ECOLOGIA ED ECONOMIA: DALLA CONTRAPPOSIZIONE ALLA SINERGIA

Ecologia ed economia: dalla contrapposizione alla sinergia

Ecologia ed economia: dalla contrapposizione alla sinergia

Partecipano: Fabrizio Cerino, Amministratore Delegato di NephroCare – Gruppo Fresenius Medical Care; Paolo Fantoni, Presidente di Fantoni Spa; Gian Luca Galletti, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare; Massimo Goldoni, Presidente di Federunacoma. Introduce Domenico Lombardi, Direttore del Global Economy Department presso il Centre for International Governance Innovation (CIGI), Canada.

 

DOMENICO LOMBARDI:
Buon pomeriggio a tutti. Sono Domenico Lombardi del Centre For International Governance Innovation e vorrei darvi il benvenuto questo pomeriggio alla sessione su Ecologia ed Economia: dalla contrapposizione alla sinergia. A parlare di questo tema abbiamo un panel particolarmente autorevole: alla mia destra c’è Gian Luca Galletti del governo Renzi, Ministro dell’Ambiente, che saluto e a cui do il benvenuto. Esponenti di spicco di vari comparti del mondo industriale, alla mia estrema destra il dottor Cerino, Amministratore Delegato di NephroCare, del Gruppo Fresenius Medical Care, un’azienda leader nel settore sanitario e nel campo dell’innovazione, di cui parleremo questo pomeriggio. Il dottor Fantoni alla mia estrema sinistra, Amministratore Delegato della Fantoni Spa, Presidente di Assopannelli, Vicepresidente di Federlegno e recentemente insignito dal Presidente della Repubblica del Premio Nazionale per l’innovazione. Alla mia sinistra, il dottor Goldoni, Presidente di FederUnacoma, la federazione di produttori di macchine agricole e, naturalmente, titolare dell’omonimo marchio industriale, la Goldoni, che voi conoscerete, leader nel settore delle macchine agricole specializzate. Il 50% della produzione della Goldoni viene esportata all’estero: da parte degli organizzatori, grazie per aver accettato questo invito.
Se me lo consentite, vorrei un attimo provare a fare un paio di ragionamenti per cercare di introdurre il tema e poi immediatamente do la parola ai relatori. Il tema è “Ecologia ed Economia”, come ho detto, però il tema del Meeting di quest’anno è anche quello delle periferie del mondo: quindi, quale relazione c’è fra ecologia ed economia da un lato e le periferie del mondo, su cui gli organizzatori di questo Meeting ci hanno invitato a riflettere? In realtà, affrontare questo tema senza avere in mente le periferie del mondo, sarebbe inutile e inefficace, almeno per le seguenti ragioni. Per quanto riguarda l’economia, uscire dalla crisi economica nel quale il nostro Paese si trova, l’Europa si trova, e il nostro Paese ancora di più, sarebbe impensabile senza guardare alle periferie del mondo, alle economie emergenti, alle economie che stanno per emergere e quindi alle opportunità che queste economie possono darci. Allo stesso modo, ci sono dei settori industriali emergenti, anche in Italia, pensiamo al settore delle rinnovabili, per esempio e questo fornisce un’ulteriore opportunità, fonte di crescita se adeguatamente sfruttata. Includere le periferie nella nostra analisi, però, non vuol dire soltanto ampliare le coordinate geografiche o settoriali dei nostri ragionamenti. Infatti, se la vita umana è parte del microcosmo, in natura le generazioni presenti hanno un’ineludibile responsabilità nei confronti di quelle future a preservare l’ambiente in cui viviamo. In questo senso, ecologia ed economia hanno una naturale vocazione alla periferia, intesa in senso lato. Quello che vorrei cercare, guidando questo dibattito, è fare emergere questo nesso, che crescita e ambiente non sono fattori in competizione. Senza un’adeguata protezione ambientale, la crescita economica vi può essere ma risulta inevitabilmente fragile. D’altro lato, non è possibile dedicarsi alla protezione dell’ambiente se non vi è crescita economica.
Detto questo, passerei immediatamente alla prima domanda. Comincerei col Ministro Galletti. Ministro, direi che esiste un buco nero nell’attuale governance del mondo globalizzato. Quello che noi vediamo è che nelle opinioni pubbliche di molti Paesi, certamente nel nostro Paese, certamente in Europa ma anche per esempio in Canada, il Paese dove lavoro da poco più di un anno, vi è una crescente sensibilità e attenzione verso le tematiche ambientali. Eppure, quello che vediamo allo stesso tempo è che possiamo avere una governance economico-finanziaria con delle falle, ma che comunque nel complesso funziona abbastanza. Ma la governance globale o regionale a livello ambientale è ancora a uno stato direi primordiale o comunque insoddisfacente. L’Italia in questo semestre ha la presidenza di turno della UE, quindi le vorrei chiedere: qual è la strategia che sta perseguendo in questo contesto il Governo italiano? Con quali obiettivi a breve termine, quali tempistiche e quali alleati tattici e strategici?

GIAN LUCA GALLETTI:
Grazie intanto al Meeting per avermi invitato anche quest’anno, devo dire che è già qualche anno che vengo al Meeting, anzi molti anni. Comincerei con una proposta ai relatori, di toglierci la giacca e di affrontare il tema perché, se parliamo di riscaldamento del globo, cominciamo come prima cosa da questo. I due temi che hai posto sono al centro dell’agenda del Governo, non tanto del Ministero dell’Ambiente, per il semestre europeo. Il primo obiettivo che ci siamo dati come Governo è rilanciare la crescita e l’occupazione in Europa. Su questo tutti i Ministeri sono impegnati, il mio in particolare, perché credo che sia molto vero quello che tu dicevi all’inizio, che ormai non ci può più essere crescita se non si coniuga strettamente con l’ambiente. È evidente da alcuni dati, ve ne cito due. Fino a quindici, venti anni fa era impensabile chiudere delle aziende per problemi ambientali: vuole dire che il lavoro, come valore, vinceva sull’ambiente, nessuno avrebbe mai pensato di mettere a casa della gente perché non si rispettavano alcuni standard ambientali. Io sono Ministro da pochi mesi, mi è capitato più volte di dover chiudere delle aziende perché non rispettavano gli standard ambientali. Che cosa vuole dire questo? Vuole dire che la cultura ambientale è, per fortuna, così avanzata che è diventata prioritaria anche rispetto ad altri valori. Questo dato è importante.
Secondo dato: l’esperienza di questa crisi ci insegna che l’unico mercato che è cresciuto in questi anni è quello della green economy. Mentre tutti hanno perso posti di lavoro e fatturato, le aziende che lavoravano nella green economy hanno aumentato fatturato e posti di lavoro. Dal 2007 al 2011, sono più di un milione i posti di lavoro in Italia che sono stati creati proprio nella green economy. Solo l’eco bonus per le ristrutturazioni ha portato più di 340.000 nuovi posti di lavoro in Italia. Io credo che questi dati qualche cosa debbano insegnare a noi e agli imprenditori, a coloro che hanno la responsabilità di emanare leggi in campo ambientale. Ci dicono che oggi in Italia e in Europa, ma io dico nel mondo, conviene agli imprenditori rispettare l’ambiente, perché l’ambiente è diventato un business. Attenzione, questo comporta un cambio culturale fortissimo, sia da parte del legislatore, sia da parte degli imprenditori. La grande sfida che abbiamo davanti è passare da una cultura dell’ambiente del no a una cultura dell’ambiente proattiva, e non è facile, perché noi negli ultimi anni abbiamo vissuto l’ambiente, il mio Ministero in particolare, come il Ministero del no: cioè, il mio è stato interpretato per anni come il Ministero che, curando un interesse generale importante come quello dell’ambiente, è stato vissuto più come un ostacolo dal punto di vista degli imprenditori che come un’opportunità. Allora, io credo che quella fase di ambientalismo spinto sia servita per affermare in maniera forte il valore dell’ambiente. Oggi è il momento di fare un ulteriore salto culturale, passare da un Ministero e una cultura del no a una cultura del fare, a una cultura a disposizione della crescita e dell’occupazione del nostro Paese. Questo salto culturale non è facile da fare. La prima condizione per poterlo fare – lo dico con molta chiarezza – è affrontare i problemi ambientali non più sulla scorta dell’emotività ma facendo ricorso alla scienza. Questa è una sfida importante che abbiamo davanti. Noi non possiamo più affrontare i temi ambientali, dal più piccolo al più grosso, sulla scorta dell’emotività. A priori, l’ambiente va protetto, siamo tutti d’accordo ma se lo proteggiamo con l’emotività, spesso otteniamo il risultato contrario, lo penalizziamo.
Allora, la prima cosa è che le decisioni in campo ambientale si prendono sulla scorta di dati scientifici e della ricerca e non più sull’emotività delle persone che sono coinvolte. Ci potrebbero essere mille esempi, dall’opera pubblica locale fino all’opera pubblica di grande interesse nazionale. Bisogna che mettiamo a disposizione, sia dei cittadini sia del decisore, elementi scientifici forti che supportano le decisioni che si debbono prendere e ogni volta che la scienza ci dirà che non ci sono dei pericoli, dei rischi per la salute, per i cittadini e per l’ambiente, una scelta dobbiamo avere il coraggio e la responsabilità di prenderla, anche contro chi ancora crede nella vecchia impostazione che è quella dell’emotività e del no, sempre a difesa dell’ambiente. Questa secondo me è la prima regola che ci serve per poter fare un passo in avanti. Dietro questa impostazione, non c’è solo un fattore economico ma c’è soprattutto un valore morale, questo lo ricordo in continuazione. Rispettare l’ambiente e metterlo a disposizione dell’economia vuole dire anche affermare un principio morale nell’utilizzo delle risorse, nell’utilizzo buono delle risorse: c’è la continuazione del nostro pianeta, dobbiamo avere ben presente questo. Noi impostiamo questo semestre europeo sulla base di un input che vogliamo dare agli imprenditori italiani e a tutta l’Europa per una concezione diversa dall’economia, cioè passare da un’economia lineare a un’economia circolare.
Che cosa vuole dire? Vuole dire che tutti insieme dobbiamo arrivare a fare economia in maniera che ci sia il meno spreco possibile di risorse, che sono finite. Vuole dire incominciare a immaginare che i nostri cicli produttivi debbono tenere conto della tipologia delle risorse che impegniamo. Le risorse che impegniamo, che sono finite, debbono essere impegniate in cicli produttivi che danno nel loro percorso scarti e rifiuti, a loro volta riciclabili in ulteriori fasi produttive. Capite che questa filosofia dell’economia circolare portata all’esasperazione, porta ad una economia senza rifiuti e con un risparmio di risorse finite molto forti? La sfida che abbiamo davanti, anche come semestre europeo, è di incominciare a immaginare la nostra economia in maniera diversa da come l’abbiamo impostata fino ad ora. L’altro tema che abbiamo a cuore è quella del Global Warming, un tema che ci vedrà impegnati da qui alla fine del 2015, quando ci sarà una grande conferenza a Parigi di tutti i Paesi del mondo su questo tema, cioè sulla riduzione di emissione di CO².Ormai è scientificamente provato che se continuiamo nei prossimi anni con questo livello di emissione di CO², avremo un surriscaldamento del nostro pianeta di 4°C, insopportabile per gran parte della biodiversità. Allora è chiaro che immediatamente dobbiamo porre rimedio a questo. E riusciamo a porre rimedio solo se c’è un impegno di tutti i Paesi del mondo. Sapete che c’è un trattato già firmato a Kyoto, ormai tanti anni fa, che ha visto impegnati molti Paesi del mondo, esclusi alcuni Paesi importanti come ad esempio gli Stati Uniti. Quando fecero Kyoto, la condizione del mondo era completamente diversa, per cui c’era l’Europa che era la zona che ancora aveva la maggiore emissione di CO². Oggi il mondo è completamente cambiato, noi contribuiamo all’emissione di CO² come Europa solo per il 15%. Quelli che allora erano considerati Paesi non industrializzati come la Cina, l’India e altri, oggi sono i maggiori emissori di CO² al mondo. Quindi, capite com’è importante in questo momento che arriviamo in quell’occasione con una condivisione forte di tutti i Paesi del mondo, per raggiungere un obiettivo così importante. In questi sei mesi, lavoreremo strettamente su questo, per potere convincere gran parte dei Paesi europei prima di tutto, e poi dei Paesi del mondo, ad arrivare all’appuntamento di Parigi 2015 per sottoscrivere un protocollo globale di tutto il mondo per la riduzione di CO². Attenzione, questo è un passaggio importantissimo, perché se non arriviamo a quello, ciò che mettiamo a repentaglio non è l’economia europea ma la continuazione del nostro pianeta. Vi voglio ricordare le parole di Papa Francesco che dice espressamente: “Se noi distruggiamo il creato, il creato ci distruggerà”. Ecco, io credo che in quella occasione, ciò che mettiamo a repentaglio sia proprio il mantenimento del pianeta e la possibilità che non ci sia più spazio per le nuove generazioni. Credo che questi siano due temi importanti che abbiamo messo al centro della nostra politica.

DOMENICO LOMBARDI:
Volevo soffermarmi sull’ultimo aspetto che lei ha citato nel suo intervento, Ministro, dove noi possiamo introdurre le regole normative che vogliamo ma alla fine, se non riusciamo a raggiungere un’intesa globale sulle tematiche ambientali, per esempio sulla riduzione dell’anidride carbonica, chiaramente rischiamo di essere inefficaci. I BRICS, che è un acronimo tipicamente usato per descrivere le grosse economie emergenti, sono ora responsabili per circa il 64% del consumo di carbone e il 40% delle emissioni di anidride carbonica nel mondo. Quindi, va da sé che se non riusciamo a concordare una strategia con queste economie emergenti, la nostra efficacia risulterà limitata. Però, a imprenditori come il dott. Goldoni e il dott. Fantoni desideravo chiedere la seguente cosa: Come si fa a investire in tecnologie sofisticate che sono necessariamente costose? Come si fa a rispettare le necessarie normative ambientali, se queste economie emergenti non fanno la stessa cosa? In altri termini, c’è il rischio, forse più di un rischio di perdere ulteriormente competitività in una situazione come quella italiana ed europea? Data la vostra esperienza d’imprenditori, che tipo di testimonianza potete portare a riguardo? Dott. Goldoni, comincerei da lei.

MASSIMO GOLDONI:
Grazie. Innanzitutto buongiorno a tutti. Purtroppo è un fenomeno ormai evidente quello che sta avvenendo per quanto riguarda, ad esempio, le macchine agricole. Anche perché io vorrei ricordare che a mio avviso non c’è migliore ecologista dell’agricoltore, per vari motivi, perché è chiaro che dalla terra trae il proprio reddito, il proprio sostentamento e la continuità della propria opera. Quindi, quello che avviene e che sta avvenendo in tutte le economie, è avvenuto in Italia, in Europa e sta avvenendo nelle economie emergenti, è chiaramente e giustamente una progressiva meccanizzazione di quelle che sono le attività agricole, per comportare sempre minore fatica, sempre più efficacia, sempre più redditività e vorrei aggiungere sicurezza e integrità sia delle persone che dell’ambiente. Perché dico questo? Perché noi come costruttori di macchine agricole stiamo seguendo passo passo, e veramente appena un piccolo passo indietro rispetto al settore Automotive, tutta l’evoluzione per quanto riguarda i motori e le conseguenti emissioni nell’atmosfera. Siamo adesso a degli step evolutivi che sono 3, 4, 5, appena dietro a quelli delle automobili. Però tutto questo comporta degli investimenti che sono immani, tanto è vero che anche le aziende automobilistiche con delle economie di scala veramente pesanti fanno fatica a sostenere il costo della ricerca, dell’evoluzione di queste tecnologie. E’ chiaro che noi lo stiamo facendo nella progressione di quella che è una evoluzione tecnologica della quale c’è bisogno, ma è chiaro che dovrebbe essere generalizzato, perché se noi in Italia, in Europa, continuiamo ad investire in questo tipo di evoluzione tecnologica però non siamo di pari passo con tutti gli altri Paesi, gli altri continenti, purtroppo il beneficio di tutto questo che facciamo è assolutamente irrisorio, mentre in tutto il resto del globo continua ad esserci una emissione di elementi inquinanti in atmosfera in modo sproporzionato e spropositato, a danno ovviamente di quei popoli e di quei territori, ma di tutto quanto il globo.
Non solo: se estendiamo il discorso non soltanto alle emissioni dei motori ma ad esempio a trattamenti con antiparassitari, con tutte quelle che sono le varie tecnologie per dare i fertilizzanti, tutto quello che riguarda il fatto di utilizzare delle sostanze chimiche in agricoltura, è chiaro che noi stiamo andando in una direzione di arrivare all’ottimizzazione di quantità e di effetto sul territorio, sull’ambiente e sulla terra, ma questo non avviene in tutte le altre parti del mondo e quindi è chiaro che anche qui c’è uno scompenso di quello che viene immesso in atmosfera, nella terra, nelle acque che sono i tre elementi fondamentali che chiaramente noi dobbiamo preservare. Quindi quello che noi stiamo cercando di portare avanti è un prospetto evolutivo di tutte le nostre attività nel portare a compimento questo passaggio, ma è chiaro che se non è uniforme non ottiene assolutamente risultati. Un dato su tutti: in Italia esistono come parco macchine circolante di trattori, che è un po’ la categoria emblematica del nostro settore, 1.700.000 unità. Noi nell’ultimo anno abbiamo immesso sul mercato 19.000 trattrici nuove. Secondo voi, quanto tempo ci vuole per arrivare a cambiare e a rendere utile, rendere efficacie la tecnologia che abbiamo immesso nelle nostre macchine? Purtroppo questo non è più paragonabile e allora bisogna fare in modo che le risorse che ci sono – perché chiaramente ci sono grandi fondi monetari ed economici che stanno immettendo denaro nell’economia agricola, parlo ad esempio della PAC, la Politica Agricola Comunitaria con i PSR, i Piani di Sviluppo Rurale – vadano anche a migliorare quella dotazione tecnologia di macchine che fanno sì che il nostro agricoltore possa lavorare in modo sicuro, in modo che non impatti sull’ambiente, in modo da avere una redditività, in modo da avere un’efficacia, perché così avrà un prodotto che potrà andare a proporre ed essere competitivo in tutte le economie del mondo e questo gli permetterà di mantenere e di portare avanti la propria attività. L’altro giorno proprio qui c’era Oscar Farinetti, che diceva che noi mettiamo sul mercato 1 kg di Parmigiano Reggiano a 8 euro. L’agricoltore, l’allevatore che ha fatto questo Parmigiano Reggiano ha lavorato a dir poco 24 o 36 mesi prima per ottenere questo risultato e lo andiamo a mettere nella distribuzione allo stesso prezzo di un Emmenthal o di un formaggio che dopo un mese è sul mercato. Tra l’altro, vorrei ricordare, visto che vengo dalla provincia di Modena e sono a cavallo della provincia di Modena e di Reggio, che il Parmigiano Reggiano, se non viene fatto in quel territorio, con quella erba medica, con quel tipo di bovini e con tutto quello che ne consegue, non viene, perché l’insieme di quel microclima, di quell’embrione di territorio fa sì che venga un prodotto di altissima eccellenza ma che non siamo in grado di promuovere nel modo adeguato in tutto il mondo.

PAOLO FANTONI:
Io vorrei dare una risposta un po’ più sistemica. Nel nostro Paese la politica industriale manca da almeno trent’anni, ma certamente pensando al globo e alla crescita della competitività della concorrenza internazionale, è necessario che ognuno di noi imprenditori ragioni nei termini di una costruzione di strategie vincenti che a mio modo di vedere, nella filiera legno e arredo in Italia, ci consentono di ragionare in via sistemica sul fatto che in Italia abbiamo ancora dei plusvalori e degli elementi positivi su cui costruire una strategia vincente nel futuro. La nostra filiera non a caso dimostra, pur nella sofferenza del mercato domestico, di essere ancora la filiera che a livello europeo può vantare il fatto di considerarsi il primo esportatore di mobili europei, siamo secondi a livello mondiale, ma certamente questo trova ancora nel territorio nazionale degli elementi legati alla capacità manuale, alla capacità artigianale, alla capacità industriale e anche al mondo della bellezza e al sistema della filiera costruito attorno al salone di Milano, alla Federazione, alle associazioni territoriali, un sistema attraverso il quale costruire dei punti di forza che ci consentono di valorizzare il nostro prodotto sul mercato internazionale con due strategie molto precise. Innanzitutto, vendere la qualità italiana nel mondo o raggiugere elevati livelli di efficienza produttiva.
Nei confronti con i problemi dell’ambientalismo e della sostenibilità delle produzioni, il discorso è molto ampio ma dobbiamo riconoscere, rifacendoci a quanto diceva il Ministro prima, che anche il nostro settore è stato pronto ad adeguarsi. Pensiamo al fatto che l’Italia è il Paese al mondo in cui il sistema del riciclo, del recupero del legno è il più efficiente, che ha sviluppato a seguito del Decreto Ronchi il più importante sistema di riciclaggio, ma che a valle ha generato un’industria del pannello che è la più efficiente, che ha sviluppato tecnologie nuove che stiamo esportando nel mondo e che ci consentono di avere un pannello a costi competitivi, molto competitivi, più competitivi di chi utilizza il legno vergine; e insieme di esprimere un valore forte, ancora probabilmente non totalmente utilizzato dai nostri mobilieri, che è il fatto che la nostra industria può vantarsi di essere la più sostenibile al mondo nella produzione dei mobili. E’ una valenza di marketing che non abbiamo ancora utilizzato. La visione e l’aspettativa è quella di andare nella direzione di una economia circolare che oggi però è interrotta, di fatto, anche da determinate volontà comunitarie. Il fatto che stiamo offrendo sussidi alla combustione del legno nella generazione di energie rinnovabili, purtroppo a mio modo di vedere rappresenta un grande errore nella logica di quello che dovrebbe essere l’economia circolare. Noi vorremmo pensare che il legno possa essere usato, riusato, riciclato e solamente in ultima analisi portato in combustione. Questo oggi non esiste e stiamo fermando le nostre fabbriche di produzione di pannelli per mancanza di materia prima, il legno. Allora noi siamo anche a chiedere, a un certo punto, una revisione forte delle politiche dei sussidi alla produzione di energia di biomasse, proprio perché riteniamo che la massimizzazione della costituzione del valore aggiunto nel territorio passi attraverso il fatto di premiare il riuso del legno e non una immediata combustione. Questo è uno dei messaggi che oggi ci sentiamo di portare in maniera forte e che auspichiamo venga recepito in qualche modo da un audience che invitiamo a meditare su queste problematiche.

DOMENICO LOMBARDI:
Dott. Cerino, nel presentarla dicevo che lei è l’Amministratore di un’azienda sanitaria specializzata altamente innovativa e allora vorrei chiederle come si fa a coniugare ecologia ed economia e allo stesso tempo fornire servizi innovativi.

FABRIZIO CERINO:
Risponderò subito a questa domanda, però mi piaceva molto la domanda di prima… Scherzo, sarò molto veloce. Il tema della competitività tra aziende su mercati globalizzati, aziende che rispondono a regole diverse o comunque Paesi dove le regole sono diverse, è sicuramente cosa molto interessante e complicata. Mi piace sottolineare che la mia azienda multinazionale ha più difficoltà a competere in Italia che non negli altri Paesi europei. Voglio dire che ci siamo soffermati a discutere con il Ministro a tavola sulla questione dell’evoluzione della cultura o della consapevolezza del problema di ecosostenibilità. Sicuramente tutti sono consapevoli ormai che è necessario avere dei comportamenti ecosostenibili. La cultura oggi non c’è e non c’è neanche però la cultura all’interno delle aziende, diciamo la cultura generalizzata.
Voglio fare anche degli esempi pratici. In Italia, quando la nostra azienda si trova a competere con altre anche in processi di gara, non vede premiata la disponibilità, la volontà dichiarata, anche con dei fatti concreti, di svolgere un’attività rispettosa dell’ambiente. Nei capitolati di gara non esiste nessun punteggio di “qualità addizionale” per chi è rispettoso della legge. Cosa che invece esiste negli altri Paesi. Questo vuol dire che evidentemente la cultura in altri Paesi è molto più avanzata. Quindi, se andiamo a vedere nella letteratura quotidiana attuale, non c’è una vera e propria definizione di cosa sia “green”. Per quanto ci riguarda, è una serie di iniziative, di azioni, di atti che consapevolmente mettiamo in atto e che a nostro avviso vuole dire “green”, cioè vuole dire risparmiare risorse di produzione, ecc. In realtà, per competere su questo tavolo e fare sì che questo sia un punto di vantaggio per le nostre aziende, è necessario che non ci sia una interpretazione autoreferenziale di cosa sia “green”, sarebbe necessario probabilmente che ci fosse una definizione molto più esatta di che cosa il nostro Governo, l’Unione Europea ecc. richiedano in temi di parametri per essere “green”. La difficoltà di operare in questo contesto è enorme per quanto riguarda un’azienda come la nostra: e veniamo sicuramente alla domanda che mi hai posto. Non c’è dubbio che economia ed ecologia fossero in contrapposizione. In realtà, dall’esperienza della nostra azienda questo non è affatto vero. Innanzitutto bisogna dotarsi della cultura dell’ecosostenibilità, quindi qualunque azione in azienda viene posta in essere deve essere fatta tenendo in evidenza, sempre presente la luce accesa dell’ecosostenibilità, una cosa la faccio o non la faccio soltanto se è ecosostenibile. E’ evidente che qualsiasi imprenditore sarà maldisposto ad effettuare un investimento se questo investimento ha un “più” sull’ecosostenibilità, cioè se questo investimento aiuta l’ambiente, però poi non è economico, o meglio, è antieconomico.
Qualunque scelta che deve essere fatta, deve tenere conto anche del cosiddetto “pay back” dell’investimento, cioè in quanti anni questo investimento mi ritorna. L’esperienza della nostra azienda è che il connubio tra investimento, economicità degli investimenti, ecosostenibilità, funziona perfettamente. Per darvi degli esempi numerici, voglio dire che il settore di cui ci occupiamo, quindi la cura biomedicale dei pazienti affetti da insufficienza renale cronica, è costituto da circa 2 milioni di pazienti al mondo e peraltro nel 2025 è previsto che questo numero di pazienti sia raddoppiato. Ogni anno questo determina un consumo di 150 miliardi di litri di acqua, consumiamo circa un miliardo e mezzo di chilowatt ore, quindi impatto sull’acqua e sull’energia. E poi, come effetto di questo processo, al di là della cura del paziente, produciamo uno miliardo e mezzo di litri di rifiuti speciali mentre non hanno queste dimensioni neanche, probabilmente, nelle terra dei fuochi. Socialmente, noi non possiamo non preoccuparci di utilizzare così tante risorse e rischiare di inquinare l’ambiente in maniera così importante, ma le tecnologie che oggi esistono sicuramente nel nostro settore sono tecnologie che determinano dei risparmi: riducono il consumo di acqua, riducono il consumo di energia e producono una quantità inferiore di rifiuti speciali. Abbiamo visto che c’è un “pay back” inferiore ai dieci anni. Per qualunque imprenditore presente in sala, vuol dire accendere una luce verde sull’investimento. Vuol dire che ci troviamo in un contesto dove qualsiasi imprenditore può assolutamente sostenere che l’investimento sia fattibile nell’interesse, prima della comunità, poi del socio dell’azienda.

DOMENICO LOMBARDI:
Ieri pomeriggio ero alla presentazione del libro del professore Vittadini sull’Europa e lui diceva che in Europa, e particolarmente in Italia, c’è ricorrente questo tema della centralità della famiglia ma poi il sistema fiscale, di fatto, non premia questa centralità e alla fine diventa una retorica. E vorrei prendere spunto da questa osservazione per chiedere ai relatori, cominciando dal Ministro – parliamo di rispetto dell’ambiente, di ambiente come fonte di crescita, come fonte di occupazione, come fonte di nuovi investimenti -, ma cosa fa il sistema fiscale italiano per premiare quelle imprese che sono dal punto di vista ambientale più virtuose? E sempre su questa linea, vorrei anche aggiungere: a che punto siamo nella predisposizione di criteri di efficienza energetica come criterio nell’assegnazione di appalti pubblici, per esempio, o nell’acquisto di servizi prodotti, offerti e acquistati dalle amministrazioni pubbliche? E vorrei cominciare dal Ministro, e poi chiedere agli altri relatori e imprenditori di portare la loro testimonianza su queste tematiche che naturalmente sono alla fine estremamente delicate per la vita aziendale e per i settori che rappresentano.

GIAN LUCA GALLETTI:
Rispondo, però prima vorrei fare due considerazioni stimolate anche dagli interventi prima. Abbiamo parlato di Europa, abbiamo parlato di problemi globali, proviamo a parlare anche un po’ di noi, del nostro Paese. Ne vorrei parlare sia come Ministro dell’Ambiente sia come esponente del governo Renzi. È chiaro, l’hanno ribadito gli imprenditori che hanno parlato prima di noi, che noi abbiamo un problema di competitività: come lo risolvi? Se noi avessimo molte risorse a disposizione, sarebbe tuto più semplice. Io credo che sia possibile riportare il nostro Paese a un livello buono di competitività anche in un momento di scarse risorse. Cioè, noi utilizziamo spesso la scusa della mancanza di risorse per non fare altre cose. Allora, ci sono provvedimenti che servono per la competitività che sono a costo zero. Mi riferisco in particolare alle riforme. Oggi la parola “riforme” è diventata anch’essa la panacea di tutti i mali. Chiunque di noi, intervistato, dice: “facciamo le riforme” e si mette l’anima in pace. La politica risponde così oramai da vent’anni. Cosa sono queste benedette riforme, alla fine? Che cosa serve a questi imprenditori seduti a questo tavolo per poter ritornare competitivi? Guardate, servono poche cose! Io ho incontrato molti imprenditori, medio, piccoli, grandi, vengo dall’Emilia Romagna quindi medio-piccoli moltissimi, che cosa mi chiedono? Mi chiedono di avere meno regole, più chiarezza e leggi più chiare. In pochi mi chiedono soldi. Mi chiedono: “Fatemi fare il mio lavoro! Fatemi fare il mio lavoro bene!” e per questo ci chiedono di avere meno vincoli anche in campo ambientale. Dopo vi farò degli esempi. Mi chiedono leggi più chiare, fatte meglio, e mi chiedono meno leggi.
Allora le riforme vuole dire prima di tutto avere un sistema per fare le leggi, un sistema legislativo migliore di quello che abbiamo. La riforma della Costituzione vuole dire questo, non è abolire il Senato come bandierina da sventolare. Abolire il Senato vuole dire rendere meno complesso il sistema legislativo e vuole dire, non tanto spendere meno, anche quello, ma poter fare delle leggi in maniera più veloce, e leggi migliori. Guardate che non è cosa da poco perché noi rischiamo ogni tanto di fare delle leggi avendo tempi così lunghi che quando facciamo la legge è già vecchia. Quando quella legge arriva, è già superata! E abbiamo un sistema così complicato: io ho fatto il legislatore per alcuni anni e vi assicuro che con quel sistema avere delle leggi chiare e buone è impossibile. Perché una legge che deve passare attraverso due commissioni parlamentari, anzi, spesso tre o quattro perché ogni ramo del Parlamento la sottopone a più di una Commissione, alla Camera e al Senato, alla fine viene per forza una legge pasticciata, una legge incomprensibile, una legge non adatta a quello che gli imprenditori chiedono. Allora, abolire il Senato vuol dire rendere il sistema più idoneo a fare delle leggi chiare, non solo, ma andare intorno alla Costituzione e rivedere il Titolo V della Costituzione, vuole dire una volta per tutte, in questo Paese, stabilire chi fa cosa. Guardate che non è roba da poco! Stabilire una volta per tutte chi fa cosa vuole dire rendere il sistema più semplice per chi fa imprese e per chi lavora in questo Paese, per chi vive in questo Paese. Sapere che il responsabile di quella funzione è il tal livello di governo renderebbe tutto più semplice. Nel mio settore, quando io faccio una cosa, la devo confrontare con una legge regionale, che non sempre recepisce quello che io dico. Dopo di che c’è l’attuazione che viene fatta dal Comune, dalla Provincia, dalla comunità montana, da tutti gli enti intermedi: e in più ci mettete tutte le agenzie che a titolo diverso intervengono in quel sistema. È possibile? È possibile fare impresa in un sistema di questo genere? È chiaro che non è possibile, perché avremmo tante norme differenziate da territorio a territorio, con una confusione che diventa incomprensibile per l’imprenditore.
Allora, rivedere il titolo quinto e per esempio riaccentrare le competenze dell’ambiente in capo allo Stato, non vuole dire non essere federalista. Anzi, vuole dire essere federalista perché vuole dire avere un responsabile di quella determinata funzione, e io sono pronto ad assumermi la responsabilità di quella funzione se ce l’ho fino in fondo, dall’inizio alla fine. Perché il cittadino deve sapere che se sono bravo avrò il suo voto, se sarò una frana, per utilizzare un termine che va bene per un Ministro dell’Ambiente, non avrò più il suo voto, perché io sono il responsabile di quella funzione. Allora, fare le riforme vuole dire prima di tutto questo: risistemare il nostro apparato legislativo. E oggi questa è una condizione preliminare per la ripresa del nostro Paese. Io credo che avere approvato la riforma della Costituzione al Senato in tempi brevi sia un grandissimo passo in avanti per questo Paese. Non c’è solo questo problema, c’è il problema della giustizia, e il 29 porteremo questa riforma al Consiglio dei Ministri, c’è lo sblocco-Italia, il problema di mandare avanti delle grandi opere che sono finanziate, per cui non riusciamo a spendere le risorse che sono impegnate perché abbiamo troppi vincoli anche del mio Ministero. Penso alle terre, e rocce, scavo, che bloccano i lavori della Bologna-Firenze, no? Penso a tante cose.
Allora dobbiamo intervenire per rendere più semplice al Paese poter spendere quelle risorse che abbiamo. Sul sistema idro-geologico, abbiamo due miliardi e 300 milioni fermi che non siamo riusciti a spendere e rischiamo di perdere perché in parte sono fondi europei. Allora dobbiamo spenderli, quei soldi. È un problema di risorse? No! È un problema di spendere le risorse che già abbiamo, per rimettere in moto un Paese si inizia da lì. E il mio settore in questo particolare momento e frangente ha una funzione fondamentale. E ripeto quello che dicevo prima. Il mio Ministero non deve essere il Ministero del vincolo. Io sono il miglior amico del Ministro Guidi, dello Sviluppo Economico e dell’Agricoltura, perché insieme possiamo fare buona agricoltura e buona impresa. Ed è questa la nuova concezione che noi dobbiamo dare. E abbiamo fatto, perché nel decreto ambiente protetto che abbiamo approvato prima della chiusura estiva dei lavori, molte norme di semplificazione ci sono. E qui voglio dire una cosa con chiarezza. Noi dobbiamo applicare tutte le normative europee ma non dobbiamo più andare oltre i vincoli che le normative europee ci danno. Questo in campo ambientale è essenziale. Quando l’Unione Europea fa una normativa, la fa seguendo due criteri, la scienza da una parte e il criterio di prudenza dall’altra. Se noi a quei vincoli andiamo ad applicare ulteriormente un criterio di prudenza, escludiamo che nel nostro Paese certe imprese possano operare. Perdiamo il principio della concorrenza. È come se li spingessimo ad andare a fare impresa in altri Paesi perché, se aumenti quei vincoli, il migliore imprenditore, il più disponibile possibile, non può fare impresa perché quei vincoli sono insormontabili. Abbiamo iniziato e continueremo su questo. Un’ultima cosa voglio dire. Si è parlato oggi qui di un piano industriale Paese, lo voglio dire ai giovani. Se devo immaginare su che cosa sarà la competizione dei Paesi nel nuovo mondo, in quello che verrà dopo la crisi, me la immagino su tre settori: formazione, quindi istruzione, ricerca, e ambiente. Questi sono i settori nei quali da oggi dobbiamo investire. Dobbiamo investire in istruzione, perché i Paesi che saranno più avanzati nell’istruzione saranno i Paesi che cresceranno di più: possiamo spendere qualsiasi cifra nell’istruzione ma il costo dell’ignoranza è sempre superiore, sempre, e lo pagheremo sempre più di quello che avremo di ritorno dai soldi che mettiamo nell’istruzione. Ricerca: è chiaro che le tecnologie saranno la condizione primaria sulla quale i Paesi si divideranno. I Paesi che avranno investito più in ricerca e saranno avanti più in ricerca saranno quelli che avranno la tecnologia migliore e sapranno competere di più. Ambiente: l’ambiente ha bisogno della tecnologia e sarà indispensabile perché avremo sempre più scarsità di materie prime. E sempre di più avremo bisogno di tecnologia adatta all’ambiente per risparmiare risorse, che costeranno di più perché diventeranno più preziose.
Io vedo qui gli amici del Banco Alimentare. Loro hanno incominciato a parlare di spreco alimentare quando nessuno ne parlava. Questo ci deve insegnare due cose. Uno, oggi tutti parlano di spreco alimentare. In Europa a giugno è stata emanata una bozza di direttiva che richiama tutti i Paesi ad applicare norme severe sullo spreco alimentare: e io la condivido. Ci deve insegnare due cose, questa esperienza. Una fa parte del piano industriale che dicevo. Chi parte prima sa vedere lungo e alla fine si prepara in maniera più adeguata. E il secondo, che la sussidiarietà paga. Noi, chi governa, deve apprendere di più dalle esperienze della società civile. Spesso i migliori consigli, le migliori pratiche, vengono proprio da lì. Anche nella nuova politica ci vuole più sussidiarietà e più attenzione alla società civile.

DOMENICO LOMBARDI:
Volevo rimanere su questo tema della competitività che abbiamo cominciato ad affrontare. Partendo dal dottor Goldoni, come il sistema fiscale italiano premia, incentiva o magari disincentiva le imprese che sono più virtuose dal punto di vista ambientale? Quali sono i grossi vincoli, le problematiche che vedete? E poi, alla fine di questo giro, ridarei la parola al Ministro che è anche esperto in materia fiscale e quindi potrà concludere, se lo vorrà. Dottor Goldoni.

MASSIMO GOLDONI:
Purtroppo in questo momento le aziende e gli imprenditori di tutti i tipi, agricoli e non solo, che investono, che portano risorse, che mettono il loro impegno nella sostenibilità, nell’attenzione verso l’ambiente, sono ancora scarsi, anzi, a volte vanno nella direzione esattamente opposta. Mi riferisco ad esempio a tutto quello che riguarda l’aspetto bio-energetico e alle rinnovabili. Ho sempre detto che quando ho cominciato a vedere nei campi, al posto di frumento, granoturco o quant’altro, pannelli fotovoltaici, c’era qualcosa che non andava. Questi investimenti non li ha fatti di sicuro l’agricoltore ma li ha fatti la banca. Quindi, vuole dire che qualche cosa di sbagliato c’era, adesso è stato corretto, però intanto abbiamo fatto un sacco di pannelli fotovoltaici delle aziende cinesi e le aziende italiane, invece, che hanno una tecnologia molto più elevata, hanno fatto più fatica a sviluppare le loro tecnologie e la loro produzione. Quello che dico io, però, tornando al mio ambito, che conosco meglio, è che noi dobbiamo riuscire a creare le condizioni affinché chi investe sia incentivato a lavorare in questa direzione. Abbiamo tutte le competenze e tutte le capacità, non abbiamo niente da imparare neanche dai colleghi tedeschi piuttosto che americani, perché siamo avanzati in tutto, a livello imprenditoriale e a livello di ricerca, a livello scientifico, a livello di innovazione. Dove facciamo fatica è nel mettere a sistema tutto questo perché non c’è il collegamento.
Prima parlavi di formazione, il Ministro giustamente ha detto che la formazione può creare condizioni per i giovani. Noi dobbiamo rimettere in grado i nostri studiosi, le nostre aziende di essere in un qualche modo premiati ed agevolati. E in questo senso, anche qui, torniamo a fare un discorso che ha appena accennato il Ministro. Le risorse ci sono, ad esempio per quanto riguarda le biomasse di origine agricola: tutto quello che una volta era lo scarto e quindi un costo, può diventare effettivamente una risorsa. Tutti gli sfalci di potatura, tutti gli altri residui delle lavorazioni agricole, tutto quello che incideva negativamente sull’emissione nell’atmosfera di sostanze negative, adesso può essere messo a sistema da un’azienda agricola moderna che possa sfruttare la parte che prima diventava un peso per un ulteriore sviluppo delle proprie attività. Dobbiamo addentrarci sempre di più in questa strada facilitando il compito a queste aziende. E noi, come Ente Nazionale Meccanicizzazione Agricola, che ha partecipato anche a un progetto del Ministero delle Politiche Agricole Forestali, abbiamo gestito un bando molto importante sulla realizzazione di piccole centrali a biomasse che hanno come bacino di raccolta delle realtà abbastanza contenute di diametro, perché chiaro che per un’azienda sola difficilmente diventa remunerativo. Ma se mettiamo a sistema diverse aziende agricole nella stessa area, che fanno confluire in questa centrale a biomasse i propri scarti e le proprie materie, che possono in un qualche modo generare energia, ecco che creiamo un circuito virtuoso che a caduta ha tutta un’altra serie di aspetti. E non solo. Parliamo di macchine, quindi macchine operatrici, macchine che in qualche modo servono a irrorare, a coltivare, a fare tutte le lavorazioni dei cicli produttivi agricoli. Ma perché non incentiviamo il fatto che chi compra una macchina di livello ha dei vantaggi? Lo vediamo sui frigoriferi: quando andate al supermercato, c’è aaa+, perché non lo facciamo anche su una macchina agricola, in modo che l’agricoltore che la compra sia incentivato? Altrimenti, la macchina costa di più, e quindi è chiaro che a quel punto preferisco la macchina che non ha queste caratteristiche, o addirittura, peggio ancora, la macchina che viene da Paesi che potete immaginare, che non hanno neanche i requisiti minimi di sicurezza. E quindi metto in circuito una macchina pericolosa, inquinante, che in qualche modo danneggia l’impresa italiana e la competitività delle nostre aziende, il nostro tessuto produttivo.
Quindi, per il discorso di creare le condizioni, secondo me siamo sulla buona strada ma c’è ancora tanto da fare. Anche la semplificazione che citava giustamente il Ministro: non possiamo andare avanti con una frammentazione come quella che c’è perché i fondi europei poi vanno nelle singole Regioni, abbiamo 20 PDR diversi con i quali doversi consigliare. Dobbiamo essere più efficaci, più veloci, più incisivi: se un agricoltore impiega 180 giornate all’anno a riempire delle scartoffie, è difficile che abbia una reddittività buona. Stessa cosa per le aziende. Se noi impieghiamo tutto il nostro tempo a fare attività burocratiche, manteniamo un meccanismo che però non è più adeguato ai tempi di oggi. Non siamo più competitivi. E quindi quello che secondo me è importante è agevolare, creando le condizioni per cui la gente sia stimolata ad andare in queste direzioni. Parliamo di territorio, il nostro territorio è fantastico ma delicatissimo, va protetto, va tutelato, con la prevenzione, soprattutto. Bisogna utilizzare le macchine, le tecnologie adeguate per tenere puliti gli alvei dei fiumi, per fare tutte le attività di messa in sicurezza. Le macchine operatrici, le macchine a movimento terra, dovrebbero essere una dotazione che ogni comunità, soprattutto montana, abbia a disposizione per poter intervenire prima che succedano i disastri, perché altrimenti saremo sempre a fare la conta dei danni. E attenzione bene, i danni sono sempre e sicuramente più onerosi per tutta la collettività di quello che sarebbe un investimento a monte. Siamo un’eccellenza nel mondo, siamo apprezzati a tutte le latitudini del mondo, siamo i secondi, dopo gli Stati Uniti, come volume. In Italia dobbiamo riuscire a far sì che questa nostra eccellenza rimanga un’eccellenza e che possa in qualche modo fare da traino e da volano a tutte quelle che sono le altre attività che inevitabilmente sono collegate, comprese quelle di altre filiere industriali e di attività di tutti i tipi.

PAOLO FANTONI:
Relativamente alla fiscalità, alle politiche di bilancio, credo che non siano tempi in cui le imprese possano chiedere e che quello che ho detto prima possa essere inteso nella direzione di un vantaggio fiscale per lo Stato, con la eliminazione di sussidi alle biomasse. Ma al di là di questo, un ragionamento che volevo fare sulle politiche fiscali parte da quello che, all’interno della nostra federazione europea, consideriamo un po’ un paradosso o un equivoco, nato proprio nel momento in cui è stato concepito il protocollo di Kyoto. Il protocollo di Kyoto, la spinta a produrre energie rinnovabili, aveva un fondamento tecnico legato al fatto che la combustione del legno veniva sostanzialmente ritenuta neutra nell’emissione della CO2. Cioè si guardava la genesi della pianta che aveva assorbito CO2 nella sua crescita e riemetteva nel momento della combustione il CO2 generando un cosiddetto bilancio netto. Questo tipo di presupposto, di principio, deve essere visto in maniera diversa, dobbiamo superare questa posizione. La nostra posizione è dire che, nel momento in cui noi bruciamo il legno, nella realtà noi liberiamo CO2 al pari dei combustibili fossili. Questo tipo di condivisione di principio, a nostro modo di vedere, è invece di guardare al legno come il materiale, la materia principe del futuro, perché il legno è effettivamente l’unico materiale che ha la capacità di incorporare CO2: più riusciamo a tenere all’interno della società civile manufatti in legno, più andiamo a concentrare la presenza di CO2. Da qui, sappiamo che in Comunità Europea già si sta iniziando a guardare con questi occhi al mondo del legno, andando a guardare il fatto che la carta mediamente rimane in vita, anche riciclata, per circa due anni, che un pannello truciolare mediamente rimane in vita per vent’anni, che una casa fatta in legno rimane mediamente trenta, trentatré anni, e si può a questo punto andare a stimare un meccanismo premiante di certificati sullo stoccaggio del CO2 che, a nostro modo di vedere, deve rappresentare un modo attraverso il quale guardare all’economia del futuro con un’ottica di premio di tutto quello che è fatto in legno, chiaramente a scapito di altri materiali perché riteniamo che confrontare il legno con l’alluminio, con la plastica, con il ferro, eccetera, abbia per l’economia del legno moltissimi valori premianti in termini di risparmio energetico e soprattutto in termini di stoccaggio della CO2. Per cui, se dobbiamo pensare a meccanismi premianti per la fiscalità del futuro, il mio appello è pensare che anche in Italia questo tipo di visione venga condivisa e non venga alla fine a essere trasferita in un meccanismo dove semplicemente le contabilità generali dello Stato sono premiate rispetto alle contabilità degli altri Stati europei in termini di valori, di stoccaggio CO2, ma che i vantaggi di questi certificati positivi su CO2 legati al legno diventino qualcosa di fattivo, che tocca concretamente il portafoglio delle aziende e dei consumatori. Fare sì che questo meccanismo non rimanga soltanto qualcosa relativo alla contabilità Paese ma diventi un meccanismo attraverso il quale determinare un cambiamento del modello dei consumi della popolazione.

FABRIZIO CERINO:
L’esperienza personale della mia azienda riguardo alla fiscalità o ai vantaggi fiscali derivanti da comportamenti ecosostenibili è molto semplice, cioè è nulla. Gli elementi della produzione che utilizziamo sono sostanzialmente acqua ed energia, produciamo rifiuti e non c’è volta, nel corso di questi anni, in cui io non abbia cercato di individuare nei cavilli legislativi, o negli incentivi legislativi presenti, passati o futuri, la possibilità di usufruirne. Non ci sono mai riuscito, un po’ perché non c’erano, un po’ perché erano talmente complessi e complicati da realizzare che avrei dovuto assumere un ingegnere statistico per cercare di averne un vantaggio diretto. Anzi, devo dire la verità, in certe occasioni ho avuto l’impressione, nei comportamenti sclerotici di alcune pubbliche amministrazioni, che risparmiare fosse visto quasi come un danno. Non voglio farvi ridere, vi racconto un episodio banalissimo. Noi abbiamo investito e investiamo in impianti di produzione di acqua osmotica, dobbiamo depurare l’acqua ai massimi livelli per poter poi depurare il sangue dei pazienti e queste macchine producono acqua, utilizzando acque dalla rete idrica.
Noi investiamo in tecnologie per fare in modo che venga realizzato il cosiddetto Acqua Saving: cioè che quest’acqua che viene scaricata, venga in qualche modo recuperata. Questo determina un grosso recupero di acqua. In un luogo che non vi racconto, ci siamo trovati, impiantando queste nuove tecnologie, ad avere un risparmio del 50% di metri cubi di acqua. Era un luogo in cui avevo un gruppo di ambulatori, probabilmente ero uno dei principali pulenti dell’acquedotto di quella zona. Sapete quale è stata la conseguenza? A un certo punto ho avuto una visita ispettiva perché qualcuno riteneva che io rubassi l’acqua altrove: non si spiegavano perché avessi ridotto del 50% il consumo. Il pensiero principe della pubblica amministrazione non è stato: “Fammi capire cosa hai fatto, cerchiamo di capire come sviluppare questa tecnologia altrove”, no! L’idea è stata: “C’è qualcosa che non funziona”. Mi rendo conto che è un esempio banale, non è la generalità, però torno al discorso di prima, la cultura è questa, prendere un’esperienza e portarla in giro come elemento virtuoso. L’esperienza della fiscalità, ripeto, è pessima. Anche per i pannelli solari, per la produzione di energia attraverso i pannelli solari, il famoso pay back è scarso.
Chiudo perché capisco che abbiamo dei tempi ristretti. Ho due semplici considerazioni per riallacciarmi a quello che è stato detto prima. Noi parliamo come aziende private, quindi investimenti, ritorno dell’investimento, risparmio del danaro, eccetera; in realtà, nella sanità, che è il settore di cui mi occupo, per il 95% in Italia le cure sono demandate alla pubblica amministrazione. E siccome noi aziende private abbiamo dimostrato di avere dei comportamenti ecosostenibili, di far risparmiare del danaro, se questo comportamento l’avessero le aziende sanitarie pubbliche, certo risparmieremmo questo denaro. E in un periodo come quello attuale, dove si parla di spending review, è evidente che questa cultura va innanzitutto impressa verso quella direzione. Negli Stati Uniti hanno calcolato che nei prossimi cinque anni un’applicazione di comportamenti ecosostenibili nel comparto ospedaliero farà realizzare o risparmiare cinque miliardi e mezzo di euro. Ora, con le dovute proporzioni, probabilmente mezzo miliardo di euro alla nostra pubblica amministrazione riusciremmo a tirarli fuori. Grazie.

DOMENICO LOMBARDI:
Concluderei questo giro sulla fiscalità con l’intervento del Ministro. Non solo la fiscalità come modo per premiare le imprese ambientalmente virtuose ma anche come modo per premiare queste imprese nella aggiudicazione di appalti pubblici e in tutti i servizi e prodotti offerti e acquistati dalle amministrazioni pubbliche. A che punto siamo, quali sono le prospettive e i progetti in cantiere?

GIAN LUCA GALLETTI:
Grazie ma penso che non passerò alla storia del Meeting per parlare della fiscalità nell’ambiente. Non è una critica alla domanda ma è un argomento un po’ complesso. Però, guardate, è uno degli argomenti che mi preoccupa di più, perché c’è un articolo nella delega fiscale, l’articolo 5, che ci impone di rivisitare tutta la fiscalità in ambiente. Allora, io vengo da quel mondo, sono un fiscalista, purtroppo, non riesco ad inquadrare la fiscalità in ambiente. Distinguiamo la fiscalità dagli incentivi, che sono due cose diverse. Tutto il mondo si rifà a una frase molto breve, che va molto di moda ai convegni. Quando ti fanno una domanda sulla fiscalità, si risponde: “Chi inquina, paga”. A me questo non piace per due ragioni: uno, perché lo trovo moralmente inaccettabile. Posso inquinare se pago? No! Se inquini hai una sanzione, anzi, se inquini molto vai anche in galera, non è che paghi e sei a posto. Due, non risponde a nessun concetto naturale dell’imposta, perché quella è un’imposta, se ci pensate, che se tutti diventano virtuosi io non incasso più, se tutti smettono di inquinare, quel filone di imposte va a zero.
Allora l’imposta, poveraccia – a voi non piacerà, c’è purtroppo a chi piacciono anche le imposte ma sono studiosi, perché pagarle non piace a nessuno, come studiosi le studiano – ha una natura e risponde ad alcune regole. Chi colpisce l’imposta? Colpisce la ricchezza, colpisce il patrimonio o colpisce la produzione di reddito: se vado fuori da questo schema non riesco più capire cos’è. Che cosa stiamo facendo? Una ricognizione in tutt’Europa su come trattano la fiscalità ambientale, dopo di che penso che questo problema dovrà essere affrontato a livello europeo, se no qui capita un disastro: se ogni Paese europeo va avanti per criteri propri, fra un po’ ci ritroviamo di nuovo con una competitività differenziata da Paese a Paese. Questo è un tema serio che va affrontato con molta competenza e con molta specificità, altra cosa sono gli incentivi. Allora, sugli incentivi faccio una prima considerazione: prima di introdurre alcuni incentivi, bisogna verificare se in Italia c’è una filiera produttiva in grado di usufruirne. Questo si chiama protezionismo? No. Io dico solo che se diamo un incentivo a una filiera produttiva, voglio almeno che ci sia una filiera produttiva italiana che può competere con le altre europee; poi, se le altre vincono, brave loro! Voglio qualche italiano che possa competere, casomai provo a dare gli incentivi a quelle filiere produttive dove so che sono più attrezzato per competere con gli alti Paesi. Dico questo perché, se no, rischiamo quello che sottovoce diceva Goldoni prima, che in certi casi abbiamo dato l’incentivo e tutto l’incentivo è andato a finanziare prodotti di altri Paesi. Allora, non dico che devono finanziare per forza prodotti del nostro Paese, però voglio che ci sia una filiera produttiva che può competere con le altre. Attenzione agli incentivi, perché gli incentivi si scontrano con una normativa europea molto rigida, perché spesso vengono interpretati come aiuto di Stato.
Detto questo, io credo che l’incentivo serva ma lo dico non perché ho idee strane, lo dico perché l’esperienza ci insegna questo. Facevo riferimento all’eco bonus che abbiamo dato per le ristrutturazioni: oggi posso dire che quello è stato un vantaggio per il nostro Paese. Con le eco ristrutturazioni abbiamo incassato più imposte di quello che abbiamo dato: hanno prodotto talmente tanto lavoro che alla fine le imposte su quell’aumento di fatturato hanno prodotto un gettito per lo Stato superiore all’incentivo che abbiamo dato. Questo è un dato positivo che ci deve insegnare che, se l’incentivo è fatto bene, è dato in maniera giusta, può produrre fatturato, posti di lavoro e anche risorse per lo Stato. Per quanto riguarda gli appalti pubblici, noi insisteremo molto su questo. Abbiamo un provvedimento che va all’esame del Parlamento, dovrebbe andare all’esame della Camera entro la fine di settembre, è il collegato ambientale della scorsa finanziaria, della scorsa legge di stabilità, dove ci sono norme molto importanti per introdurre degli standard qualitativi ambientali molto forti negli appalti pubblici. Credo sia una direzione in cui sta andando tutta l’Europa: se riusciamo ad approvarlo, siamo liberi in Europa in questo settore. Ci crediamo molto.

DOMENICO LOMBARDI:
Volevo toccare un tema che il Ministro aveva sollevato poco fa, quello della ricerca, degli investimenti in formazione. In Italia solo il 20% dei giovani si laurea, è un numero inferiore rispetto a quello di economie leader come gli Stati Uniti, ma anche Germania e Francia. Se andiamo a vedere gli iscritti alle facoltà scientifiche, questo numero risulta in ulteriore arretramento negli ultimi vent’anni, quindi non è un dato recente. Se a questo aggiungiamo il fatto che spesso parlare di sistema industriale in Italia significa parlare di piccole e medie imprese, allora la domanda che vorrei rivolgere ai nostri colleghi imprenditori è: come fanno le piccole e medie imprese ad acquisire capitale finanziario in un contesto in cui già è difficile acquisirlo per la normale attività di investimento? Come fanno ad acquisirlo e soprattutto come fanno a ritenere personale sempre più specializzato, sempre più competitivo, magari anche a livello internazionale, dato lo scarso livello di offerta e dati anche i limiti che il sistema dimensionale delle imprese italiane pone?

MASSIMO GOLDONI:
In effetti, credo che questo sia il problema, nel senso che noi abbiamo dei livelli universitari, accademici, di centri di ricerca, di altissimo valore, con i quali collaboriamo, ma anche qui la sinergia è abbastanza complessa, spesso passa attraverso le singole persone, nel senso che se io ho dei rapporti buoni con un professore o dottore o ricercatore dell’università di Modena o Bologna, riesco a mettere in piedi qualche cosa di importante, di efficace e finalizzato a determinate cose che mi servono. Che è quello che in realtà facciamo, continuamente, ognuno di noi, parlo ovviamente del mio settore ma credo di poterlo estendere anche agli altri; piano piano si è creata una rete di conoscenze, di competenze, con le quali in qualche modo si riesce a collaborare. Cosa che invece dovrebbe essere sistemica, dovrebbe essere organizzata, dovrebbe essere collegata, dovrebbe essere un meccanismo automatico. Mi è capitato di andare in Germania, dove c’è un collegamento diretto, strettissimo, tra il ricercatore, l’università e l’azienda, anzi, lo mettono nel biglietto da visita. Perché da noi no? E invece da noi le competenze ci sono, è che non è integrato come concetto, come mentalità. Noi siamo tendenzialmente molto individualisti, ognuno fa le sue cose e anche un po’ di nascosto perché c’è il concorrente: ma purtroppo quei tempi sono finiti, se non ci mettiamo insieme, periamo.
Una cosa su cui noi stiamo lavorando sono ad esempio le reti di impresa: credo che sia uno dei fattori fondamentali per uscire dal nostro nanismo industriale e riuscire in qualche modo a mettere a frutto tutta una serie competenze che sono spesso integrate, senza le quali non potremmo riuscire a vincere questa battaglia e questa competizione. Credo che veramente ci siano tutte le condizioni, le capacità, però mancano i fili di collegamento, ognuno va per conto suo. E credo tra l’altro che occorra lavorare sul fatto di far capire ai nostri giovani – qui ne vedo tanti e mi fa piacere – che non ci sono le cose di moda e quelle no. C’è stato un momento in cui noi, aziende manifatturiere metalmeccaniche, facevamo fatica a trovare degli ingegneri. Perché? Perché non avevamo appeal, volevano fare altro, marketing, ad esempio. Venivano a fare la domanda: “Cosa vuoi fare?”. “Marketing”. “Bene! Cosa vuol dire?”. “Boh, però si viaggia”. Invece il nuovo tessuto industriale è fortissimo in tantissimi settori, siamo eccellenza a livello mondiale in tantissimi settori, però ha bisogno di essere alimentato, e purtroppo, attenzione, se non ci saranno gli italiani con queste competenze, ci sono alla porta, anzi sono già dentro, un sacco di ingegneri cinesi, indiani, brasiliani, sudafricani, eccetera. Quelli vengono volentieri: e allora dobbiamo ridare la voglia, dire ai nostri ragazzi che è bello lavorare in una realtà e che di Ferrari ce ne sono tante, con grandi soddisfazioni di chi ci lavora dentro e soprattutto con grandi potenzialità di sviluppo. E’ chiaro che noi abbiamo un problema dimensionale che sono appunto le nostre aziende, il nostro tessuto di aziende: piccolo non è più bello, purtroppo, perché comunque bisogna mettersi insieme, fare sistema su tutte quelle che sono le nostre competenze, con tutti gli altri anelli della catena, della ricerca, dello studio e dell’università.

PAOLO FANTONI:
Ma il mio richiamo, più che ai giovani, è una tirata di orecchie nei confronti degli imprenditori, perché il problema che io vedo primariamente è quello che accennava il dottor Goldoni un momento fa, cioè il problema dimensionale della aziende. In un modo o nell’altro abbiamo vivacchiato negli ultimi 50 anni, coprendo molti nostri difetti e molte nostre carenze, illudendoci che il piccolo e bello potesse essere la soluzione nella quale continuare a vivacchiare nel nostro brodo. Oggi la crisi sta mettendo a nudo anche delle grandi forze di fondo che, almeno per quanto riguarda la filiera del legno, stanno cambiando radicalmente la struttura del mercato: mi riferisco alla distribuzione, alla grande distribuzione. La grande distribuzione a livello nazione ed europeo sta marciando in questi anni di crisi a doppia cifra, la distribuzione tradizionale mobile, negli anni in cui sono entrato in azienda, nel 1980, annoverava più punti vendita di mobili che edicole: avevamo 34 licenze commerciali per la vendita di immobili, oggi si sono ridotte a 16000 e stiamo perdendo ogni anno 1000 negozi tradizionali di mobili. Gli esperti dicono che l’obiettivo 2020 sarà che avremo non 16000 punti vendita ma 8000, e disegna a monte uno scenario molto chiaro. Non ci sarà più lo spazio espositivo per la vendita e per l’esposizione di un numero di aziende rilevante: il consolidamento del settore è fortemente dinamico e porterà alla riduzione del numero degli operatori.
Possiamo guardare a questa realtà con difficoltà o come un problema, ma io credo che invece dobbiamo guardarla come un’opportunità. Credo che se il nostro Paese vuole ancora avere un ruolo internazionale con la sua industria, con la sua capacità manifatturiera, deve cercare di guardare a un numero di players strutturati che abbiano all’interno i numeri, le capacità professionali, le collocazioni delle nuove culture, de nuovi giovani all’interno di sistemi strutturati. Perché il sistema destrutturato della piccola impresa nono funziona più e allora, al di là di cercare pannicelli caldi alla situazione, noi dobbiamo essere molto franchi e cercare di dirigere il cambiamento in questa direzione, anticipando i problemi che questo cambiamento comporta.

FABRIZIO CERINO:
In un passaggio, il Ministro ha fatto riferimento al fatto che il settore ambientale è uno dei pochi che negli ultimi anni è cresciuto: è esattamente così, se dovessi consigliare a mio figlio un indirizzo di studi da seguire, quello ambientale sarebbe sicuramente la mia scelta primaria, poi bisogna vedere lui cosa dice. È questo che secondo me sta cambiando anche nelle aziende. Fino a 4 anni fa, e per 10 anni, nella mia azienda avevo un ingegnere specializzato tuttologo: era responsabile della qualità e nella qualità ci mettevamo tutto, sicurezza, ambiente, eccetera. Era un periodo, 10 anni fa, in cui questa cultura non c’era tanto ed era più che altro di moda avere sul muro dell’azienda un certificato con il TUF che attestasse la qualità, ma tutto questo non pervadeva l’azienda. Ci abbiamo messo dieci anni per far sì che questo concetto realmente arrivasse nell’operatività di ciascun collaboratore. Quattro anni fa abbiamo deciso di assumere un ingegnere dedicato esclusivamente alla sicurezza e all’ambiente: in quel momento confesso di averlo fatto esclusivamente per motivi difensivi, perché io, nei confronti di un contesto che richiedeva maggiori competenze in materia ambientale, con il rischio enorme anche di natura penale nei confronti del rappresentante legale, avevo necessità che qualcuno mi difendesse dalla normativa. Poi abbiamo cominciato a capire, grazie all’ingegnere intelligente, che esisteva una serie di progetti che prevedevano investimenti o cambi di comportamenti che producevano denaro all’azienda. Beh, in conclusione io oggi di ingegneri ne ho tre, persone che si occupano di districarsi nella normativa, difendere l’azienda o fare in modo che l’azienda sia rispettosa della norma, ma che propongano anche investimenti e quindi progettualità nell’ambiente. La fine della storia, qual è? Che lo stipendio se lo sono pagati da solo con il risparmio che l’azienda ha avuto. Allora, quello che voglio dire è che sicuramente su questo settore io punterei immediatamente. Le medie e le grandi aziende hanno momenti aziendali di risparmio enorme in altre questioni, non certamente sul costo del lavoro, o meglio, sulle professionalità. Di costo del lavoro possiamo discutere con il Ministro del Lavoro, però sulle professionalità dei giovani io non lesinerei, perché sicuramente non è su queste cose che l’azienda rischia di andare sottosopra, anzi. Rischia invece di prendere delle opportunità importanti grazie alla genialità, alla dinamicità e alla professionalità di ragazzi giovani che hanno di professionale molto più di quanto non immaginiamo.

DOMENICO LOMBARDI:
Darei la parola al Ministro, non solo per rispondere a questa domanda, se lo vorrà, ma anche per trarre spunto dalla conversazione che abbiamo fatto e formulare alcune osservazioni conclusive.

GIAN LUCA GALLETTI:
Sì, io credo che quello che diceva Cerino nell’ultimo intervento sia molto importante perché è l’esperienza vissuta sul campo e ci dice una cosa molto precisa: che conviene investire in ambiente. Io prima citavo i dati della green economy. La green economy è un altro di quei termini che va molto nei convegni. Io sostengo che noi dobbiamo uscire dalla trappola delle green economies, cioè l’ambiente non interessa più una parte solo dell’economia ma deve interessare tutta l’economia. Lui ci sta dicendo: io, che non faccio parte della green economy perché mi interesso di sanità, faccio altra roba, anche all’interno della mia azienda, facendo una cultura, importando una cultura aziendale ambientale, posso risparmiare a tal punto che mi conviene assumere degli ingegneri che lavorano per fare quel mestiere lì, per migliorare l’ambiente applicato alla mia produzione. È una cosa importante e ci indica una strada di quel piano industriale Paese a cui accennavo prima. Quella è una strada e noi oggi abbia una condizione di partenza superiore ad altri Paesi, siamo un’eccellenza in tanti settori. Se sapremo mantenere questa eccellenza e sfruttarla, può diventare per noi una buonissima esperienza in futuro per la crescita del Paese.
Voglio concludere con un’annotazione, partendo da un’esperienza personale. Vi assicuro che quando sono diventato Ministro, un po’ di preoccupazione l’ho avuta, come chiunque affronti un nuovo impegno. Questo è un impegno gravoso e la preoccupazione maggiore non mi derivava e non mi deriva ancora dai problemi che abbiamo toccato oggi. I problemi che abbiamo toccato oggi sono importanti ma abbiamo tutti gli strumenti per poterli affrontare e risolvere, per fare in modo che diventino una grande opportunità per il Paese. La cosa che mi ha spaventato di più è sentire la responsabilità morale del rispetto dell’ambiente. Prima l’abbiamo detto en passant, ma penso che sia il punto cruciale: il rispetto dell’ambiente è soprattutto una questione morale, il mantenimento del nostro pianeta è una questione morale, la capacità di mantenere un pianeta e di trasferirlo alle generazioni future nelle stesse condizioni o migliori, di come l’abbiamo ereditato, è una grandissima sfida morale che io sento ma che tutti noi dobbiamo sentire. Perché dico tutti noi? Perché riusciamo a vincerla solo se l’affrontiamo tutti insieme, cioè se ognuno si sente responsabile, nel suo piccolo, nelle azioni quotidiane, del mantenimento e del miglioramento di questo pianeta. Ogni nostra azione, dallo spreco alimentare fino alla raccolta differenziata, o al non buttare una carta per terra, contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente. Come sviluppare questo? Guardate, mi piace dirlo in questa sede, don Giussani ci è ancora di insegnamento perché l’educazione sta alla base di tutto. Noi vinceremo questa sfida solo se sapremo insegnare ai nostri figli l’educazione e il rispetto dell’ambiente che, per varie ragioni, quelli della mia generazione non hanno avuto fino in fondo. Non posso prendermela con mio padre che non mi ha trasmesso una cultura ambientale. Non c’era, non esisteva, si facevano le scuole coi pannelli d’amianto. È una cosa che ci chiediamo ancora come togliere ma non lo facevano perché erano cattivi e volevano ammazzare i bambini che andavano lì. Lo facevano perché non sapevano che all’ambiente faceva male e soprattutto avevano un problema di ricostruzione dell’Italia, avevano altri problemi, che loro consideravano più emergenti, dell’ambiente. Oggi invece sappiamo che cosa vuole dire, quale opportunità è il rispetto dell’ambiente, e abbiamo il dovere di trasmetterlo ai nostri figli. Abbiamo il dovere di sviluppare in loro una cultura ambientale compiuta. Io ho un progetto, all’interno del Ministero, che si chiama “Nativi ambientali”. Gli ho dato un nome guardando un giorno mia figlia, la più piccola, la quarta, che giocava col computer. Mia moglie mi ha detto: “Ma lei è una nativa digitale, usa il computer molto meglio di noi”.
Allora, io voglio che loro siano nativi ambientali, che facciano raccolta differenziata molto meglio di come la facciamo noi perché questo sarà un grande contributo alla salvaguardia del pianeta. Gran parte dei problemi che abbiamo affrontato oggi probabilmente non ci saranno più, saranno talmente acquisiti che non ne parleremo neanche più e guardate – concludo con questo – penso ci sarà anche, da qui a breve, un’enciclica che parlerà di ambiente. Il Papa ha detto una frase che mi ha colpito in particolare: “Coltivare e costruire il creato è un’indicazione di Dio, data non solo all’inizio della storia ma a ciascuno di noi. È parte del suo progetto. Vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile da tutti”. Io penso che noi abbiamo questo compito e che sia molto. Se riusciremo a fare questo, avremo fatto molto di più di tutto quello che abbiamo detto prima di oggi. Grazie.

DOMENICO LOMBARDI:
Grazie. Vorrei ringraziare i relatori, il Ministro, voi partecipanti e naturalmente gli organizzatori del Meeting. Grazie ancora.

Data

27 Agosto 2014

Ora

15:00

Edizione

2014

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri