INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura. Alla riscoperta di... Chaim Potok

L’INFERMIERE IN ITALIA: STORIA DI UNA PROFESSIONE
Presentazione del libro di Cecilia Sironi, Infermiera (Ed. Carocci). Partecipano: l’Autrice; Marisa Siccardi, Infermiera e Membro del CISO di Reggio Emilia e dell’ISREC di Savona.
A seguire:
ALLA RISCOPERTA DI… CHAIM POTOK
Partecipa Giancorrado Peluso, Insegnante di Lettere al Liceo G.B.Vico di Milano.

 

INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 19.00 eni Caffè Letterario D5

CAMILLO FORNASIERI:
Benvenuti. Abbiamo l’ultimo appuntamento delle proposte di letture del Meeting di Rimini e questa sera abbiamo, come le ultime tre, una proposta di un libro e la proposta di una rilettura di un autore. L’autore sarà Chaim Potok, che fu presente anche al Meeting di Rimini qualche anno fa, invece il libro con cui iniziamo è dedicato a una professione importante, a un aspetto decisivo nella cura della persona nella nostra società, per cui il Meeting ha voluto capire e guardarci dentro. Il libro si intitola L’infermiere in Italia: storia di una professione, di Cecilia Sironi, Carocci Faber Editore. Cecilia Sironi è qui accanto a me, è l’autrice, e da diversi anni, potrei dire dalla tesi di laurea negli anni ’85, ha sviluppato su questo tema la sua tesi e poi ha ripreso nel ’91 una pubblicazione importante, che raccoglie tutte le successive problematiche e sviluppi. Lei è professore a contratto presso l’università dell’Insubria, ma soprattutto è attualmente Presidente di un’associazione che si chiama “Consociazione Nazionale delle Associazioni infermiere e infermieri”, che è una libera aggregazione con uno statuto che tende a valorizzare e a rispondere ad alcune problematiche che questa professione vive nella nostra società.
A parlare del libro c’è Marisa Siccardi, che è per la prima volta al Meeting di Rimini, la salutiamo con calore, ed è una persona che da tantissimo tempo è dedita alla ricerca storica. Anche lei laureata in infermieristica, ha conseguito diverse specializzazioni e perfezionamenti. Riguardo la didattica in questo ambito professionale, due tracce: dopo l’insegnamento in corsi per Infermieri generici e psichiatrici in Firenze, dal 1980 è Direttore Didattico della Scuola per Infermieri professionali di Sarzana, ha continuato poi l’attività organizzativa e docente per i Corsi universitari di Infermiere e di Educatore professionale presso la stessa sezione distaccata dell’Università di Genova. Dal 2001 ha effettuato docenza in Corsi di Laurea per Infermieri e in Master di coordinamento presso le sedi di Empoli dell’Università di Firenze e dell’Università San Luigi di Torino.
Ci stiamo rendendo conto che tutti quelli che noi incontriamo o abbiamo incontrato, e anche quelli qui presenti che studiano o operano in questo campo, vivono un grande fermento. A volte noi sentiamo solamente gli acuti, dal punto di vista concorsuale, di lamentazioni sindacali, ma c’è tutta una storia della infermieristica e di questa cura della persona nel rapporto con gli ospedali, che inizia dal Medioevo e Cecilia Sironi l’ha voluta raccontare per forme problematiche in questo libro. Questo passato, come dice il professor Bressan nella Prefazione, è decisivo anche per avere una concezione dell’oggi, perché, come stiamo imparando in questo Meeting, la persona ha qualcosa di decisivo, di definitivo nella sua storia, e quindi quel che crea nei tempi diversi è importante per la conoscenza del presente. Utilissimo è poi conoscere il differenziarsi della forma di vivere questa professione nel nostro Paese rispetto ad altri, sapere cosa è avvenuto alla nascita dello stato nazionale, durante l’isolamento dell’Italia dalle presenze internazionali nel periodo fascista. Io quindi credo che sia nell’interesse di tutti sapere queste cose, ma non voglio rubare altro tempo, entriamo subito in medias res con Marisa Siccardi, che ci racconta un po’ l’importanza di questo libro e qual è il cuore di questa professione, di questo lavoro.

