamento dicono di quanto questo argomento sia centrale nella vita di tutti noi. La fatica di essere giovani è un titolo magari non proprio appealing – io in questo momento parlerei della fatica di essere anziani – perché ho la sciatica da 15 giorni quindi un po’ mi sento inibito – il colpo di scena organizzato dall’assessore Bolognini era del tutto inatteso ma mi è piaciuto perché ha dato dinamica, così, chiunque pensasse che sia tutto combinato sappia che non è vero, non si sapeva assolutamente niente. Allora perché ci sta a cuore questa questo tema? Ci sta a cuore perché ormai è alcuni anni che in molte opere sociali che si occupano di educazione sta suonando un grido, un grido vero, un grido di allarme. Molte persone – beh don Claudio è uno di questi, anzi ci ha un po’ provocato su questo, è stato proprio lui all’inizio – ci hanno detto: ma insomma, io faccio questo lavoro con i giovani da decenni ormai, ma mi sembra, non sono più sicuro che il mio modo di stare con loro e come loro stanno con me sia ancora quello che funziona, che è quello giusto. È come se ci fosse stato un cambiamento. Allora questa cosa qui ci ha molto provocato, ci ha interrogato e ci siamo messi in una – come dire – posizione di ascolto e adesso dico le tre cose che ci hanno aiutato un po’ a leggere questa cosa. La prima è che nel 2007 i fratelli Cohen hanno fatto uno splendido film che si chiamava Questo non è un paese per vecchi. In realtà noi oggi possiamo dire che questo non è un paese per giovani. I giovani sono, come non è mai stato nella storia, la minoranza assoluta, anche quantitativa, del paese. Allora questo non è banale. Qui abbiamo anche un amministratore, un politico, perché voi capite molto bene che le politiche si fanno per le maggioranze, non per le minoranze. Questo non è un paese pensato per i giovani. Questo è un paese in cui i giovani sono pochi, sono meno di tutti gli altri e – secondo passaggio – questo sta succedendo in una cosa che Papa Francesco più volte ha richiamato come un cambiamento d’epoca. Cioè questo dato oggettivo – che già di per sé è significativo, perché voi sapete che l’Italia è il paese con il più basso tasso di natalità al mondo – si scontra col fatto che il mondo sta cambiando, il mondo non è più come prima. E molto spesso noi, come giustamente ci ricordava anche l’assessore, che siamo tutti un po’ attempati – a parte le due signore che ovviamente, per contratto, hanno meno di trent’anni, questo sempre, proprio per definizione normativa – tutti noi, come dire, cerchiamo molto spesso di arrancare con il già saputo. È sempre stato così: il conflitto generazionale, tutte queste cose. Ecco, noi sappiamo – e questo poi ce lo dirà bene Daniela – che non è vero che è sempre stato così. C’è stato un peggioramento delle condizioni assolutamente esponenziale negli ultimi anni. Terzo e ultimo passaggio -perché non vorrei rubare tempo agli altri che hanno cose più interessanti delle mie da dire -. Molto spesso questo cambiamento d’epoca poi, sul lato umano, sul lato – come dire – della persona, ci sembra in realtà essere accompagnato da un cambiamento antropologico, cioè non è soltanto un problema di incomunicabilità giovani-adulti, di conflitto generazionale. Questo è ovvio che c’è sempre stato, è nella natura dell’uomo – essere evolutivo – e quindi è normale. Il punto è che ci pare che oggi il funzionamento sia proprio diverso. E questo ci toglie molti codici di comunicazione; e ci toglie anche molte risorse educative. Allora io sono convinto, Compagnia delle Opere è convinta, che noi dobbiamo assumere un nuovo atteggiamento che è innanzitutto un atteggiamento di domanda. Di domanda, non di risposta. Noi anziani siamo fortissimi sulle risposte, solo che qualcuno ci ha insegnato che una risposta data a una domanda che non si pone è del tutto inutile. Allora Io credo che dobbiamo ripartire dalle domande, e questo vuol dire porsi in una posizione di ascolto e di osservazione, prima che di giudizio. Non sto negando l’importanza del giudizio, sto dicendo che prima bisogna guardare e poi giudicare; bisogna ascoltare e poi giudicare; e magari con un po’ di simpatia e di passione. Per questo mi è piaciuta così tanto l’iniziativa dell’assessore. Poi vi diremo, vi racconteremo che cosa abbiamo pensato per dare spazio concreto, non soltanto di chiacchierate, a questa posizione di ascolto e di osservazione. Però adesso restituisco la palla a Elisabetta che ringrazio tantissimo per la sua disponibilità a guidarci in questa chiacchierata e io mi taccio.
Elisabetta Soglio: Grazie Stefano. Allora partiamo. Partiamo da un ascolto informato. Quindi chiederei alla Professoressa Lucangeli, che su questo ci può veramente dare una mano, di aiutarci intanto a delineare meglio questo fenomeno, insomma, magari con qualche dato, qualche elemento per capire la realtà di cui vorremmo parlare.
Daniela Lucangeli: Allora, intanto grazie di questa opportunità, ma disobbedisco anch’io un attimo e mi riferisco a Giovanni e a Gabriele – perché questi dati assumono un altro significato se rispondo un attimo a Giovanni e a Gabriele, Allora, alla domanda – perché loro l’hanno saputa fare, dare la loro risposta alla domanda – leggi cosa c’è di buono in ciò che scriviamo, ti hanno risposto da stasera. Ecco prendo questa sfumatura per dire una cosa da chi studia. È vero che il nostro presente è condizionato da due elementi: uno è il passato – cosa ci è accaduto – e le nostre memorie ci portano, sulla base di ciò che ci è accaduto, a decidere dove procedere con la nostra vita mentale, fisica, comportamentale. Il nostro passato è dominante. Ma il presente – ce lo spiegherebbero bene i fisici – non è condizionato solo dal passato ma anche dal futuro. Il futuro ha altrettanto potere di determinare l’oggi perché determina dove ci porta il desiderare il futuro; se noi smettiamo di avere questa forza d’anima, psichica, esistenziale non è che sarà faticoso vivere per i giovani, sarà faticoso esistere, perché manca il processo fondamentale che è quello di trasformazione, di evoluzione, di dinamica verso il meglio. Quindi – riassunto – cos’è successo con la pandemia? Con la pandemia è successo quello che succede quando fa tempesta. Non è la pandemia che ha causato l’evidenza di questo malessere che ci ha coinvolti tutti, piccoli e grandi e anziani; è che la pandemia ha fatto – avete presente quando è arrivata burrasca, il mare ha portato qui – tutti quanti lo possono testimoniare – in spiaggia, quello che nel mare era stato buttato. E cosa c’era stato buttato? Un sacco di immondizia. Quindi quello che abbiamo visto non sono state sementi, conchiglie e creature viventi. Abbiamo visto un sacco di plastica e di immondizia. Così succede per quello che ha portato la tempesta della pandemia. Noi avevamo messo dentro il nostro sistema educativo un sacco – chiedo scusa per la parola – di immondizie; cioè di stati di tensione, di stati di non soluzione, di non visione del futuro.
Elisabetta Soglio: Noi educatori?
Daniela Lucangeli: Noi educatori, noi adulti che siamo abituati ad agire per reazione alle memorie del passato. E questo è contro filogenesi, cioè contro natura, per quella che è un’età in cui il compito fondamentale è la visione di futuro. Le memorie devono dare radici non prigioni, devono aprire spazi di libero movimento, altrimenti noi siamo condizionatori, non siamo educatori ed educare – la radice profonda della parola – è portar fuori ciò che sei tu, la tua natura migliore. Ecco che allora per me, ritrovarsi in un contesto come questo a capire cosa significa per esempio l’I care, che non è “io ti curo”, perché questa è la visione che dobbiamo capire bene – soprattutto per il tema che stiamo affrontando – non è “io ti curo” e tu sei oggetto di una cura da parte mia, ma come l’ha detta Don Milani, cioè tu – soggetto – stai a cuore mio, a me. Quindi tu mi stai a cuore. Quello è l’atteggiamento che e-duce, porta fuori te, e io sono mezzo, strumento educativo perché tu vada verso il futuro, non perché tu porti il peso delle mie memorie e delle mie strutture, diciamo così, che hanno fatto i conti con le proprie ferite. Riassunto: i dati …taccio
Elisabetta Soglio: No, diciamo qualche dato perché comunque…
Daniela Lucangeli: I dati. Eravamo abituati fino a qualche tempo fa a dividere chi sta bene e chi sta male, e chi sta male aveva indicatori mentali che ci portavano un incremento delle curve che ci ha fatto urlare tutti su quelle che sono le condizioni che non dovrebbero esistere, come il desiderio di non vivere più dei i nostri figli, l’autolesionismo, i disturbi dell’umore. Ma tutte queste cose, se io guardo le conferenze che facevo prima della pandemia, le andavo a chiamare con l’etichetta di “pandemia dei disturbi dell’umore” perché c’era una situazione in cui c’erano tutti i segnali che i nostri figli avevano una scuola che era proprio dominata dall’ingozzamento cognitivo, totalmente sorda all’intelligere che sente, al sentire della mente; un sistema educativo che era sgretolato nei sistemi di futuro desiderabile; quindi eravamo abituati a condizioni di altissima criticità che sono rimaste le stesse ma incrementate esponenzialmente nei numeri. E queste implicano tutte una condizione di autodistruzione tale per cui l’autolesionismo – cioè i ragazzi che si tagliano, i ragazzi che si chiudono a casa, diventano interlocutori dell’intelligenza artificiale e che smettono di desiderare di uscire con gli altri – sono, diciamo, quasi considerati …è quasi normale che ci accada nella famiglia o nella famiglia a fianco. Ma accanto a tutto questo c’è una normalità. Io adesso sento un silenzio del respiro. Respirate! C’è una normalità che è una norma, dobbiamo essere onesti, guardiamoli. Allora, vi do dei dati della normalità, cioè dei nostri figli che non sono a rischio. L’emozione più percepita – e significa che ci stanno l’80% del proprio tempo di vita – è l’ansia. Noi abbiamo che a 16 anni l’emozione che dura più a lungo nei circuiti mentali è l’ansia; poi l’ansia è accompagnata da condizioni di solitudine, cioè si sentono non compresi – Gabriele – e soli, la solitudine. E sono in un’era in cui più connessione di questa non ce n’è; e la solitudine fa parte dell’esperienza di tutti in questo momento. Poi ci sono delle emozioni che sono, per esempio, molto più legate all’ira che la rabbia. L’ira è una condizione proprio che ha velocità di presenza, hanno proprio uno stato di tensione continua; e l’apatia, il non desiderare più niente come altamente desiderabile, questa è quella che a me personalmente dà un senso di “mi manca il respiro” come voi adesso. Allora se io faccio a me il ragionamento che ho proposto a voi e mi chiedo: ma io che futuro desidero? Ma desidero un futuro in cui i miei figli, i figli dei miei figli, i figli di tutti, siano in una condizione in cui oscillano tra l’ansia, l’ingozzamento cognitivo che la scuola impone, la solitudine nelle relazioni – pur avendo tutte le possibilità di essere immersi in un mondo totalmente interconnesso – e, costantemente, lì a essere in qualche modo – come potrei dire – incapaci di visione del proprio bene migliore attraverso le figure che sono le figure che, per natura, sono state messe a fianco come strumenti di trasformazione migliore. No io questo mondo non lo desidero.
Elisabetta Soglio: Cioè, giovani un po’ paralizzati da queste …
Daniela Lucangeli: Voglio un mondo diverso, voglio un mondo diverso, un mondo in cui io mi assumo le mie responsabilità. E devo dirlo con onestà, io non l’ho incontrato don Giussani, quindi io non ho il riverbero di questo suo messaggio; io ho letto quello che lui ha scritto, ma quello che sento è che questo tempo è molto più vicino al limite, e ha bisogno di un’istantanea decisione di “alzati e cammina”, di un’assunzione di responsabilità che ha desiderio di un futuro in cui il mondo che sono io abbia pace e bene per tutti e per ciascuno, e che l’interconnessione non sia un artificio ma sia: tu sei per me ciò che mi sta davvero a cuore.
Elisabetta Soglio: Grazie, grazie mille prof, grazie! Allora, grazie perché appunto il quadro tratteggia una realtà con cui ogni adulto educatore, professionista, insomma, si si confronta ogni giorno. Don Claudio Burgio: partirei proprio da questo, da quest’idea. Questi giovani normali – diciamo – perché la cosa preoccupante del messaggio che c’ha dato la professoressa Lucangeli e che, comunque, è diventata normalità vivere queste situazioni, appunto, di ansia, di apatia, di fatica, di mancanza di voglia di progettarsi un futuro. Come sono i ragazzi che vedi e a cui cerchi di stare vicino?
Don Claudio Burgio: Bene, grazie dell’invito. Sono contento di essere qua insieme a voi. L’emergenza educativa: se ne parla da decenni. Io penso che la storia dell’uomo sia sempre un’emergenza, forse in questo periodo particolarmente evidente. L’emergenza educativa, però, va letta in una chiave diversa, non come qualcosa di negativo, come crisi che in qualche modo alimenta un pessimismo educativo, ma come occasione, come kairos appunto, come possibilità. Perché l’emergenza cosa vuol dire? È fare emergere, rendere visibile ciò che magari per decenni non hai voluto guardare, è portare alla luce l’inguardabile, l’inascoltabile, ciò che in qualche modo la generazione adulta ha messo da parte. Allora sì, io da un po’ di tempo vivo con quei ragazzi che nelle loro modalità violente, purtroppo, nelle loro modalità distruttive e anche a volte autodistruttive, però, parlano a noi adulti. Zaccaria è uno dei miei ragazzi più discussi del momento – in arte Baby Gang – in una delle sue canzoni Trap dice “non so dirti ti amo, perché nessuno me l’ha mai insegnato”. Ecco, in una maniera semplice dice qualcosa di importante, perché qua magari qualcuno potrebbe dire: “ma noi abbiamo amato i nostri figli”. Un genitore, per esempio, mi diceva: “Io non ho mai fatto mancare nulla a mio figlio”. Ecco, il problema è questo: che cosa significa amare? Perché forse la contestazione più forte che certi ragazzi che incontro io stanno, in qualche modo, portando a noi, al mondo adulto, è proprio questo, cioè: che noi siamo dentro un conformismo, una cultura del possesso, una cultura dove vige la dittatura del profitto, dove la cultura prestazionale è tutto: tu vali se ottieni risultati. Ma i nostri ragazzi ci stanno dicendo che non è questa l’unica prospettiva di vita. Almeno, loro non si trovano dentro questa prospettiva. Ecco perché rifuggono o contrastano l’autorità. Se poi l’autorità diventa semplicemente un esercizio dispotico di potere – in termini repressivi, in termini di confinamento, di esclusione – è chiaro che il ribollire di tutto quello a cui assistiamo in questi tempi diventa evidente, diventa anche tragico a volte. Allora io penso che la testimonianza sia invece la forma più bella e quella più ancora ascoltata dai ragazzi: l’autorità come testimonianza. E allora occorre che il mondo adulto si interroghi, riparta da quel “vieni a vedere” e il “vieni a vedere” è tipico di chi fa una proposta inedita. Non sai quale sia il percorso, anche tu cammini a fianco. Per me l’educazione è paideia, è questo camminare a fianco dei ragazzi che incontro senza avere certezze assolute, senza formule magiche. Perché alcuni strumenti sono …, si è sempre fatto così e allora bisogna andare avanti così. Ecco, io penso che la società, la cultura siano interpellate da questi giovani e anche la Chiesa. Io sono un prete – faccio autocritica – però la Chiesa deve ritornare sulla strada, c’è poco da fare. Non bastano gli ambienti chiusi, non basta proteggere, un certo tipo di pastorale, un certo tipo di comunicazione della fede dentro ambienti molto chiusi. Occorre ritornare a confrontarsi con la realtà di questi giovani e la realtà spesso è difficile da decifrare e non possiamo sempre decodificarla con le nostre categorie interpretative. Quello che io cerco di vivere ogni giorno è proprio quello di mettersi in ascolto, anche di ciò che è nuovo, di ciò che non riesco ancora oggi a spiegarmi, di ciò che in qualche modo rappresenta anche per me qualcosa di inatteso. E certo, uno potrebbe dire, il fenomeno della Trap che in questo periodo mi si è avvicinato, mi si è attaccato addosso sono stato perfino definito il prete dei Trapper – eh, non esageriamo – però il problema è proprio questo: che cosa ci sta dicendo questo genere musicale? Perché questo genere musicale è così pervasivo e incontra anche il gusto di giovani e di ragazzi che hanno vissuto un’esperienza di normalità, che sono stati accuditi e quindi non appartengono alle fatidiche seconde generazioni, ma sono i nostri figli. Perché queste canzoni arrivano, e arrivano così forti? Ecco noi ci dobbiamo interrogare su questo. Quindi io non ho risposte, come sempre. Sono anch’io davanti a una domanda che mi interpella ogni giorno. Io penso che oggi il mondo delle istituzioni, il mondo dell’adulto, debba avere il coraggio di vincere la paura, la paura di non riuscire più a controllarli, la paura di chi non sa più come affrontare questa generazione. Beh, diciamoci la verità, dobbiamo ritornare ad essere adulti coraggiosi. E coraggiosi vuol dire che sanno mettersi davvero a fianco di questa generazione, senza giudicarla ma cercando anche di imparare da questi ragazzi; perché nelle loro modalità spesso – ripeto – violente, però questi ragazzi ci stanno, in qualche modo, mettendo in crisi; e mettono in crisi la nostra cultura, quella fondata sulla prestazione. Il mondo della scuola – e continuo a dire: nessuno colpevolizza la scuola e gli insegnanti, non c’è sempre questo metodo di trovare sempre il colpevole – però dobbiamo anche dirci che la scuola è il tempio della prestazione; e il voto è – come dire – il simbolo di una cultura – anche didattica -. Ecco, allora questi ragazzi non riescono a starci dentro, molti ragazzi non riescono a starci dentro, per tutti quei fenomeni – che poi vengono anche studiati – che dicono un cambiamento anche di vario tipo, ecco. Per cui io penso che noi dobbiamo avere il coraggio di nuove sfide. Lo dico al mondo della scuola: i nostri ragazzi della comunità non trovano scuole. C’è niente centri da fare, è difficile. Porto Franco mi ha aiutato tantissimo, ma le scuole, anche quelle professionali, insomma, è difficile inserire uno dei nostri ragazzi in percorsi didattici perché c’è un programma stabilito, perché c’è un codice a cui attenersi ma non c’è questa sfida della libertà. E poi l’ultima cosa che dico è questo: ritornare ad appassionarsi all’uomo. Ecco, in questo contesto del Meeting va proprio detto: la passione per l’umano, la passione per ciò che anche l’uomo produce, anche nelle sue espressioni più giovani, ecco, ci mette in discussione, ci mette anche in un atteggiamento però – per quanto mi riguarda – anche di speranza. Ecco, direi proprio questo: l’emergenza è sintomo di speranza, non è solo una cosa negativa.
Elisabetta Soglio: Grazie don Claudio. Poi magari ne riparliamo, perché poi tu dicevi – a un certo punto -: questi giovani ci mettono in crisi. Io mi chiedo sempre se sono i giovani che ci mettono in crisi o se siamo anche noi adulti già in crisi e quindi rendiamo più difficile anche ai nostri ragazzi esprimersi, sentirsi compresi e accuditi. Dario Odifreddi, Presidente di Piazza dei Mestieri, educatore proprio per passione, tu ti riconosci in questa … cioè, dall’esperienza che tu fai e che tu vivi ogni giorno con i tuoi ragazzi, vedi questa loro fatica, questo loro – quasi un po’- immobilismo, come se fossero bloccati da tutte queste paure, da tutta questa fatica di presentarsi, di farsi amare e accettare?
Dario Odifreddi: Parto però dall’ultima cosa che hai detto che è molto interessante, cioè, il tema non è che siamo noi adulti che abbiamo perso la speranza e il desiderio. Questo è un tema fondamentale nell’aspetto cattivo. Io termino praticamente tutti i convegni – quelli che si fanno tra boomer, dove si parla dei giovani, quando si parla dei giovani in astratto -. Cioè io in Piazza dei Mestieri ho in mente Caty, ho in mente Aziz, ho in mente Adriano, ho in mente Marco, cioè ho in mente delle persone. Quando si parla di giovani si parla di categoria astratte: i NEET, la disoccupazione giovanile, eccetera. Ma io chiudo sempre dicendo: “basta con questa cosa che sentiamo ripetere continuamente dagli adulti – in continuazione – che vi dicono: voi vivrete peggio di come hanno vissuto i vostri padri. E chi se ne frega! Accettate la sfida e cercate di vivere meglio. Voi vivrete e sarete precari, voi vivrete e non avrete una pensione. Cioè, una mancanza di speranza anziché sfidare la vostra responsabilità e insieme provare ad accompagnarla, a costruire insieme un percorso, ci si blocca. Un ragazzino di 16 anni -avevamo un incontro con un po’ di politici e uno si è portato il figlio di 16 anni e a me faceva un po’ di tenerezza ‘sto ragazzo, perché si parlava di astrusissime e questo non sapeva dove guardare-. Allora ho iniziato a parlare con lui. Gli ho detto: “Ma tu cosa fai nella vita?” “Il liceo” “Ma cosa pensi per il tuo futuro?” Ha detto: “Eh guarda, io sono preoccupatissimo perché penso al precariato”. E a 16 anni si pensa – gliel’ho detto in termini meno corretti, ma diciamo – alle farfalle nello stomaco, alla prima ragazzina da portarti al mare, a che cosa vorrei fare da grande di mestiere. “Eh no io c’ho il precariato” cioè questa tragedia. È impressionante! Invece tutta la sfida è sul desiderio. Io ho sessant’anni ma io ho il desiderio potente come ce l’avevo a 14 anni, cioè io ho una passione che è quella che avevo a 14 anni, grazie a tante cose che non ho il tempo di raccontarvi, soprattutto grazie a una però: che io ho sempre trovato qualcuno – per culo – nella vita che mi ha abbracciato, e mi ha abbracciato per com’ero, non per come dovevo essere, senza nessun ritegno; e questo … guardi, faccio degli esempi, perché a me viene più facile, si capisce no? A un certo punto facciamo un percorso per un gruppo di bulli perché le scuole escono sui giornali e scrivono: gli insegnanti non vogliono più entrare in classe se non ci sono i carabinieri. Ci sono i bulli, non andiamo più. Allora con le scuole con cui noi abbiamo una serie di rapporti, ci infornano uno stock di bulli. Questi arrivano in Piazza dei Mestieri – bulli, non quelli delle medie … roba seria, che hanno sparato, ammazzato; e questi arrivano in Piazza dei Mestieri -. Inizio, primo giorno: casino. Allora l’insegnante li richiama dicendo “Vi metto una nota” e uno di questi dice “Come? Ma io ammazzo la gente e te mi metti una nota”. Solo che a un certo punto uno di questi bulletti dice: “Ma sì perché qui nessuno dice mai qualcosa di buono su di noi”. E lì l’insegnante ha avuto lo scatto educativo e ha detto: “Hai ragione, da domani sul registro scriviamo una cosa buona che ognuno di voi ha fatto, e voi mi dovete aiutare a scriverla”. È cambiato tutto, cioè sembravano chierichetti il giorno dopo. Cioè. voglio dire, è come questo, ma capite che la sfida che vuol dire metterti -lo diceva prima qualcuno- metterti a guardare, devi guardare l’altro che hai di fronte. Faccio un altro esempio tipico dei boomer. Arrivano le lavagne – come si chiamano? Le LIM, ma parlo di 10 anni fa, 15 anni fa – arrivano le LIM. Cosa fanno quelli fighi della piazza i mestieri? LIM a rullo, tutte le classi piene di LIM. Gli insegnanti non capivano cosa devono fare. Una classe hackera di brutto le LIM quindi ogni volta che l’insegnante tentava di entrare questa – la LIM – faceva uscire delle cose improponibili, questi disperati… La vicepresidente della Piazza dei Mestiere – Cristiana Poggio, vero genio educativo della Piazza dei Mestieri che oggi non può essere qua con noi – dice: “Cosa facciamo?” Allora va in un negozio, compra una coppa e il giorno dopo si presenta in classe e dice: “Avete vinto, siete i migliori, cioè, è inutile che competiamo, cioè, noi non giochiamo neanche per il podio, proprio non ci siamo. Però, ma perché non ci date una mano e insegnate anche ai nostri insegnanti e così diventa più figo per tutti fare lezione?” E questo è cambiato. Taccio gli esempi ma se ne potrebbero fare mille. Per cui, il primo tema è: sì, noi vediamo una debolezza, ma questa debolezza si sfida abbracciando e chiamando a una responsabilità. Noi diciamo sempre che noi abbiamo iniziato a vincere quando uno dei nostri, uno qualsiasi dei nostri ragazzi, dice – con quella frase molto bella di quel vecchio slogan de L’Oreal – “Io valgo”, quando uno ricomincia. Perché guardate che la cosa più impressionante quando arrivano da noi, hanno proprio una fragilità – che è anche cresciuta nel tempo, che vediamo crescere – e la cosa più importante non è che gli insegni a fare il pasticcere, l’informatico. Cioè, la cosa più importante è che devono pensare che nella loro vita valgono qualcosa. Ma questo vale per me, questo vale per noi. Io valgo. quando tu dici “Io valgo” ricomincia tutto, e come dice quella poesia di una nostra ragazza che non vi leggo tutta, se non mi dicono che leggo sempre ‘sta poesia, e però è vero perché io la amo. C’è un punto in cui uno comincia a dire: non è più male la mia vita, non è più tristezza e il mio futuro. Solo mi resta male il ricordo, ma è un tempo passato, un tempo dimenticato perché qualcuno con l’abbraccio del bene può trafiggere la solitudine. Questa è la scommessa educativa che noi facciamo e questo ci chiama oggi a cambiare. Noi oggi potremmo dire: che bella la Piazza dei Mestieri, ormai ci conoscono tutti, finiamo sui giornali. No, noi dobbiamo guardare. Io a ottobre, dopo tanto tempo – facendo il capo faccio tante cose, meno quello di andare in aula – tornerò, perché voglio capire di più questa cosa che voi avete descritto, che cosa sta succedendo. Grazie.
Elisabetta Soglio: Grazie. Alberto, Alberto Bonfanti, Porto Franco: questa grandissima opera per i giovani e che coinvolge anche i giovani. Da dove siete voi, insomma, che cosa vedete? Vedete questa fragilità aumentata con il Covid? Vedete la difficoltà degli adulti a dare risposte o, comunque, il tentativo di questi giovani di cercare risposte e di non trovare lo sguardo di cui stiamo parlando?
Alberto Bonfanti: Innanzitutto io sono molto contento e grato dell’invito; e sono molto contento di insegnare da 35 anni, di stare in mezzo ai giovani perché questo ti aiuta a essere giovane. Infatti, nonostante l’età, ho ancora una posizione giovanile e sono contento di questo. E poi sono molto d’accordo con quello che è stato detto fino adesso da tutti i nostri amici: che innanzitutto l’emergenza educativa è una grande sfida, e una grande occasione. E io vorrei partire… Porto Franco è nato proprio sull’idea che la prima serietà che i ragazzi devono avere è con la con la prima realtà, che è la scuola. Quindi Porto Franco a Milano, ma nelle varie reti, è nata dalla passione degli educatori per dei ragazzi che volevano aiutare, a – come dire – ad accompagnare nella prima fatica, perché tutti i disagi partono da lì, partono da disagi nelle famiglie, o dal disagio nel non riuscire a realizzarsi nel primo impatto che è la scuola. Ma, dicevo, io volevo partire nel come vedo i giovani. Mi ha colpito molto quello che il Papa ha detto ai giovani il lunedì dell’Angelo, che ha detto ai ragazzi “non dovete vergognarvi di dire le vostre paure”. Perché i ragazzi hanno paura; si vergognano a dire le loro paure – come è stato detto – l’ansia, la solitudine. Io non mi dimenticherò mai – hanno paura di loro debolezze anche le loro fragilità, anche i loro drammi – io mi non mi dimenticherò mai una ragazza – io insegno anche in un liceo scientifico a Milano – una ragazza che era, appunto, leader del collettivo, quindi leader della scuola, interconnessa – come diceva la professoressa -. Gli è morta la mamma e non lo sapeva nessuno, se non un suo compagno di classe. Allora io poi ho visto i ragazzi – quel giorno sono successi due casi così – “ma perché? Siete amici e non ve lo dite?” e mi ha colpito “Grazie, non vogliamo essere compatiti”. Cioè, cosa c’è dentro questo non voler essere compatiti? Che non vogliono essere definiti dalle loro debolezze, dalle loro fatiche e, soprattutto, come ha detto il Papa, per non aver vergogna di queste paure bisogna dirle a qualcuno, bisogna avere un padre, un amico a cui poterle dire e che le accoglie, le accoglie perché non ha paura di queste paure. Per questo io penso che la questione decisiva – ma lo diceva già – io lo dico con un’espressione che mi ha colpito molto del nostro amico don Gino Rigoldi, che una volta che è venuto a Porto Franco ha detto: “io…”. – Tra il resto ragazzi, chapeau – per dirla con Cassano – nell’incontro di Bobo, nella trasmissione del calcio – a ottant’anni vive ancora con dei ragazzi. Questo per dire che la passione educativa non è una questione di età.
Elisabetta Soglio: Beh direi anche 82/83
Alberto Bonfanti: Esatto che ha appena ha fatto ottant’anni è stata la festa a Milano … e vive ancora con 10 ragazzi E si vede che per lui la passione è la passione per la grazia di Cristo che ha incontrato. Comunque lui diceva: “Ho visto tante generazioni di giovani: la violenza, il sesso, l’ideologia, ma i ragazzi di oggi hanno bisogno di padri, cioè, hanno bisogno di persone che vivono un’esperienza positiva della realtà e che in forza di questa esperienza positiva della realtà la comunicano. Si accompagno i ragazzi in questa vita, in questa avventura, e accompagnandoli, i ragazzi crescono loro. Perché poi il Papa – sempre in quel discorso bellissimo e breve – ha detto anche: “Però voi ragazzi avete una cosa in più degli adulti, che noi adulti spesso perdiamo, avete il fiuto del vero,”. Ed è vero, avete il fiuto, cioè: sanno, misurano – nel senso positivo, in questo, caso del termine – l’adulto che hanno davanti. Sanno se tu stai con loro perché devi indottrinarli, perché hai un progetto anche buono su di loro; e i ragazzi sono allergici a qualcuno che vuole dire a loro che cosa fanno, che cosa devono fare. O se invece stai con loro perché gli vuoi bene, stai con loro perché, volendo bene a loro, vuoi bene a te stesso, crescite te, stai in questo abbraccio. Io – lo citavo prima alla Professoressa – ho avuto la fortuna di conoscere di persona don Giussani; e perché Don Giussani ha preso tanto? Perché ha preso me? Perché quando io parlavo con lui io per lui ero tutto, tanto che lui – stanco o non stanco – si riaveva, fisicamente. Non sembrava più stanco. I ragazzi hanno fiuto ed è per questo che la crisi dei giovani è la crisi degli adulti: hanno fiuto nel recepire se stai davanti a uno che fa un’esperienza positiva e che sta con te per amore, per comunicarti, per tirar fuori da te il bene, che è già. Il nostro slogan sulle scale di Porto Franco: è una frase di Plutarco: “I ragazzi non sono vasi da riempire ma fuochi da accendere”. Oppure, se li vuoi misurare, se vuoi calcolare, se li vuoi sfruttare. E finisco. Il Papa concludendo diceva anche: “Avete il fiuto e allora buttatevi nella vita, cioè aderite, seguite quelli che scoprite che vi affascinano, non abbiate paura” perché la paura che i ragazzi hanno di legarsi, di legarsi stabilmente, tutto all’istante, ma perché han paura di legarsi stabilmente? Perché hanno fatto l’esperienza che sembra che tutto – magari anche dalle loro famiglie – non dura. Per questo c’è bisogno di adulti che facciano una compagnia come ci ha detto il cardinal Zuppi nell’incontro dei volontari di Porto Franco il 21 giugno: di ragazzi, di adulti – che possono essere anche un luogo -. Porto Franco vuole essere questo luogo in cui adulti fanno una compagnia stabile, paziente, non misurata, che non vuole misurare ma che rilancia sempre affinché venga fuori il bene che ciascuno di loro è. Grazie.
Elisabetta Soglio: Grazie Alberto. Sempre per cercare di ridare la parola ai giovani – anche se secondo me emerge sempre di più da ogni intervento che stiamo facendo che è la fatica è di noi adulti, cioè quelli che sono in crisi, in questo momento, siamo noi. Ma per tornare invece a cercare di dar la parola ai giovani, chiedevo alla Professoressa Lucangeli: ci puoi dare una mano a leggerci, proprio a raccontarci qualcosa delle conversazioni no che tu hai raccolto?
Daniela Lucangeli: Lo faccio volentierissimo…
Elisabetta Soglio: Però?
Daniela Lucangeli: Sì, però…
Elisabetta Soglio: Serenamente…
Daniela Lucangeli: C’è stato un tempo in cui io ero un Asperger non compensato e studiavo da persona che aveva il proprio fine nella scienza; e lo facevo con un’onestà profondissima. Poi incontrai – e vedo lì davanti – Mario Dupuis e tutti gli amici di questo gruppo che a Padova aiutavano i ragazzini – e mi mise di fronte ad una ragazzina vera che si chiamava Natasha che dopo tutte le violenze che aveva subito nella vita inspirava la colla, la coccoina – vi ricordate – perché aveva tutta una serie di componenti che attivavano il sistema dei circuiti talamici a provare un certo senso di benessere psichico. Quindi: perché ve lo sto raccontando questo? Perché voi avete parlato di sguardo, avete parlato di abbraccio. Allora io da persona che ha studiato tanto, vi vorrei far fare un minuscolo esperimento di 30 secondi, cioè, guardatevi gli uni con gli altri – occhi dentro gli occhi – per almeno 15 secondi. Via, guardatevi negli occhi!
Elisabetta Soglio: Anche noi?
Alberto Bonfanti: Anche dobbiamo guardarci negli occhi?
Daniela Lucangeli: Perché? noi chi siamo?
Daniela Lucangeli: Adesso che ho fatto questo, sfidiamo – dell’ultima cosa giocate, perché dobbiamo tornare ad appassionarci all’umano e l’umano è un principio universale reso carne, non c’è niente da fare. Quindi adesso sfidate il Covid – per piacere non respirate, per quanto ci riuscite – e vi abbracciate l’uno con l’altro. Forza abbracciatevi, sperimentate l’abbraccio.
Elisabetta Soglio: vabbè ma a me sta sfuggendo il controllo di questa cosa …OK basta …Ok basta, basta abbracciarvi.
Alberto Bonfanti: Potete staccarvi. Speranza ci chiude il Meeting.
Daniela Lucangeli: Adesso, guardandovi da qui dove vi vediamo noi, vi vediamo tutti talmente più sani da essere perfino più belli, perché il cervello – che non è un organo, ma una struttura che è intessuta nell’intero corpo, fino alla periferia della pelle, che intessuto nella pelle attraverso dei neuroni speciali che si chiamano c-cell, è un cervello che ha sentito di star bene perché ci sono due interruttori che hanno impiegato milioni di anni evolutivi di filogenesi – che sono lo sguardo, il tocco, l’abbraccio – che comandano alle aree del nostro cervello di produrre i neurotrasmettitori dell’umore. Riassunto: noi educando abbiamo bloccato le centraline universali di specie del bene che sono il guardarsi, il toccarsi, cioè mi stai a cuore, io ti tocco e ci siamo connessi artificialmente invece che direttamente e l’abbraccio – pensate che 30 secondi di abbraccio comandano all’amigdala di produrre l’ossitocina che è l’ormone che consente alle madri di partorire con un dolore tollerabile -. Riassunto: abbiamo bisogno di recuperare questi universali di specie che sono quelli che, filosoficamente, ci sembrano miracolosi: mi ha guardato, mi ha abbracciato, mi ha accolto. È secondo natura che siamo stati concepiti così. Se invece tutto questo lo perdiamo e alla carezza attribuiamo addirittura ciò che di malizioso invade l’altro, allora abbiamo veramente un corto circuito nella forma mentale… adulta. Riassunto: ora vi leggo Giovanni perché lui ci dà le soluzioni…
Elisabetta Soglio: Che non è il Giovanni che era già salito sul palco prima,…
Daniela Lucangeli: Ma è un altro Giovanni
Stefano Gheno: Abbiamo diversi Giovanni…
Daniela Lucangeli: Abbiamo diversi Giovanni. E Giovanni ha 17 anni. Io ricevo tantissime mail da tantissime persone di cui non so il viso, non so nulla; e da tantissimi ragazzi che, evidentemente, trovano nel fatto che comunque mi trema la voce quando parlo con loro, che non c’è soltanto…, c’è la mia testimonianza, a modo mio. Io ci metto la mia persona come posso. E quindi Giovanni mi scrive, mi scrive dopo aver letto un libro in cui io parlavo della solitudine e parlavo di quella pubblicità della particella di sodio – vi ricordate? – ecco. Allora Giovanni mi scrive così: “Prof. non ne posso più, non ne posso più, non ne posso più, mi sento solo tra tanti soli, solo proprio come quella particella di sodio, dispersa nell’acqua. ‘C’è nessuno?’ chiedo ‘C’è nessuno?’ Così mi sento io: solo, e assetato di gioia da condividere. E perché? Perché la storia vampira degli adulti ha trasformato la mia scuola in un verificatoio, e gli affetti in cactus a cui avvicinarmi con cautela e circospezione – metti mai mi facciano un PDP perché sono più sensibile degli altri -. Non per arroganza prof, ma per necessità e apnea, vi do qualche suggerimento, per voi e i vostri congressi sapienti”. E qui mi dice tre cose che veramente c’è da inchinarsi. Dice: “Fabbricate pillole di gioia in parole, opere e omissioni. In parole: tornate a dialogare con chi mettete al mondo; in opere: cominciate a vivere insieme a chi mettete al mondo; e in omissioni: omettete il vostro peso dalle loro ali.” E voi prof avete suggerimenti migliori? Riassunto: io sono rimasta senza parole perché fabbricare pillole di gioia … Se io vi dicessi cosa fa la gioia al cervello incarnato e di come generi un picco che è un picco che dice “cerca ancora!” e che attiva la passione. E che noi non generiamo gioia significa -assumiamoci le nostre responsabilità-: dialogare con i nostri figli non è chiedere loro: dove sei andato? con chi sei stato? hai studiato a scuola? che voto hai preso? Non e continuare a chiedere a loro risposte. Quindi la proposta che ci fa Giovanni è dialogare. Dialogare è io a io, te a te, io e te: è noi. È generare il noi. E il generare il noi ha bisogno dello sguardo; perché il cervello, da milioni di anni evolutivi, il noi lo regola con lo sguardo – è io e te – lo regola con la prossimità in cui quello sguardo di don Giussani a te ha detto “Sei il mio intero mondo.” E nel mio linguaggio è: tu mi stai a cuore, ma mi stai a cuore intero. Non mi stai a scuola né perfetto, né potato, ne prestazionale. Tu mi stai a cuore: il fatto stesso di riuscire a sentirlo modifica il fatto che il cervello lo emette e l’altro – e qui torno a te – lo sente vero; perché loro nell’età che stanno transitando hanno da milioni di anni evolutivi questo compito: riconoscere l’autenticità della strada da percorrere. Quindi non è – scusatemi se lo dico – una questione di superficie, a ragionamento; è una legge secondo come siamo stati disegno – disegno meraviglioso – di anima e corpo. Riassunto: anche in omissioni – è l’ultima cosa che vorrei dire – quando ho iniziato con il discorso delle memorie, non l’ho iniziato a caso. Noi appesantiamo il loro volo di tutte le nostre ansie, preoccupazioni, debolezze, vulnerabilità, incompetenze, e io direi – diciamo – infantilismi. Scusate se lo dico – ma senza giudizio -. E soprattutto questo: noi giudichiamo, non aiutiamo, noi siamo in qualche modo caduti in questo errore fondamentale in cui correggere implica giudicare. Invece correggere implica aiutare. Il giudizio è il più perverso cortocircuito mentale da cui noi riceviamo dolore e non riusciamo a evitare di emetterlo. Quindi, vi dovrei spiegare cosa sono i neuroni a specchio, vi dovrei spiegare perché nell’io a io questo avviene. Cioè, io lo considero questo soltanto un inizio per dire: c’è una scienza servizievole che è in grado di farci comprendere perché in questo momento abbiamo tutti – secondo me – la possibilità di chiudere questo lettuccio paralitico in cui ci muoviamo sempre, imprigionati allo stesso tipo di meccanismo mentale, e decidere che la libertà non è soltanto una parola ma è proprio un bisogno di esistenza che chiama il futuro nel presente.
Elisabetta Soglio: Grazie mille. Stiamo…, con tutte queste belle suggestioni che mi stanno facendo pensare a quanti errori ho fatto io con i miei figli. Però, se uno capisce, dopo sbaglia meno -diciamo-Don Claudio, come questo tema del giudizio, come pesa sui ragazzi? Tu ne parli anche nell’intervista che esce domani nell’inserto che è diventato il giornale preferito di Giovanni e di Gabriele. Quindi vi spoilero anche: domani gratis col Corriere della Sera – gratis: 1,50 € e portate via due giornali – c’è l’intervista a don Claudio. Però, don Claudio, dici anche qui ….
Don Claudio Burgio: Pesa tantissimo il giudizio, infatti la parola chiave nell’educazione e epoké – sospendi il giudizio, metti un attimo tra parentesi, ascolta, interagisci, dialoga, guardati negli occhi, perché il giudizio a priori poi blocca, confina, chiude. E questo ve lo dico perché ascoltando tanti ragazzi – al Beccaria, in comunità – ciò che davvero emerge è il fatto che questi ragazzi sentono di aver deluso le aspettative degli adulti, sentono di non essere adeguati alle attese dell’adulto; e quindi da li nasce anche la loro – chiamiamola depressione -, il loro non sentirsi pienamente rispondenti alle esigenze di chi, in qualche modo, li ha messi al mondo. Per cui credo che il giudizio sia qualcosa da fare emergere. Noi dobbiamo educare a un pensiero critico, dobbiamo educare alla capacità di sapere guardare la realtà senza pre-giudicarla; ecco, io quello che temo oggi, nell’educazione, è che possano nascere nuovi fondamentalismi a qualsiasi latitudine. Perché pochi anni fa parlavamo del fondamentalismo islamico e parlavamo di tante questioni che sono ancora attuali ma, insomma, adesso meno mediaticamente interpretabili. Però io temo anche – io spesso lo dico – un fondamentalismo cattolico, per esempio, un fondamentalismo occidentale. Cioè, quando uno diciamo, non vuole guardare, non vuole interrogarsi e di conseguenza preferisce comodamente assestarsi su una certezza incrollabile, ecco, questo sistema educativo chiude, non apre nuovi scenari. Quello che mi spaventa è che molti ragazzi, molti giovani, siano così. Io ho un ragazzo, per esempio, che è in comunità in questo momento, delle tifoserie, delle curve – adesso non si dice di quale squadra – ed è incredibile ascoltare da parte sua quanto ci sia – un po’ anche di razzistico – ma quanto ci sia di chiusura, cioè il fatto che l’altro viene visto subito come minaccia, come impedimento alla mia realizzazione. Ecco, i ragazzi che incontriamo hanno bisogno invece di uno sguardo libero, di uno sguardo non giudicante perché possano esprimere anche la loro creatività, il loro talento. Questo genere di cui vi parlavo della Trap è un genere che, certamente, tutti si sono affrettati a giudicare, a bollare, stigmatizzare. Non è un caso che, appunto, uno dei miei ragazzi – Baby Gang – abbia intitolato il suo primo album Delinquente, perché questo – è ovvio – corrisponde a quello che noi in qualche modo abbiamo visto – è chiaro che poi ci sono anche gli aspetti difficili e non sempre positivi di quello che e questi ragazzi combinano – però dobbiamo avere il coraggio, appunto, di permettere che il talento, la creatività, emerga anche quando magari inizialmente percorre strade non propriamente vicine al nostro modo di pensare. E quindi, ecco, per me questo è importante: la sfida della libertà nella mia comunità è davvero una pro-vocazione, cioè è una chiamata a vantaggio di, una chiamata a essere te stesso; perché poi la sfida dell’uomo, di sempre, di ciascuno di noi è proprio questa: è diventare se stessi, in pienezza. Mi disse un ragazzo che poi purtroppo è partito per l’isis, mi diceva, quando era piccolo, in comunità, mi diceva: “Sai don, io ho avuto due genitori, ma non ho mai avuto un padre e una madre”. Ecco lui, per primo mi ha aiutato a riflettere su questo. Perché diventare padre e madre è un compito, non è automatico perché mettere al mondo i figli; e questo riguarda anche i giovani, cioè, ecco, perché non possiamo, perché molti pensano: “io devo dare ai miei figli quello che è e stato importante per me”. Vero, però non puoi imporlo; lo puoi proporre, puoi essere un testimone di quanto il bene che hai ricevuto incoraggi altro bene, ma non puoi imporre perché sennò questo si traduce in un fondamentalismo, appunto. Allora è importante, secondo me, aiutare questi ragazzi a essere capaci di dirsi. Perché molti ragazzi, in questo momento, non vogliono avere a che fare con l’adulto e con le istituzioni, con le forze dell’ordine, con tutto il mondo – per esempio – dei servizi, con lo Stato? Perché questo evoca in loro un’autorità di tipo – come dire – disciplinare. E oggi tu un ragazzo non lo educhi solo con la disciplina, lo educhi attraverso la legge – certamente – ma anche una parola, anche uno sguardo, anche un giudizio che sia benevolo. Allora – questo non vuol dire che noi adulti caliamo le braghe e in qualche modo permettiamo tutto – però vuol dire che aiutiamo i nostri ragazzi a pensare, perché siano loro poi a decidere. Ecco, dobbiamo metterli in condizione di fare questo e quindi dobbiamo porre loro molte domande, più che risposte dobbiamo aiutare, stimolare in loro tante possibilità. Ecco, per cui il giudizio – attenzione – non deve avvenire subito. L’ultima cosa che dico è che noi non dobbiamo avere fretta. Perché noi abbiamo sempre il bisogno di vedere che un figlio, un alunno, stia dentro un confine, sia controllabile, sia secondo le nostre attese. Ecco invece, io penso che un ragazzo, anche quelli che sbagliano, quelli che magari passano da situazioni molto complesse, difficili, di vita, abbiano bisogno di tempo. E allora il tempo non è kronos ma è kairos.
Elisabetta Soglio: Grazie mille, grazie Claudio. Andiamo – siamo proprio in chiusura, abbiamo già sforato il tempo e della vostra pazienza, però speriamo che questa cosa sia servita – No, prima dico a loro perché poi a Dario e Stefano lancio la palla per dire come continua un po’ questo dibattito. Alberto, in rapidissima conclusione: abbiamo parlato tanto della scuola. Voi mettete proprio il dito ogni giorno nella fatica della scuola, di vedere i ragazzi come persone e non soltanto come allievi da riempire di nozioni. Qual è – come dire, secondo te – la chiave di volta per cambiare un pochino l’atteggiamento dell’insegnante nei confronti dei ragazzi, degli studenti.
Alberto Bonfanti: Ma, lo dico anche qui provocatoriamente con una frase che citava sempre don Giorgio Pontiggia -ideatore di Porto Franco oltre che grande educatore, rettore per tanti anni dell’istituto Sacro Cuore di Milano – che diceva che la scuola è una convenzione sociale. Però non è una convenzione sociale il desiderio di conoscenza; non è una convenzione sociale il fatto che i ragazzi sono chiamati ad affrontare la realtà. Allora Porto Franco è nato su questa idea: che noi vogliamo… Questa cena che ricordo sempre… Don Giorgio aveva, proprio per la passione che viveva per Cristo e quindi la passione… voleva incontrare i ragazzi, perché nell’incontro con i ragazzi si scopre, proprio perché ragazzi sono autentici: l’autenticità, questo fiuto. Cresceva lui come educatore. Allora diceva: Per incontrare un ragazzo bisogna partire dal bisogno. E il ragazzo non coincide con il bisogno, noi non coincidiamo con il bisogno; però è il bisogno che fa emergere la persona, è il primo aspetto della persona se no sei ideologico, anche buono, anche con un progetto buono. E allora – dice – il primo bisogno è poter fare percepire a questi ragazzi la bellezza della conoscenza, la bellezza che può starci nello studiare la matematica. Non dimenticherò mai un ragazzino che aveva 3 in matematica e che dopo alcune lezioni di matematica ha detto: “Ma la matematica è bella!” O una ragazza mussulmana che ha studiato Dante e ha detto: “Ma è interessante quello che viene detto qui”. Allora, io lo sento, come insegnante: il grande compito è di – come dire – di guardare i ragazzi per quello che sono, per il destino buono, in modo gratuito, diciamo. Questa gratuità però uno non se la può dare da solo, se la dà se vive questa gratuità sulla sua persona; e proprio perché il ragazzo è più, allora tu lo aiuti a stare a quello che deve fare, ad affrontare le cose che deve affrontare che sono le paure, le difficoltà e che sono per ragazzi: noi insegnanti, la scuola; la scuola non semplicemente come regola scritta ma la scuola come possibilità, gusto di conoscenza.
Elisabetta Soglio: Grazie mille, grazie Alberto. Intanto, siccome siamo veramente in chiusura, e mi pare che abbiamo ascoltato tante parole che possono muovere dentro di noi tante riflessioni, poi insomma, abbiamo anche ascoltato linguaggi diversi, ci siamo anche abbracciati – e questa importanza dell’abbraccio portiamocela a casa, nelle nostre famiglie, con i nostri amici, insomma, perché è importante. Per far sì che queste cose continuino bisogna anche sostenere il Meeting e dobbiamo, possiamo farlo tutti, anche attraverso le donazioni. Sapete che all’interno di questo spazio espositivo ci sono degli stand che voi potete riconoscere con il cuore rosso: lì potete fare donazioni e, da quest’anno, il Meeting è anche un ente del terzo settore e quindi sono anche donazioni deducibili dalle dichiarazioni dei redditi. Chiudiamo però, come abbiamo iniziato con l’assessore Stefano Bolognini che ci diceva “Ah ma siete tutti anziani lì a parlare” – siamo tutti anziani a parlare di giovani – e noi in realtà ci eravamo già posti il problema. Ed è per Giovanni, per Gabriele, per tutti i giovani che ci sono Dario Odifreddi e Stefano Gheno hanno pensato a una continuazione ideale diciamo di questo incontro Dario.
Dario Odifreddi: Sì adesso Stefano poi ci dice come continuiamo. Abbiamo pensato la condizione ideale perché io non vorrei, però, che l’incontro di oggi – senza accorgercene – diventasse un po’ una flagellazione dell’anziano, una specie di psicoterapia di gruppo che noi facciamo su noi stessi. Perché – l’ultima cosa che io voglio dire – è: guardate che la libertà -che diceva quello là è il più grande dono che Dio ha fatto agli uomini – ce l’abbiamo tutti, ce l’avete tutti. Uno giovane c’ha la libertà, in qualunque condizione si trovi. Cioè, se uno ha i genitori che non capiscono, insegnanti che lo tartassano, la libertà non gliel’hanno tolta, quindi la cosa è: uscite fuori, non cercate alibi! La Piazza dei Mestieri è dedicata ad una persona: si chiama Marco Andreoni. Questo è un nostro amico che a 24 anni è morto in una gita in montagna, fatta con gli amici del movimento di Comunione e Liberazione; e davanti a quello noi, amicissimi suoi – era il nostro amico del cuore – avevamo due alternative. Certo, ci siamo arrabbiati col buon Dio, con tutti quanti; ma avevamo due alternative: o la realtà è male o la vita ha senso viverla, ha senso costruire, ha senso. Ed era davanti a un male, da un male, a una cosa incomprensibile, a una cosa inaccettabile. Per cui adesso Stefano ci dice come continuare però, per dirla con un linguaggio aulico, soprattutto appunto alle persone più giovani: fuori le palle! Niente alibi, perché non è solo colpa nostra se poi deciderete di non usarle.
Stefano Gheno: Allora, abbiamo fatto questo Old Pride conclusivo per – come dire – liberarci un po’ e, allora, io innanzitutto sono gratissimo di questo incontro che, innanzitutto, è la dimostrazione che il Meeting è davvero un incontro, è davvero la possibilità di incontrare. E non è vero che è tutto preordinato perché vi assicuro che sono successe cose che nessuno di noi si aspettava all’inizio. Allora sì, noi vorremmo continuare, perché l’altra sera a cena con Dario, mi aveva raccontato di questo suo desiderio. Peraltro Dario è più anziano di me – ci tengo a sottolinearlo – e di questo suo desiderio di tornare in aula: Dario, un grandissimo imprenditore, uno che ha davvero tante cose da fare. E io sono rimasto commosso, sono rimasto colpito, e allora ho capito che la questione dell’ascolto e del guardare non può essere solo un’esortazione un po’ moralistica che ci ripetiamo. E quindi abbiamo deciso di farlo davvero per cui io – CdO Opere Sociali – ha uno spazio qui al Meeting – si chiama Social Corner, è nel padiglione A3, di fianco alla mostra di Famiglie per l’Accoglienza -. Il 24 noi chiudiamo – diciamo così – l’attività istituzionale alle 19, e quindi invitiamo – dalle 19 in poi – tutti i giovani che vogliono parlare con noi, vogliono portarci le loro domande e a cui vogliamo fare delle domande, vogliono incontrarci. Sicuramente Dario e io ci saremo per tutto il tempo che volete – no a un certo punto poi ci cacciano dalla Fiera, va bene -. Io spero che saremo in tanti perché curare vuol dire avere a cuore – giusto Daniela Lucangeli? – quindi grazie davvero a tutti è stata è stata una cosa molto bella e … alla prossima!