IN CHE VERSO VA LA VITA

Partecipano: Roberta Castoldi, Poeta;Bernardo Pacini, Poeta; Antonio Riccardi, Poeta. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

 

IN CHE VERSO VA LA VITA
Ore: 19.00 Sala Tiglio A6
Partecipano: Bernardo Pacini, Poeta; Antonio Riccardi, Poeta. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

DAVIDE RONDONI:
Buonasera. Siamo qui per questo secondo piccolo, grande appuntamento di poesia. Come dicevo l’altro giorno a chi c’era, il tema di quest’anno del Meeting è appunto “emergenza uomo”, ovvero la sottolineatura del fatto che esiste un’emergenza e che in mezzo a tutte le emergenze di cui normalmente si parla, l’emergenza economica e sociale, l’emergenza educativa, la vera emergenza, che le sintetizza tutte, anzi ci sta sotto, è appunto l’emergenza dell’uomo. Il problema è il rischio di una progressiva cancellatura di tratti fondamentali della vita umana, dell’esperienza umana, che non sono tratti difficili da riscontrare, perché sono fondamentalmente il desiderio della gioia che fa parte della nostra vita, e il fatto che questo desiderio è tendenzialmente infinito. E, come è stato anche documentato in questi giorni, l’epoca in cui viviamo, di fronte a questo desiderio infinito, ha due modi per affrontarlo: o negarne la ragionevolezza – avere un desiderio infinito è una specie di follia, è una cosa da bambini, è una cosa a un livello ingenuo della vita – oppure censurare in un qualche modo questo desiderio, identificandolo con delle scimmie dell’infinito, come dicevano gli antichi o con degli idoli, come dice la Bibbia, ovvero con qualche cosa che si propone vanamente come risposta possibile al desiderio dell’infinito. Queste scimmie sono tante e ci circondano continuamente come una specie di narcosi di questo desiderio, perché uno che ti presenta una presunta risposta al desiderio di infinito è perché in questo modo pensa di poter essere il tuo padrone: se ti do la risposta a quello che cerchi, tu sei mio! I soldi, il successo, possono essere tante le cose che sembrano placare il desiderio di infinito che l’uomo ha.
La poesia, invece, come tutti sapete, ha sempre rimesso in questione questa censura, questo assetto, questo problema, in tanti modi, con tante voci diverse, con tante idee, con tante esperienze, con tante lingue. La poesia, l’arte, ha sempre rimesso in questione quest’emergenza dell’umano, l’ha sempre fatta emergere. Per questo dicevo l’altro giorno: “Gli artisti sono sempre in emergenza, perché per gli artisti l’emergenza non è un problema filosofico, è la loro stessa vita, è la loro stessa opera, perché fa parte e rilancia quest’emergenza”.
In questi incontri ascoltiamo alcuni poeti. Questi momenti di ascolto hanno la caratteristica di accostare due voci di poesia, l’una un po’ ai primi passi, diciamo così, il primo libro appena uscito di poeti che hanno appena messo fuori la testa – ed è il caso di Bernardo Pacini, che è qui alla mia sinistra – l’altra formata da voci più assodate, già più esperte, – ed è il caso di Antonio Riccardi, qui alla mia destra.
Per iniziare l’appuntamento di oggi, io leggo, come ho fatto l’altro giorno, una mia poesiola che contiene una definizione strana dei poeti. Chi c’era l’altro giorno l’ha già sentita ma riascoltarla fa bene, non perché è mia ma perché fa bene ascoltare la poesia più volte.
C’è una definizione strana della poesia, che ho trovato in una lettera che un tizio manda ad un re spagnolo per cercare protezione, per chiedere protezione per i trovatori, adesso non sto a spiegare il contesto che è molto complicato, tra eresia ecc…
Insomma, in questa lettera per chiedere protezione ai poeti trovatori rivolta al re, questo signore usa un’espressione che mi ha colpito, perché dice: “Devi proteggere questi chiarificatori dell’universo”. E’ un’espressione molto bella, perché evidentemente i poeti non servono a niente, questo ormai è assodato dopo anni di esperienza, anche Riccardi, che è un’importante editore che dirige la Mondadori, sa bene, anche dal punto di vista del business, che i poeti se non inutili son dannosi.
Quindi i poeti sono inutili, però hanno questa strana cosa: sono dei “chiarificatori dell’universo”. L’altro aspetto da cui parte la poesia, è una frase molto bella di un narratore che si chiama Vincenzo Pardini, uno straordinario narratore di cose, di boschi e animali, eccetera, che qualche giorno fa all’Atelier delle arti, fatta appunto dagli amici della fondazione Claudi, mi diceva: “Io ho conosciuto tanti scrittori e dopo un po’ gli scrittori sono suonati, come i pugili, solo che sono suonati dalle parole”. Questa espressione mi ha colpito perché è vero, gli scrittori sono suonati dalle parole.
Con questo cedo la parola a Bernardo, che ha esordito da poco con un bellissimo libretto che si intitola Cos’è il rosso?, da qui anche la copertina con una audace invenzione editoriale. Non era facile …

BERNARDO PACINI:
La luce è bianca, la luce del semaforo è fine.

DAVIDE RONDONI:
La finezza che la luce è bianca, dice del semaforo, quindi vedete che …

BERNARDO PACINI:
Lo giri ed è bianco dietro.

DAVIDE RONDONI:
Ah, ecco, un editore … no, scherzo. Il fine editore, lo dico con amicizia e orgoglio, perché l’editore è Andrea Ulivi, delle edizioni Meridiana di Firenze, co-fondatore con me e pochi altri matti della rivista “Il clanDestino”, e in questa collana molto bella di poesia, sono usciti tanti altri poeti e poi adesso è uscito addirittura Bernardo Pacini con questo libro, che tra l’altro spero sia in vendita fuori. Comunque c’è il libro. La poesia dice così:
“Li vedi, sono suonati, si incantano, deviano nei discorsi come i pugili suonati, ma dalle parole che colpiscono, colpiscono come i suoni tutte le cose dentro i viaggi millenari tra mormorii e carte, le ripetizioni sulle labbra morte, le erbe balbettanti e le stelle che si incendiano in mente. Stanno seduti ai tavolini, lavorano la materia generale e sopraffatti da cose invisibili muoiono di tenerezza per tutte le visibili. La tempesta e l’ultimo chiarore tra i capelli. Non sono mai veramente belli, chiarificatori dell’universo, chiusi in una dura oscurità ordinano da bere, l’anima sulla bocca, i sapori passano prima delle parole, dei colpi, dei tuoni che stordiscono la mente anche in lontananza. Se si alzano non è per rientrare in una stanza, ma aprono la porta del loro inferno e dalle vetrate si vede il mare”.
Bernardo…

BERNARDO PACINI:
Allora ringrazio Davide e il Meeting per quest’invito, sono contento, onorato di condividere il tavolo con lui e Antonio Riccardi.

DAVIDE RONDONI:
E poi ci sarà una sorpresa, che ho una ospite…

BERNARDO PACINI:
Devo sapere qualcosa io?

DAVIDE RONDONI:
No, no, tu vai tranquillo.

BERNARDO PACINI:
Più che altro per riaprire una questione che nessun poeta, nessuno è mai riuscito ad esaurire in fondo, cioè quale sia la natura della poesia in rapporto anche con la vita. Però per dare un po’, come dire, già una quadratura all’intervento, parto dalla provocazione del titolo: “In che verso va la vita”. Forse un’embrionale risposta nasce proprio dal titolo “emergenza uomo” che nell’ormai, insomma, acclarata, doppia significazione semantica ha appunto da un lato l’allarme, dall’altro, come dire, un’emergenza, un’emergere da una posizione, come dire, bassa per alzarsi, per alzare la voce. Quindi la direzione della vita, il verso della vita forse non è solo uno, ma sono due, che sono necessari uno all’altro. Abbiamo appunto questa ascesa, questa salita, questa emergenza ma anche una necessaria discesa. Io vorrei parlare soprattutto di questa discesa, se si deve dare un verso, una direzione. Per descrivere invece l’altro lato, l’ascesa, uso dei versi molto noti di Mario Luzi, che prova appunto a descrivere rapidamente l‘ascesa:

“Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi
sogno che la cosa esclami
nel buio della mente
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo sii
luce, non disabitata trasparenza…”..

Luzi chiede allo strumento della poesia, la parola, di farsi cosa alta, tramite una mendicanza quasi disperata, ma più che altro supplichevole, una sorta di richiesta. Cioè che la parola si faccia alta, cioè totalmente significante dal nadir allo zenith. È il desiderio di chi lavora sulla poesia. Ma attenzione, il desiderio. Proviamo a rispondere a Luzi con Rainer Maria Rilke che chiude le Elegie Duinesi – bellissime – con questi tre versi: “E noi, che pensiamo alla elevata felicità, sentiremmo la commozione, che quasi ci sconcerta, quando una cosa felice cade”. Il nostro tentativo di innalzamento, una sorta di ostensione di una parola totalmente significante, potrebbe coincidere con la felicità di un gesto che ci rende totalmente partecipi del mondo. Ma Rilke ci dice che la commozione sconcertante la proviamo quando, nel momento della caduta di questa cosa felice verso il basso sulla terra, una sorta di incarnazione ci servisse appunto la polvere. Per quanto riguarda questa discesa la lettura è zeppa, è piena zeppa di naufragi, di discese agli inferi, le cosiddette catabasi. Alcuni nomi celebri sono Ungaretti, Rebora, Caproni, Vigolo, Campana, senza però dimenticarsi di esempi noti come Ulisse, Dante, Orfeo, Rimbaud, Baudelaire e il mio amato Buzzati, che appunto è il mio maestro, che ha ripreso il mito di Orfeo e l’ha fatto a fumetti. Per portare un esempio: Ungaretti paragona, anche qui con versi molti noti, l’esperienza del poeta a quella di una sorta di palombaro, infatti, chiamerà una parte della sua opera Allegria di naufragi.
“Il porto sepolto
Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde. Di questa poesia mi resta quel nulla di inesauribile segreto”.
O ancora Rebora che con dei diversi bellissimi dalla riva chiama il mare:
“Mar che ti volgi ovunque riva e chiami. Cuor che ti volgi ovunque pena e l’ami. Ritorna l’acque i sentimenti al fondo ma per salir puri ancora al mondo”.
E persino Eugenio Montale, che potremmo portare quasi sempre esempio negativo, ma in questo caso esempio negativo di questa tendenza all’abbassarsi, allo sprofondare. Anche lui cerca l’abisso, lo sprofondamento, anche se parla di inutili macerie dell’abisso, chiede comunque di scendere e tornare su, anche se poi torna su come scavato e pallido osso di seppia. Dunque lo strumento della poesia, per cominciare appunto il discorso, è la parola. E che cos’è la parola? D’Annunzio con la sua portentosa fontana di parole, parlava del verso come di un tutto e se ne faceva vanto, lo trasformava in vita strabordante di pienezza, di retorica, di grandezza. Ma, come dice un bravo poeta vivente, di cui ho molta stima, che si chiama Umberto Fiori: “Quando si scrive in poesia bisogna perdere tutte le bravure”. Carlo Betocchi, nel dialogo della poesia e della rima, risponde a questa questione citando la lettera di San Paolo ai Corinzi. Dice: “Se c’è da vantarsi, io vanterò gli atti della mia debolezza”. Personalmente io intendo la parola nella sua eccezione, cioè nel sinonimo, termine, come una sorta di limite, il termine, un punto entro il quale e oltre il quale non si può arrivare, non si può andare. Per rispondere a Samuele Donati, che ha condiviso con me questa condizione di poeta emergente, in rampa di lancio, come ha detto Davide, io non credo che la poesia, come lui ha detto, tramite la parola possa aiutarci a capire, cioè essere strumento di comprensione. Piuttosto a conoscere. Dice Franco Loi: “Poesia come prassi per affrontare il destino e non come risposta al problema della vita, risposta al destino”. Ma perché la parola è un termine? Proviamo a pensare allo scompenso che può dare la parola “ti amo” alla donna amata. Non la diciamo quasi più dopo un po’, perché non riesce a dire tutto, non riesce a significare, non riesce ad andare oltre al limite linguistico di quelle cinque lettere. Quindi non la diciamo più. O se la diciamo, ci stringe il cuore perché non si riesce, cioè ha un limite, non ci si arriva. Il lavoro della poesia, secondo me, è il tentativo di dire. Faccio un esempio un po’ stupido, l’esempio del misuratore del livello dell’olio, quella stanghetta che si infila dentro all’olio della macchina per vedere a che punto è l’olio. Quando io scrivo una poesia, per vedere se il lavoro è buono, per vedere a che punto siamo, guardo quanto è sporco il misuratore del livello dell’olio, quanto ci si sporca, anche richiamando Chesterton, che dice che bisogna sporcarsi, come dice nella mostra. Questa esigenza di inabissarsi, di andare sotto, la dice bene Caproni che, in un’intervista che si trova anche su Youtube, dice:
“Il poeta è come il minatore che dalla superficie dell’autobiografia scava, scava finché non trova un fondo che è comune a tutti gli uomini”. Mi piace pensare a un filo a piombo che cerca. Però questa parola, se anche scovata, totalmente significante, come luce che apre la strada, riesce ad essere salvifica? Io credo di no, almeno a parte probabilmente qualche caso benedetto. In questo caso, la parola da “tentativo” rischia di diventare “tentazione”, secondo un gioco anche etimologico che mi piace fare. Tentazione di possedere la realtà e ancora Caproni dice in una poesia bellissima: “Eran costretti tutti a seguire lui, il solo che avesse una lanterna, ma all’alba tutti si sono dileguati, come fa la nebbia; tutti. Chi qua, chi là. C’è anche chi ha preso, pare, una strada falsa, chi è precipitato. È facile. Oh Libertà, Libertà”. Il rischio della precipitazione, che ci racconta Caproni, che è diverso dallo sprofondamento, è dietro l’angolo. Quando mi trovo a dire: “Come me agisce la parola poetica”, mi piace parlare di “dittatura della dettatura”. E mi spiego, perché sembra una cazzata: “dittatura” perché non ci si libera, non ci si divincola dalla poesia, dalla parola; “dettatura” perché è data, perché si svolge secondo una grazia; è una condizione abbastanza difficile, perché dentro una dettatura, come si fa ad essere “dittatura”, come si fa ad essere liberi? La libertà di cui si può fare esperienza in questa “dittatura della dettatura”, per me si traduce nella propria voce poetica, attraverso un lavoro, proprio nella propria poetica e questa, forse, è la forma di libertà – “Oh, Libertà, Libertà”, di cui parla Caproni -. “Libertà” come predisposizione adesiva a quanto la grazia trasmette. La grazia della poesia non è equivoca come una sorta di ispirazione – infatti, io non ho in simpatia per questa parola -, come schiavitù dell’impressione, del sentimento passeggero, un po’ melodrammatico, un po’ “ho visto la Madonna”. Per arrivare ad una qualche conclusione leggerei qualcosa di mio. Io considero il mio embrionale lavoro poetico come ironico. Infatti, l’ironia è una delle caratteristiche (a parte il fatto che son toscano, ma questo è un altro discorso) ed è stata vista come una delle caratteristiche di questo librettino. E vorrei azzardare un altro giochino etimologico. Io mi diverto con la parola, perché non c’è parola, tranne quella di Dio, che non diverta, ovvero etimologicamente che non devii, cioè che sposti, che sia totalmente significante della realtà ed estremamente soddisfacente. Un divertimento reciproco. Davanti a una grande bellezza non a caso si rimane senza parole, sono quelle che mancano; quindi che cosa significa “lavoro ironico”? Ancora Caproni -ormai è diventata una sorta di monologo – in alcuni suoi celebri versi dice: “Buttate pure via ogni opera in versi o in prosa, nessuno è mai riuscito a dire cos’è nella sua essenza una rosa”. E’ un poco disilluso Caproni, ma dice cose vere. Se nessun poeta è mai riuscito a dire cosa sia una rosa, cosa possiamo allora dire noi, cosa possiamo dire, creare? Come esempio, ancora una volta negativo, c’è Montale che dice: “Codesto solo oggi possiamo dirvi, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Eppure ancora una volta Montale non si ferma lì, perché scriviamo, non sopprimiamo questo movimento d’amore e di conoscenza che è il lavoro della poesia. Lavoro ironico, ovvero lavoro che cerca la verità della cosa, della parola, rivoltandola, strapazzandola, rivoltandola come un calzino. Nel mio caso personale si traduce in un uso, che poi è anche una sorta di piccola croce, dell’assonanza, del gioco di parole, della rima, dell’anagramma, del ritorno fonico, del ritmo, della perifrasi, ovvero del girare intorno alla cosa che si vuole dire. Cito Bigongiari, che è un autore a me molto caro, un po’ difficile, ma questa cosa che dice è molto bella, è una cosa sorprendente: “La prima parola, come l’ultima, ha almeno due sensi, per quanto io creda che ne abbia infiniti. La parola è tutta intorno a sé, ma due sensi che fanno tutt’uno, una direzione che non è l’infinito, ma queste mani. Alziamoci insieme dal nostro quatto accostarci di lucertole sulla parola”. Per me la perifrasi è stare nei pressi della cosa, della realtà, anche se, come dice Testori: “Guai se la parola non è anche già coinvolta nella vita e non ri-coinvolge la vita stessa. L’astrazione è la più orribile delle bestemmie”. Testori, era tormentato dalla spina di saper dire la vita vera, ma perché quella tanto desiderata “parola alta” di Luzi, possa essere ancora un orizzonte, se proprio non riusciamo a sfondare la realtà, stiamole nei pressi, ma stiamoci, almeno io cerco di starci veramente, disperatamente e fedelmente, e uso un titolo bellissimo di un libro a me caro di Betocchi, Un passo, un altro passo, un titolo semplice, ma che dice qual è il lavoro, il lavoro poetico. Nell’orizzonte è chiaro che l’unica parola che salva non è certo la nostra: “O Signore, io non sono degno di partecipare alla tua mensa ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”. Cominciando a leggere le cose che valgono meno, io, nel mio libro, che appunto ha un semaforo in copertina, comincio (sono molto, molto, molto prevedibile) con una poesia sul semaforo, ma il titolo è “Sémaphoròs”, etimologicamente “portatore di segni”. Il semaforo, noi siamo abituati ad odiarlo, ci rendiamo conto che vuol dire che porta un segno e questa cosa mi manda fuori di testa. Questa poesia – e poi comincio a leggere un po’ di cose – è un po’ il diapason di questo libro, dà un po’ il là a tutto il libro. Infatti, in questa poesia c’è uno stop, c’è la luce rossa, e questo stop è il termine, come dicevo prima, e c’è uno che supera lo stop, tenta di superare lo stop, quindi infrangendo un canone, una legge in un certo senso:
“La mia fortuna è che so sterzare d’istinto, starnazzo al pedone: «Idiota, ma lo sai cos’è il rosso?» e riparto paonazzo, non prima, però, di sentire lieve, ma distinto: «E tu lo sai cos’è il rosso?». Senza sarcasmo mi annido in un bar a un’ora indifferente, a un’ora in cui nessuna apocalisse vorrebbe capitare senza chiedere il placet. Il barista mi guarda, gli occhi un’eclisse, sposta le braccia insugherite sulla macchina da caffè: «Hai mai paura di morire?» «Sì» dico, scrutandolo da dietro la tazzina, «quando mi accorgo che sono solo». Sbatacchia il filtro nel sacco nero, il caffè torrefatto sciama dentro l’abisso, sotto i tappeti dell’inferno le diavolesse spazzano il caffè nevicato da questo straordinario bar. Poi, lavate le mani, preparato un Cuba Libre, senza sarcasmo: «anch’io nelle pause, o al finire della maionese ho paura di morire»”.
Questa è dedicata ad un amico, Paolo Fabrizio Iacuzi. Sezione Aurea. “Mi sto staccando dalla notte, come scotch nero al sole, ma insiste sulla cartapesta della città una purea di voci e canne fumate piano, mentre a media velocità vedo ora stremare Firenze, spogliarsi e sui fianchi mostrare le smagliature, darsi roca una donna bloccata sull’arsi del passo. E voi che mi fermate, sapete a chi state chiedendo aiuto per far ripartire l’auto? A un dio, un dio cieco, a un muto col megafono, a un sordo che scrive sinfonie, a un Dante che ha lasciato Virgilio per Google. Tenetemi un attimo la bici, non strappate la ragnatela dal campanello, che penda ancora se davvero un ragno l’ha tessuta al manubrio di Clarissa. Sappiate poi che ora che mi sono appena staccato, mi lega la notte con altro filo, che rialza lo specchio, mi allaccia a Firenze, mi mantiene in sezione aurea con l’alba”. Questa è un po’ lunga, si chiama “L’incidente”. Dico una parola, solo per farvi capire qualcosa più, anche se, insomma: quel 3-1-11, che è la targa del camion, nella mia esperienza di quel giorno, ha fatto le veci del camion che mi schianta via. Tra tutte le cose che mi sono successe in quell’occasione preletteraria, ricordo che sono andato con i miei famigliari a vedere una bella mostra di presepi in un paesino dell’Appennino pistoiese. L’incidente. “Ho fatto un incidente con un camion targato 3-1-11, mi sono fatto male, ma è un niente, morto per miracolo, dicono, ma è un niente, e ora sono nel profondo di una vita, vissuta, mi pare di ricordare, un minuto sì e uno no, in bilico su un vulcano di camomilla, tra fantasmi e biscotti, ascoltando attentamente i battiti delle ciglia dell’ospite, rabdomando i suoi singhiozzi. Il vulcano erutta e io ebete torno sul sentiero, senza aver gettato l’anello, senza aver gettato nulla alle spalle, forse senza neppure le spalle; ed è per questo che cammino sempre gobbo, non perché ho letto troppo nell’oscurità di una stanza, ma per la vana ricerca tra la polvere di un moccolo. Prima della fine ho visto l’inizio ed erano tre uomini: un giovane, un vecchio e un vecchissimo; ognuno un passo diverso, un misto di freddo e paura di non saper nominare i personaggi del presepe. Un figlio, un padre e un altro figlio, forse sì, un altro figlio, non fosse altro per la simile corporatura e la stessa vaga disperazione e insieme trepidazione, per un brutto terrazzino illuminato. Un altro secondo di luce ancora, una viuzza ancora, un sorriso ancora, una madre che tagli il pane col coltello, è stato dunque terribile: mille morti, neve e buio ovunque, nemmeno l’odore delle foglie, nemmeno un po’ di tempo per vedere le faggete, solo le scarpe bianche della vita che corre, quelle vecchie Superga che non sanno dove andare, che sentono la voce, ma non vedono chi chiama, scricchiolando come vecchie madie tarlate. Ho salvato tra le ferraglie del camion targato 3 -1-11 una forma di pecorino ingiallito, ho fatto una confezione, ho fatto una preghiera, ho fatto schifo, ma ho raccolto le forze e sono tornato ancora da te”.
Questo è un reportage un po’ involontario di un bel viaggio che ho fatto con Clarissa in Andalusia, in una bella città che si chiama Ronda, tagliata da una gola in due parti, veramente profondissima, e c’era questa mina del “Re Moro”, è una sorta di struttura difensiva, che dalla superficie della città si è scavata fino “al bacio dell’acqua azzurra”, fino al fiume. In fondo alla mina. “Si tratta di un’anatomia basata sui carbonati azzurri, dicono i rondegni, piangendo un Flamenco sul nostro piatto di gazpacho; ciò riguarda l’abisso di sole, che piomba sulla groppa del cavallo mascherato, nella Plaza de Toros e il dedalo di case bianche, come vene vuote, invase di dissipato clarinetto; ciò riguarda l’arancia disfatta sull’asfalto e colata nelle entraglie di una città ficcata nel passato, come una ciste, dentro un chiostro di sibili e fantasmi aridi, senz’acqua. Ciondola stanca come vecchi poeti, Ronda vana e strepitosa su di un fiume che le bacia i piedi, Ronda peccatrice, carceriera di cigni, schiudimi i tuoi penetrali, dimmi perché sei. Il naso in alto, bocca sulla guancia di lei, arrivo in fondo alla mina del Re Moro, al bacio dell’acqua azzurra, a imburrare le mie dita delle umide pareti carsiche che cingono la tua anima, Ronda e la mia”. Ne leggo un’ultima, che non è edita, ma che vi voglio leggere, per far capire dove ora sta andando, forse, il mio lavoro; verso una parola che col ritmo, col suono tenta di compiersi e ha bisogno di una sua trasfigurazione. È divisa in tre parti, è un po’ lunga, ma ce la facciamo in due minuti e mezzo, no via, due minuti. Ouverture. “Non è poco se so di avere un nome, si disse nell’ombra, poco più che figuro, quantomeno so di non essere un lampione, o, che so, un pezzo di pane un po’ troppo duro, perfino per i cani magri dei barboni, e non mi pare d’esser spergiuro. Teneva tra i ndenti il picciolo di una mela, distratto e vuoto, quasi un Epicuro. Non mi si può certamente accusare di tradimento se vivo come un paguro, pusillanime di fianco come passando in mezzo alla calca di un bus, io giuro che ho provato, per un po’ ho intonacato le pareti, ma il gesto della gettata è insicuro, non regge più nulla, si sgretola, si crepa, e sì, si crepa, però consola che non sia Mauro, Paolo, Federico, Giorgio, Luca, ma un nome ben preciso, e non lo abiuro. Sputò il picciolo che forse gli cadde dentro il golf, non lo trovò. Lo stanzone era troppo scuro per rovistare in terra, così lasciò che il picciolo vagasse nel maglione. Il fatto che sia Arturo e non Ciro, Martino, Mario, Policarpo, mi tiene ancora in vita, è un piccolo tamburo che batte ancora il ritmo, timido sarà che a forza di puntini vuole ricoprire il muro, ma spinge sulle reni tutto il passato che tengo dietro la schiena o dentro la tasca come un canguro; ci sono molti quadri dentro la mia stanza eppure non si sente un filo di vento, censuro ogni spicchio di veglia che mi resta ancora, ogni porzione di voglia che mi procuro, eppure successe una volta, ne è sicuro, lo sente, sembra memoria o cianuro, gli pare che fosse qualcuno, un vecchio amico, che per simpatia lo chiamava Turo. O, Turo, che fai stasera, ti vengo a prendere, io, allegro, sì, e con quella Opel che andava a siluro a corsa sui viali, a centotrenta, senti come la tiro, ci importa una sega, Turo, finché c’è idrocarburo c’è vita, ma che resta di quel Turo? Cosa resta di un ieri che solca la mia vita come un cercuro, lasciando la scia sull’acqua e poi si ricompone tornando mare, piatta presenza e io Palinuro, saprò anche nuotare, ma la conosco quella storia, e allora a che serve Dio? Ti scongiuro, presentami al tempo, accendi un bagliore, o almeno rendi il buio un po’ più oscuro. Intanto è entrato suo padre ha acceso la luce: eccolo il picciolo in chiaroscuro tra golf e camicia. Dice: «Babbo, lo butti nel cestino?», «Non so, stasera non carburo». Sprofondato nel divano, sa che senza il picciolo gli rimane solo il nome, si sente un morituro, che tra le mani non ha più domani, ha il nome, ma gli manca tutto, è stato Turo solo una volta, ma bastò per sentirsi di più, per consistere appena; ora c’è solo l’Arturo, che è già stato vivo, che è stato, e non sarà futuro”. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Grazie a Bernardo Pacini. Siccome so che Antonio ha tanti difetti, ma ha un pregio, è un signore, è un cavaliere, allora gli chiedo ancora un istante di pazienza, perché vorrei appunto introdurre, per una lettura di una poesia, un ospite a sorpresa. Ieri, l’altra sera, vagavo verso il centro di Rimini, cioè verso il lungomare e mi è arrivato un messaggio da una mia amica che era nel terrazzo del Grand Hotel. Posto che io non la frequento di solito e lei mi ha detto vediamoci un attimo ed è Roberta Castoldi, una poetessa che io stimo moltissimo, che è qui in vacanza con sua figlia e sua nipote, allora le ho detto “vieni a leggerci una poesia visto che sei qua”. Roberta, ti puoi avvicinare o devo fare una presentazione più sontuosa? Le ho chiesto di farci il regalo di leggerci una sua poesia o un paio, non so quante ne hai, non più di due, purtroppo, perché Riccardi è un signore, ma poi morde.

ROBERTA CASTOLDI:
Grazie innanzitutto a Davide soprattutto per la presentazione …

DAVIDE RONDONI:
Si può fare di meglio.

ROBERTA CASTOLDI:
Grazie a voi che mi ascolterete leggere questa poesia. Visto il tema dell’emergenza uomo, mi piacerebbe introdurre la mia poesia dicendo che per me scrivere è un emergere a me stessa ed emergere sicuramente agli altri, ai miei simili, attraverso le parole e attraverso una fede nelle parole, in queste piccole scintille così abbandonate, per la vita che faccio, in questo pozzo, che devono essere recuperate passandoci del tempo insieme, dando loro fiducia e ascoltandole soprattutto. Quindi vi vorrei leggere una piccolissima poesia che è sulla mia seconda raccolta che ha appunto introdotto Davide. Il titolo di questa raccolta è Il bianco e la conversazione, ed è pubblicata da Marietti.
“Popolazioni di parole che crescono sulle persone della mia vita, scrivere è sognare i propri simili, se stessi senza peso, sognare un simile, lasciarsi addormentare su un mezzo pubblico”.
Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Grazie Roberta. Lascio ora la parola ad Antonio Riccardi, che è autore di alcune raccolte importanti di poesia nel nostro Paese. Ne ha un paio qui, così le facciamo vedere, sono libri molto belli, pubblicati da Garzanti in una collana nobile della poesia italiana. Lui poi dirige l’altra collana nobile, che è Lo specchio di Mondadori. Ma questa è la collana in cui hanno pubblicato Caproni, Luzi, a Bertoluzzi, una collana molto importante. Le raccolte si intitolano: Gli impianti del dovere e della guerra e Aquarama e altre poesie d’amore.
Prego

ANTONIO RICCARDI:
Buonasera a tutti. Grazie, grazie a Davide, grazie al Meeting per avermi invitato. In realtà grazie mi sembra il minimo, perché in effetti parlare di poesia in pubblico sta diventando sempre più complicato, nel senso che la poesia ha uno spazio esiguo, residuale. Prima dicevamo una battuta naturalmente, sono convinto che i poeti siano forse tra i meno dannosi, in realtà, tra gli artisti della parola. Leggerei brevemente qualche poesia. Vorrei cominciare da qualche testo tratto da Gli impianti del dovere e della guerra, che è un libro di dieci anni fa, perché in realtà ha a che fare molto con lo schema di fondo di questo incontro e sul tema cruciale dell’Emergenza Uomo. Quelle che leggerò sono poesie che riguardano l’esperienza di guerra di mio nonno paterno, che si è trovato a combattere la prima guerra mondiale, di cui noi ci apprestiamo l’anno prossimo a celebrare il centenario. Naturalmente la faccio breve e non dico tutto quello che vorrei sulla prima guerra mondiale e su cosa è stata, ma quello che mi interessa è vedere quando, ad un certo punto nella vita delle persone, il dovere individuale non si associa spontaneamente col dovere collettivo, ma in qualche modo si forza a coincidere con il dovere collettivo e massimamente nella situazione di guerra questo è catastrofico per l’individuo e per la serie degli individui e quindi per la collettività. Mio nonno poi ha avuto la sventura di appartenere a un corpo, quello dei cosiddetti Dragoni, che erano persone che andavano a cavallo, poveretti, con dei meravigliosi elmi rostrati, con un bellissimo rostro d’oro, la pettorina di metallo d’oro e la lancia, strumento meraviglioso per andare contro le mitragliatrici di alcuni simpatici contendenti. Insomma, vitaccia, anche perché non si poteva tornare indietro, in genere c’erano dei Carabinieri altrettanto costretti a spararti nel caso che tu tornassi indietro.

“Ogni fortuna è una forma e dopo una memoria che non finisce, anch’io sono un borghese, com’è suo padre Il Dragone. Da qui vedo la guerra e quello che è stato di loro e di ogni campo del loro podere. Il Dragone ha la testa d’oro. Vedo il padre di mio padre poco prima dell’assalto, prima che il mondo si cambi per tutti in un solo dovere. Niente somiglia davvero a come sono, a cosa so della guerra e degli eroi. Vedo il Dragone nel dirupo voltarsi al lampo artificiale di un bengala, un colpo di luce nel morso del cavallo. Sull’elmo e sulla pianura dell’assalto, al ritorno sarò in pari col dovere di tutti. In grazia di un luogo conosco come Dio non ha grammatica e forgia solo primi nomi: dovere, sacrificio, verità. Negli assalti sembrano sospesi in un velo di polline e vapori.
Dall’alto sulla piana di guerra di colpo vengono i biplani, dalle carlinghe i piloti guardano giù nel vallone a ogni singola cosa, ai fanti e al loro poco destino nell’erba scura di primavera. Il Dragone tiene il morso e il ventre dell’animale, lo vedo in guerra nel fondovalle che guarda nell’aria i duellanti con la testa e il torace chiusi nell’oro, si volta al fremito dell’animale, al corpo che lo dispera, al pensiero di casa. Chi vedesse dall’alto le trincee vedrebbe la geometria degli scavi nella piana, la forma dell’onore e della specie, il pulviscolo acceso di magnesio nell’aria bassa tra gli uomini e le cose. Vedrebbe un Dragone con la testa d’oro fermarsi al lampo di un bengala a combustione lenta e guardare indietro dal cavallo come chi cade per un attimo sospeso.
E’ morto al mattino col freddo alla fine del ’30, il 29, Antonio Riccardi di Cattabiano, Dragone nella prima guerra e possidente da civile. E’ morto nell’ora che il bosco sente la prima luce del pianeta”.

Abbandoniamo la guerra e passiamo all’amore, che sono poi i grandi temi, stringendo, stringendo, della letteratura, non soltanto della poesia, anzi sono i temi dei temi, quelli che in qualche modo costringono gli autori a misurarsi sulle questioni di fondo senza tanto scherzare, senza tanto girarci attorno. Io ho avuto un prozio molto simpatico, che ho conosciuto quando era molto vecchio, tornato in Italia sostanzialmente per morire. Una storia molto divertente, vi rubo un secondo. Questo mio prozio era un elegantone che non ha mai avuto voglia di fare niente nella vita sostanzialmente e da giovane, negli anni Trenta, faceva il pilota, diciamo professionista, ma non è che guadagnasse dei soldi, correva con l’Alfa Romeo, ho ancora delle foto molto belle di lui che affronta nella Targa Florio delle curve piuttosto impegnative, nel polverone assoluto. Ad un certo punto verso la fine degli anni Trenta, lo zio Nando, così si chiamava, emigra e va in Brasile e io ho sempre pensato che questa sua scelta fosse stata dettata da ragioni politiche, auspicavo, speravo, insomma auspicavo. Invece no, credo di no, essendo un elegantone nulla facente, ma piuttosto brillante e piuttosto affascinante, aveva una serie di fanciulle che gli davan retta, tra le quali anche la moglie del Federale di Parma, allora qualcuno deve avergli detto che forse era meglio fare un giro molto lontano per evitare guai ulteriori. Lo zio Nando emigra e va in Brasile. Verso la fine degli anni ’60, io sono bambino, un giorno mio padre dice: lo zio Nando torna dal Brasile. Lo zio Nando è tornato dal Brasile senza neanche la valigia e con un corredo di storie molto probabilmente desumibili anche dalla lettura di Qui Touring. Io infatti sono convinto che non sia mai andato in Brasile, che abbia scavallato gli Appennini, sia andato in Garfagnana, sia stato lì trent’anni e poi sia tornato. Il destino individuale dello zio Nando ha molti aspetti non scritti, però a me interessava molto il fatto che lui, in qualche modo, ad un certo punto, abbia fatto credere senza sostanzialmente raccontare nulla, di aver partecipato alla grande impresa della costruzione della città del futuro, cioè Brasilia. Credo fossero tutte balle, naturalmente.
“Qualcuno in famiglia era andato in Brasile, prima della guerra, ma non per fame e non per principi. Al ritorno a Parma non ha raccontato niente. Poche cose per dire trent’anni, qualche avventura, qualche incerto prodigio. Di certo solo la vastità dei luoghi come un presagio. Sembra di vederlo in smoking alla luce dei bracieri sul bordo della piscina al Copacabana Palace, nell’ultimo anno del presidente J.K., passati un mondo, una guerra e quasi un altro mondo, fissare per un attimo l’acqua luminosa e trasparente prima che lei arrivi sorridendo, per lui sempre la più elegante. Sembra di capire, sembra che ci sia la geometria nelle passioni, ogni rimedio, una perfezione. Le bambine rimaste molto da sole, da grandi sono donne irresistibili. Così sono le sirene, si vedono la sera a certe latitudini nuotare nell’acqua fluorescente, la pelle dolce d’incanto e sotto di rame. A volte di giorno escono dall’acqua, restano ferme all’ombra sotto i portici e sentono fiorire il rimpianto. In bilico il pavone sulla curva perfetta dell’arco, la coda nell’erba smaltata e il corpo iridescente, l’apparente tranquillità quando le foglie suonano forte dalla fila dei pioppi, tiene testa alla più bella del mondo che allunga la mano alle piume, sorride e pensa che forse mai più sarà così felice. Poche cose in trent’anni, ritornare per morire come si fa, dove si nasce, l’anaconda nel Rio de la Plata, la iena domestica in cortile, le piante che se inciampi ti possono divorare e tu da bambino diventi una pianta anche tu, un tamarindo o una jacaranda o quella carnivora del museo e sei nella foresta un bimbo arboreo che aspetta il suo papà tra i pappagalli. Poco, ma più di tutto la città del futuro sull’altopiano di terra rossa e di uno che aveva visto una sirena nuotare felice nella piscina. Li ho visti una mattina cinque o sei su un platano tra il planetario e la Torre di Giò Ponti, pappagalli, are araraune, are macao, cacatua, forse rimasti dai tempi dello zoo, ultimi a sapere che c’era la giungla nella serva ordinata del signor Piermarini. Sembravano incerti, né diurni, né notturni, spersi, disabituati al bosco, dalla vita nelle voliere, il piumaggio però era ancora di lacca e la madreperla vibrava sotto le penne timoniere. D’altra parte anche tu vivi in questa città”. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Ringrazio molto Antonio per la sua lettura, per la sua presenza e la sua lettura. Per concludere vi leggo una poesia, facendo un piccolo esperimento, nel senso che è la stessa poesia che ho letto l’altro giorno, per chi c’era. L’esperimento sta nel fatto che le ho apportato dei cambiamenti, ma naturalmente chi l’ha ascoltata non si accorgerà di questi cambiamenti personalmente minimi. È perché le poesie cambiano. E’ arrivato anche Gianfranco Lauretano che è stato l’altro giorno a leggere con noi e anche Silvio Guerra un altro dei fondatori di clanDestino. Chi è interessato alle cose di poesia lo invito a informarsi presso la Fondazione Claudi per le altre cose che si faranno. Qui al Meeting do l’appuntamento di nuovo venerdì, sempre in questo posto, alle sette, ci sarà un’altra lettura, saranno protagoniste due poetesse: una poetessa molto giovane di Cesenatico, che si chiama Martina Abbondanza e un’altra poetessa molto brava, che abita a Gubbio e che si chiama Anna Boninsegni. Leggo questa poesia e finiamo con questo. La poesia si chiama L’amore Sant’Apollinare. Sant’Apollinare è un posto che conoscete dove c’è un bellissimo mosaico dorato.
“Vorrei donarti questo oro, occorre somigliare a Dio per amare. E sentire tutto l’essere cani, l’impotenza d’essere meno che umani, cuore che latra nel petto vuoto, nella bocca povera della luce. Amare e non avere più tempo né diritto, fortuna. Il pallore in petto violento della luna. Essere indifendibili, ardere la mente nel roveto, rovinare dal monte nel vento. Giocare d’azzardo sapendo di perdere. Non calibrare la traiettoria dei respiri, inseguirli come farfalle, nomi. Morire in ogni cosa che fa vivere, e vivere sbandati, felici, in ogni cosa che fa morire, nessuna soluzione, nessun finale. Si resta in scena sempre. Fino a inginocchiarsi, che il sipario mannaia cali su pupille assetate. Essere nel grande fallimento di ogni notte, illuminarla seppur fiocamente, con il cuore, aquila, fisso nel sole della vittoria, essere sempre una storia come la storia dura, difficile, sacra e impura. Conoscere l’inferno delle donne, non solo il lontano paradiso cui protendersi insieme gridando cose sconnesse. Lasciare che prorompa la fonte, spaccando. Essere docile non è un punto di partenza ma di arrivo, se vi arrivi. E il whisky o la preghiera o il ventaglio infinito di baci non ti stordiscono prima, abbandonandoti morto in una stazione. Dio perché hai inventato l’amore? O tu stesso non potevi non inventarlo dominato, sfasciato dalla sua forza, la casa di cura mentale a Ferrara, dove porto quaderni con la copertina rigida per le poesie al mio amico, è tempio d’amore di oggi, non ha aria condizionata, armadietti di metallo semivuoti, vecchie pale girano senza muovere niente. Solo i suoi occhi di sessantenne andato da un pezzo mi dicono la felicità è portarsi a casa una ragazza, avere qualche soldo per i suoi vestiti. Dio potente, matto, Dio che m’hai strafatto che t’imminuscoli per troppa accecante maestà. Non ho avuto riguardo per te, ho accostato il mio bacio mormorante al tuo viso, ti sei impestato di me, non hai girato il volto, non ti sei sottratto a nessuna ingiuria, hai preso nella tristezza fiammeggiante, nel giugno lucente degli occhi la malora, l’incuria e il tuo sorriso ha deviato tutto. Nel nulla che tieni stretto nel pugno”.
Buonasera e arrivederci.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

21 Agosto 2013

Ora

19:00

Edizione

2013

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Testi & Contesti