MARISA SICCARDI:
Ringrazio molto per la presentazione, grazie per l’invito che il Meeting mi ha fatto e grazie soprattutto a Cecilia Sironi per questo libro, che spero venga letto non solo da tutti gli infermieri, bensì anche dalle persone che hanno bisogni di salute e per le quali gli infermieri possono fare veramente molto, in primo luogo a livello preventivo oltre che terapeutico e riabilitativo, nel senso di prendersi cura. Permettetemi inoltre di rivolgere un ringraziamento a una persona che non è qui, spero che qualcuno di voi la conosca o l’abbia almeno sentita nominare: il professor Corrado Corghi, illustre studioso e organizzatore, che è stato fondatore del CISO, il Centro italiano di Storia sanitaria e ospitaliera, con sede a Reggio Emilia, grazie al quale la ricerca storica infermieristica, al pari di quella medica, è stata collocata nel CISO sullo stesso piano di competenza, di responsabilità, di apprezzamento scientifico. E’ proprio in virtù di questo che Cecilia ed io ci siamo conosciute. Collaboriamo con stima e amicizia da molti anni: Cecilia si è dedicata e si dedica tuttora in modo particolare alla storia della professione, io mi sono occupata, e continuo a farlo, della storia dell’assistenza infermieristica pre-professionale, del “prendersi cura” dall’Antichità all’Età moderna. In questo percorso c’è però un continuum che Cecilia delinea nel suo libro e si deve altresì sottolineare che l’importanza fondamentale del lavoro di Cecilia Sironi consiste, in modo prioritario, nel fatto che lei non ha compilato una riedizione di una sua pubblicazione precedente di venti anni fa, al contrario, in questi venti anni trascorsi ha fatto una rilettura profonda della professione, partendo dall’analisi del concetto di nursing, che qui in Italia è stato introdotto negli anni Settanta del Novecento e che ha assunto diverse accezioni, talvolta abbastanza scostanti dal “prendersi cura”. Cecilia puntualizza questo con valide argomentazioni e, soprattutto, con documentazione molto chiara. Lo fa mettendo a confronto il prendersi cura nell’assistenza infermieristica italiana con quello che avviene in altri Paesi, in quelli anglofoni e in particolare in Gran Bretagna, che è la patria madre di Florence Nigthingale, di colei che ha posto su basi scientifiche la professione infermieristica. Cecilia, che oltre venti anni fa si era recata a Londra per studiare e lavorare in ambito ospedaliero, conosce bene dall’interno il percorso formativo, operativo e sociale dell’infermieristica inglese e per questo, più di ogni altra infermiera che si occupa di ricerca storica nel nostro Paese, può fornire risposte precise su quello che è stato l’evoluzione del nursing. Ella mette in rilievo come già in quel tempo in Gran Bretagna, nonostante la componente multietnica del corpo infermieristico, ci fosse una unità di intenti che si traduceva in una reale presa di coscienza dell’importanza di questa professione. Tra gli eventi che Cecilia pone in evidenza nel suo lavoro, ce n’è uno di particolare significato, che lei stessa afferma di non aver focalizzato allora e che oggi, col senno di poi, assume una notevole rilevanza: il fatto che già vent’anni fa – e ancora oggi – in Gran Bretagna le infermiere, nell’ambito della sanità, occupano anche posti di potere, dal Ministero all’ultimo ospedaletto. Qui in Italia è molto lontano! Nel nostro Paese, ancora una volta, si tende a staccare, a separare il complesso delle cure sanitarie da quello che è la complessità della salute delle persone e che per questo richiede la compartecipazione, con pari dignità, del personale medico e infermierisitco. Per chiarire meglio il concetto appena espresso, vi offro l’esempio tratto dall’importante Conferenza sull’HIV, sul tema e sulle problematiche dell’AIDS, che ho seguito proprio stamattina in questa prestigiosa sede. Non so se alcuni di voi erano presenti e se l’uditorio ha rilevato che nella lucida relazione di base è stato fatto l’esempio di ciò che avviene in Uganda, del lavoro che là viene fatto progredire in modo mirabile pur tra moltissime difficoltà, dove la patologia ha assunto valori veramente impressionanti. In poche e pur esaurienti sequenze del filmato che è stato presentato, si evidenziava con molta chiarezza che la persona che aveva maggior rilevanza in questo processo era proprio un’infermiera, l’infermiera che si reca a contatto delle persone nei loro luoghi di vita, l’infermiera che negli ambulatori coinvolge le persone in questo processo educativo e preventivo, di comprensione della malattia, di accettazione della cura. Non voglio citare altri esempi, perché se questo è valido e così forte, così pregnante in una realtà tanto difficile come quella dell’Uganda, a maggior ragione l’infermiere deve assumere il ruolo che gli compete nella nostra realtà italiana. Ancora una volta noi ci troviamo quasi sull’orlo di un baratro: in che senso? L’ingresso in università è stato fondamentale, io stessa della “vecchia” generazione infermieristica, già in possesso di titoli universitari e al termine della carriera, mi sono battuta per questo e, senza quindi averne alcuna effettiva necessità, ho conseguito anche la laurea magistrale in Scienze Infermieristiche e l’ho fatto proprio per dare ulteriore importanza a questo percorso infermieristico. Però l’ingresso in università non è avvenuto come lo chiedevamo e come volevamo farne parte in quanto “infermiere”. Siamo infatti entrati nella facoltà di medicina, dove il corpo infermieristico è gestito da medici, anzi tutta la storia dell’assistenza infermieristica e la stessa assistenza infermieristica è indirizzata da medici. Permettetemi di dirvelo senza alcuna presunzione, ma da ricercatrice da molti anni, perché molti sono gli anni che mi porto addosso: quella infermieristica è un’altra storia, una storia che va avanti su un binario parallelo a quella medica. Sono storie diverse, sono professioni con una propria specificità, che insieme debbono collaborare per tutelare, per promuovere la salute umana, ma che devono avere la propria autonomia. Avrei molte altre cose da dire, ma il tempo scorre, e allora vorrei passare la parola a Cecilia, affinché possa esporre con maggior tempo possibile il contenuto del suo importante lavoro. In caso, sono disponibile ad aggiungere qualcosa dopo e intanto ringrazio molto per l’attenzione.

CAMILLO FORNASIERI:
La ringraziamo noi di questo intenso intervento; stiamo iniziando a capire qualcosa: quanti medici sono presenti? Questo è un gran segno. Cecilia Sironi, traccia un po’ questo percorso per noi.

CECILIA SIRONI:
Grazie, grazie della presentazione e ringrazio anche il prof. Bressan, che non è qui, che mi ha veramente commosso nella sua presentazione, ma ci conosciamo da tanti anni e grazie anche a Marisa per le sue lusinghiere parole. Nel ringraziare Marisa, innanzitutto, vorrei testimoniare che l’amicizia con lei è proprio un segno di ciò che dichiara il titolo del Meeting, perché l’incontro con Marisa, e la sua grande umanità, mi hanno fatto subito sentire in sintonia, perché è stato un incontro con una donna che vive una tensione continua verso un oltre, che riconosce l’unità di cuore e ragione che è comune a tutti gli uomini. Io penso che questo sia il motivo per cui ci siamo trovate. E ringrazio anche gli organizzatori del Meeting che mi hanno ospitato ancora una volta. È già stato accennato che nel Meeting del ’92 avevo presentato il mio primo testo, si intitolava proprio Storia dell’assistenza infermieristica, primo libro in assoluto. Voi sapete che, come per i figli, uno è particolarmente affezionato al primo libro e questo è uno dei motivi per cui, data l’impossibilità a reperirlo – gli studenti, i colleghi mi dicevano: “Senti non si trova più quel libro là, sono passati vent’anni, la casa editrice non c’è più, infatti è stata accorpata, adesso è Carocci Faber” – ho detto va bene, riprendiamolo in mano. Quindi questo lavoro è iniziato così, proprio per un’esigenza, una richiesta. E questo libro rivede e aggiorna una ricerca storica che ho condotto negli anni ottanta del secolo scorso. E non posso fare a meno che evocare i motivi che mi avevano spinto a iniziare questa ricerca storica. Perché ricercare nel passato dell’assistenza e in particolare dell’assistenza infermieristica? Ricercare cosa? La domanda che aveva mosso la mia ricerca nasceva da un mio viaggio a Londra, dove mi ero resa conto che l’assistenza infermieristica e gli infermieri avevano uno status diverso dall’esperienza che avevo fatto io da studente e durante il mio lavoro infermieristico in Italia. E lì, a Londra, ho scoperto Florence Nightingale, che avevo conosciuto leggendo dei libri di storia, e ho visto che lì la professione ne è permeata, si sente proprio la sua ombra che aleggia ancora ed è molto viva. La mia domanda è stata: ma noi in Italia abbiamo avuto qualcuno di simile a Florence Nightingale? Abbiamo avuto una Nightingale italiana?

CAMILLO FORNASIERI:
Puoi dire in due parole non chi è, ma che cosa ha fatto?

