IL CRISTIANESIMO NON È UNA DOTTRINA MA UN INCONTRO: DUE GIORNALISTI SI RACCONTANO

Partecipano: Magdi Cristiano Allam, Vice Direttore de Il Corriere della Sera; John Waters, Columnist Irish Times. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

MODERATORE:
All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una presenza, con una persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, una direzione decisiva. Le prime parole dell’enciclica di S.S. Benedetto XVI “Deus Caritas Est”, sono all’origine dello strano incontro di oggi con due persone che danno carne e sangue a queste parole del Papa. John Waters, giornalista scrittore irlandese, e il suo collega Magdi Cristiano Allam, per uno strano e misterioso gioco del destino, hanno dato da poco alle stampe due libri in cui hanno voluto fissare la storia che li ha portati fino a qui. John Waters ha pubblicato “Lapsed agnostic”, che potremmo tradurre in senso lato “Un agnostico apostata”, e capiremo poi dal suo intervento di che si tratta. Magdi Cristiano ha pubblicato “Grazie Gesù”, che sta presentando in giro per l’Italia in questi mesi. A me sarebbe piaciuto di più “Viva Gesù” perché, vedete, la cosa più entusiasmante per un cristiano è sapere che Gesù vive. Perché se Lui non vive, siamo tutti sconfitti in partenza, qualunque desiderio e aspettativa possiamo avere. Da soli non ci diamo quella vita che riceviamo. Noi, in questi giorni, siamo già stati testimoni stupefatti di incontri con persone per le quali questa strana cosa che è il Cristianesimo, la fede cristiana cattolica, è diventata un’avventura per sé. Prima ancora del fenomeno eclatante di quello che queste persone hanno fatto nella realtà, nella società, siamo stati testimoni del cambiamento improvviso e positivo della loro vita. Il problema è che questo non accade come per magia, ma ha bisogno dell’umano, come diceva don Carrón proprio la settimana scorsa parlando all’assemblea internazionale dei responsabili di Cl. Occorre la nostra umanità perché il cristianesimo possa intercettare la nostra strada. Sabato sarà presentato, a conclusione del Meeting “Uomini senza Patria” di Don Giussani, chi ne avrà l’interesse e il desiderio potrà leggervi che la prima condizione perché il cristianesimo come avvenimento si realizzi, è questo sentimento della propria umanità, l’affezione a sé, l’affezione alla propria umanità. Questo è il contrario dell’egoismo, perché l’affezione a sé è molto di più: uno stupore per qualcosa che si ha addosso che non ci diamo da noi, che non è neanche un’affermazione accanita di quello che si pensa o si sente. Nell’affezione a sé c’è affermata la sorpresa di non essersi fatti da sé, lo stupore, la meraviglia di questa cosa che siamo e che si chiama “io”. Per questo abbiamo invitato John e Magdi Cristiano, perché vogliamo ascoltare da loro cosa è accaduto. Noi, infatti, impariamo dalla realtà, non dai nostri pensieri sulla realtà. E allora ascolteremo nell’ordine prima John e poi Magdi Cristiano.

JOHN WATERS:

Grazie Alberto, queste domande sono troppo complicate per il mio povero italiano. Quando sono arrivato la scorsa settimana il mio computer si è rotto e ho fatto in modo che in Italia lo aggiustassero. Adesso tutto ciò che scrivo viene automaticamente tradotto in italiano. Forse dovrei impararlo, è l’occasione giusta.
Di recente ho vissuto un fenomeno per me strano, ovvero quello di venirmi a porre nella stessa situazione di Andrea e Giovanni quando hanno incontrato Gesù per la prima volta. Pensare letteralmente a quel momento, come se potesse accadere davvero a me. Sono seduto, prendo un caffè con un amico e c’è una sedia, una sedia per un altro ospite, e comincio a pensare a che cosa accadrebbe se qualcuno arrivasse e si sedesse davanti a me e al mio amico. Che eccezionalità mi servirebbe per cominciare a capire che si tratta di Cristo? Che aspetto avrebbe ora, mi sorprenderebbe? Come sarebbe vestito? Avrebbe un abito oppure sarebbe vestito in modo sportivo? Una barba oppure no, capelli lunghi, capelli corti e così via. E ho cercato di entrare, di compenetrare questa sensazione, la stessa di Giovanni e Andrea quando hanno incontrato Gesù Cristo, per cercare di vedere all’interno di me stesso che cosa mi sarebbe servito per rimanere colpito da questo incontro. Naturalmente, questo va al di là della mia capacità di immaginazione, non riesco a immaginarmi qualcuno che è uomo e Dio. Come si potrebbe manifestare? Mi sono reso conto però che potrebbe benissimo capitare, non ho dubbi su questo, però per me ora esiste la possibilità e la necessità di un altro tipo di incontro. Un incontro con la cultura del momento. Credo che questa sia una grossa difficoltà per tutti noi. E’ stata una grande difficoltà per me, nel mio percorso, e cercherò di illustrarvela.
Mi sembra che la cultura all’interno della quale viviamo, e i suoi effetti su di noi, non siano poi così ovvii. Noi guardiamo la realtà, le tre dimensioni attorno a noi, e pensiamo di capirla. Pensiamo di comprendere quale sia il suo impatto sulle nostre menti, sulle nostre vite, ma non credo che questo sia vero. Credo invece che da un certo punto di vista la cultura sia un po’ come una giungla: una giungla all’interno della quale noi ci troviamo al buio, dove tocchiamo qualcosa che non sappiamo se sia una creatura misteriosa o un serpente, una creatura pericolosa oppure no, e ci muoviamo nel buio cercando, a tentoni, di capire che cosa ci circonda.
In genere, noi utilizziamo l’aggettivo “secolare” per descrivere la società di oggi. Quando sono stato invitato, forse, ho riflettuto che valeva la pena di parlare di una sorta di anatomia della secolarizzazione, ma poi sono rimasto colpito dal fatto che l’aggettivo “secolare”, in quanto tale, è un esempio del problema perché è una parola che pensiamo tutti di capire, pur avendo così tanti significati da esserne priva di uno concreto, reale. È vaga. Abbiamo un’idea generale quando diciamo di riuscire a comprenderci vicendevolmente, però non esprime quella che è la realtà del fenomeno. Ad esempio, è una parola che viene abbracciata da coloro che auspicano un processo di secolarizzazione, è una parola che viene utilizzata da coloro che fanno parte di questo processo di secolarizzazione. Come Magdi Allam ci insegna, ho l’impressione che ci serva una nuova parola e la parola che mi è venuta in mente è “de-assolutizzazione”. Non è una bella parola ma si avvicina molto a descrivere il fenomeno reale. Il fenomeno che descrive non è semplicemente il declino del potere, della Chiesa, non è nemmeno il declino dei riti e della religiosità all’interno della cultura, ma piuttosto qualche cosa che mi tocca, che mi accade. Ciò di cui ho bisogno per la mia sopravvivenza, mi viene tolto dalla cultura in cui vivo. Il problema allora è quello che si solleva nel Vangelo della domenica: “chi dite che io sia”. Prima di affrontare questo problema però ce n’è un altro, ovvero chi dico io di essere, come posso descrivermi, soprattutto in questa società, come posso esprimere i desideri più profondi del mio cuore all’interno di questa cultura ostile che non riesco a comprendere. È la storia del mio viaggio quando avevo venti anni: io sono cresciuto come cristiano, come cattolico: la fede nella mia famiglia era molto forte, ma me ne sono andato. Cercavo la libertà, quindi ho voltato le spalle alla mia famiglia e, come ho detto due anni fa qui a Rimini, ero come un profugo, un profugo che aveva una concezione errata della libertà. Per vent’anni avevo cercato di soddisfare i miei desideri tramite la realtà e nel mio libro, “Lapsed agnostic”, parlo della mia società, della società nella quale sono cresciuto e parlo di ciò che mi è capitato, delle esperienze che ho avuto e in particolare dell’alcolismo, che nel mio libro utilizzo da un certo punto di vista come una metafora che sta a illustrare il modo in cui la società persegue e cerca di soddisfare i nostri desideri tramite beni terreni, raggiungendo poi quelli che sono i limiti di questi stessi desideri. Per me, però, non era una metafora, io ero veramente un alcolista, ero ubriaco davvero e l’esperienza che ho vissuto, adesso sono in grado di descriverla. Non era semplicemente un eccesso di divertimento, di godimento, c’era qualcos’altro, come se il mio spirito cercasse di sfuggire dal mio corpo. C’era qualcosa in me che cercava di uscire avvicinandosi all’alcol, pensando che l’alcol avesse le risposte che cercavo.
È importante trovare un nome per descrivere la realtà, la realtà di ciò che accade tutt’intorno a noi, perché la cultura ci può dare diverse spiegazioni, tutte plausibili, che diamo per scontate: il mio problema è psichiatrico oppure è che bevo ciò che non dovrei bere. È questo il punto che volevo evidenziare: c’è una realtà fondamentale all’interno della nostra cultura, che ci tocca momento dopo momento, che noi diamo per scontata e alla quale non diamo un nome, ma che ha un impatto profondissimo su tutti noi. Al Meeting quest’anno si è discusso molto della macchina, dell’uomo e dell’impatto della macchina sull’uomo, dell’uomo come macchina. Il Santo Padre ne parla moltissimo, è fondamentale, ma è anche fondamentale capire esattamente l’anatomia di questo processo. Quella che sto cercando di sviluppare è una spiegazione. Cerco di osservare in quale modo la società in cui vivo e che do per scontata, la società che considero una manifestazione incontrovertibile, sia anche parte di me. Credo che tutto si rifaccia al mito di Narciso: l’uomo vede la propria immagine riflessa e viene cambiato, si vede come un oggetto all’esterno di se stesso. Semplicemente con questa facile tecnologia, lo specchio, abbiamo lo strumento per osservare la totalità del problema. Un mio amico irlandese Mike Cooley ha scritto un libro, “Architetto o ape” (“Architect or bee”), e mi stupisce il fatto che questo titolo sia molto simile al titolo del Meeting di quest’anno “O protagonisti o nessuno”. Questo libro, però, riguarda la tecnologia e il suo impatto sull’anima dell’uomo, un uomo che crea la tecnologia e che quindi ruba una parte della sua stessa umanità. Il libro tratta della necessità estrema di creare nuove forme di tecnologia. Possiamo rivedere il tutto alla luce della nostra esperienza. È successo anche all’interno della mia stessa famiglia: mio nonno e i miei zii, che hanno cominciato a lavorare la terra con i semplici arnesi dei contadini – le vanghe, i badili – poi hanno cominciato a utilizzare l’aratro, e poi dall’aratro sono passati al trattore e alla mietitrebbia, dove devono semplicemente stare seduti nella cabina della mietitrebbia ascoltando la radio. Siamo arrivati a una fase in cui possiamo permetterci di rimanere seduti a osservare le macchine che noi stessi abbiamo creato mentre fanno il lavoro al posto nostro, e mi colpisce il fatto che ci sia un paradosso veramente insolito in tutto questo. I miei zii lavoravano con le mani nude ed erano uomini forti, io invece mi siedo, lavoro su una macchina e sono debole. Allora dobbiamo inventare una nuova macchina in modo che io possa essere di nuovo forte, un uomo muscoloso, e questo in qualche modo mi fa capire che io posso cambiare tramite una macchina e che io mi creo tramite la macchina. Anch’io vado in palestra, ci sono stato, non si vede? E questo ci porta a vederci sempre come un oggetto che può essere cambiato, ricostruito. Così mi alzo la mattina, sono ancora nel letto, e invece di meravigliarmi e guardare con stupore le mie mani, magari mi trovo a pensare che forse devo prepararmi con quella macchina il caffè e devo farmelo somministrare da una macchina.
Ci sono molti esempi di come la tecnologia e le macchine abbiano un impatto su di noi in modi che noi diamo per scontati. Ad esempio, la scienza dei sondaggi di opinione: diamo per scontato che la scienza dei sondaggi di opinione funzioni, che raccogliendo il parere di cinquanta fra voi, possiamo arrivare a concludere ciò che pensa in realtà ciascuno di voi, e diamo per scontato che funzioni così. Perché? Negli anni trenta, quando Gallup ha scoperto i sondaggi di opinione, era come se avesse scoperto qualche cosa di nuovo, qualcosa di nuovo sull’uomo, qualcosa che comunque era sempre stato vero. Forse è vero solo perché noi siamo sotto il forte influsso della tecnologia nella nostra società, forse è più naturale che per un milione di persone ci siano invece un milione di opinioni diverse e che per sapere cosa pensa ciascuno di voi io debba chiedervelo individualmente. Invece noi diamo per scontato che questa scienza funzioni. E ce ne sono tanti di questi esempi. Un altro è la lingua che usiamo, costruita in modo da permettermi di parlare e di dire cose che sono consentite. La lingua ha al suo interno una logica che poi alla fine mi distrugge. Molti sono gli esempi, ancora uno, uno della lingua inglese. Non so se esista la corrispondenza perfetta con l’italiano, ma negli ultimi due anni in inglese c’è una nuova frase che si è fatta strada e questa frase cerca di cancellare e abolire il futuro. La frase è: “Fare passi avanti, andare avanti” (“going forward”), e non diciamo più “Spero che le cose possano migliorare in futuro”, “Spero che le cose possano migliorare andando avanti”. È una distinzione piuttosto sottile dal punto di vista linguistico, ma dal punto di vista umano questa differenza è profonda. La frase “going forward” al posto di “in the future” implica che io questo futuro l’ho già preparato, l’ho creato. A questo punto vi invito in questo regno che ho creato, che è il futuro ma che è al contempo il mio dominio, perché l’ho creato io. L’imprevedibilità della realtà viene completamente distrutta dalla lingua: questa è l’implicazione e ci sono moltissimi altri esempi di questo tipo. Quando mi rivolgo a un pubblico, quando mi rivolgo alla pubblica piazza è come se ci fosse una melodia silenziosa alla quale mi devo unire, una melodia che viene concordata a livello centrale, e se mi discosto da questa melodia allora stono e tutti si voltano a guardarmi perché ho stonato. Allora ho imparato a capire ciò che è accettabile e ciò che non lo è.
Agli inizi di quest’anno, all’Irish Times, il giornale dove lavoro, una mia collega, una donna brillante, scrittrice, è mancata per il cancro. Qualche settimana prima di morire, dopo aver appreso la diagnosi, ha parlato alla radio della sua disperazione, della sua paura, del suo terrore della morte e della sua convinzione che la morte fosse la fine di tutto. Due domande le sono state rivolte e lei ha risposto in due modi piuttosto diversi. Le è stato chiesto “Esiste una vita dopo?”, e lei ha risposto “no”. Poi le è stata fatta un’altra domanda, “Crede in Dio?” e ha detto che questa era un’altra questione e ha continuato a parlare della bellezza della creazione, della bellezza della musica, della poesia, dell’arte, della vita. Una bellezza che non poteva accettare di lasciarsi dietro le spalle, e poi ha fatto un passo indietro dicendo: “Comunque dopo la morte non c’è nulla”. Successivamente, tutti non hanno fatto che parlare della sua onestà e del suo coraggio, ma mi sembra, guardando un po’ anche a me stesso, che non sia stata né onesta né coraggiosa. Che cosa ha fatto? Ha semplicemente dato voce in modo articolato alla sua disperazione, ha descritto perfettamente questa disperazione in quel momento in cui non aveva nulla da perdere. Ha descritto questa bestia che la cultura ha creato per noi. Noi l’abbiamo creata questa bestia, questo abisso a partire da una percezione pessimista che abbiamo di noi stessi. Ci guardiamo allo specchio e vediamo l’assoluta mancanza di qualsiasi speranza e, questo è straordinario, abbiamo una società che da un lato parla di progresso e di felicità, mentre dall’altro è in grado comunque di immaginare per se stessa lo scenario più terribile alla fine. Questo mi fa venire in mente quando stavo cercando di riprendermi dall’alcolismo. Ero in riabilitazione, c’era una frase che veniva utilizzata rispetto agli alcolisti per descrivere la condizione in cui ci trovavamo, una frase paradossale ma vera, anche per me: “Un maniaco dell’ego con un complesso d’inferiorità”. È il modo per descrivere la nostra cultura: noi crediamo di riuscire a creare tutto, di essere onnipotenti ma non abbiamo speranza. A cosa serve allora? Però, so per esperienza mia – e non perché sia un profeta, ma perché di tanto in tanto vedo negli occhi degli altri o nelle parole degli altri una corrispondenza con quelli che sono i miei stessi desideri – e percepisco questa piazza pubblica, questa arena tecnologica che abbiamo costruito, e vedo che in realtà ha un ritardo di dieci anni rispetto al cuore dell’uomo. E soltanto nei momenti in cui si riesce a dar voce a ciò che sta dentro di noi, riusciamo a riconoscere la verità. Per la maggior parte del tempo, noi ci uniamo a quella melodia che ci viene imposta. Di tanto in tanto, però, qualcuno va a toccare una nota diversa, forse magari dicendo qualcosa che non voleva dire, e tutti si voltano a guardarlo come per dire: “Lo puoi fare? Hai il permesso di dire questa cosa?” Patrick Cavenaugh, poeta irlandese che ho presentato al Meeting lo scorso anno, dice che la natura della poesia non sta nelle parole, ma fra le parole dove c’è un lampo dell’assoluto. Le parole in realtà sono la parte meno importante. Quando la poesia viene letta e recitata tuttavia, sono le parole che bruciano producendo un effetto insolito, e non abbiamo risposta da un punto di vista ideologico a questo problema, non riusciamo a porvi fine, non possiamo mettere fine o sopprimere questo problema.
Quando ero un bambino naturalmente conoscevo Gesù, conoscevo un Gesù bellissimo e lo amavo. Ma davanti a una libertà alternativa, credevo di essere di fronte a una scelta e ho dovuto scegliere tra questo bellissimo Gesù e la mia libertà, e ho scelto la mia libertà. E da un certo punto di vista mi sono pentito perché io in realtà non avevo litigato con Gesù, forse avevo litigato con coloro che parlavano in sua vece, ma Gesù era troppo bello per poterci litigare. Comunque me ne sono andato lo stesso, perché mi ero convinto di essere in guerra con lui. Era un alibi in realtà, un alibi per ricercare quella che era la mia concezione di libertà. Mi ero convinto che Gesù se n’era andato, a quel punto potevo benissimo divertirmi il più possibile. È quello che è accaduto alla nostra cultura, un fenomeno strano, un po’ come una lite. Nel libro di Ian McEwan “Chesil beach”, c’è la descrizione più splendida e terrificante di lite che io abbia mai letto. Due persone, che stanno appunto litigando, cominciano a dirsi cose che in realtà vanno ben al di là di quello che vorrebbero dirsi, al di là di quanto avessero mai voluto dire. Questo processo viene esacerbato sempre di più e diventa veramente tossico, fino a quando queste due persone si allontanano, si separano. Ian McEwan scrive benissimo il monologo interno che sta dietro un tale processo, ed è quello che è accaduto fra me e Cristo. Mi ci sono convinto, ci sono arrivato da solo, ed è estremamente difficile trovare poi il modo di ritornare alla cultura, perché anche la lingua comincia a mostrare delle esplosioni. Heinrich Böll, autore tedesco, scrivendo di Havel, disse che Havel, pur parlando della realtà al di là dell’orizzonte, non parla di Dio. E aggiunge che questo è dovuto a una ragione di cortesia verso un Dio il cui nome era stato calpestato dai politici, e si rifiutava per questo motivo, per un atto di cortesia nell’utilizzare il nome di Dio. Non per una mancanza di fede, ma perché la lingua stessa era stata contaminata. Ecco perché è difficile, ecco perché abbraccio la proposta di Don Giussani con tanto calore: perché quello che mi chiede è di essere onesto con me stesso, di impegnarmi nei confronti della mia realtà, di osservarla e stare a vedere che cosa accade.
Vorrei concludere parlando della mia ultima esperienza. Per dei ventenni ho camminato nella cultura a tentoni, cercando di capire le creature intorno a me. Poi sono arrivato a una radura, dopo la giungla, e in questa radura ho visto qualcuno, mi sono avvicinato e, come nel bellissimo libro di McCarthy “The road”, “la strada”, c’è stato un momento di riconoscimento. Queste persone mi hanno guardato e parlato come nessun altro mi aveva guardato e parlato prima, e non erano in qualche modo sotto l’influsso di quello che io vedevo come pietà cristiana, non avevano un atteggiamento pio, perché questo mi avrebbe spaventato fin dall’inizio. Questo viaggio deve essere chiaro, logico, io devo avere certezze, devo avere sicurezze. Sarebbe stato facile per me dire semplicemente “vedo Gesù in queste persone nella radura e lo abbraccio”, ma sarebbe stata una bugia. Dovevo fare chiarezza, vedere tutto prima e queste persone erano semplicemente l’inizio, l’inizio di qualcosa, proprio perché mi guardavano in questo modo. Inizialmente non ero neppure certo che stessero davvero guardando me, perché sembravano vedere qualcosa che io non credo che in realtà esista, allora mi sono girato perché magari c’era qualcuno dietro di me o qualcosa che stavano guardando. È come uno dei personaggi di Taxi driver: “Are you talking to me?”, “ce l’hai con me?”. E queste persone mi hanno detto “guarda la tua vita, i tuoi desideri, guarda quella che è la tua esperienza: che cosa ti dicono tutte queste cose? Sei felice?”. No. Allora mi hanno invitato a prendere parte a un viaggio, e proprio a causa della mia esperienza culturale, questo viaggio era qualcosa che avrei preferito non fare, ma le cose accadono. Non è che queste persone mi diano fastidio, però continuano a ritornare e a questo punto risvegliano la mia curiosità, e la mia curiosità sembra essere in realtà più grande di me. E mi insegnano molte cose.
Faccio un esempio in chiusura, un esempio che dimostra come ho utilizzato questa esperienza per vedere le cose. Forse non ho visto l’incontro ma perlomeno la possibilità di un incontro. Roscin è mia figlia, ha 12 anni ed è a Dublino con sua madre. Due giorni fa sua madre mi ha telefonato dicendomi che Roscin era molto triste perché una persona che amava se ne era andata. Ho pensato: “La chiamo. Ma poi che cosa le dico?” Ad ogni modo le ho telefonato e le ho detto cose che forse sono state utili. Le ho detto che l’amore non finisce mai, che l’amicizia continua, e a volte le cose accadono proprio perché un domani possano portarci a cose migliori. Certe cose possono sembrare negative oggi, ma non domani. Le chiedevo di non farsi schiacciare da ciò che era accaduto e poi le ho detto che dovevo andare a una riunione, e quando ho riappeso mi sembrava stesse meglio. Ho partecipato all’incontro con Michael O’Brien, e lui stava parlando della paternità, di quando metteva a letto i suoi figli, di come li benedicesse: proprio come mio padre faceva con me. Ogni volta che se ne andava, metteva un dito nell’acqua santa e mi toccava sulla fronte e per mezz’ora, anche dopo che l’acqua santa si era asciugata sulla fronte, io potevo continuamente sentire il tocco della punta del suo dito su di me. Io però non l’avevo mai fatto con i miei figli perché c’era un ostacolo, un impedimento dato dalla cultura, come quando, nel mio libro, cerco di descrivere la prima volta che sono riuscito a inginocchiarmi per pregare, e le mie ginocchia non si volevano flettere: la macchina aveva bisogno di essere lubrificata. E Michael O’Brien mi stava dicendo le cose più ovvie, cose che io però non avevo mai detto a mia figlia. L’ho ascoltato. Le cose più ovvie io non le avevo mai dette. Allora l’ho richiamata, mia figlia è una cosmologa di 12 anni, mi mostra le stelle, mi dice i nomi delle stelle. Ma l’ho richiamata perché volevo parlarle di quello che avevo sentito. Domenica alla messa avevo ricordato la musica alla Comunione: c’era la canzone di Chieffo che diceva “il Signore sa perfino quanti capelli hai sulla testa, il Signore sa perfino i nomi della stelle”. Allora ho richiamato mia figlia e le ho detto: “Ti devo dire qualcos’altro Roscin, questa sera parlerai con chi conosce il nome di tutte le stelle”, e lei mi ha risposto che andava bene. Questo è il Meeting, questo è l’incontro, l’unico incontro che io conosca. Lui è li presente nella mia realtà, devo solo aprire gli occhi. Grazie.

MODERATORE:
“Devo solo aprire gli occhi”. L’episodio che sembrava quasi uno scherzo all’inizio, di lui seduto con gli amici al bar, una sedia vuota, entra uno, e lui si domandava “ma come faccio a capire che è Cristo, quale eccezionalità mi servirebbe per capire se è Cristo”. Ce lo ha spiegato, onesto con la propria umanità, piena, come è piena quella di ciascuno di noi, di tutte le incrostazioni della cultura di cui siamo figli, in cui siamo immersi, ma con quella scintilla di desiderio presente anche nella sua collega, destinata a morire di cancro. Neanche la risposta riguardo al fatto che dopo la morte non c’è niente, poteva cancellare lo stupore per la realtà come segno di un’altra cosa. Noi siamo dentro questa lotta incredibile tra quello che ci vogliono fare credere e i desideri del cuore. Adesso ascoltiamo Magdi Cristiano Allam.

MAGDI CRISTIANO ALLAM:
Cari amici e amiche, cari fratelli e sorelle in Cristo, lasciatemi esprimere il mio stupore e la mia gratitudine per questa vostra straordinaria partecipazione che attesta in modo inconfutabile che voi siete i protagonisti, forti della certezza della verità in Gesù, forti della solidità dei vostri valori, forti della determinazione ad agire. Sono molto grato al movimento di Comunione e Liberazione, che considero la mia casa dei valori, al cui interno ho avuto l’opportunità di incontrare tanti autentici testimoni di fede a partire da Alberto Savorana, Renato Farina, Emanuele Forlani che incontrai in una trattoria di Milano, quando mi invitarono per la prima volta nel 2003 a prendere parte al Meeting, fino all’evento che per me ha rappresentato la gioia più bella della mia vita, il Battesimo. L’ho ricevuto lo scorso 22 marzo nella notte della veglia pasquale dalle mani del Santo Padre Benedetto XVI, e in quell’occasione il mio testimone fu l’amico e onorevole Maurizio Lupi, che rappresenta una sintesi significativa di ciò che il movimento di Comunione e Liberazione ha rappresentato in questo mio lungo percorso di spiritualità interiore. Esso ha avuto inizio con uno di quei casi che apparentemente attribuiamo ad un evento fortuito, ma che soltanto dopo, guardando a ritroso nella nostra storia personale, scopriamo che è stato un segno della provvidenza che ci offriva un’opportunità che sta a noi cogliere, valorizzare e trasformare in un arricchimento interiore. E quella opportunità fu quando, all’età di soli quattro anni, mia madre, una donna molto povera, trovandosi a lavorare come baby-sitter presso una ricca famiglia italiana residente al Cairo, la mia città natale, ebbe la possibilità, grazie all’aiuto di questa famiglia, di iscrivermi ad una scuola italiana cattolica gestita dalle suore comboniane. Da quel momento iniziò un percorso protrattosi per 14 anni in cui, prima dalle suore comboniane e a partire dalla quinta elementare dai sacerdoti salesiani, ho avuto modo di conoscere direttamente la realtà del cristianesimo. Inoltre, ho avuto l’opportunità di condividere delle esperienze di vita con tanti autentici testimoni di fede, religiose e religiosi, che avevano votato la loro vita alla fede in Gesù e che testimoniavano questa fede tramite delle opere buone. Sono stati questo incontro e questa testimonianza tramite le opere buone, una dimensione totalizzante che avvolge e coinvolge pienamente l’insieme della nostra umanità, a creare in me una concezione profondamente etica della vita in cui i valori sono al centro della nostra esistenza e in cui la persona viene considerata come punto di inizio e traguardo del percorso personale, collettivo e professionale. Su questa base di concezione profondamente etica della vita si è costituito, poco a poco, uno strato sempre più solido e sempre più spesso di spiritualità, che si costituiva di quei valori che giustamente il Santo Padre Benedetto XVI considera non negoziabili, in quanto rappresentano l’essenza della nostra umanità. Sono valori assoluti e universali sul piano prettamente laico e hanno una piena legittimità sul piano della trascendenza. Mi riferisco alla fede nella sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, alla considerazione della dignità della persona come il fondamento della convivenza civile e al rispetto della libertà di scelta tra cui oggi, più che mai, la libertà religiosa si colloca in primo piano. In questo percorso ho avuto modo di essere confortato e sostenuto da tanti autentici testimoni di fede. Nel primo capitolo del mio libro, composto da tre capitoli corrispondenti ai tre sacramenti che ho ricevuto, ho voluto intenzionalmente ricordare alcuni, non tutti perché sarebbero stati troppi, dei testimoni di fede che ho incontrato e con cui ho condiviso delle esperienze di vita. L’ho voluto fare perché fosse evidente che per me il cristianesimo ha rappresentato essenzialmente l’incontro e la testimonianza di fede tramite le opere buone, e in questo percorso c’è stato certamente un momento in cui ho maturato la consapevolezza che questa spiritualità interiore corrispondeva pienamente alla fede in Gesù. A far maturare in me questa consapevolezza è stato principalmente ed essenzialmente l’incontro con il Papa Benedetto XVI che, con la sua affermazione della indissolubilità tra fede e ragione, mi ha costretto a raccogliere la sfida secondo cui tutto ciò che sul piano della ragione corrisponde genuinamente all’essenza della nostra umanità, ha piena validità anche per la religione cristiana, che si presenta come la religione della verità, della vita, dell’amore e della libertà. È così che io mi sono ritrovato spontaneamente a schierarmi convinto dalla parte del Santo Padre in diverse circostanze. Nel mio libro mi soffermo in modo particolare sull’evento del magistrale discorso pronunciato all’Università di Regensburg il 12 settembre del 2006 quando, partendo da fede e ragione, denunciando qualsiasi violenza possa essere commessa nel nome di Dio, il Santo Padre, evocando le parole dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, affermò che l’Islam è una religione che si è diffusa tramite la spada. Questa è una verità storica, si tratta di un fatto testimoniato dagli stessi testi storici musulmani, ma fu un vero trauma il constatare come il fatto che l’avesse detto il Santo Padre, provocò una generale e brutale condanna dall’insieme degli arabi e dei musulmani. Condanne che oscillarono dalla richiesta ufficiale di scuse, dalla convocazione di ambasciatori da parte di governi che si considerano moderati, fino alla condanna a morte da parte di Bin Laden ed altri terroristi islamici. Ma l’isolamento in cui venne a trovarsi il Papa nei giorni immediatamente successivi al discorso di Ratisbona fu ancor più marcato dalle tante critiche sollevatisi in occidente da parte di mezzi di comunicazione di massa, oltre che da parte di diversi esponenti di chiese cristiane e da alcuni alti prelati della Chiesa cattolica per i quali quel discorso era inopportuno. Ebbene, il fatto che l’Occidente avesse paura di guardare in faccia la verità mi fece riflettere. L’Occidente non vuole ritenere che ci sia una verità, tutt’al più è convinto che questa verità debba essere occultata, nascosta dentro di noi, perché se manifestandola si ingenera una reazione critica o violenta da parte degli altri, allora è meglio non farlo. Così ho compreso come alla radice di questa paura, di questa viltà, ci sia la malattia ideologica del relativismo, che ci priva dell’uso della nostra ragione e dei parametri valutativi e critici, perché non vuole entrare nel merito dei contenuti, perché aprioristicamente si devono considerare di pari dignità tutte le religioni, tutte le culture, tutti i valori e persino tutte le conoscenze. Proprio come il politicamente corretto, un’altra malattia ideologica di cui l’Occidente è succube, cioè quell’approccio che, nel caso specifico dell’Islam e dell’islamicamente corretto, il caso che si presenta con maggiore insistenza e che rappresenta oggi il problema cruciale che abbiamo di fronte, ci porta a ritenere che non si debba dire e non si debba fare alcunché che possa urtare la suscettibilità dei musulmani. Quest’Occidente è ugualmente affetto da un’altra malattia ideologica: il buonismo, cioè quell’approccio che ci porta a illuderci che sia sufficiente elargire a piene mani diritti e libertà agli altri per far sì che siano tutti quanti felici. Il buonismo è l’esatto contrario del bene comune, una categoria etica che si basa sull’equilibrio e sulla sintesi tra i diritti e i doveri, nella consapevolezza che soltanto assicurando che diritti e doveri vengano ottemperati da tutti, questo bene comune sarà effettivamente tale per tutti.
Questo insieme mi ha portato a riflettere su quella che è stata per cinquantasei anni la mia esperienza di musulmano, laico, moderato, liberale, impegnato seriamente, intensamente per far sì che fede e ragione potessero convivere all’interno dell’Islam, per far si che l’Islam potesse essere coniugabile con i diritti fondamentali dell’uomo e con i valori non negoziabili. L’ho fatto con grande passione, ottenendo dei risultati di cui sono orgoglioso, come quello che del settembre del 2004 che fece sì che l’allora capo di stato Carlo Azeglio Ciampi ricevette al Quirinale, per la prima volta nella storia d’Italia, una delegazione di otto musulmani moderati tra una trentina che avevano sottoscritto un manifesto contro il terrorismo e a favore della vita, redatto e pubblicato da me sul Corriere della Sera. Quando mi sono ritrovato, proprio io che ero probabilmente impegnato più di altri nell’affermare fede e ragione, nel denunciare l’estremismo e il terrorismo islamico, quando mi sono ritrovato condannato a morte, continuamente minacciato e intimidito dagli estremisti e dai terroristi islamici, quando ho preso atto che gli autori di efferati crimini dicono di farlo nel nome dell’Islam, invocando dei versetti coranici e evocando le gesta di Maometto, ho dovuto riflettere, mi sono ritrovato costretto ad approfondire sempre di più le radici teologiche dell’Islam. Ed è stato in questo approfondimento che ho dovuto prendere atto che, al di là di qualsiasi interpretazione, fermo restando che il cristianesimo è la religione del Dio che si fa uomo e che si incarna in Gesù, l’Islam invece è la religione del dio che si fa testo e che si incarna nel Corano. Il Corano viene considerata un’opera increata al pari di Dio e così come non è possibile criticare o valutare Dio, non è possibile rapportarsi con il Corano con la ragione, con gli strumenti della valutazione e della critica. Ma al di là di qualsiasi interpretazione ho dovuto prendere atto del fatto che ci sono diversi versetti nel Corano, che io ho documentato nel libro, che legittimano una ideologia di odio, violenza e morte. Ho dovuto anche prendere atto che nella biografia ufficiale di Maometto, in arabo nota come la Sira, testo riconosciuto autentico dagli stessi musulmani e considerato come la terza fonte nella elaborazione della legge islamica della Sharia, viene attestata la realtà di un uomo che è stato un guerriero, che ha combattuto e che ha ucciso. Anche in questo caso, io mi sono limitato a riprodurre, traducendo dall’originale, alcuni passaggi che attestano in modo inequivocabile come Maometto abbia personalmente partecipato a degli efferati crimini, come quelli che nel 627, alle porte di Medina, lo videro personalmente partecipe della strage e della decapitazione di circa 700 ebrei maschi adulti della tribù dei Banu Qurayza.
Questi sono fatti che i musulmani non smentiscono, fatti attestati nella biografia ufficiale di Maometto che rappresentano una verità di fronte alla quale io non potevo rimanere indifferente. Non potevo non trarre la conclusione della incompatibilità di quella religione con quei valori nei quali ho sempre creduto e per i quali mi sono sempre battuto. Questo ha fatto maturare in me la decisione di abiurare l’Islam compiutamente e definitivamente. Vorrei che fosse molto evidente che la condanna dell’Islam come religione non inficia in alcun modo l’amore autenticamente cristiano per i musulmani come persone. Noi dobbiamo distinguere tra la dimensione della religione e la dimensione delle persone che possono o meno avere un rapporto con la religione. Lo possono avere con modalità diverse, ma certamente rappresentano ciascuna un “unicum”, la sintesi di una complessità che esprime il suo percorso individuale, familiare, sociale, nazionale, culturale ed economico. Quindi ogni persona, ogni musulmano, deve essere considerato, valorizzato e rispettato di per sé insieme a tutti quei musulmani che rispettano i diritti fondamentali dell’uomo e condividono i valori non negoziabili. Questa è una dimensione assoluta e universale sul piano laico, che rappresenta l’essenza della nostra umanità: con questi musulmani si può e si deve dialogare, si può e si deve operare per costruire insieme una comune civiltà dell’uomo. Bisogna però farlo nella certezza della nostra verità, affrancandoci da quel relativismo che ci porta a credere che per poter andare d’accordo con un musulmano si debba sposare l’Islam o attribuire all’Islam pari dignità col Cristianesimo. È in questo modo che si finisce per mettere in discussione la nostra fede, per mettere a repentaglio la solidità della nostra fede. Dobbiamo essere capaci, grazie alla nostra ragione, di entrare nel merito dei contenuti e comprendere che le religioni sono diverse, che le persone possono essere accomunate dalla condivisione degli stessi valori, ma che questa opportunità di incontro si lega in primo luogo alla nostra capacità di essere pienamente noi stessi, di essere pienamente protagonisti della nostra vita, riconoscendo in primo luogo la verità. Dobbiamo avere in noi la certezza della verità ed essere in grado di radicare in noi quei valori sani che corrispondono autenticamente al bene comune. Così possiamo ergerci ad autentici protagonisti sul piano dell’azione personale e collettiva, e realizzare realmente l’interesse della collettività, l’interesse dell’umanità. Grazie di cuore.

MODERATORE:
Quando nel 2003, quasi per caso, ho incontrato Magdi Allam, io ho conosciuto innanzitutto un uomo, uno che aveva la mia stessa umanità, il mio stesso cuore e quindi i miei stessi desideri: verità, bellezza, giustizia e realizzazione di sé. Sapevo chi era e a quale tradizione apparteneva, ma di schianto è stato l’incontro con una umanità. Perché è questo il livello che oggi i nostri due grandi amici ci hanno testimoniato. Dentro storie e appartenenze diverse, l’uno e l’altro si sono imbattuti in una umanità, come uno che si siede al bar per prendere un caffè. Non so se a qualcuno di voi sia venuto in mente, sentendoli raccontare il loro percorso, quello che don Giussani, in “Si può vivere così”, chiama i cinque punti della fede. A me sono venuti in mente: un incontro con qualcosa di eccezionale, dei testimoni, delle persone che ti fanno sorgere una curiosità. Senza curiosità possiamo incontrare chiunque ma non si muove niente. Invece viene da chiedersi chi sono e perché sono così strani questi uomini. Perché è così strana questa gente che fa il Meeting? Così, seri con questa domanda, uno alla fine deve alzare le braccia e riconoscere che a questa stranezza può dare solo un nome, non perché se lo inventa, ma perché se non ci si dice quel nome tutto diventa nebbia. Lo si dice a denti stretti all’inizio, quasi con pudore: Cristo. Il problema è che appena lo si dice, scoppia più grande ancora il desiderio. Prima di lasciarvi vorrei leggervi ancora venti righe cui attribuisco il valore di sintesi di questo dialogo al quale siamo stati testimoni. È una paginetta del suddetto libro di don Giussani, “Si può vivere così”. Io credo che tanti, spero almeno qualcuno, usciranno con lo stesso desiderio che questa pagina descrive. Oggi siamo forse stati aiutati, facilitati in quel percorso che loro hanno fatto, e che non è risparmiato a nessuno di noi. Andiamo indietro di duemila anni: “Giovanni e Andrea avevano fede perché avevano certezza in una presenza sperimentabile. Quando erano là, nel primo capitolo di S. Giovanni, a casa sua, seduti verso sera a guardarlo parlare, era una certezza in una presenza sperimentabile di una cosa eccezionale. Poi, per dormire, sono andati a casa loro; da sua moglie Andrea, da sua madre Giovanni. Sono andati a casa loro e hanno mangiato, hanno dormito, sono andati a pescare insieme. Quello che avevano visto il pomeriggio precedente dominava nella loro testa sì o no? Sì. Non l’avessero più visto per tre settimane, il desiderio dominante di quei due era di ritrovarlo, perché era chiaro che era Lui, che Lui era Lui. Non sapevano chi fosse, ma era Lui. Quando è incominciata si vedevano i capelli e, siccome c’era il vento, e i capelli andavano davanti agli occhi, uno istintivamente tirava i capelli da parte. Ma il giorno dopo non c’era più il vento e non avevano davanti quel volto, eppure era presente. Dopo una settimana quella presenza era presente ancora e dopo un mese uguale. Fossero campati tre anni senza rivederlo, tutta la loro vita sarebbe stata stracciata dal desiderio di rivedere i capelli agitati dal vento”. Torniamo a stamattina. Invece che Lui coi capelli al vento, invece di guardarlo parlare con la bocca che si apre e si chiude, ti arriva addosso con le nostre presenze, che sono come fragili maschere sulla pelle fragile di qualcosa di potente, che è Cristo che sta dentro. Grazie a John e a Magdi Cristiano per aver reso possibile questo incontro.

Data

28 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008

Luogo

Salone D7
Categoria
Incontri