La carità: l’ordinario quotidiano

Hanno partecipato: Aldo Brandirali, Fondatore dell’Associazione “Nuova Gerusalemme”; Lorenzo Crosta, Responsabile della cooperativa “Solidarietà”; Antonio Mazzi, Fondatore de “Progetto Exodus”; Vincenzo Muccioli, Fondatore e Responsabile della comunità di S. Patrignano; Adriano Bompiani, Ministro per gli Affari Sociali. Moderatore: Giorgio Vittadini.


Vittadini: “La carità: l’ordinario quotidiano” è un tema centrale di questo Meeting, segna l’idea che l’esperienza cristiana è un’apertura a tutte le persone e a tutti gli aspetti del reale. Uno degli aspetti fondamentali di questa apertura è la carità nella concezione cristiana: non qualcosa fuori dalla vita, ma un modo di porsi nel quotidiano, di essere attenti ai bisogni delle persone, che inevitabilmente genera opere, forme di vita nuova.

Aldo Brandirali è nato a Milano nel 1941. Operaio, nel 1961 diventa funzionario della CGIL e dirigente della F.G.C.I.

Nel 1965 esce dal PCI: nel 1966 costituisce il gruppo Falcemartello. Nell’ottobre del 1968 fonda l’Unione dei Comunisti (Marxisti-leninisti) Italiani.

Viene eletto Segretario Nazionale del gruppo e dirige la realizzazione del settimanale “Servire il popolo”. Nel ‘72 il gruppo si trasforma in Partito Comunista (marxista-leninista) Italiano.

Nel gennaio del 1976 Brandirali abbandona ogni attività politica nella convinzione di aver imboccato un vicolo cieco senza prospettive.

Ridiventa operaio elettricista. nel 1982 riprende l’attività pubblica focalizzando il suo interesse sull’incontro tra persone di diversa cultura e idealità, laiche e cattoliche. A metà degli anni ‘80 incontra la realtà del Movimento Popolare, del quale diviene militante e membro del Consiglio Nazionale.

All’interno della Compagnia delle Opere coordina le opere di assistenza e di recupero di persone emarginate. Nel gennaio 1991 dà vita all’associazione “Nuova Gerusalemme”, costituita da coloro che si sono opposti alla guerra nel Golfo.

Brandirali: Rispetto all’idea più diffusa di solidarietà sociale, la prima caratteristica della carità è che il soggetto che la mette in opera e la fa agire è il soggetto che dà corpo e sostanza alla vita dell’uomo. Io posso essere testimone di opera di carità perché innanzi tutto sono stato oggetto di questa carità. Ho 50 anni, sono cambiato, sono qui, novello cristiano, completamente accolto e abbracciato, rinato a una ragione più profonda, più vera, più costitutiva del vivere, del gusto e del sapore del vivere. E già qui è cominciata l’opera. Ho bisogno continuamente di rivedere il volto di un Altro, ciò che costituisce la forza del mio cambiamento, del mio rinascere. Questo è il soggetto forte nel grande mare di solidarietà, di generosità, di volontariato che così difficoltosamente trova identità e ragione: il soggetto operante è entrare nella qualità più profonda dell’opera che si sta facendo, riconoscendo anzitutto in chi hai di fronte un’altra persona, la cui identità, la cui storia, la cui caratteristica, i cui aspetti interiori, contraddittori e drammatici, sono comunque irriducibili, unici, irripetibili e gridano il proprio bisogno di riconquista di unità, di dignità, di ragione d’essere. L’opera è questo riconoscimento della persona.

Abbiamo incominciato, con altri amici, Mirella Bocchini e Alberto Garocchio, con i carcerati di San Vittore; abbiamo incominciato in tempi in cui prevaleva un’ottica libertaria che preferiva l’eliminazione e il superamento del carcere, e che teorizzava una risposta alternativa. Siamo oggi approdati, dopo neppure un decennio, al rovesciarsi totale sul piano culturale di un atteggiamento complessivo della società e del pensiero comune: ora il carcere dovrebbe essere chiuso con chiavi buttate via, perché l’uomo non cambia, perché la paura degli elementi di violenza è tale che si vuole rimuovere il problema e rinchiuderlo. Ebbene, il soggetto forte che ci motiva ci ha permesso di non essere prigionieri di questa alternanza delle opinioni, di questi tentativi di racchiudere il dramma umano dentro una categoria sociologica o tecnica o progettuale, insistendo tenacemente, invece, sul fatto che abbiamo bisogno di un sistema basato su una concezione della giustizia come legge uguale per tutti, in ragione del diritto, ma nello stesso tempo abbiamo bisogno di convincimento che l’uomo attraverso il suo momento di dramma, ricomincia. La vita è cammino e il cammino è cambiamento, l’uomo può cambiare; ciò di cui ha bisogno il contesto della pena è riconoscere cosa accade in ognuno. In questa società moderna che non riesce più a concepire la irriducibilità della persona e del suo cammino, come riusciremo a restituire la capacità di riconoscerla e di incontrarla? A San Vittore ci siamo resi conto che con oltre il 40% di extra-comunitari e il 30% di tossicodipendenti, avevamo davanti una popolazione carceraria priva di famiglia, quindi priva del pacco, della possibilità di vestirsi. Ci siamo accorti che i 2000 del sovraffollato carcere di San Vittore vivevano pressoché nudi, allora abbiamo sopperito a questa esigenza intervenendo massicciamente per un rifornimento di vestiario, superando la tradizione, un po’ impoverita, di certe opere della Chiesa. Ma, malgrado sia importante, non è questa la ragione per cui siamo in opera. Se dobbiamo sopperire ad una carenza di servizi è perché la stessa struttura pubblica non si accorge dei bisogni reali che ha di fronte. Ciò però cui siamo chiamati è ciò che nella struttura pubblica è impossibile, per quanto si possa rivendicare una funzionalità e una capacità di servizio. Quello che è impossibile è proprio che il carcerato possa recuperare, riguadagnare la memoria di sé e riesca a superare la vicenda del dramma, quindi interpretarlo: per questo ha bisogno di qualcuno che lo ascolti, che lo incontri e che sappia superare la logica istituzionale che invece preferirebbe la sua perdita di identità, perché così è più tranquillo. In tal modo, noi entriamo in una qualità del vivere che è cambiamento, ma nello stesso tempo è il vero ordinario. Ciò che tu vivi nell’ordinarietà straordinaria della tua nuova vita è coinvolgimento. E’ possibile se tu sai leggere dentro di te e vedere che cos’è successo anche a te: la straordinarietà dell’ordinario è toccata proprio da una presenza continua, che costituisce il cambiamento del nostro vivere.

L’opera non è citabile in cifre. Io sono testimone che continua ad incontrare delle persone che, normalmente, stanno compiendo questo miracolo di una socialità nuova e di una vita che si riapre continuamente, di una drammaticità che trova risposta, che non rimane solamente dramma ed è un fiume senza fine di tanti piccoli fatti e di tante piccole aperture e accoglienze. Questo popolo nuovo, presente costituisce la grande novità per il nostro paese e per il mondo. Certo, ad un certo punto anch’io nel mio lavoro ho temuto di non farcela, perché le richieste erano tantissime; ho persino sbagliato, a volte, ho fatto troppo e poi mi sono trovato in difficoltà. Allora, con gli amici, è nato il Centro San Martino, questo inizio d’opera oggi ramificato in una miriade di strutture, di strumenti, di possibilità, ma il cui centro rimane il primo incontro, l’inizio di un coinvolgimento con il bisogno dell’altro. Ed è da questo primo incontro che poi gli amici trovano il bisogno di chiedere intensamente che qualcosa accada, perché si possa rispondere. Ci troviamo al Centro San Martino, tutte le sere con una coda di 20, 30, 40 extracomunitari che chiedono lavoro, casa, l’impossibile; gli amici che aiutano in questa azione si sono soprannominati “l’opera del no”, perché la prima cosa che sono costretti a imparare è dire “no”, non c’è niente, non possiamo fare niente. Ma è il dire di no davanti agli occhi di un altro, potendolo guardare in faccia, un “no” non più vile. E il coinvolgimento diventa preghiera, diventa tendere le mani, chiedere che qualcosa accada: allora, soprendentemente, continuamente, incessantemente qualcosa accade davvero. Su 3000 persone che cercavano lavoro abbiamo trovato 300 posti, telefonando disperatamente, cercando imprenditori, aziende, situazioni disponibili: un lavoro continuo, incessante, che abbatte il muro di una struttura funzionalistica. Ci siamo spesso lamentati di una certa irresponsabilità del Governo nei confronti del fenomeno migratorio: da una parte un lassismo, poi concessioni generiche di permessi; dall’altra momenti di irrigidimento inutile. Chiediamo che il fenomeno migratorio venga ben governato ma, nello stesso tempo, chiediamo che quella persona possa esprimere totalmente e completamente la ragione di questa sua marcia per il mondo, di questa sua avventura di emigrante, avventura frammista di illusioni, di utopie, di immagini astratte desunte dalle televisioni, sul benessere dei paesi ricchi, fino alla drammatica scoperta della realtà, fino all’evidenza di una condizione di miseria spaventosa, peggiore della miseria d’origine negli Stati Uniti d’America: la solitudine, la condizione dell’uomo che non ha una compagnia, non ha una relazione, non ha la possibilità di entrare in una trama sociale; gli manca il rapporto e ciò è per lui annullamento totale. Ciò che noi invece condividiamo e viviamo nella profondità dell’esperienza cristiana è la possibilità di riconoscere l’alterità e di aprirci all’incontro più profondo. Ci capita di incontrare a Messa i nostri amici che sono stati aiutati e di approfondire con loro le diversità culturali e religiose. Alla radice qualche cosa di profondo ci accomuna: i nostri amici lo hanno compreso proprio in quella dispobilità di coinvolgimento e di riconoscimento della persona e della sua irriducibilità.

L’Italia è meglio dell’America, perché è ancora costituita da un tessuto in cui la presenza della Chiesa, della cristianità, in mezzo alle difficoltà della moralità, del rapporto politico e della funzionalità delle strutture, continuamente viene testimoniata e riespressa. Il ghetto difficilmente riesce a diventare un lager. Dobbiamo vivere di questa peculiarità del nostro Paese ed esserne felici, non perseguire una nuova edizione dell’utopia. Non abbiamo bisogno di modelli, abbiamo solamente bisogno di approfondire fino in fondo questa nostra esperienza di vita.

Lorenzo Crosta, responsabile della cooperativa “Solidarietà”.

Crosta: Vorrei raccontare una realtà nata 10 anni fa, che vede anche me come protagonista e che non sarebbe stata possibile se non dentro una compagnia, una compagnia che ha cambiato radicalmente la mia vita. Ero uno sbalestrato. Tutto accadde nel 1976. Stavo litigando con uno quando un sacerdote, sentendoci, aprì la finestra e ci domandò: “Perché continuate a litigare? Non c’è qualcosa che vi accomuna?”.

La carità è l’amore di Cristo che ti incontra e genera una grazia più grande. Lo sto sperimentando in questi giorni di vacanza. Con ragazzi handicappati e malati di mente abbiamo dibattuto il tema dell’appartenenza e della conversione. Un ragazzo down, che è un po’ il nostro teorico, diceva: “Per appartenere bisogna fare un passo oltre”. Un ragazzo malato di mente diceva: “Io non sono capace di cambiare, però capisco una cosa: è sufficiente questa compagnia per essere diversi”. E’ proprio vero, anch’io ho fatto questa esperienza. Senza una compagnia umana non sarei stato capace di portare avanti quello che sto facendo. Quello che ci viene incontro è un segno di qualcosa d’altro, è una presenza. La persona è un bisogno, è una domanda e, se l’hai incontrata tu, è per te, non per un altro: allora cerchi di rispondere. Quando non ce la fai più da solo, domandi ad altri l’aiuto, concretamente.

Da 10 anni a questa parte abbiamo messo in piedi diverse realtà. Molti sono i laboratori dove accogliamo le persone disabili. L’atteggiamento iniziale era pietistico: noi eravamo gli intelligenti, i buoni, i bravi, e quelli erano i disabili. Dopo tre mesi che lavoravano con noi, i primi tre ci hanno detto che andavano a casa perché noi li rendavamo più handicappati di quello che erano. E allora abbiamo ricominciato a ridiscutere che cosa volesse dire questo e, per capirlo meglio, abbiamo letto la Laborem exercens. Di qui è nata una nuova concezione del lavoro. Un giorno un ragazzo down, parlando del suo lavoro, ha detto che, avvitando viti, si sentiva importante perché faceva una cosa che sarebbe servita ad un altro. Io avevo sempre pensato che un lavoro ripetitivo fosse alienante; invece ho imparato che il lavoro è rendere testimonianza di qualcosa d’altro. La nostra impresa è una scommessa. Siamo partiti con 110.000 lire di capitale sociale, ma ciò che importa è l’esito finale, che io sia felice e contento e che queste persone insieme a me siano felici e contente. Quando entrate nei nostri ambienti trovate molta gioia.

Tre anni fa venne da me uno conciato molto male. Già in precedenza avevo avuto esperienze con tossicodipendenti senza grossi risultati e avevo deciso di non occuparmi di questi casi. Comunque questo ragazzo mi racconta brevemente la sua storia e mi dice di essere malato di AIDS, di non avere né casa né lavoro. Subito gli ho detto che non potevo accoglierlo, ma quando mi ha detto: “Ho bisogno di lavorare perché non ho i soldi da mangiare” gli ho proposto di venire a lavorare con noi. In punto di morte ha chiesto esplicitamente che si continuasse a dare lavoro a persone malate come lui e così da allora abbiamo iniziato il loro inserimento. Ne abbiamo accopagnati molti al cimitero, ma la ricchezza che ne abbiamo ricevuto è molto grande.

Un’ultima parola vorrei rivolgerla al Ministro. Io non sono un volontario, ma uno che, dieci anni fa, si è messo insieme ad altri a lavorare, perché aveva bisogno di guadagnarsi la pagnotta; tutt’oggi vivo di questo. Quello che non capisco è la disparità di trattamento sul territorio nazionale relativamente al modo in cui si trattano gli inserimenti lavorativi e quant’altro si faccia a livello socioassistenziale. In Emilia-Romagna un inserimento lavorativo è pagato 15 milioni, nel Lazio 20, in Piemonte 8, in Lombardia 500.000. Diamo possibilità di crescere alle realtà che stanno realmente facendo qualcosa! Ci sono delle leggi sicuramente utili e buone ma poi accade che devo chiudere comunità alloggio perché ho in casa otto persone con un solo bagno perché non ho soldi per farne altri; poi arrivano la Provincia, l’USL e, in base alla legge, chiudono la comunità. Non si possono fare impianti legislativi e non avere le risorse finanziarie per sostenerle. Noi viviamo di carità e abbiamo bisogno che ci siano reali gesti di carità. E se un politico fa un gesto in questa direzione compie un grande gesto di carità.

Sacerdote dell’Opera Don Calabria, don Antonio Mazzi ha ideato nel 1981 il Progetto Exodus per il recupero dei tossicodipendenti.

Attualmente l’attività di prevenzione e di riabilitazione è estesa ai diversi campi della grave marginalità sociale.

Mazzi: Ho sempre pensato che il Vangelo, Cristo, fossero lontani e ho studiato la teologia e mi sono specializzato, sono andato a Roma dai salesiani e ho fatto storia della psicologia e della pedagogia. Finalmente, quando ho cominciato a fare il Vangelo, non a cercarlo, quando mi sono imbattuto negli alluvionati del Polesine, tra quelle povere paludi di Comacchio, quando mi sono trovato nei bassifondi di Primavalle, con gli handicappati e nel parco Lambro, allora ho capito che, facendo il Vangelo, lo si riesce anche a capire. Chi continua a cercare il Vangelo con la testa, non lo troverà mai perché lo confonderà sempre con l’utopia, con qualcosa che deve venire, al di là del mondo. Quando ho voluto capire mi sono messo su una strada e lì ho incontrato il Vangelo. Ho fatto fatica a vederlo negli occhi di un tossicodipendente, ma meno che non nei libri di teologia. Non sono un convertito, sono ancora lì che aspetto che Cristo mi prenda. Cristo esige che ognuno di noi si comprometta, rischi qualcosa, e noi siamo, invece, una società che non si compromette mai, siamo una Chiesa che non si compromette più, siamo dei cristiani che vogliono leggere il Vangelo, lo imparano in greco e in latino e in aramaico, ma non lo vogliono vivere.

Essendo un uomo da marciapiede, essendo sempre stato nell’ambito dell’educazione, nei bassifondi di Roma, nelle paludi di Comacchio, con gli handicappati gravi, gravissimi, avendo lavorato con Bisaglia per la 180 tanto bistrattata, e lavorando oggi nel parco Lambro, non riesco a capire come si possa ridurre tutto il problema della tossicodipendenza in tre verbi: punire-non punire, carcerare-non carcerare, liberalizzare-non liberalizzare. La storia dell’uomo non si può semplificare con due verbi messi così da quattro giornalisti, quattro tecnici che non sanno niente di educazione, che non hanno mai incontrato un uomo! Io non sono né proibizionista, né antiproibizionista. L’educatore è quello che sa dire di no e di sì al momento giusto. Noi vogliamo rimettere sul tavolo il vero senso della qualità della vita, che stiamo perdendo. Quando riduciamo il problema della droga se liberalizzarla o no, al dilemma se mandare o no in carcere i tossicodipendenti, vuol dire che non abbiamo capito niente della vita dell’uomo e della qualità della vita. Qualcosa nella legge va cambiato, con pazienza e con prudenza, soprattutto per quel che riguarda la punizione e il carcere: questa legge è stata applicata soltanto per gli articoli più semplici e più repressivi, infatti è molto più semplice reprimere che proporre un’educazione, molto più facile dare un cinque su in tema in italiano che insegnare ad un ragazzo come scrivere. Qualcosa va rifatto, qualcosa va toccato, ma non banalizziamo il problema!

Vincenzo Muccioli, fondatore e responsabile della Comunità di S. Patrignano.

Muccioli: Forse io non sono un buon cristiano osservante, credo però profondamente nell’uomo e mi sento di rispettare l’uomo e la vita perché quel Dio che amo profondamente e non so temere, ma solo amare, lo vedo nella vita e nell’uomo. Vedo la necessità di rispettare le parole di S. Paolo quando dice che il nostro corpo è il tempio di Dio, perché racchiude la realtà più profonda, più vera e più importante, l’anima o, se anima è un termine troppo impegnativo, la nostra interiorità. Ci ha insegnato Gesù Cristo: “Dove due uomini o più si riuniranno in nome mio, là è la mia Chiesa”. Insieme a voi, in questo momento, chiedo aiuto a Lui, perché in questa Chiesa discenda e ci aiuti a vivere come Lui, attraverso l’incarnazione di suo figlio Gesù Cristo, tangibile prova che si può vivere rispettando i valori che il Padre ci ha dettato.

Adriano Bompiani, Ministro per gli Affari Sociali.

Bompiani: Ciò che può mettere in comune le esperienze di Brandirali, di Crosta, di Mazza, di Muccioli, è la parola incontro, che significa cambiamento, metanoia, il disporsi in un’altra direzione; significa dare alla carità concretezza, non rimanere in un’espressione di buona volontà, di sollecitudine priva di effetti, ma porsi nella condizione di produrne.

Cosa si può fare in questo momento storico, nel nostro Paese, quali sono le linee evolutive verso le quali ci andiamo predisponendo? Sul finire della scorsa legislatura abbiamo messo a punto tre leggi-quadro che riescono a darci i parametri generali. Relativamente alla legge sul volontariato resta da fare ancora moltissimo perché l’applicazione nelle varie realtà regionali è lontana dall’essersi verificata. La legge sulle cooperative sociali è ancora più recente (novembre 1991), ma ci troviamo nelle stesse situazioni. Le vecchie cooperative sociali, quelle già funzionanti, continuano con la vecchia legge; le nuove cooperative, gli Albi, le caratteristiche di definizione del contenuto sociale, il nuovo statuto e altro sono ancora da fare. La legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate finalmente ha risolto uno dei problemi più importanti ai fini della classificazione generale degli handicap. Non si può trascurare che il cieco ha un bisogno diverso rispetto all’handicappato motorio o all’handicappato psichico; una legge-quadro però non può fare altro che contemperare tutte le esigenze, cercando di valutare i caratteri comuni, quali il grado di invalidità, quindi mettere in condizione la persona, nel proprio ambiente, anche di lavorare alla pari con le altre: ecco il significato della legge-quadro. Anche in questo campo c’è molto da fare, per ottenere la creazione di servizi a livello regionale e l’esaltazione delle attività di volontariato. E’ stata anche citata la questione della legge-quadro per la prevenzione della tossicodipendenza, l’assistenza e la riabilitazione dei tossicodipendenti e la lotta al traffico della droga. Questa legge fa parlare di sé, ma anch’essa è molto recente trasformazione di un’antica normativa che necessitava in qualche modo di essere corretta.

In questo campo, quali difficoltà troviamo? Il fatto, ad esempio, che molti dei servizi previsti a livello regionale non sono stati portati avanti in questi due anni, mentre è riaffiorato il problema di fondo, cioè lo schieramento ideologico, che molte volte non tiene conto della complessa realtà della persona tossicodipendente. Il mio sforzo sarà di ricondurre ad una valutazione scientifica dei problemi. Mi sembra sia venuto il momento di cominciare a ragionare sui primi risultati ottenuti da questi progetti, dove sono stati avviati. Prima o poi le comunità terapeutiche dovranno dirmi che metodi adottano, qual è il tasso dei risultati, visto che fanno parte di quel tessuto sociale che, in qualche modo, è riconosciuto dallo Stato, che in qualche modo, funziona per il bene comune, ma che deve partecipare a quell’approfondimento della cultura nazionale che si esprime in questi settori, esattamente come in altri.

Abbiamo un grande compito come forze popolari e come forze cattoliche, cioè far capire al mondo laico che il primo appuntamento importante è quello della finanziaria: queste attività che noi svolgiamo devono essere adeguatamente finanziate perché tutto questo è per la tutela della nostra umanizzazione, cioè per rendere sempre più umano il nostro vivere.

 

 

Data

24 Agosto 1992

Ora

11:00

Edizione

1992
Categoria
Incontri