CECILIA SIRONI:
Che cosa ha fatto? Era una donna benestante, appartenente al ceto medio alto della borghesia, nobiltà inglese che, praticamente, utilizzando la statistica, oltre al buonsenso, i mezzi e le conoscenze, aveva approfittato del fatto che c’era una piccola guerrettina – la guerra di Crimea, dove partecipò anche l’Italia tra l’altro, il Regno di Sardegna – dove, per la prima volta in assoluto, c’era sir Bertrand Russell, che è il primo giornalista di guerra ed era lì fisicamente presente in Crimea. Cosa diceva? Il Regno di Sardegna ha le suore di carità, i francesi hanno le suore di carità, i russi hanno le nobildonne russe che assistono i feriti e noi inglesi non abbiamo nessuno. I soldati inglesi morivano e morivano ancora di più per problemi logistici, di carenza di alimentazione, scarsità di igiene, assenza di fognature ecc. ecc., per epidemie e contagi, quindi il Ministro della guerra inglese di allora, sentendosi obbligato a dover fare qualcosa, si mise in contatto con Florence Nightingale, che aveva sempre desiderato assistere i malati ma non lo aveva potuto fare perché la professione in quegli anni era considerata un professione assolutamente impossibile per signorine di buona famiglia, proprio perché le infermiere erano quelle che tratteggiava Dickens: ubriacone o prostitute, o comunque persone di basso livello sociale. Quindi Florence Nightingale si è trovata nel momento giusto nel posto giusto, con una competenza che aveva acquisita nei suoi numerosi viaggi. Era stata anche in Italia, infatti era nata a Firenze…(poi se mi metto a parlare di Florence Nightingale non finisco più).
Comunque, Florence Nightingale, usando la statistica e i suoi mezzi, la sottoscrizione di fondi che The Times, il giornale inglese, aveva messo a sua disposizione, perché arrivavano queste notizie e qualcuno doveva far qualcosa, era riuscita a diminuire drasticamente la mortalità dei soldati inglesi e poi era tornata in Italia come un’eroina. Quindi lei ha usato bene questa sua influenza, ovviamente come donna, non certo per andare in politica, perché non potevano le donne entrare in politica, ma ha usato molto la sua influenza, che le donne sono abbastanza brave, sugli uomini potenti del suo tempo e quindi è riuscita a cambiare innanzitutto la formazione, fondando una scuola famosissima, per formare infermiere preparate. Io non avevo assolutamente idea, quando qui al Meeting presentai il libro nel ’92, che avrei poi frequentato, cosa che ho poi fatto nel 2002-2003, la Florence Nightingale School of Nursing and Midwifery a Londra, che è al King’s College di Londra, e sono riuscita, grazie al sostegno di amici, a frequentare un Master di Nursing Research proprio in questa scuola. Quindi ho avuto modo, anche a distanza di 20 anni, di ritornare a Londra, con altro spessore di esperienza, se vogliamo, e di studi. La domanda di ricerca di allora era stata: chi dava assistenza in Italia mentre Florence Nightingale faceva quel che faceva lì? Quindi a cavallo tra 1800 e 1900, in Italia, che cosa ho trovato? Non ho potuto che studiare le congregazioni religiose femminili. Perché questa è stata la risposta che la nostra cultura, la nostra storia ha prodotto per rispondere ai bisogni delle persone. Ovviamente nel libro dedico spazio alle Congregazioni religiose e faccio una scelta, scelgo di parlare delle suore di Maria Bambina, le Ancelle della carità, cioè ho fatto una scelta, perché c’erano veramente centinaia di Congregazioni fondate proprio a cavallo del secolo. Non ne parlo stasera, ma dico solo che per storia, per vocazione, le religiose nascevano … Siamo dopo la restaurazione, quindi dopo la rivoluzione francese, quando avviene la rinascita delle Congregazioni religiose, e lo Stato italiano, pur non condividendone ovviamente gli ideali, pensate alla situazione stato-chiesa, perché accettava il lavoro di queste donne? Perché era utile, perché concretamente rispondeva ai bisogni della gente. Infatti, avete presente un pochino tutti i nomi degli ospedali che nascono e le scuole? Le scuole, l’ambito educativo e l’ambito di assistenza ospedaliera e sanitaria sono i due ambiti che lo stato italiano ha sostenuto, lasciando proliferare anche le Congregazioni religiose, cosicché negli asili, nelle scuole materne, in tutti i vari corsi di istruzione, i convitti per le operaie, in tutti questi ambiti le suore ebbero modo di esprimere la carità, rispondendo ai bisogni. Ovviamente in ospedale trovarono un ambito tutto loro, perché? Assistere malati di colera, in quel periodo, con le conoscenze mediche del tempo, cosa voleva dire 90 su 100? Voleva dire ammalarsi e morire, perché uno prendeva la malattia. Questo è molto interessante, perché la mia ricerca storica mi ha portato a leggere proprio dati numerici, statistici che dicevano quante religiose e quanti decessi ci furono tra le suore che lavoravano negli ospedali. Non approfondisco, è solo per dire che di fatto davano la vita. Il fatto che l’assistenza abbia questa forte connotazione in tanti Paesi d’Europa, in Italia ha avuto un’altra faccia della medaglia. Siccome l’obiettivo di queste religiose non era fondare una professione, iniziare una professione, ma era rispondere ai bisogni, questo, in un certo modo, ha anche rallentato il processo di professionalizzazione. Florence Nightingale, pure essendo, se voi leggete le sue lettere, più religiosa e più suora di una suora, perché le sue lettere le avrebbe potute scrivere una suora cattolica italiana, aveva però l’obiettivo chiaro: aprire una strada professionale alla donna. Qui ho un terreno fertile: perché veniva lasciato alla donna occuparsi di che cosa? Di educazione dei bambini e di assistenza negli ospedali, quindi ha usato questo e l’alone intorno alla sua figura di eroina per sfondare nell’opinione pubblica, per rivalutare completamente la figura, riabilitare la figura che dicevo prima, assimilata a prostituta e ubriacona. L’ha riabilitata completamente. Questo è stato il processo di professionalizzazione. L’inizio della professione infermieristica non poteva che nascere nel Paese culla della rivoluzione industriale. Poi questo fenomeno è arrivato molto più lentamente da noi. La spinta, la domanda che ha mosso la mia ricerca è stata la mia curiosità di voler capire, se volete l’amore per la verità, capire l’impatto con la realtà del lavoro in Italia, confrontandolo con l’ambito inglese, la storia inglese. Dopo più di trent’anni di professione, è ancora la stessa curiosità che mi ha stimolato a verificare se la chiave di lettura utilizzata vent’anni fa fosse ancora valida oggi. Quindi questo è un po’ quello che ha mosso il mio lavoro. Del libro dico solo due cose, perché so che il tempo non è molto, dico solo due cose rispetto al titolo, perché il titolo, imposto dalla casa editrice vent’anni fa, era Storia dell’assistenza infermieristica, mentre il titolo adatto è quello di adesso L’infermiere in Italia, storia di una professione. Ovviamente allora ero assolutamente sconosciuta, prima pubblicazione, l’editore dice questo è il titolo… Anzi mi fecero anche spostare il capitolo, che io volevo mettere alla fine, all’inizio del libro. Quindi il libro che voi leggerete adesso è il percorso ideale che ho seguito, che segue un po’ il mio percorso culturale di scoperta di questi aspetti, esattamente come lo desideravo. Non penso sia il caso di tratteggiare i capitoli e dire i contenuti, però troverete Florence Nightingale, troverete le radici di cultura e di storia della nursing anglosassone e poi troverete invece le radici italiane, le Congregazioni religiose femminili, e quindi chi faceva assistenza in Italia in quel periodo, in estrema sintesi. L’aspetto interessante è l’ultimo capitolo, che, oltre a riprendere la chiave di lettura, fa una lettura aggiornata ad oggi. Quindi io ho messo anche tutta l’esperienza professionale, di formazione, ciò che ho vissuto in modo molto attivo nelle associazioni infermieristiche, ciò che ho imparato in tutti questi anni, i miei trent’anni e passa di professione. Quindi quello che io vorrei dire, nel concludere questa breve presentazione, è che studiare, fare ricerca storica significa incontrare delle persone. Uno legge un documento storico, incontra qualcuno, la vita di qualcuno, e quello che mi è accaduto è che ho incontrato delle persone, in particolare molte donne – non è passato alla storia il loro nome, anche in Italia, specialmente delle religiose, non si ricorda il loro nome, magari, non so, si ricorda la madre superiora di una Congregazione ma non certo il nome di chi faceva assistenza – ho incontrato donne, numerose, affascinanti, tenaci, leali, anche autoritarie a volte, passionali, testarde, con una profonda fede, molte con una profonda fede. Tutte mi hanno dato qualcosa, questo è stato il bello di questo lavoro di approfondimento. Voglio citare una collega, un’infermiera che mi ha colpito moltissimo. E’ una delle prime allieve, non di Nightingale ma di una scuola inglese, che sono state chiamate da delle nobildonne italiane per aprire la Scuola Regina Elena a Roma: Dorothy Snell.
Mi ha colpito molto la sua storia umana, perché nella sua autobiografia, che è una delle fonti che ho utilizzato per questo libro, racconta un po’ il suo percorso personale e mi ha colpito la sua profondissima fede.
Lei era figlia, tra l’altro, di un pastore protestante; poi, stando in Italia, a Roma, si è convertita al cattolicesimo. E lei cita sempre il Salmo 55, l’aveva scritto, appeso in camera. A me ha colpito molto perché questo Salmo, che mi trova molto in sintonia, me lo sono scritto anch’io, proprio perché la nostra è una professione che ha una storia debole, debole perché è sempre stata prevalentemente femminile, perché non ha mai avuto una visibilità e tuttora stenta, alle soglie di questo secolo, ad avere la visibilità che si merita. Siccome siamo complementari ai medici, possiamo veramente fare tanto, e questo momento di crisi io lo vivo come un momento positivo per la nostra professione, per assumerci, finalmente, questo ruolo e evitare che le persone si ammalino. Perché quando uno è ammalato, arriva in ospedale, costa, e costa tanto. Noi potremmo agire a tutto campo sulla prevenzione, sulla promozione della salute, sulla promozione di stili di vita salubri per evitare che arrivi la malattia, ma essendo però presenti in modo capillare, numeroso, sul territorio, vicino alla gente, quindi incontrando le persone, entrando nelle famiglie. Questo potrebbe essere, veramente, chissà… bisognerebbe dirlo a Monti… questo a mio parere è veramente il futuro, anche rispetto all’economia, ma io lo guardo in termini di positività per la nostra salute.
Comunque, se vi leggete il Salmo 55, trovate cosa diceva Dorothy Snell: “Getta sul Signore il tuo affanno, ed Egli ti darà sostegno. Mai permetterà che il giusto vacilli”, e lei lo leggeva quando ha trovato tanti di quegli ostacoli, per fondare la scuola a Roma…insomma, una fatica incredibile, perché era veramente…tra l’altro inglese, quindi…tutti i pregiudizi, immaginate, del caso, e lei, comunque, con questa grande fede, è sempre…ha sempre…l’ha sempre sostenuta, è sempre andata avanti nelle sue fatiche. Mi fermo qui.

CAMILLO FORNASIERI:
Una conclusione di Marisa Siccardi.

MARISA SICCARDI:
Più che una conclusione, una brevissima aggiunta, rispetto a quello che ha detto Cecilia. Intanto desidero ricordare due infermiere, italiane e contemporanee: Italia Riccelli e Rosetta Brignone, che hanno fatto veramente molto per la nostra professione, hanno aperto per prime la Scuola Speciale per Dirigenti dell’Assistenza Infermieristica all’Università La Sapienza di Roma e sono ben lieta di essere stata loro allieva. Per sottolineare ancora l’importanza della Storia, volevo ricordare, e Cecilia lo dice nel suo libro, come dall’Unità d’Italia in poi, con l’avvicendarsi dei diversi governi, ci siano sempre stati dei blocchi, degli arresti improvvisi e duraturi, in quella che poteva essere l’evoluzione professionale. Non per ultimo ricordo il blocco gravissimo che è stato fatto con l’avvento della dittatura fascista in Italia, sebbene la Legge istitutiva delle Scuole per le Infermiere professionali sia stata promulgata nel 1925, e il Regolamento attuativo risalga al 1929. Sotto il Regime fascista, per l’ideologia che indirizzava il Paese e le professioni, le infermiere italiane furono estromesse dall’ICN (Consiglio Internazionale delle Infermiere). E’ da porre in evidenza che il bisogno del Regime di esaltare la figura femminile, affermando la formazione infermieristica appannaggio delle sole donne, in realtà ha schiacciato la nostra professione in un ruolo subalterno a quello maschile, in condizioni di lavoro e di vita, economiche e sociali, alle quali nessun uomo si sarebbe mai assoggettato. Infatti tutto ciò ha ritardato di molti decenni l’evoluzione della nostra professione e, successivamente, ha promosso l’ondata ripetuta di sanatorie professionali, favorendo per molto tempo una caduta di valori e di rispetto dei principi fondamentali dell’assistenza, cosa che non è accaduta in altri Paesi, non per ultimi in Paesi in via di sviluppo come in l’America latina, dove i corsi di laurea datano da moltissimi anni, ivi inclusi i Paesi del cosiddetto “blocco comunista”, come Cuba: per gli infermieri che parteciparono al processo rivoluzionario con Fidel Castro non fu promossa alcuna sanatoria, ma furono posti in condizione di seguire corsi di studio regolari. A Cuba, ad esempio, dove i Corsi di laurea Infermiere comportavano 4 anni di studio, nel 1993 si laureavano le prime infermiere con ben 5 anni di università (ricerca condotta a Cuba in quell’anno per conto della CNAIOS). E noi “lottavamo” ancora perché le Scuole per Infermiere Professionali non fossero parificate al diploma di scuola secondaria superiore!
Ringrazio ancora tutti e ringrazio soprattutto Cecilia Sironi.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Marisa Siccardi. Abbiamo capito come sia, questa, un’esperienza, una professione che si è fatta largo nel tempo, soprattutto rispetto ai problemi della complessità della società moderna, dell’ultimo secolo. E quindi, in un tempo di crisi come questo, di ripensamento, è molto importante il contributo di Cecilia Sironi e anche tutta l’opera della Siccardi, perché ci fa capire come non possa tutto ridursi in un’idea astratta di procedure su un “come”, ma occorre interrogarsi sul perché, su cosa hanno conosciuto, su come possa essere utile la loro conoscenza rispetto anche alla medicina. L’ipotesi, che lanciava la Sironi, della prevenzione è sicuramente interessante, quindi auspichiamo questo, oltre al fatto che questo libro venga utilizzato, nella formazione attuale, da tutti i corsi delle università. Grazie davvero per il vostro lavoro, per il lavoro di Cecilia Sironi.
Cominciamo subito, e invito a trattenersi quelli che sono venuti anche per la prima proposta. Chaim Potok è uno dei più grandi scrittori americani e uno dei più grandi scrittori di matrice ebraica del ’900. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo qui al Meeting, diversi anni fa, nel 2000, e di incontrarlo prima a Milano nel primissimo approccio e conoscenza e amicizia duratura che poi ne seguì, al Centro Culturale di Milano. A Giancorrado Peluso, Professore di Letteratura Italiana nei licei di Milano, ho chiesto di introdurci alla sua personalità, alla sua poetica, anche attraverso indicazioni di alcuni libri. Il tentativo è quello, attraverso un lettore appassionato, di offrire un punto di vista che renda ragione della sua espressione e che però illumini il motivo profondo per cui ogni scrittore offre la sua opera, cioè quella di illuminare l’esperienza umana, in modo da condividere come un pezzo di pane quello che è il significato profondo e misterioso dell’esistenza. Giancorrado Peluso, non tolgo altri minuti, a te la parola.

GIANCORRADO PELUSO:
Ringrazio Camillo Fornasieri e, attraverso lui, il Meeting per l’invito. Questo autore, di cui è stata ricordata la presenza al Meeting e al Centro Culturale di Milano, è sicuramente una delle figure chiave, a mio parere, della narrativa americana degli ultimi vent’anni, nel campo soprattutto di quello che è il filone ebraico. Vorrei solo iniziare – poi vedremo anche un filmato che ci farà capire lo spessore – da un libro famoso, Storia degli Ebrei, che è l’unico libro non narrativo ma di saggistica di questo autore, che in realtà si forma come rabbino e studia alla scuola universitaria come rabbino. A un certo punto decide anch’egli, come alcuni dei suoi personaggi, di diventare un grande romanziere e sarà grande. In questa Storia degli Ebrei, dice: “Sono americano ed ebreo e nei primi del Novecento mio padre venne in America dalla Polonia. Parlava spesso del singolare destino del nostro popolo, un destino scelto per noi dal solo Dio trascendente. Mio padre si esprimeva spesso in termini militari, gli ebrei erano l’avanguardia dell’umanità, le pattuglie in avanscoperta e, a differenza di uno storico, Trevelyan, che considerava la storia priva di inizio e di fine, mio padre la interpretava come la via che conduce dalla creazione del mondo fino al Messia e alla redenzione. Nelle scuole in cui trascorsi la giovinezza mi vennero insegnati l’ebraismo di mio padre e la storia ebraica”. Quindi è un autore che è profondamente radicato nella tradizione ebraica di origine polacca – il nonno era probabilmente russo, “Potok” significa fiume che è una vita e “Chaim” significa vita anch’esso in ebraico -, è un uomo profondamente radicato nella tradizione ebraica del mondo yiddish, del mondo chassidico, conosciuto, anche in Europa e Italia, attraverso altri grandi autori, per esempio Singer, un autore americano, Malamud; ma la cosa impressionante di Potok è che, mentre in questi grandi autori inglesi che scrivono anche in inglese oltre che in yiddish, emigrati negli Stati Uniti o dopo la prima guerra mondiale o dopo la seconda guerra mondiale, in questi autori il mondo yiddish, il mondo della tradizione ebraica, europea, della Russia e dell’Austria-Ungheria europea, il mondo di Joseph Roth, per indicare un altro autore, è un mondo sostanzialmente della nostalgia, un mondo passato, un mondo “lontano da dove” – come dice il titolo di un libro famoso di Magris su Roth – in Potok questo mondo non è un mondo passato, non è un mondo della tradizione, quindi qualcosa di buono, di bello, ma ultimamente che non ha più nulla da dire nel presente, non è un mondo morto, è un mondo vivo, seppur dentro un conflitto di cui è piena l’opera narrativa di questo autore. Per cui noi vediamo che alle radice dell’opera di questo autore, di Potok, sta la coscienza che l’opera narrativa, quindi il romanzo, può, come dice un’affermazione sua, rendere universale l’esperienze particolari. Qual è l’esperienza particolare di cui parla Potok? L’esperienza della sua giovinezza, della propria vita, del mondo ebreo di Brooklyn, del dopoguerra, dell’inizio dello stato ebraico, che sono i temi dello sfondo storico di Danny l’eletto. Ma questo mondo è un mondo che vive un profondo conflitto con la modernità. Vedremo adesso due frammenti storici dal film tratto dal libro Danny l’eletto”, il frammenti 3 e 4, dove il primo frammento è sulla storia e la proclamazione dello stato d’Israele e la fine della guerra.

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Come avete intuito in questo frammento, il mondo di cui parla Potok è un mondo pieno di senso, è il mondo della realtà, tanto che i suoi romanzi sono pieni di un realismo profondo e vorrei, per spiegarlo, citare un altro autore, caro anche al Meeting e alla nostra storia, Appelfeld, il quale in un discorso a Torino nel 2008, proprio sulla lingua e il silenzio, che è un grande tema di Potok tra l’altro, rappresenta al mondo della realtà, della Bibbia, della storia biblica in questi termini: “Al pari della letteratura greca, la narrativa biblica si occupa dell’uomo, della sua esperienza di vita e dei suoi limiti, così come delle grandi questioni, lo scopo della vita e la sua finitezza. Le grandi letterature, anche quella biblica, si fa non solo attraverso il “che cosa” ma anche intorno al “come”, cioè il problema dello stile, del modo di raccontare la storia”. La radice quindi della narrativa di Potok e anche di Appelfeld è anche la storia di come viene rappresentata la Bibbia. La storia di un uomo, la storia particolare, ma che ha un valore universale. Questo senso della realtà è quello che permette a Potok di superare lo scoglio della narrativa ebrea e americana che si riduce in un’ultima immagine nostalgica del passato – come dicevo prima di Singer, di Malamud, di questi grandi scrittori – o ultimamente cinica, come in un famoso autore, Philip Roth, che è un po’ il versante narrativo dei grandi registi di cinema, come Woody Allen, che rappresenta in modo profondo le domande dell’uomo sull’esistenza ma con la percezione che la risposta non può mai essere presente. Mentre, per una strana questione che io ho cercato di capire, si vede che in tutti i romanzi di Potok, l’esperienza individuale dell’uomo radicata in una storia non è solo un conflitto fra individuo e tradizione, ma diventa la possibilità di andare avanti nella vita, con una propria identità nuova, come sarà nel famoso Asher Lev che diventa pittore, un mestiere apparentemente trasgressivo, un’attività che è proibita dalla legge ebraica, o come Danny l’eletto che sceglierà di diventare psicologo, un’attività che non continua la tradizione paterna chassidica del rabbino. Quindi questa forza narrativa dell’opera di Potok in cosa si radica? In una capacità profonda di realismo, cioè di rappresentare la realtà nel particolare e nel suo significato universale. Non solo, ma in questo modo che è tipico del romanzo e di questi romanzi ormai, nella storia accadono degli eventi, dei fatti che diventano particolarmente significativi, cioè che mutano il destino. Ad esempio, in Danny l’eletto, la storia inizia, come vedremo adesso in un frammento, con una partita in cui si sfidano due scuole di New York, durante gli anni della guerra, che hanno concezioni della vita diverse: i chassidici che vanno in giro per New York, come adesso in alcuni quartieri di Gerusalemme, con le basette lunghe, i filacci per ricordarsi la legge, come prevedeva il Deuteronomio, e gli ebrei più laici. Quindi vediamo questo inizio per capire come un evento particolare diventa ciò che mette in moto la storia di Danny e del suo amico Reuven.

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La storia la riprenderò dopo, ma il passaggio è che per questo colpo di palla deve andare in ospedale e quindi dovrà riprendere lentamente la funzione dell’occhio ed è interessante l’idea della visione, dell’occhio, perché l’occhio rappresenta sicuramente il modo di guardare la realtà e quindi in questo romanzo di Potock si vede come ci sia un contrasto interessante tra il vedere e il non vedere e il vedere vuol dire guardare la realtà con occhi nuovi. L’altro rapporto che mette in gioco, è fra l’ascoltare la parola e il silenzio, dove, a volte, uno può stare davanti a un altro senza veramente ascoltare. Vi leggerò dopo due dialoghi. Ma per terminare, questo frammento ci ha fatto capire come nella narrativa di Potok, – così profondamente radicata nella storia del proprio popolo, e così dentro la storia attuale degli ebrei del dopoguerra degli Stati Uniti, fino, in alcuni romanzi, fino all’invasione dell’Iraq, della prima invasione dell’Iraq con Bush, fino alla guerra dell’Iraq – ciò che mette in moto tutta l’avventura dei personaggi, dei protagonisti, sono degli eventi particolari, per cui questo profondo realismo e questa capacità di leggere nella realtà degli eventi che diventano significativi, determinanti la persona. Il terzo passaggio, che rileva questa grandezza della narrativa realista, è proprio nel rapporto della parola col silenzio. E’ un’osservazione che faceva lo stesso Appelfeld nel discorso che citavo prima, in cui commenta il grande episodio biblico del sacrificio di Isacco, un sacrificio che, per esempio, Chagall rappresenta in un modo magistrale nel museo biblico di Nizza, un sacrificio in cui il padre, in silenzio, va col figlio. Tutta la scena, anche nella Bibbia, si gioca nel silenzio, e il silenzio è lo spazio non solo da cui sgorga la parola nei romanzi di Potok, ma il silenzio è il modo in cui Dio interviene nella vicenda dell’uomo ed è il modo in cui il rabbino padre di Daniel educa il figlio in una forma un po’ particolare, come leggerò, finendo, in una citazione. Quindi il passaggio di Appelfeld, che finisco di citare, dice: “E’ il silenzio, più che la parola, ciò che caratterizza questo momento del sacrificio di Isacco. Il non detto qui è molto più di ciò che è detto: ogni volta che ci troviamo di fronte all’abisso la parola ammutolisce”. Allora, che cosa accade in questo liminare, in questo frangente della realtà dell’uomo, in questo momento in cui è più forte il silenzio, o – tema bellissimo in Potok ma che non possiamo toccare – nelle lacrime? Questo silenzio perché accade? Perché sta accadendo qualcosa di nuovo: l’uomo capisce, come Abramo, come Isacco, che è costituito da un rapporto. Questo rapporto è di uno che ti chiama, come nell’episodio biblico della Genesi: “Abramo, Abramo”. Dice un grande critico, Auerbach: tutto il rapporto che accade in quella scena è dato dalla risposta di Abramo che dice: “Tu mi vedi!”. L’uomo è costituito dal rapporto con un altro. Quindi, per allargare l’osservazione, tutta la narrativa di Potok è veramente dettata da questa profondità, in cui le figure che sono dentro la storia e una tradizione, da cui cercano di fuggire per comprenderla o per superarla, sono comunque costituite dal rapporto con un Tu, con un Altro. E’ questa la grandezza del personaggio, questa identità che un uomo ha perché l’ha di fronte a un altro che lo chiama. “L’eletto”, eletto vuol dire “scelto”, nel titolo originale del libro The chosen e qui è la promessa, la continuazione del libro, perché la vita è questa promessa, questo rapporto con un altro, la vita è rispondere a un altro, vocare, come l’educazione, provocare, educare. Questo rapporto costitutivo è ciò che rende il personaggio tale, per cui è l’ultimo dato che ci fa capire come la narrativa di Potok sia veramente una novità nel romanzo del nostro secolo, fine ’900/ 2000, perché “la narrativa”, come citava l’altro giorno Javier Prades, “manca ormai di esperienza”, l’arte di narrare è al tramonto, diceva già nel ’36 Benjamin, l’arte di narrare, cioè di narrare esperienze, è al tramonto. Concludo con due citazioni e poi leggo due pezzi, e vedremo poi il finale di Danny l’eletto. Le due citazioni con cui vorrei concludere sono una legata a questo concetto di esperienza, cioè: che cosa accade nella narrativa di Potok? La sua forza viene dal fatto che gli eventi particolari, le trame, le vicende, i personaggi passano veramente per delle esperienze e quindi quello che apparentemente può sembrare un po’ ripetitivo nelle sue opere, non lo è assolutamente, perché ogni personaggio è veramente unico e irripetibile: ha un suo nome, una sua chiamata, ha un suo compito.
La prima parola che vorrei fissare è la parola esperienza. Gli anni ’20 sono quelli in cui la comunità ebraica tedesca si trova in un momento di grande ripensamento, da cui emergono anche delle figure di filosofiche magistrali, per esempio Martin Buber, Rosenberg e altri. Ebbene, c’è una serie di lezioni universitarie di Buber sul tema “La religione come presenza”, in cui parla della parola esperienza. Cosa vuol dire esperienza? Che siamo coscienti di ciò che viviamo? Se così fosse la frase non direbbe niente, a meno che, dice ad un certo punto, la parola “esperienza significhi quello che viene acquisito quando si viaggia, quando si attraversa il mondo oppure, vorrei quasi dire, quando si attraversano le cose”. Qui, 16 anni prima di Benjamin, la parola esperienza, come la pone Buber, dice la stessa cosa, cioè che uno può narrare perché fa esperienza, uno può narrare perché ha fatto esperienza, ha viaggiato molto. Qui Buber aggiunge una cosa che è un po’ più profonda: “Non è che uno narra perché fa esperienza, viaggia e vede un mucchio di cose, molte mostre, ascolta molta gente, legge molti libri, ma c’è un viaggio dell’animo, cioè della coscienza e di sé che è un viaggio nel mondo o un viaggio attraverso le cose”. Questo attraversare le cose mi ha ricordato, ed è la seconda citazione che faccio, una visione magistrale di Hannah Arendt, in cui mette a fuoco la parola “inizio”, perché la possibilità di attraversare le cose, cioè di vedere le cose, riprendendo la metafora dell’occhio ferito di Reuven dal suo amico Danny, la possibilità di veder le cose con occhi nuovi, questa possibilità è data perché c’è un “inizio”. E Hannah Arendt riprende qui S. Agostino con la sua idea della nascita, ma Hannah Arendt quando scopre questa cosa? Ascoltando l’Alleluja di Haendel nel 1952, eseguito dalla Munchner Philharmoniker. Scrive nei suoi Diari e poi a un amico: «L’Alleluja è comprensibile soltanto a partire dal testo “incarnatus est, natus est puer”», e poi dice «Ogni inizio è salvezza per amore dell’inizio, per amore della salvezza Dio ha creato l’uomo nel mondo, ogni nuova nascita è come la garanzia della salvezza del mondo, come una promessa di redenzione per chi non è più all’inizio» e poi riprende a un suo amico, Heinrich Blücher: «Ho ancora in testa e in corpo l’Alleluja di Haendel, per la prima volta ho capito la grandezza di “ci è nato un bambino”» e poi dice: «perché è importante l’inizio? Perché il mondo riappare per la prima volta, viene reinterpretato con categorie nuove».
Mi sembra che la grandezza di Potok – cioè che un romanzo dica la realtà nell’individualità di cui è costituita la persona e nella storia in cui siamo immersi – la potenza della sua narrativa e della sua capacità di descrivere il mondo, nascano proprio perché in tutte le sue opere i personaggi vengono messi, come dire, in scena in questi momenti di passaggio in cui la vita re-inizia. La forza della narrativa di Potok è proprio questo percepire che la realtà ha dentro questo inizio: è il momento della scelta, è il momento della chiamata, il momento della vocazione, un momento primigenio, costitutivo, genetico dell’uomo. Come nella Bibbia, è evidente l’esempio che citavo prima del sacrificio di Isacco, in cui Dio richiama Abramo “Tu mi vedi, tu sai che sono qui, Io sono rapporto con te”. Quindi questo è l’inizio. Ma che cosa avviene nella narrativa di Potok? Che lui supera, attraverso questi personaggi, in parte un po’ autobiografici come Asher Lev, supera di schianto il dramma della modernità. Qual è il dramma della modernità? E’ tutto il tema che ha sviluppato Prades nella terza parte: rendere una esperienza particolare, come la scelta che fa il pittore, o che ti innamori di quella ragazza, che ti sposi con l’altra, ecc. Rendere una scelta particolare, assolutamente particolare, cioè assolutamente sentimentale, riducibile alla persona, senza valore di proposta universale, in termini nostri, cattolica. Potok capisce che il mondo moderno riduce anche l’esperienza spirituale che potrebbe essere più profonda per la persona, l’esperienza della morte, l’esperienza del dolore, ad un’esperienza individuale, non all’esperienza di un uomo e quindi di tutti o per tutti, com’è il sacrificio di Cristo. Dove è impressionante questo? Asher Lev è un bambino geniale, grandissimo pittore fin da piccolo, e benché la mamma gi dica, dipingi, “fa’ cose leggiadre”, lui le risponde “no mamma”, perché fin da piccolo capisce che il mondo non è questa leggiadria: sono gli anni ’40 e già si sente in Europa quello che sta accadendo alla comunità ebraica. Anche in Danny l’eletto c’è un episodio, dopo la scena della fine della guerra che abbiamo visto prima, in cui questo ragazzino, diventato grande, 18-20 anni, decide di diventare pittore e, con l’assenso del maestro, ad un certo punto dipingerà un crocifisso e, come quando vedrà La Pietà per la prima volta a Firenze, capisce che sono l’unica forma figurativa con cui l’uomo, con cui l’ebreo diremmo, può rappresentare il dolore individuale ma come dolore dell’umanità intera, di un popolo intero, cioè il dolore del popolo ebraico. Infatti, leggo un passaggio, “la Shoah non fu soltanto una tragedia collettiva bensì la tragedia di tanti io, delle loro infinite memorie. La crocifissione, un corpo, il corpo di Dio attaccato al legno mediante dei chiodi, è la sola immagine concreta, adeguata a raccontare uno strazio che nulla ha di generico, così la storia e la sola inconfessabile speranza è che sia davvero risorto”.
Quest’ultima parte è di un critico, di Doninelli. C’è, però, la prima parte potente. Per Potok la crocifissione – è quasi una bestemmia nel mondo ebraico che Cristo sia morto, anche per tutta l’accusa che in certi momenti della storia è stata fatta agli ebrei di essere gli uccisori di Cristo – la crocifissione, agli occhi di Potok, è l’unica forma, come anche per Chagall, per rappresentare il dolore di un popolo cioè per dimostrare che il dolore di un individuo è il dolore dell’uomo. Potok, che ha rappresentato anche in modo autobiografico alcune figure che lui stesso dipingeva, decide di scrivere romanzi quando, a 16 anni, legge dei romanzi di due cattolici, Joyce (Ritratto dell’artista da giovane) e Evelyn Vogel, quindi lui stesso è un po’ difforme da questa tradizione. Capisce che la sua esperienza, la sua tradizione ebraica, l’amore a Dio, l’amore alla sua famiglia, alla sua patria, alla sua gente, può essere nella modernità, nel mondo d’oggi al massimo come un angolo bello, buono ma individuale e invece la sfida che lui accetta, e nei suoi romanzi è potente, è che questa esperienza sia un’esperienza con un valore universale, fin nel dolore di un popolo. E quindi, il rapporto fra la tradizione e l’individuo è assolutamente il suo tema centrale. Il tema centrale è se quella credenza, cioè quella fede, o quell’esperienza, per come la citavamo prima leggendo Buber, quella storia che ha millenni, abbia un valore per i nuovi, se i nuovi che vengono, come dice Hannah Arendt, leggeranno la realtà con occhi nuovi ma a partire da quella tradizione.
Vorrei finire leggendo il passo che ci fa vedere come il rapporto col padre di Danny sia un rapporto che è dato dal silenzio in un modo un po’ misterioso, perché ad un certo punto il padre decide di non parlare al figlio, però in questo silenzio il padre insegna al figlio. “Non sei più un bambino” gli dice “ma ti rendi conto che in questi tre anni, tre anni fa eri ancora un bambino, in questi tre anni sei diventato un piccolo gigante, dal giorno in cui la palla di Danny ti colpì l’occhio? Tu non lo vedi ma io sì ed è bello a vedersi”. E ancora: “Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven, vivono quanto dura un batter d’occhio se si commisura le nostre vite all’eternità. Può quindi essere lecito chiedere qual è il valore della vita umana. C’è tanta sofferenza in questo mondo, che significa dover tanto soffrire se le nostre vite non sono nient’altro che un batter d’occhio?”. E poi va avanti facendogli vedere come, a partire da quel particolare, da quell’avvenimento, si è generata una storia, il suo cambiamento e l’amicizia con Danny. Inoltre il padre di Danny, l’ebreo ortodosso che ha educato il figlio al silenzio, gli dice: “Reuven ma non ti accorgi che si può ascoltare il silenzio?”. Si può ascoltare il silenzio e impararne qualcosa e poi dice: “Ma non ti rendi conto che quando lui ti ha chiesto di parlare voleva dirti qualcosa?”. E quello che il padre dirà a Reuven, alla fine, lo dirà a Reuven perché lo capisca Danny. Ripeto perché magari siamo confusi: il padre di Reuven è un sionista, di una scuola ebraica più laica diremmo, quindi un uomo impegnato, anche pubblicamente, però dice al figlio: tu devi accettare gli altri, perché se non fosse stato per la testardaggine di questi chassidici, di questi yiddish, ebrei tradizionalisti, l’ebraismo non avrebbe resistito 4.000 anni, 2.000 anni di diaspora. Il padre di Danny, invece, che è il protagonista, che è quello con il cappello nero, era un rigido chassidico, rabbino, che aveva educato il figlio in questi due anni di totale silenzio. Alla fine, però, quando ormai i due giovani devono decidere in quale università andare, – Danny desiderava fare lo psicologo, quindi un mestiere fuori dall’ebraismo, dall’ebraismo fondamentalista – il padre convoca i due ragazzi e parla a Reuven perché capisca anche Danny. E gli dice in modo commuovente: “Io sono stato educato così da mio padre, perché nel silenzio l’uomo può capire che non è al centro del mondo e che la vita è una cosa grande e che c’è la sofferenza”. Ascoltiamo solo questo frammento e vi ringrazio.

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In quel silenzio, a che cosa ha educato il figlio? Al fatto che la giustizia è l’unico modo di essere uomini. Sennò io avrei avuto un figlio intelligente, capace di leggere a quattro anni, ma incapace di andare alla profondità delle cose, di attraversare le cose: un figlio che non sarebbe stato buono. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie Peluso, non abbiamo sbagliato a scegliere Corrado. Io volevo lasciarvi con una frase in cui Potok indica questa coincidenza della realtà con un nuovo inizio e con questa consapevolezza che la tradizione è sempre buona perché vive solo della sua verifica nel presente. L’interlocutore di questo dialogo, svoltosi a Milano, e riportato nel libro, Dove la domanda si accende, diceva: “Sì, nei suoi libri c’è molta Torah e poco Dio e questo mi sembra molto ebraico, una cosa positiva. Mi piacerebbe sapere se lei è d’accordo su questa constatazione”. La risposta: “No, non sono d’accordo che Dio non ci sia nei miei libri. Dio è tanto presente che le persone nei libri non si preoccupano di parlare di Dio, non se ne curano, se non nei momenti di profonda crisi. L’unico momento in cui si parla troppo di Dio, se volete, è quando Dio diventa un problema, è una questione di dubbio. Gli ebrei religiosi non parlano di Dio, parlano a Dio, combattono con Dio. Vivono il verbo di Dio”. Potok era deciso, era una persona veramente imponente e dura, aveva questa certezza. Ma aveva anche un lato di dolcezza, che potemmo sperimentare proprio qui vicino a Rimini, nella casa di un amico, fino alle tre di notte, con gli amici americani e lui ci intonò i suoi canti e noi i nostri canti. E lui dirigeva con la mano. Con una certa commozione ricordo questo grande amico. Leggete i suoi libri che sono qua in libreria.

Data

24 Agosto 2012

Ora

19:00

Edizione

2012

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti