I DIRITTI UMANI SONO ANCORA DIRITTO?

I diritti umani sono ancora diritto?

Partecipano: Marta Cartabia, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca; David Kretzmer, Professor Emeritus, Hebrew University of Jerusalem and Former vice-chairperson, UN Human Rights Committee. Introduce Carmine Di Martino, Docente di Gnoseologia all’Università degli Studi di Milano.

 

CARMINE DI MARTINO:
Iniziamo questo nostro incontro, importante incontro, dedicato al tema dei diritti umani e volevo cominciare con un’annotazione storica: una delle primissime, forse la prima edizione del Meeting di Rimini, aveva tra i suoi temi “pace e diritti umani”. Quindi vi è una profonda continuità che ci porta ad affrontare oggi, con due illustri personaggi, questo tema che s’impone da sé nel panorama attuale dei problemi che attraversano la nostra convivenza.
Negli anni più recenti questo tema è stato affrontato al Meeting con i contributi di grandi giuristi come Weiler, Mary Ann Glendon, e oggi abbiamo l’onore di avere con noi David Kretzmer che ha una grande e lunga esperienza nel campo, è stato infatti, dal 1995 al 2002, componente del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, nell’ambito della convenzione internazionale dei diritti civili e politici ed è oggi professore di Diritto Internazionale alla Università ebraica di Gerusalemme. E’ esperto ovviamente di diritto costituzionale, diritti umani e diritto internazionale umanitario.
Marta Cartaria, già nota al pubblico del Meeting, è docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano-Bicocca ed è di ritorno, insieme a David Kretzmer, da un anno di studi a New York, dove si sono riuniti alcuni tra i massimi esponenti mondiali studiosi del tema e hanno cercato di produrre un passo in avanti nella riflessione su una questione che ci riguarda inesorabilmente.
Direi che oggi il taglio con cui il tema verrà discusso è sbilanciato verso il ruolo delle istituzioni e, cioè, riguarderà anche quali sono i soggetti istituzionali che hanno titolo per decidere, discutere e decidere, della questione così cruciale, per la nostra convivenza, dei diritti umani. Vedremo come questo profilo sia tutt’altro che trascurabile: chi e perché è chiamato a dirimere e a decidere a riguardo di questo nodo così importante.
Non rubo altro tempo e cedo volentieri la parola alla professoressa Marta Cartabia.

MARTA CARTABIA:
Grazie professor Di Martino. Grazie infinite agli organizzatori del Meeting per avermi rinnovato l’invito a parlare, a discutere con voi, a sollevare alcune problematiche su questo tema dei diritti umani che ormai ci accompagna, da qualche anno, nella riflessione comune in questa sede.
Dunque, la domanda che ci vogliamo porre quest’anno riguarda ed è focalizzata sulle istituzioni dei diritti umani. A chi spetta prendere delle decisioni così cruciali come quelle che attraversano il dibattito sui diritti? Più specificamente: perché assistiamo ad un ruolo crescente delle istituzioni internazionali a scapito e sopra le decisioni degli organi nazionali in questi temi? Potremmo anche aggiungere: perché sempre più giudici o burocrazie o istituzioni tecnocratiche si occupano di tematiche così altamente controverse, spesso cariche di dibattito politico, come quelle che riguardano i diritti umani?
Se questa è la domanda che col collega Kretzmer ci siamo posti e continuamente ci poniamo nel lavoro scientifico prima ancora che in questa sede, tuttavia questa problematica sarà svolta avendo come punto d’osservazione due realtà complementari, simili per certi aspetti, ma anche diverse. Le tematiche e le problematiche che io vorrei affrontare prendono spunto da quello che attualmente è in gioco sul continente europeo.
Vorrei partire, in particolare, da alcuni esempi, alcuni casi controversi che sono stati decisi o che sono pendenti davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, non tanto, lo ripeto, per discutere sul merito delle questioni, ma per capire l’evoluzione del ruolo di queste istituzioni internazionali. Dopo di me il collega Kretzmer avrà un punto di vista, invece, che si focalizzerà sul ruolo delle istituzioni delle Nazioni Unite, che avremo modo di conoscere grazie anche alla sua lunga esperienza come componente del Comitato dei diritti umani.
Partiamo da alcuni casi dell’ultimo anno. Siamo nel 2010 e vediamo affollarsi una serie di controversie sempre più scottanti, sempre più decisive per il destino della nostra convivenza umana davanti alla corte di Strasburgo. Il primo caso che vorrei esporre rapidamente nelle sue linee essenziali, non nei suoi tecnicismi giuridici, riguarda il problema della fecondazione assistita. E’ un caso austriaco, deciso nella primavera del 2010 e il caso aveva origine dalla legislazione austriaca, simile a quella tedesca e anche a quella italiana, che su questo tema si basa grosso modo su questo pilone portante: la fecondazione assistita è ammessa se avviene all’interno della coppia che vuole avere il figlio, cioè la fecondazione assistita omologa, mentre è vietata se si parla di fecondazione eterologa, quella cioè che utilizza un donatore esterno o che utilizza la madre surrogata. Molteplici sono le ragioni per cui Austria, Germania e Italia ritengono opportuno vietare o restringere, limitare la fecondazione eterologa e sono ragioni che riguardano, per esempio, la prevenzione della commercializzazione della riproduzione umana, la vendita dello sperma, delle uova ecc. oppure protezione del futuro nascituro che potrebbe nascere con una identità incerta se non si sa chi sia il padre, la madre, con tutta una serie di conseguenze sul piano umano e giuridico che si vogliono evitare.
Anche in Italia sappiamo bene che questo tipo di argomentazioni è stato oggetto dell’acceso dibattito che qualche anno fa ha animato la discussione politica e mediatica in Italia proprio su questo tema. Quello della legislazione sulla fecondazione assistita è stato un tema molto controverso su cui sono intervenute le camere con una nuova legge, ma anche direttamente il popolo, lo ricorderete perché in Italia era stato richiesto un referendum.
Ora, la Corte europea di Strasburgo in una decisione recentissima, presa da una camera, quindi un gruppo ristretto, meno di una decina di giudici, ha ritenuto che la legislazione austriaca su questo punto fosse contro i diritti umani e quindi l’ha ritenuta in violazione della convenzione europea, per due fondamentali ragioni: la prima è che una legislazione che distingue tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa genera, secondo la corte, una discriminazione fra coppie che soffrono di sterilità, quindi violazione del principio di non discriminazione e il secondo punto (connesso a questa non discriminazione) è che una restrizione sull’accesso ai metodi di fecondazione assistita provocherebbe una violazione del diritto alla vita privata e familiare che ciascun individuo ha, nella specificazione del diritto ad avere un figlio.
Ripeto, non voglio entrare nel merito di questo caso e torniamo alla domanda che ci siamo posti all’inizio: per quale ragione i giudici della Corte di Strasburgo sono abilitati a decidere che l’Austria (e, attenzione, il caso riguarda l’Austria ma per una serie di motivi si applicherà a tutti i paesi che hanno una legislazione analoga, quindi presumibilmente all’Italia, alla Germania) deve modificare la sua legislazione in senso più permissivo, rimuovendo i limiti alla fecondazione eterologa che, invece, il dibattito politico parlamentare e anche la Corte costituzionale tedesca avevano ritenuto ragionevoli?
Certo che si tratta di una limitazione a un diritto, ma noi sappiamo bene che i diritti non sono assoluti; nei testi scritti di tutte le Costituzioni e della stessa Convenzione, i diritti hanno sempre dei limiti per proteggere dei beni, degli interessi che non sono meramente individuali. Perché la corte di Strasburgo deve avere una voce prevalente sul Parlamento austriaco, su quello tedesco, sul popolo italiano, sulla Corte costituzionale tedesca?
Casi analoghi pendenti o recentemente risolti, giusto per riassaporare il peso e l’importanza delle questioni che vanno sotto l’etichetta dei diritti umani, riguardano recentemente il problema del matrimonio, oggetto di discussione e di controversia in ogni paese occidentale, l’eutanasia e il suicidio assistito, la libertà religiosa, il velo islamico per le ragazze che vogliono accedere alla scuola pubblica e così via.
Perché questo tipo di decisioni sono sempre più dislocate presso le istituzioni internazionali, sono assunte sempre più frequentemente a Strasburgo, piuttosto che a Roma, a Londra, a Parigi e così via? Soprattutto l’importante è riflettere sul fatto che le istituzioni che assumono queste decisioni sono istituzioni di un piccolo gruppo di uomini, come la Corte Suprema, nello specifico la Corte di Strasburgo, che è composta di 47 persone, una per ciascuno dei 47 paesi membri, che assumono decisioni valide per centinaia di milioni di persone. La grande Europa del Consiglio d’Europa annovera un numero sterminato di popolazione. Una responsabilità da brivido quella che grava su questo tipo di istituzioni.
C’è un caso, però, su cui vorrei ancora soffermare la vostra attenzione prima di sviluppare le nostre considerazioni sul ruolo istituzionale, ed è un caso che ci ha riguardati da vicino, che sarà oggetto di un’ampia importante discussione venerdì pomeriggio, con l’intervento, tra l’altro, di professori del calibro di Joseph Weiler e altri, ed è il “caso Lauzi”, deciso nel novembre scorso, riguardo alla esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Tutti hanno seguito sulla stampa questo dibattito e sanno, coloro che ci stanno ascoltando, che in quel caso la seconda camera della Corte europea, quindi un gruppo di giudici ridotto, non è la formazione completa dei 47 ma un gruppo che annovera meno di una decina di componenti, ha condannato l’Italia per il fatto di prevedere l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche. Il governo italiano non ha accettato passivamente questa decisione, anche spinto dalla reazione negativa di tanta parte dell’opinione pubblica e di tante istituzioni locali e politiche nazionali e ha proposto un ricorso in appello, dunque il caso non è chiuso, anzi, ci sarà una decisione a breve, probabilmente nel corso di questo autunno che ci attende. Le reazioni sono state tante, non solo da parte dell’Italia, ma da tante parti della società civile, tante organizzazioni non governative sono intervenute a sostegno o contro la decisione di primo grado della Corte europea e, caso non così comune, otto governi del Consiglio d’Europa, quindi paesi non interessati direttamente dalla decisione, sono intervenuti a fianco dell’Italia per chiedere che la decisione di rimuovere i crocifissi fosse riconsiderata, ripensata, cambiata dalla Corte europea.
Di nuovo, lasciamo a venerdì la discussione nel merito sulla concezione di laicità e libertà religiosa che emerge dalla decisione della Corte di Strasburgo; come mai, però, questa è la domanda che ci riguarda, una decisione così è finita a Strasburgo? Questo caso, forse ancor più di quello che ho citato in apertura sulla fecondazione assistita, è particolarmente interessante perché, a riguardo dei rapporti tra istituzioni pubbliche e fattore religioso, i diversi paesi europei hanno sperimentato delle tradizioni, che hanno radici storiche molto antiche, molto diversificate l’una dall’altra.
L’Europa ha un volto vario su questo punto; ci sono paesi che hanno adottato da molto tempo la laicità di stato, come la Francia e più recentemente la Turchia; ci sono paesi, molti più di quelli che noi possiamo immaginare, in Europa che hanno uno stato confessionale, dalla Grecia a Malta a tutte le monarchie scandinave del nord Europa fino al Regno Unito; ci sono paesi come l’Italia e la Spagna che sono basati su intese e accordi fra lo stato e alcune istituzioni religiose, con alcune hanno un rapporto privilegiato, com’è il caso della chiesa cattolica in Italia.
Perché questo fatto è rilevante? Perché se a livello nazionale le risposte ai problemi del rapporto tra istituzioni pubbliche e fattore religioso sono così varie, spostare la decisione dalla sede nazionale a una sede internazionale comporta un cambiamento significativo, facilmente spinge verso una soluzione unica, uniforme, omologante su tutto il continente europeo. Se una è la risposta a quali debbono essere i rapporti tra istituzioni pubbliche e fattori religiosi compatibile con i diritti dell’uomo, la diversità delle tradizioni della storia dei vari paesi rischia di andare perduta.
La Corte di Strasburgo ha preso la sua decisione, quella di primo grado, che ritiene i crocifissi nelle aule scolastiche incompatibili con la Convenzione sulla base di due principi: uno, la libertà religiosa di tutti, secondo (è andato meno sotto i riflettori) in base al pluralismo educativo, al diritto dei genitori di educare i figli secondo il proprio sentimento anche religioso. Sui principi non si discute e credo che tutti qui siamo concordi sul principio che la libertà di religione è un grandissimo valore da preservare con urgenza, specie nell’epoca contemporanea, anche nel suo aspetto di libertà dalla religione, la libertà di non credere. E qui, forse, molti tra gli ascoltatori ricorderanno una famosa intervista di don Giussani pubblicata sotto il titolo Laico, cioè cristiano, in cui esplicitamente prendeva posizione di fronte a una domanda che riguardava lo stato confessionale, diceva: “No, non è lo stato confessionale quello a cui noi ambiamo, perché ci fosse anche la libertà di una sola persona che la pensa diversamente, questa va rispettata fino in fondo”.
Dunque, sui principi non si discute. La libertà di religione, specie nelle nostre società multiculturali, va ripensata, difesa con maggior forza che mai. Meno indiscutibile è, invece, il presupposto implicito nella decisione della corte di Strasburgo e che cioè ci sia un solo modo di tutelare la libertà religiosa e che questo modo coincida più o meno con il modello di laicità francese. Perché il paradigma francese dovrebbe cancellare di colpo, tramite la voce delle istituzioni internazionali, la pluralità di risposte a cui sono arrivati gli stati, faticosamente raggiungendole nel corso della storia?
Questi casi, fecondazione assistita, libertà religiosa e gli altri che ho menzionato soltanto superficialmente non sono che la punta di un iceberg, sono solo le espressioni più urgenti, più brucianti, più controverse di una profonda e diffusa tendenza, iniziata già da molti anni, a una espansione degli interventi delle istituzioni europee, e in particolare delle corti europee, nell’ambito dei diritti umani. Allora ecco qui veramente il tema del nostro interrogativo: da che cosa dipende questo fenomeno? Che rischi comporta, che vantaggi comporta? Come si spiega questa tendenza? E come spesso accade si possono dare spiegazioni a vari livelli; io vorrei qui sviluppare rapidamente tre punti, tre letture di questo fenomeno di incessante espansione delle attività internazionali, specie nel continente europeo, sui diritti umani.
Una prima possibile spiegazione può far leva, ed a ragione, sulla diffusa inclinazione degli organi tecnici e degli organi giurisdizionali a un certo attivismo, a un certo protagonismo istituzionale che costituisce una tentazione di tutte le burocrazie, le tecnocrazie o le giuristocrazie, specie quando manca o è debole il contraltare politico. Quando la vita delle istituzioni politiche s’indebolisce, è facile assistere in tutti i paesi, in tutte le democrazie occidentali, questo non è solo europeo, ad un certo ruolo di supplenza o, per usare un’immagine efficace di Mary Ann Glendon, una facile inclinazione dei giudici e dei tecnici a interpretare il proprio ruolo in modo romantico, eccedendo o dilatando o forzando i confini istituzionali. Il giudiziario e le tecnocrazie si assumerebbero, quindi, un ruolo di supplenza rispetto a una politica latitante.
Questa spiegazione è valida e, a mio parere, dice qualcosa sul caso del crocifisso, perché nonostante il dibattito sul crocifisso nelle aule scolastiche fosse acceso e avviato da molto tempo, in Italia in realtà su questo punto le istituzioni politiche non hanno mai chiarito e dato una risposta univoca. Non è mai stato chiarito, ad esempio, se quei vecchi regolamenti degli anni venti e trenta, sulla base dei quali il crocifisso è esposto, fossero in vigore, fossero vincolanti, fossero sostanzialmente disapplicati. E badate che a leggere quei testi bisogna anche capire le ragioni di una certa nebulosità della prescrizione, perché quei regolamenti sono regolamenti che elencano gli arredi scolastici, allora si trova accanto alla lavagna, ai banchi, le sedie, il calamaio, anche il crocifisso da esporre tra i tanti arredi che devono essere presenti nelle aule delle scuole pubbliche. Regolamenti vecchi, precedenti alla Costituzione, un contesto apparentemente non adeguato all’importanza della questione implicata nell’esposizione di un simbolo religioso, però su questo punto né le Camere, né la Corte costituzionale italiana, che pure era stata investita della questione, hanno preso una posizione chiara. Ci sono stati tanti interventi di organi giurisdizionali, qualcuno ricorderà il tribunale dell’Aquila prima, il tribunale TAR del Veneto e il Consiglio di Stato, ma sostanzialmente il dibattito e la difficile decisione sono rimaste in carico ai giudici.
Dunque in questo caso si potrebbe dire che è mancata una presa di posizione del popolo italiano e dei suoi rappresentanti in modo chiaro e, quindi, questo spiega perché le istituzioni giudiziarie internazionali hanno dovuto risolvere un problema che non trovava adeguata risposta a livello nazionale. Ma la stessa cosa non si può dire dell’altro caso che ho citato, il caso della fecondazione assistita in Austria, in Germania e anche in Italia, che però in quel caso non era né intervenuta né coinvolta direttamente, era stato oggetto di prese di decisione consapevoli e ponderate. Dunque, questa prima spiegazione può dire qualcosa su alcuni casi, dove la politica e la coscienza dei popoli non si è espressa in modo univoco, ma in altri casi non è una risposta sufficiente. Questo ci spinge a cercare altre motivazioni su questa espansione del ruolo delle istituzioni internazionali.
Una seconda lettura, una seconda possibile spiegazione che possiamo dare al fenomeno ha a che fare con l’espandersi e il diffondersi di una cultura dei diritti individuali che ha pervaso l’Occidente a partire, almeno, dalla fine della guerra fredda. Storicamente parlando (questa è una constatazione su cui tutti gli studiosi dei diritti umani concordano) caduto il muro di Berlino negli anni novanta si assiste, lo ripeto soprattutto per quanto riguarda le democrazie della parte nord dell’Atlantico, a una fioritura delle attività condotte sotto la bandiera dei diritti umani, che ha visto come protagoniste anzitutto le istituzioni internazionali. Da allora ogni nuova problematica che emerge dalla vita sociale e politica tende immediatamente ad essere inquadrata nella logica dei diritti individuali. Di qui anche l’espandersi di tanti nuovi diritti: problema climatico – ambientale tende a trovare risposta in un supposto diritto individuale all’ambiente salubre; problemi di bioetica hanno generato nel linguaggio comune e anche giuridico l’idea del diritto alla morte, i diritti delle generazioni future, i diritti dei bambini e cosi via. Sono tutti tentativi di affrontare nuovi e serissimi problemi attraverso questa chiave di lettura dei diritti individuali.
Questo ci riguarda perché porta immediatamente a un sovraccarico di richieste nei confronti delle istituzioni internazionali; più alimentiamo la cultura dei diritti individuali maggiore sarà il numero dei casi che arriverà a Strasburgo o al Comitato o ad altre istituzioni delle Nazioni Unite. Guardate che i numeri sono significativi: la Corte europea secondo i dati ufficiali che potete controllare sul sito internet ha, nel 2009, un carico di 120.000 casi pendenti circa. E’ un numero esorbitante già di per sé in assoluto, ma che fa ancora più impressione se voi pensate che sono 47 giudici, pur divisi in piccoli gruppi, a dover manovrare una tale quantità di casi e controversie individuali. La capacità di decisione della corte non arriva a 2000 casi l’anno e il numero dei casi che affluiscono è sempre crescente. Ora, voi potete capire che una situazione di questo genere, anche ammettendo che ci sono tanti casi futili, inammissibili, ripetitivi, rapidamente rischia di portare la Corte al collasso, alla incapacità di decidere e di gestire tutti i casi pendenti o quantomeno a rispondere con gravissimo ritardo, e in molti casi i diritti umani non possono sopportare una risposta giudiziaria che arriva dopo decenni. Il semplice fatto del ritardo comporta un’ingiustizia, come si usa dire: “giustizia ritardata è giustizia denegata”. E la Corte europea è consapevole di questo; c’è stato un importante summit, per esempio, nell’inverno scorso che ha portato alla dichiarazione di Interlaken, dove la Corte europea cerca di trovare delle risposte per gestire questo enorme carico di richieste individuali che le sono arrivate. Ma le risposte elaborate sono ampiamente insufficienti, sono risposte di riorganizzazione interna dell’organismo che non vanno a colpire il cuore del problema.
Credo, per parte mia, che gli strumenti ci siano, ma che richiedano una grande dose di autolimitazione della Corte. Se la Corte non deciderà di rientrare nel ruolo sussidiario che le è assegnato (la giustizia dei diritti deve spettare in primo luogo agli stati, non alle istituzioni internazionali) e se la Corte non lascerà un ampio margine di libertà alle istituzioni nazionali dando fiducia a quello che nei singoli stati si può decidere, restringendo il proprio ruolo e la propria interpretazione, io credo che non usciremo facilmente da questo empasse istituzionale in cui ci siamo trovati.
Ma c’è una terza spiegazione su cui vi chiedo ancora qualche breve minuto d’attenzione, che è una spiegazione più profonda, che sta dietro questa espansione, sembra incontenibile, del ruolo delle istituzioni dei diritti umani.
E credo che questa spiegazione dipenda da una ambiguità, da una difficoltà a capire bene il significato e il compito che queste istituzioni sono chiamate a svolgere. La Corte europea, al pari di tutte le altre istituzioni internazionali dei diritti umani, nasce chiaramente e storicamente come risposta alla seconda guerra mondiale, all’olocausto, mai più Auschwitz. Gli orrori di quegli anni avevano portato a diffidare, lo dirà meglio di me David Kretzmer, degli stati nazionali e della loro vita politica, che si erano mostrati essere facili prede del totalitarismo di destra o di sinistra. Quella comune urgenza ha portato alla nascita di istituzioni esterne che tutelassero la persona contro le degenerazioni della vita politica delle istituzioni nazionali. Dunque, la ragione profonda di queste istituzioni è un rimedio alla ingiustizia di cui si era fatta esperienza in modo così bruciante in quegli anni.
Detto diversamente, i diritti umani e le loro istituzioni affondano le loro radici in quel bisogno di giustizia, in quella esigenza inesauribile di giustizia che abita il cuore di ogni uomo e che sempre riemerge in tutta la sua ampiezza di fronte all’esperienza dell’ingiustizia, piccola o grande, individuale o collettiva. Dunque c’è un ideale profondo e nobile alla radice dei diritti umani ed è l’infinita aspirazione alla giustizia che attrae la vita degli uomini e dei popoli. Se gli stati e loro istituzioni politiche spesso si mostrano e si presentano come una sede di incontro e di scontro di interessi parziali, viceversa le istituzioni internazionali dei diritti agiscono in nome del più alto ideale di giustizia a servizio della sua persona e della sua dignità, di qui la loro autorità, di qui la loro legittimazione, di qui la loro credibilità. E’ una aspirazione alta e nobile quella che nuove verso la giustizia e che è in fondo alla base della incontenibile espansione dei diritti e delle loro istituzioni.
C’è però un paradosso, nel tentativo umano verso la realizzazione della giustizia che la saggezza degli antichi ci ha sempre tramandato e che continuamente viene dimenticato: summus ius, summa iniuria, il diritto portato al suo estremo genera ingiustizia. Persino negli scritti di Voltaire troviamo questa affermazione: un droit portrait trop loin devienne une injustice, un diritto spinto troppo oltre diventa ingiustizia o ancora: fiat iustitia et pereat mundus, e, come dice ironicamente Amartya Sen nel suo ultimo libro sulla giustizia, se il mondo perisce non c’è molto da festeggiare. Per questo l’iconografia più diffusa fin dall’antichità nell’immagine della giustizia è quella di una bilancia i cui piatti devono essere portati in equilibrio. Lo slancio umano, il tentativo umano per la giustizia o è temperato o non è; l’esperienza della storia dei popoli insegna che l’aspirazione alla giustizia è costantemente esposta al rischio di una degenerazione utopistica, se perde di vista il limite delle capacità umane, proprio come quell’Ulisse dantesco che abbiamo visto e potremo vedere nelle mostre del Meeting, che si spinge per un desiderio alto e nobile oltre le colonne d’Ercole, ma con una imbarcazione inadeguata.
L’attrazione per la giustizia rischia di diventare una hybris, se non tiene conto della condizione umana e cioè diventa strumento di potere dell’uomo sull’uomo. I diritti umani nascono come baluardo delle persona umana contro le degenerazioni del potere, ma sono sempre esposti al rischio di diventare strumenti di potere, dell’uomo sull’uomo; si può sempre rischiare di promuovere, nel nome dei diritti umani, semplici interessi di parte, di alcuni gruppi più influenti su altri meno influenti, anche se tutto è fatto nella retorica dei diritti umani. E guardate che non sto parlando di casi lontano dai nostri, lo sentirete meglio nell’incontro di venerdì sul caso Lauzi, quello sul crocefisso, questa insidia è sottile ma presente. Lo ha detto magistralmente il professor Weiler davanti alla Corte di Strasburgo nella sua difesa, lui lo sapete è ebreo, del crocifisso nelle aule scolastiche, lo ha detto sottolineando il fatto che nel nostro contesto storico le principali divisioni sono non tra persone religiose di gruppi diversi, lo abbiamo visto ieri nell’abbraccio che c’è stato proprio in questo salone ieri pomeriggio, ma tra persone secolarizzate, tra la cultura secolarizzata e il fattore religioso. L’Europa di oggi vive questo profondo scontro e questa profonda divisione e in questo contesto promuovere istituzioni laiche non è promuovere una neutralità, è prendere una posizione, sposare una delle visioni in campo nel dibattito. Il muro bianco nell’aula scolastica, in questo contesto storico, non è un muro muto sul fattore religioso, né esprime una posizione imparziale, esso dice molto, dice che la cultura pubblica è una cultura senza Dio. Allora il dilemma difficile, la cui soluzione non certo facile si è presentata alla Corte di Strasburgo sul caso del crocefisso italiano, non è tra una posizione di parte, quella cristiano-cattolica e una posizione neutrale, quella che vuole la rimozione dei crocefissi, ma un dilemma tra due posizioni egualmente impegnate e impegnative rispetto al fattore religioso. Come trovare spazio e modo per formulare una autentica libertà in questo contesto? Come vedete, il tema dei diritti umani può facilmente prestarsi a un gioco di parti e di interessi, nasce da questo impeto per la giustizia eppure facilmente e costantemente è esposto al rischio di diventare strumento di interessi di una fazione sull’altra. Don Giussani nel Senso Religioso lo spiega in modo icastico: senza la prospettiva di un oltre la giustizia è impossibile; e ancora: là dove l’umile senso della riformabilità essenziale dell’umano concepire non ci sia, la metamorfosi avviata, la filosofia diventa ideologia e così entra in scena la violenza del potere; se si trascura nel concreto operare, non solo nelle astratte formulazioni, che l’ideale della giustizia è sempre strutturalmente e ontologicamente inesauribile, il progetto si corrompe. Per questo in un recente libro appunto, il premio nobel Amartya Sen suggerisce di correggere il nostro rapporto con la giustizia. Criticando Rawls, che ha formato la coscienza di tanti e di tanto pensiero liberale nella coscienza occidentale, dice che l’aspirazione umana alla giustizia dovrebbe costituire un motore instancabile ed inesauribile per correggere le ingiustizie e non invece per pretendere di realizzare un ideale di giustizia perfetta. Rimediare alle ingiustizie non è sinonimo di realizzazione della giustizia, e la storia dimostra che tutte le idee di giustizia, che non tengano in adeguata considerazione ciò che è intrinseco alla natura umana, rischiano di generare ingiustizie maggiori.
Tornando al nostro problema dei diritti umani, che cosa implica tutto questo per il ruolo delle istituzioni in che sono chiamate a difenderle? Credo che sia questa consapevolezza un richiamo prima ancora che per una ristrutturazione del sistema delle istituzioni, un richiamo alla consapevolezza degli operatori della giustizia. I diritti umani hanno un posto, lo hanno avuto e debbano continuare ad avere un posto di grande importanza nella nostra convivenza umana e nella nostra concezione di democrazia, ma il loro posto, è un posto limitato, non potranno mai essere in grado di esaurire la domanda di giustizia dell’umanità, e su questo punto occorre vigilare, rinnovare costantemente la nostra consapevolezza. Essa, in qualche misura, chiama ed esige, evoca la necessità di un approccio modesto e temperato ai diritti umani, che li riconduca alla loro ragion d’essere originaria, di correttori delle ingiustizie, tenendo conto della sproporzione strutturale tra le umane possibilità e l’ampiezza infinita del bisogno di giustizia che pulsa nel cuore di ogni uomo. Grazie.

CARMINE DI MARTINO:
Cedo immediatamente la parola a David Kretzmer.

DAVID KRETZMER:
Vorrei ringraziare il prof. Di Martino per la sua introduzione e vorrei anche ringraziare gli organizzatori di questo Meeting di Rimini, molto importante, vorrei ringraziarli per l’invito a partecipare. È un grande piacere per me condividere il podio oggi con la prof.ssa e collega Marta Cartabia, e come noterete durante la mia presentazione, noi non siamo d’accordo su alcune questioni che tratteremo. Non è proprio una divergenza di opinioni, ma sono dei punti di vista diversi. Vorrei adesso scusarmi verso questo pubblico perché non potrò parlare italiano, quindi dovevo scegliere tra la lingua ebraica e l’inglese ma penso che la maggior delle persone in questo pubblico capiranno più l’inglese dell’ebraico, quindi ho optato per l’inglese. Come la mia collega, io vorrei cominciare a parlare di quattro casi individuali, molto diversi, ma che sollevano dei dilemmi e delle questioni similari. Quindi parlerò di nani, di matrimonio tra persone dello stesso sesso, di negazionismo dell’Olocausto e del velo islamico e voi potrete cercare di capire e indovinare quali sono le connessioni tra questi casi. Cominciamo dal primo. Manuel è un nano e a causa di questa sua condizione ha sempre fatto fatica a trovare un lavoro che gli potesse garantire uno stipendio e una vita decente e a un certo punto ha trovato un lavoro, anche se molto particolare. Doveva indossare degli indumenti protettivi e poi veniva lanciato su un materassino che si trovava ad una distanza molto piccola dai clienti di una discoteca. Atterrava su questo materassino dove veniva lanciato, quindi molte persone ritenevano che questa pratica fosse molto offensiva, una violazione della dignità umana di Manuel, proprio perché veniva trattato in questo modo. Le autorità francesi, una volta appreso di questo, si sono persuase di questa violazione ed il sindaco locale ha promulgato una normativa in cui vietava la pratica del “lancio del nano”, come veniva chiamata. Le autorità pensavano quindi di proteggere il diritto di Manuel di non essere oggetto di questo trattamento degradante, e la pratica stessa costituiva quindi anche una violazione dell’ordine pubblico. Ma questo era un problema perché Manuel stesso non era d’accordo con questo pronunciamento, perché pensava che la sua dignità non fosse violata, al contrario, privandolo dell’unico lavoro che era riuscito a trovare, egli pensava che questo divieto violasse proprio la sua dignità umana, quindi fece appello al Tribunale Amministrativo francese. Ha avuto in prima istanza un pronunciamento in suo favore, ma poi in seconda istanza ha perso, infatti la Corte ha sostenuto che il lancio del nano fosse un affronto alla dignità umana e come tale dovesse essere proibito. Quindi che cosa doveva fare Manuel in quel tipo di situazione? A quel punto, non aveva un lavoro, non poteva rivolgersi ad altri Tribunali in Francia, e quindi ha cercato di sottoporre questo caso al Comitato dei Diritti umani, si tratta di un corpo di 18 esperti che vigila sull’osservanza da parte degli Stati della Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici. Quindi Manuel diceva di esser stato oggetto di discriminazione, e che c’erano anche altre occupazioni che potevano essere considerate degradanti, ma che non venivano per questo messe fuori legge (la cosiddetta più antica professione del mondo è uno di questi esempi). Adesso parliamo di un altro caso che è estremamente diverso, Juliet e Jennifer, una coppia di lesbiche che vive in Nuova Zelanda. Volendo sposarsi questa coppia ha fatto domanda all’Ufficio di registro, ma esso ha rifiutato questa richiesta perché in Nuova Zelanda matrimonio significa matrimonio tra un uomo e una donna. Si sono appellate ai Tribunali, che hanno detto: mi dispiace, questa è la legge che vale in Nuova Zelanda. Quindi anch’esse si sono appellate al Comitato dei Diritti umani, richiamandosi alle discriminazioni alla quale erano state soggette in base al loro orientamento sessuale. Adesso parliamo del terzo caso, che è interamente diverso e che coinvolge un uomo che si chiama Robert Faurisson. Si tratta di un cittadino francese che è un negazionista dell’Olocausto. Egli sostiene che le camere a gas erano un mito, non esistevano, e che i nazisti non hanno mai avuto il piano di sterminare gli ebrei. Nel 1990 il potere legislativo francese ha promulgato la cosiddetta “legge Gayssot” che modifica la legge sulla libertà di stampa e stabilisce che è un reato contestare l’esistenza della categoria di crimini contro l’umanità definita nella Carta di Londra dell’8 agosto 1945, sulla base della quale i leader nazisti sono stati processati e condannati dal Tribunale Militare Internazionale di Norimberga. Dopo la promulgazione di questa legge, Faurisson ha rilasciato un’intervista alla stampa in cui ancora una volta ha negato i crimini dell’Olocausto, e sosteneva che gli Ebrei avevano inventato tutto per seguire i propri interessi politici. Fu processato, condannato e multato dai Tribunali francesi. Anch’egli ha fatto ricorso al Comitato per i diritti umani denunciando che la sua libertà di ricerca e di parola erano state violate dalla Francia, il suo paese. Passiamo adesso al quarto caso, una giovane donna, di nome Raihon, una giovane musulmana che vive in Uzbekistan. Lei studiava presso il dipartimento degli affari islamici dell’istituto di lingue orientali di Tashkent, e la sua religione le richiedeva di indossare il velo islamico, ma le autorità universitarie non volevano. Pertanto il rettore ha emanato una normativa che vietava agli studenti di indossare abiti religiosi. Quando Raihon si rifiutò di osservare questo divieto, fu esclusa dalle classi e dai corsi. Ha fatto ricorso ai Tribunali dell’Uzbekistan, ma la sua istanza è stata respinta. Anch’essa quindi si è rivolta al Comitato dei diritti umani, sostenendo che questa normativa violava il suo diritto alla libertà di religione. Quindi questi quattro casi sono estremamente diverso l’uno dall’altro, ma sollevano due questioni comuni: la prima è esattamente la questione che la prof.ssa Cartabia ha già affrontato, quindi la prima questione è quella che io ho definito il “dilemma sostanziale”. In ciascuno di questi casi c’è un conflitto di valori dove occorre prendere decisioni tra valori in conflitto tra loro. Quindi, nel caso del nano, c’è un conflitto fra il punto di vista esterno di ciò che la dignità umana presuppone, e il punto di vista interno della vittima, che percepisce questa stessa violazione della dignità umana. Manuel vuole avere un lavoro, guadagnare uno stipendio ma ciò gli viene impedito, e non capisce perché il suo caso sia stato scelto e perché anche la prostituzione non sia bandita per le stesse ragioni. Juliet e Jennifer sostengono essere state oggetto di discriminazione in ragione del loro orientamento sessuale. Perché il matrimonio tra una donna e un uomo è permesso e quello tra due donne o due uomini non è permesso? Esse si scagliano contro questa tradizione consolidata e contro le percezioni fortemente radicate sul concetto di matrimonio, che sono spesso influenzate da delle convinzioni politiche sincere, sia che si tratti della religione cristiana, musulmana o altre religione. Faurisson invece pretende di sapere per quale motivo uno Stato può decretare un dogma storico e criminalizzare coloro che lo contestano. Se uno stato può proibire la negazione dell’ esistenza delle camere a gas, allora anche un altro Stato potrebbe proibire di contestare che i suoi cittadini non hanno mai collaborato con i nazisti. Quindi la libertà di parola non implica anche il diritto a sbagliare? E che dire però delle sensibilità e delle emozioni dei sopravvissuti all’Olocausto o dei familiari di persone che sono state sterminate nelle camere a gas? Quindi dopo tutte queste vicissitudini di grande dolore e sofferenza adesso devono ascoltare persone che dicono che tutto è stato inventato, che tutto è una leggenda, è un mito? Raihon invece crede fermamente nell’importanza del velo islamico. Vuole studiare, lo desidera, ma desidera anche ottemperare ai propri doveri religiosi, come essa li percepisce e concepisce. Lo Stato non può voler mantenere neutrali le scuole e gli istituti di formazione e pensare che gli abiti religiosi vanifichino questo obiettivo? Lo Stato deve garantire l’uguaglianza tra uomini e donne e il velo islamico non simbolizza il dominio dell’uomo sulla donna?
Ma adesso vediamo chi deve decidere quali di questi valori prevalgono. Adesso vorrei parlare di un argomento che la mia collega Cartabia ha affrontato. Chi deve decidere in questi casi qual è il valore prevalente? In ciascuno di questi casi un soggetto, un istituto è chiamato a pronunciarsi. Ma perché l’arbitro definitivo deve essere un organismo internazionale come il Comitato dei diritti umani? Perché non possiamo lasciare la questione alle Istituzioni politiche e giuridiche dello Stato coinvolto? E poi, ci si chiede, chi sono questi cosiddetti esperti del Comitato dei diritti umani che vengono chiamati a pronunciarsi su questi casi? Quali qualità o prerogative hanno per potersi pronunciare su queste questioni dopo che esse sono già state definite dagli istituti giuridici e politici dei paesi a cui si riferiscono?
Vorrei adesso sollevare la seconda questione, quella istituzionale. Vorrei parlare prima della natura del Comitato per diritti umani. La Corte Europea per i diritti umani di Strasburgo è molto nota in Europa, la conoscete tutti, e la mia collega ha messo in dubbio due decisioni della Corte, soprattutto quella che sostiene che l’Italia ha violato la Convenzione nell’esibire il Crocifisso nelle scuole italiane.
Il Comitato per i diritti umani è meno noto della Corte Europea, è stato istituito sulla base della Convenzione internazionale per i diritti civili e politici che insieme alla Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, è la colonna portante dei diritti umani universali. Queste convenzioni sono state i primi passi presi dopo la seconda guerra mondiale per dare un riferimento giuridico ai diritti promulgati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’assemblea generale dell’Onu il 10 dicembre 1948. La prof.ssa Cartabia ha parlato delle motivazioni dietro queste convenzioni, però vorrei ripetere di che cosa si tratta. La motivazione alla base delle convenzioni, sia internazionali che regionali, è che nessuno Stato può aver un potere illimitato per decretare quali diritti o requisiti i propri cittadini o residenti debbano o non debbano avere.
Ogni essere umano ha determinati diritti fondamentali proprio in forza del fatto che è un essere umano e questi diritti fondamentali non devono assolutamente dipendere dal regime politico dei paesi in cui essi vivono. Le convenzioni internazionali sui diritti umani sono nate come reazione ai crimini efferati che sono stati compiuti nel corso della storia, situazioni in cui uno Stato aveva organizzato una campagna di sterminio e genocidio di intere popolazioni, oggi 165 stati hanno sottoscritto la Convenzioni internazionale sui diritti civili e politivi e 2/3 di questi Stati hanno aperto la procedura di ricorso individuale, che ha permesso a persone come Manuel, Raion e Juliet di sottoporre il proprio caso al Comitato. A differenza della Convenzione europea, che si applicava almeno originariamente (poi con l’espansione dell’Europa sono stati inclusi Paesi del blocco est), a paesi che erano accumunati da tradizioni politiche e giuridiche simili, la Convenzione si applica ora a paesi che sono estremamente diversi dal punto di vista della tradizione, della cultura in generale, della politica e della religione. Alcuni sono democratici altri no, alcuni hanno dei regimi secolari, altri hanno delle costituzioni che incorporano anche il diritto religioso. Alcuni sono ricchi, altri sono estremamente poveri. Gli Stati che hanno stilato la Convenzione internazionale non erano pronti a istituire una Corte come la Corte Europea, che avrebbe avuto la competenza di pronunciarsi in maniera inappellabile e vincolante, al contrario hanno deciso di istituire il Comitato sui diritti umani che è composto da 18 membri, nominati dai propri paesi ed eletti dagli stati che sono già firmatari di questa Convenzione. Una volta eletti, questi membri fungono non più da rappresentanti dei loro stati, ma da esperti indipendenti. Molti dei membri, soprattutto dei paesi occidentali, sono professori di legge, di diritto, come sono io, oppure sono giudici ancora in servizio oppure in pensione, e sono quindi completamente indipendenti e svincolati dalla linea governativa dei rispettivi paesi. Il Comitato ha due funzioni precipue.
Innanzitutto esamina i rapporti degli stati sulle misure che essi hanno preso per ottemperare agli obblighi della Convenzione e poi esprime la propria opinione sui ricorsi individuali, come i quattro ricorsi di cui ho parlato.
I pareri del Comitato, a differenza delle decisioni della Corte Europea, non sono vincolanti dal punto di vista legale, tuttavia gli stati dovrebbero rispettarli, altrimenti tutto il progetto non avrebbe senso. Tuttavia il fatto che le decisioni del Comitato non sono vincolanti significa che il Comitato deve agire molto cautamente, le sue opinioni devono non soltanto essere considerate come legittime, ma non devono neppure eccedere i limiti delle norme che vengono generalmente accettate nella maggioranza degli stati firmatari della convenzione. Queste opinioni devono essere in grado di persuadere gli Stati e altre parti interessate che esse costituiscono una giusta interpretazione delle disposizioni della convenzione. Su quali basi si è pronunciato il Comitato? Per quanto riguarda il caso del nano, Manuel, il Comitato ha rispettato la decisione presa dallo Stato, per alcune ragioni ha limitato la questione all’argomentazione della discriminazione. Ha ammesso che il divieto in effetti si applicava soltanto ai nani, ma perché soltanto i nani vengono lanciati in questo modo. Tuttavia ha anche specificato che il divieto non costituiva un abuso e che era necessario al fine di tutelare l’ordine pubblico, e questo solleva considerazioni di dignità umana che sono compatibili con gli obiettivi della Convenzione. Il Comitato ha concluso che la differenziazione tra l’autore e i soggetti a cui non si applica il diritto emanato dallo stato si basava su motivazioni obiettive e ragionevoli. Il fatto che ci siano altre occupazioni che potrebbero essere vietate per le stesse motivazioni, in base all’opinione del Comitato, non invalidava il divieto specifico sul lancio del nano. Per quanto riguarda la questione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, il Comitato si è trovato davanti ad un dilemma vero e proprio. Come già indicato, ci sono 165 stati che fanno parte della Convenzione e in molti di questi stati le relazioni consensuali tra adulti dello stesso sesso sono ancora un reato. L’omosessualità è un tabù che viene o negato o soppresso. Il Comitato non poteva pertanto prescrivere una norma che si applicasse esclusivamente alla Nuova Zelanda. Se avesse stabilito che la Nuova Zelanda poteva consentire questo matrimonio, ciò avrebbe significato che ogni altro stato avrebbe dovuto seguire questo esempio, ciò sarebbe stato illegittimo e avrebbe invalidato l’autorità del Comitato agli occhi di moltissimi altri stati, quindi non sorprende il fatto che il Comitato abbia respinto il ricorso e abbia giustificato la sua decisione appellandosi a una clausola della Convenzione che riconosce il diritto degli uomini e delle donne in età di matrimonio di sposarsi e di formare una famiglia. Il Comitato ha interpretato ciò dicendo che uno Stato è obbligato esclusivamente a riconoscere il matrimonio fra uomini e donne. Nel giugno di quest’anno la Corte Europea per i diritti umani è giunta alla stessa conclusione sulla base di una disposizione identica contenuta nella convenzione europea. È possibile dunque trarre una conclusione da questo caso, e vorrei parlarne prima di continuare, e penso sia una conclusione estremamente importante per tutti coloro che considerano il Comitato per i diritti umani. Questo organismo non può servire come un organismo il cui compito è di imporre le idee all’avanguardia e già accettate nella società occidentale, non è possibile imporre queste idee a tutti i paesi del mondo e il secondo caso, quello del matrimonio fra persone dello stesso sesso, è un esempio di ciò. Parliamo adesso del terzo caso, il negazionismo dell’Olocausto. Sebbene la legge francese sia troppo ampia, molti membri del comitato hanno pensato che questa legge non fosse compatibile con la libertà di espressione, però non hanno considerato la legge francese, hanno considerato soltanto la fattispecie in esame e il Comitato ha pensato che questo caso potesse essere inquadrato come istigazione all’antisemitismo, quindi per proteggere i diritti della comunità ebraica in Francia ha interferito con la decisione del tribunale francese. Quindi abbiamo tre casi che pongono delle questioni molto importanti dove il tribunale si è pronunciato differentemente dagli stati. Però, come sapete, la Corte Europea dei diritti umani ha già parlato del fatto del velo islamico che viene indossato negli istituti in Turchia e altri paesi. La Corte ha confermato il divieto a usare il velo nelle scuole e nelle università, ma ciascuno di questi casi che la Corte ha esaminato, ponevano dei problemi di ordine pubblico. Nel caso invece di Raion, il Comitato ha disposto che lo stato non aveva fornito alcuna prova dei motivi di ordine pubblico che avrebbero potuto giustificare un divieto a indossare il velo islamico nelle università, e pertanto il comitato ha decretato, contrariamente alla giurisprudenza esistente nella Corte europea, ma soprattutto sulla fattispecie in esame, che vietando l’uso del velo in università lo stato aveva violato il diritto di Raihon di manifestare la propria religione. Quindi decretare che non c’è stata una violazione, non è un pronunciamento tipico del Comitato dei diritti umani sui ricorsi individuali, al contrario se guardiamo le statistiche, nella maggior parte dei casi su cui si pronuncia, il Comitato stabilisce che c’è stata una violazione da parte dello stato. Questo accade più frequentemente, ma tutti questi casi sollevano un conflitto di valori che non esiste in questi casi. Si tratta di casi di processi ingiusti, tortura, crudeltà, trattamenti disumani o degradanti nelle prigioni, omicidi da parte di agenti di stato che non vengono investigati a sufficienza da parte dello stato e altri gravi crimini e violazioni dei diritti umani.
Adesso vorrei invece parlare della seconda questione che la Collega ha sollevato, ovvero perché il Comitato deve decidere lui per questi casi e per quale motivo le decisioni non sono state lasciate ad ogni Stato individuale. In nessuno di essi era in gioco la libertà personale delle persone coinvolte. Questi casi sono ben lontani dai crimini efferati dell’Olocausto compiuti durante la Seconda Guerra Mondiale, che hanno indotto a promulgare la legge sui diritti umani. A mio avviso la risposta si richiama alla nozione della indivisibilità dei diritti umani. Le Convenzioni sui diritti umani come la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici potrebbero essere descritte come un corpo di leggi omnicomprensive. Accanto alla disposizione sul diritto alla vita, sui diritti a esseri liberi dalla tortura e dall’arresto arbitrario, vi sono i diritti alla privacy, alla libertà di espressione e naturalmente il diritto a non essere oggetto di discriminazione. Sul significato di questi ultimi diritti e soprattutto sul fatto se sia legittimo o meno restringere le libertà per proteggere i diritti di altri o interessi sociali come l’ordine pubblico, si è molto vaghi, non ci sono delle disposizioni precise. Tutto comporta un giudizio di valore. E questo significa inevitabilmente che quegli Istituti che sono chiamati a far valere i diritti non hanno altra scelta che interpretare le disposizioni delle Convenzioni. E come ho già detto non si tratta di un tecnicismo. Significa decidere, per esempio, se la disposizione che sancisce il riconoscimento del diritto da parte di uomini e donne in età da matrimonio di sposarsi significa in realtà soltanto uomini e donne insieme. Chiaramente sia il Comitato dei diritti umani che la Corte Europea avrebbero potuto pronunciarsi differentemente in questi casi. L’interpretazione che hanno scelto è stata dettata prevalentemente, se non esclusivamente, dalla percezione di ciò che sarebbe stato considerato accettabile e ammissibile e io potrei dire la stessa cosa sul caso del Crocifisso nelle scuole italiane. Posso ben capire le sensibilità di grandi parti della popolazione italiana verso questa cultura ben radicata, si tratta della cultura italiana che va ben al di là del simbolo religioso coinvolto, ma qualcuno ha dovuto comunque prendere una decisione. Che dire però del bambino che va a scuola e non vuole sedersi in un aula dove viene esposto giornalmente alla visione di un crocifisso che non è rappresentativo della sua religione? E se questo bambino si sentisse intimidito dalla presenza del crocifisso? E se un bambino siede in una classe che è rappresentativa di una società multireligiosa, questo bambino entrando in questa aula si sentirebbe diverso dagli altri bambini e non si sentirebbe di appartenere a quella cultura, quindi qualcuno ha dovuto prendere una decisione. La professoressa Cartabia ritiene che avrebbe dovuto essere lasciato alla giurisdizione dei tribunali italiani, ma come ho già detto ci sono due risposte che voglio dare a questa questione molto importante, la questione da lei sollevata. Innanzitutto, ne ho già parlato, la Convenzione sui diritti umani è una convenzione in blocco. Questo significa che il tipo di questioni sui diritti umani che vengono sottoposte all’organismo dipendono in larga misura dalla natura del regime e dalle condizioni politiche economiche e sociali dello stato di riferimento. La professoressa Cartabia ha detto che ci sono 1200 casi di fronte alla Corte, ma la maggior parte di questi casi vengono dalla Russia, e essi sono relativi a questioni sulla Cecenia oppure si riferiscono alla Turchia, quindi gli attacchi militari della Turchia contro i curdi, oppure riguardano processi ingiusti in paesi dell’ex blocco sovietico, quindi ciò che ha spinto a prevedere una tutela internazionale dei diritti umani è stata la constatazione che non possiamo permettere agli Stati di commettere i crimini più efferati e poi lasciare che loro si giustifichino adducendo come argomentazione il fatto che si tratta di questioni interne, domestiche e che né altri stati né la comunità internazionale hanno il diritto di interferire. Ma la salvaguardia non può limitarsi soltanto a questi casi, quelli della Russia o della Turchia o quelli che vengono dalla Giamaica, dal Congo o da altri paesi in cui le statistiche sui diritti umani sono davvero terribili, tutti gli stati devono essere compresi e devono partecipare e quindi tutti gli stati devono pagare il prezzo che ciò comporta. Quindi c’è una vasta differenza tra le Corti internazionali e quelle nazionali: hanno entrambe debolezze ma anche punti di forza. Adesso vorrei parlare delle Corti interne nazionali. Sfortunatamente molta della mia attività è consistita nell’esaminare i tribunali interni, soprattutto in Israele, il mio paese, ma anche in altri paesi e quello che noi vediamo è che i tribunali nazionali sono ipersensibili verso ciò che viene percepito in quel momento come la realtà politica di una determinata società, quindi non sono sempre disposti a sollevarsi in tutela di individui i cui diritti vengono violati e soprattutto in tempi di crisi essi si conformano alla maggioranza che prevale. D’altra parte i tribunali internazionali talvolta vedono la realtà politica, economica e sociale delle società e non possono essere troppo sensibili a questa realtà, perché ci sono dei giudici che siedono in questi comitati che non sanno cosa succede in quelle società perché non provengono da quegli stati; ci sono 165 paesi e c’è soltanto un giudice per ogni stato coinvolto. Il comitato ha soltanto 18 membri e ci sono ricorsi individuali da 105 paesi e quindi i membri non possono che provenire da una minoranza degli stati coinvolti. Però allo stesso tempo tutto ciò pone un grande vantaggio, il vantaggio è che possono arretrare di un passo, possono considerare la questione come una questione di principio, in un modo che è estraneo ai valori emotivi e alle sensibilità interne che invece influenzano gli istituti politici nazionali e i tribunali nazionali. Quindi che cosa implica tutto ciò, qual è il significato? Significa che se consideriamo adesso i diritti umani internazionali, vediamo che hanno fatto molta strada dall’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. La filosofia originale era quella che tutti gli esseri umani, indipendentemente da razza, religione o sesso, hanno diritti fondamentali e che tutti gli stati devono assicurare questi diritti e la funzione degli istituti internazionali è quella di garantire che ciò avvenga. Questa filosofia è valida oggi così come lo era nel 1948, quindi è valida oggi nel 2010 come lo era nel 1948 e nel 1966, quando la Convenzione è stata adottata. Dobbiamo ammettere che ci sono sempre pericoli quando si consente a organismi internazionali di ingerire nelle questioni interne di stati con società totalmente diverse. Talvolta tali organismi sbagliano, inevitabilmente, talvolta negano la protezione nei casi in cui essa è necessaria o estendono la protezione laddove ciò non è necessario. Molte di queste decisioni suscitano controversie e polemiche negli stati coinvolti, talvolta, e io in questo sono totalmente d’accordo con la professoressa Cartabia, si ha la sensazione che fra i giudici o i membri di questi organismi la modestia sia una virtù alquanto carente e io penso che la modestia sia necessaria non soltanto in ambito religioso ma anche negli istituti giuridici e legali. Ma questo fa parte del prezzo che dobbiamo pagare per avere un sistema che abbia delle basi solide, quindi se vogliamo che la Russia e la Turchia accettino la giurisdizione della Convenzione europea sui diritti umani, dobbiamo accettare che anche l’Italia lo dovrà fare. E quindi io dovrò stare zitto quando la corte decide in un modo che non è gradito agli italiani, per esempio. Se vogliamo che i paesi asiatici o africani o altri paesi che hanno problemi di diritti umani vogliano essere accolti insieme ai paesi europei, alla Nuova Zelanda e alla Francia, se vogliamo mettere insieme tutti questi paesi, dobbiamo accettare queste cose. Ci chiediamo, sarebbe meglio tornare al vecchio mondo e lasciare che tutti questi casi vengano decisi dagli istituti interni nazionali? Possiamo davvero dipendere da Stati, non soltanto oggi ma anche domani e dopodomani e in un futuro più lontano? Possiamo pensare che tutti gli stati possano proteggere e salvaguardare i diritti umani di tutti gli individui che vivono nel loro territorio e sono soggetti alla loro giurisdizione? Il sistema ha dei difetti ma al momento, almeno a livello internazionale, si tratta dello strumento migliore che abbiamo e dovremo cercare di utilizzarlo al meglio.
Vorrei concludere facendo alcune osservazioni sul tema stesso di questa conferenza, e sono stato commosso per essere stato invitato a questo evento così importante.
I diritti umani sono un ideale politico, legale e filosofico, parliamo del potere politico dello Stato, e la nozione è quella di limitare il modo in cui questo potere può essere esercitato, e recentemente sono stati introdotti degli obblighi positivi su come debba essere esercitato questo potere. Quindi i diritti umani non hanno a che fare con il cuore, ma cercano comunque di contenere gli atti di chi non ha cuore.
Essi pongono le fondamenta per una società in cui le persone possono liberamente andare avanti nei loro sogni, esaudire i loro desideri e quello che il cuore detta loro. È sempre importante capire, e chi si occupa di diritti umani deve sempre essere modesto, perché i diritti umani non sono una panacea per tutti i problemi della nostra società, quindi la protezione dei diritti umani non può garantire di aver risolto tutti i problemi della società e i problemi esistenziali degli individui. Per chi invece crede, e io penso che la maggior parte delle persone in questo pubblico creda, la fede nella religione e il diritto di manifestare la propria religione liberamente sono la strada verso la soddisfazione personale. Ma perché la religione possa svolgere un ruolo importante, dobbiamo rispettare la libertà di religione e solo i diritti umani possono garantire il rispetto della libertà di religione. Il cuore è portato a desiderare grandi cose, e noi dobbiamo dare questa possibilità, che queste grandi cose possano essere raggiunte. Potremo essere spinti a desiderare grandi cose in direzioni diverse, ma vogliamo tutti creare una società in cui ogni persona, ogni cittadino possa avere l’opportunità e la possibilità di seguire i desideri del proprio cuore. Con questo messaggio voglio concludere la mia presentazione, vi benedico tutti e benedico i diritti umani, perché possano davvero essere un valido aiuto per il futuro dell’umanità. Grazie.

CARMINE DI MARTINO:
Ci siamo resi conto che il tema affrontato è realmente cruciale e complesso, e che non gioverebbe semplificare né cancellare differenze di situazioni e ragioni che sono in campo.
Vorrei in sede conclusiva fare tre semplici sottolineature e un nota bene conclusivo per raccogliere la provocazione delle due pregnanti e ricchissime relazioni, sia in merito agli apporti positivi che alle divergenze che sono state sottolineate.
Innanzitutto, prima sottolineatura, riprendo una frase detta alla fine: “i diritti umani non sono una panacea per tutti i problemi della convivenza umana nelle varie società e situazioni”. Ecco, potremmo trarre da qui una prima indicazione. Riflettiamo sull’espressione “i diritti dell’uomo”. I diritti individuali, fondamentali, universali, umani secondo le diverse classificazioni. Qui nella sintassi si parla di un soggetto che ha diritti, i diritti dell’uomo. Ma proviamo a dire la stessa frase muovendo gli elementi. L’uomo dei diritti. E avremo una situazione in cui già si presenta come realizzato quel rischio di intendere i diritti umani come la panacea per tutti i problemi, vale a dire: chi è l’uomo? Chi dice chi è l’uomo? Non abbiamo forse sbilanciato, per tante ragioni? La professoressa Cartabia ne ha messe in luce tre (con particolare riferimento alla terza cui a breve mi riferirò), tre ragioni di questa delega. Oggi chi è l’uomo ce lo dicono i diritti, facilmente noi ricaviamo l’immagine dell’uomo dalla lista dei diritti che riusciamo a confezionare.
Ecco. io inviterei a riflettere sul rapporto tra antropologia e diritto, concezione dell’uomo e diritto. È un rapporto circolare, lo è sempre stato ed è chiamato ad esserlo. Certamente il diritto esprime una concezione dell’uomo ma anche influenza e in qualche modo promuove una concezione dell’uomo. Ecco mi pare che la situazione in cui ci troviamo nasconda piuttosto che portare allo scoperto questa dimensione. È inconfessata e a volte praticata inconsapevolmente. Nella lista dei diritti è anche all’opera una determinata visione dell’uomo, e questo non significa condannare i diritti, ma significa vigilanza critica. La lista dei diritti contiene una filosofia, e allora occorre costantemente riaprire il dibattito al di là di una visione uniformante, un luogo comune, riguardo ai diritti. Essi indubbiamente hanno portato un progresso, hanno ricoperto una funzione positiva, ma occorre non cessare mai di esercitare una vigilanza critica, perché l’universalismo delle definizioni è sempre sul punto di diventare il contrario di ciò per cui è pensato, sempre sul punto e questo appartiene alla sua funzione storica, cioè l’universalizzazione dei diritti è sempre sul punto di proporsi come la visione particolare su tutte le altre. Perciò non si tratta per nulla di mandare all’aria i diritti, ma di svolgere una funzione critica su chi corregge il correttore. Se i diritti umani hanno una funzione correttiva, occorre che non sia mai abbandonata questa vigilanza.
Secondo punto, lo chiamerei così: la prevalenza delle soluzioni dall’alto. Che pure ha una sua ragione, lo abbiamo visto sia nella relazione di Marta Cartabia sia di David Kretzmer. Ma qui appunto indico il pericolo, quello dell’utopia istituzionale. Direbbe Eliot: “essi sognano sistemi talmente perfetti da rendere inutile all’uomo l’essere buono”, cioè è il sogno di istituzioni che salvino la libertà fino a farla scomparire, questo è il rischio, cioè che salvino dalla libertà, ma evidentemente è l’indicazione iperbolica di un rischio che è legato interamente al rapporto necessario tra istituzioni e potere. Le istituzioni che assicurano l’esercizio di un diritto con un respiro internazionale (quello ad esempio contro i crimini contro l’umanità), le istituzioni che assicurano l’esercizio di un diritto possono sempre diventare, sono sempre sul punto di (uso questa espressione per indicare che non è mai finito questo lavoro che io indico tra le righe) diventare strumenti di omologazione culturale, di sfondamento delle sovranità, di indebolimento delle tradizioni, così come, dall’altro canto, esercitano la funzione di sorveglianza, come veniva detto molto bene dalla frase: “ogni essere umano ha diritti che non possono dipendere dallo stato nazionale”, combinata con l’altra che dice: “gli esperti che partecipano a questi istituti internazionali non possono imporre le idee più all’avanguardia” in una determinata zona dell’Occidente. Quindi qui, in questo rapporto tra istituzioni e potere, che deve tenere vive le due istanze senza sacrificare l’una a vantaggio dell’altra, è contenuto tutto il nodo problematico. Le istituzioni possono diventare strumento di pressione politica, di orientamento, ciò anche in considerazione del fatto che sempre posizioni promosse si possono legare a interessi determinati, economici e non solo politici, per esempio. Dunque la scelta delle istituzioni e la scelta dei membri, degli esperti chiamati a operare in queste istituzioni, non è mai innocente. È necessaria ma non va da sé, esige sempre di essere discussa.
Dunque, terzo punto: il terzo punto è contenuto nell’osservazione di Marta Cartabia, la terza delle ragioni che tentano di spiegare questa prevalenza attuale del ruolo delle istituzioni sovranazionali, europee o internazionali che siano. Direi così, occorre non subire come un inconveniente ma far valere la differenza strutturale tra diritto e giustizia. Il diritto non è la giustizia e la giustizia non è il diritto, e la differenza fra l’infinito della giustizia e il finito del diritto è la nostra risorsa critica, non va patita come un inconveniente ma esercitata, fatta valere, l’aspirazione alla giustizia, veniva richiamato anche da David Kretzmer nel suo commento al titolo del Meeting, l’aspirazione alla giustizia, la tutela di questa aspirazione, è ciò che rende possibile e doverosa la critica agli stati nazionali, ai trattamenti degli individui negli stati nazionali, alle istituzioni che hanno come compito quello di delimitare l’azione degli stati nazionali. Abolire la differenza tra il diritto e la giustizia è aprire le porte alla violenza del potere, ad ogni livello e in ogni senso.
E allora il nota bene finale che riguarda la storicità e dunque la perfettibilità di tutti i tentativi. La domanda che è risuonata verso la fine: “i diritti umani internazionali hanno fatto molta strada, ci sono molti pericoli, la modestia è una virtù necessaria, occorre sempre pagare un prezzo, sinteticamente accettare anche le decisioni non conformi, per poter avere il vantaggio di includere in un rispetto più largo dei diritti umani tante nazioni che di per sé non li rispetterebbero”.
Ma allora io dico, i diritti umani hanno fatto molta strada, le istituzioni stanno facendo molta strada, esse stesse appartengono alla storicità e rivedibilità dei tentativi. Ciò che nasce per una funzione critica è chiamato esso stesso a sottoporsi alla critica.
Qui si apre la nostra responsabilità, questo è lo spazio della nostra responsabilità: fare interagire l’esperienza elementare di ogni uomo, resa cosciente all’interno di una cultura (è sempre così), fare agire la coscienza che chiamiamo cuore, la coscienza di istanze fondamentali, per giudicare e rilanciare tutte le realizzazioni.
“Il sonno della ragione produce mostri”, dice una famosa frase. Il nostro compito è precisamente assicurare la permanenza nel mutamento, la permanenza di una considerazione dell’uomo come soggetto dei diritti, nel mutamento di istituzioni e definizioni di valori che hanno lo scopo di tutelarne lo sviluppo. Ma per questo compito occorre un soggetto consistente, un soggetto critico. E qui si apre un altro problema a cui credo il Meeting intenda dare una risposta non in termini semplicemente di definizioni, ma come esperienza e come storia. La domanda è: da dove nasce questo soggetto critico capace di mettere al lavoro, nella fattispecie della discussione fatta oggi, il divario tra giustizia e diritto senza abdicare i propri compiti, senza rinunciare alle mediazioni necessarie, alle negoziazioni continue, senza abbandonarsi a un utopismo irrealistico, ma lottando palmo dopo palmo senza mai recedere?
Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2010

Ora

11:15

Edizione

2010

Luogo

Salone B7
Categoria
Incontri