ALTRE TERRE? DA MARTE AI PIANETI EXTRASOLARI

Altre terre? Alla ricerca dei pianeti extrasolari

Partecipano: Enrico Flamini, Professore di Planetologia all’Università di Chieti-Pescara e Responsabile di Progetto dell’Esperimento MARSIS per l’Agenzia Spaziale Italiana; Alessandro Morbidelli, Direttore di Ricerca all’Osservatorio della Costa Azzurra di Nizza, Francia. In video-collegamento dallo Spazioporto dell’ESA (Kourou, Guyana Francese): Roberto Battiston, Presidente dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana). Introduce Marco Bersanelli, Professore Ordinario di Fisica e Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.

 

Ore: 17.00 Auditorium Intesa Sanpaolo A3
ALTRE TERRE? DA MARTE AI PIANETI EXTRASOLARI

Partecipano: Enrico Flamini, Professore di Planetologia all’Università di Chieti-Pescara e Responsabile di Progetto dell’Esperimento Marsis per l’Agenzia Spaziale Italiana; Alessandro Morbidelli, Direttore di Ricerca all’Osservatorio della Costa Azzurra di Nizza, Francia. In video-collegamento dallo Spazioporto dell’Esa (Kourou, Guyana Francese): Roberto Battiston, Presidente dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana). Introduce Marco Bersanelli, Professore Ordinario di Fisica e Astrofisica all’Università degli Studi di Milano.

MARCO BERSANELLI
Benvenuti a questo incontro che ha per titolo “Altre terre? Da Marte ai pianeti extrasolari”.
Il titolo di questo Meeting, “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”, ci invita a considerare il nostro desiderio di novità, di conoscenza e di relazione con tutto quello che ci circonda. Fin dalla preistoria, l’uomo si è avventurato laddove ancora il suo orizzonte era ignoto, in territori inesplorati, alla ricerca di nuove possibilità di vita, di sopravvivenza, di sviluppo. E ha saputo adattarsi ad ambienti e situazione anche molto diverse. E si è imbattuto via via in forme di vita ignote, piante, animali, a volte anche esseri umani con sembianze magari diverse. Dovunque, l’uomo si è trovato di fronte a nuova vita e ha impiantato nuova vita sul nostro pianeta. Oggi la Terra è sostanzialmente esplorata in ogni sua parte. Nelle mappe del globo terrestre che abbiamo oggi, non esistono più regioni di terre incognite, come succedeva fino a non molti decenni fa. Qualcuno se lo ricorda ancora bene. Simultaneamente, però, la nostra è anche la generazione che per la prima volta si trova sotto gli occhi nuovi orizzonti, nuovi territori. Fuori dalla Terra sorge dunque la domanda: c’è la possibilità di imbatterci in qualche forma di vita anche in questi nuovi territori inesplorati, in questa nuova terra incognita? Di che cosa stiamo parlando? Innanzitutto degli altri corpi del sistema solare, fuori del nostro pianeta ma nel sistema solare. Negli ultimi cinquant’anni, le sonde interplanetarie hanno investigato e ci hanno mostrato mondi affascinanti, I pianeti e i loro satelliti. Alcuni sono anche stati visitati direttamente, naturalmente la luna. L’anno prossimo sarà il 50° anniversario dello sbarco sulla luna da parte dell’uomo. Ma con degli strumenti diciamo robotici, abbiamo già messo la nostra impronta su Marte, su Venere, su Titano e anche su una cometa. Al momento, nonostante tutti gli sforzi che sono stati fatti, non è stata trovata nessuna traccia di vita fuori dalla Terra. Ma la ricerca continua. Meno di un mese fa, 25 luglio, tutti penso abbiamo ascoltato la notizia della scoperta di un lago di acqua liquida sotto la superficie di Marte, nel sottosuolo marziano, grazie allo strumento italiano Marsis. È una notizia che ha fatto il giro del mondo e devo dire che ha anche contribuita a cambiare il programma del nostro Meeting perché oggi, in questo incontro, sentiremo direttamente da testimoni, protagonisti di questa scoperta, di che cosa si tratta e quali prospettive offre. Ma non è tutto. Se alziamo lo sguardo oltre al sistema solare e guardiamo alla moltitudine di stelle, sappiamo che in media ogni stella ha tipicamente un pianeta che le gira intorno. Vuole dire che solo nella nostra galassia esistono miliardi e miliardi di pianeti, da confrontare con gli otto pianeti del nostro sistema solare. Sono mondi lontanissimi, anche i più vicini sono completamente al di fuori, almeno per ora, della nostra possibilità di avvicinarci e di sbarcare su questi pianeti extra solari, come vengono chiamati. Ma in questa moltitudine, alcuni pianeti potrebbero avere caratteristiche tali da ospitare la vita. Bene, questi temi sono al centro del nostro incontro con alcuni dei massimi protagonisti a livello mondiale di questo tipo di ricerca. Sono anche oggetto dell’approfondimento continuo che viene fatto qui al Meeting nello spazio Exoplanets, che è stato realizzato da un lavoro che è andato avanti tutto l’anno da parte di Euresis, di Ceur, in particolare da un gruppo di giovani ricercatori che lavorano su questi temi in molti dei principali istituti internazionali. In quest’area sarà possibile incontrarsi, oggi alle ore 19 con Alessandro, domani con Enrico e venerdì con Roberto, che adesso andrò ad introdurre, che ci sente e spero ci veda anche da Kourou, nella Guyana francese.

ROBERTO BATTISTON
Sì che vi sente!

MARCO BERSANELLI
Grazie! Sarà possibile continuare questo incontro e dialogare con loro! Passo a introdurre i nostri ospiti e poi cederò loro la parola. Come ho già detto, abbiamo Roberto Battiston in collegamento da Kourou, alla base di lancio della Agenzia Spaziale Europea in Guyana francese. Molti ricorderanno un suo intervento già qui al Meeting un paio di anni fa sul tema delle onde gravitazionali. Il campo di ricerca di Roberto è nello studio della Fisica fondamentale, sia attraverso esperimenti con gli acceleratori di particelle al Cern, sia nel settore spaziale con la misura di precisione di astro-particelle, raggi cosmici. In particolare, ha portato l’Italia a un ruolo di guida nello strumento Ams sulla stazione spaziale. Ha studiato alla Normale di Pisa, alla università di Parigi Nova Orse, ha insegnato a Perugia, a Trento. Roberto ha dato un impulso davvero straordinario alla tecnologia spaziale italiana ad ampio raggio. Tra l’altro, nel 2012 ha fondato il Trento Institute for Fundamentals Physics and Applications dedicato proprio alla tecnologia spaziale. Dal 2014, Roberto Battiston è presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, una responsabilità che gli è stata recentemente confermata per i prossimi quattro anni. Grazie Roberto di essere qui, per adesso in collegamento ma, come detto, venerdì sarà qui in carne ed ossa e potremo incontrarlo alla area Exoplanets. Poi abbiamo con noi Enrico Flamini. Grazie, Enrico. È il responsabile del progetto, dell’esperimento Marsis a cui accennavo prima e che ha per la prima volta individuato la presenza di acqua liquida su Marte per l’Agenzia Spaziale Italiana. Enrico si è formato come planetologo e astrofisico alla università La Sapienza di Roma. Ha lavorato alla University of Sussex nel Regno Unito e ha ricoperto diversi ruoli di responsabilità nell’ASI, Agenzia Spaziale Italiana, come Product Assurance, come Program Manager e negli ultimi dieci anni come Chief Scientist. Ha lavorato a molte missioni interplanetarie, in particolare alla sonda Cassini-Huygens, che ha sorvolato Saturno e nel 2005 alla sonda Huygens che è atterrata sul satellite Titano. Per molti anni, Enrico ha rappresentato l’Italia in board scientifici internazionali, in particolare nel Science Programme Committee dell’Esa, dove tra l’altro abbiamo avuto modo di conoscerci. Ha avuto numerosi premi internazionali, come la medaglia d’oro della Nasa per “Exceptional Public Service”, è ufficiale dell’Ordine del merito della Repubblica francese, e, pensate, ha avuto anche il suo nome legato a un asteroide, l’asteroide 18099 Flamini! Grazie, Enrico, di essere con noi.

ENRICO FLAMINI
Grazie a voi.

MARCO BERSANELLI
E poi abbiamo con noi Alessandro Morbidelli, grazie. Alessandro è uno dei massimi esperti di formazione ed evoluzione dei sistemi planetari al mondo, e quindi con questa novità dei pianeti extrasolari chiaramente sta portando la frontiera della ricerca in questo campo su nuovi orizzonti. Alessandro è direttore di Ricerca presso l’Osservatorio della Costa Azzurra a Nizza, ha partecipato alla Exoplanet Road Map Advisory Team dell’Agenzia Spaziale Europea, è membro associato delle Accademie di Scienze della Francia e del Belgio, è coeditore di Icarus, che è la più prestigiosa rivista specialistica di planetologia ed è direttore del Programma nazionale di Planetologia in Francia. Ha poi pubblicato più di 250 articoli scientifici e un libro sulla dinamica planetaria. Grazie di essere con noi.

ALESSANDRO MORBIDELLI
Grazie a voi.

MARCO BERSANELLI
Ecco, io incomincerei chiedendo proprio a Roberto di introdurci in questa tematica così affascinante e così nuova che questi territori inesplorati suggeriscono.

ROBERTO BATTISTON
Grazie, Alessandro, un caro saluto a Enrico e a Marco per questa introduzione. Mi piacerebbe semplicemente ricordare appunto che due anni fa ci siamo trovati al Meeting per raccontare e festeggiare la scoperta delle onde gravitazionali. Oggi siamo qui per parlare di un’altra scoperta straordinaria, dell’acqua su Marte. Io credo siano dimostrazioni di quanto sia importante e valida la ricerca italiana e dei risultati che ottiene. Vorrei fare un grande applauso a tutto il lavoro fatto dai nostri ricercatori, in questo caso particolare nel settore dello spazio e dell’astrofisica. Abbiamo un corpo vivo di capacità di ricerca e di risultati straordinari che meritano veramente un grande incoraggiamento, una grande riconoscenza. E sono qui oggi, come ha appena detto Marco, al Centro Europeo Spaziale di Kourou, che è il centro in cui si lanciano i razzi che portano in orbita le missioni europee, le missioni scientifiche, anche quelle dell’Italia e quelle che l’Italia fa assieme all’Esa, appunto, l’Agenzia Spaziale Europea, ma anche missioni commerciali e per vari tipi di utenze. Oggi lanciamo un Vega, il dodicesimo lancio di Vega che è il razzo realizzato in Italia, siamo particolarmente fieri di questo prodotto, di questo razzo di piccola-media taglia che sta producendo grossi risultati dal punto di vista dell’accesso allo spazio. E lanciamo un satellite straordinario, si chiama ADM-Aeolus: Aeolus è il nome del vento in greco. È un satellite unico al mondo, per la prima volta sarà possibile misurare la velocità del vento nell’atmosfera. Chi sta nell’atmosfera, sente il vento come brezza, talvolta come un vento molto forte. Ma dallo spazio non si vede il vento all’interno dell’atmosfera, se non con queste tecniche sofisticatissime che per la prima volta un satellite europeo porta in orbita e che permetteranno di migliorare di molto le previsioni metereologiche: perché il vento, anche se non si vede da lontano, dallo spazio, ha un ruolo decisivo sul rimescolamento dell’aria e sulle previsioni del tempo. Quindi, è un momento importante per il futuro della meteorologia a cui l’Italia partecipa sia con il lanciatore Vega che con la partecipazione all’Esa e allo strumento che lanciamo tra oggi e domani. Curiosamente, oggi c’è un ritardo perché c’è troppo vento e quindi non riusciamo a lanciare un satellite che misura il vento perché c’è troppo vento in quota. Speriamo che domani le condizioni siano ottimali. Benissimo, torniamo all’oggetto della nostra chiacchierata. Credo che di Marsis parlerà estesamente Enrico, e poi Alessandro parlerà delle implicazioni.
Solamente alcune considerazioni su che cosa vuole dire fare un esperimento di successo come Marsis: che cosa vuole dire andare nello spazio? Vuol dire guardare molto lontano, perché Marsis è stato messo in orbita nel 2003 e oggi parliamo di risultati di analisi dei dati raccolti in questi ultimi quindici anni. È stato chiamato “missione Mars Express”, perché è stata fatta rapidamente. Ma il motivo vero è che è stata lanciata in una finestra di tempo che corrispondeva a una distanza minima fra la Terra e Marte negli ultimi sessantamila anni. Quindi, hanno colto l’occasione per sfruttare questa distanza minima che ha permesso un percorso più rapido, da cui il nome che si è portata dietro questa missione. È una missione doppia, che aveva un pezzo orbitante intorno a Marte, con a bordo appunto Marsis e anche un altro strumento, e uno che doveva atterrare su Marte: la missione Beagle2, una piccola missione sviluppata dagli inglesi che è atterrata sul Pianeta Rosso, però non ha purtroppo funzionato. Qui mi lego al fatto che andare verso Marte è difficile, come del resto sono difficili tutte le missioni interplanetarie: sappiate che nella storia dello spazio 28 missioni verso Marte sono fallite e 19 hanno avuto successo. Quindi, sono più quelle fallite di quelle che hanno avuto successo. Un numero che racconta quanto sia sfidante andare su un pianeta lontano. Ma non è più difficile di altri pianeti. Su Venere abbiamo fatto quaranta missioni, 19 sono fallite, e forse non lo sapete, ma cinquanta volte nella storia della ricerca spaziale si sono fatte missioni verso la Luna che non hanno funzionato.
Lo spazio è sfidante, non solo sulla rampa di lancio ma anche sull’avvicinarsi al pianeta, sull’entrare in orbita, addirittura atterrarci sopra. È uno sforzo continuo che rende interessante, ma anche difficile, l’attività dei ricercatori. Poi occorre avere visione, in questa attività spaziale: l’idea di mettere a bordo di questa missione Mars Express uno strumento così particolare come Marsis, che di fatto è una antenna molto lunga, una doppia antenna: ciascuno dei bracci è di 20 metri, complessivamente sono 40 metri. Voi immaginate un oggetto che è grande poco più di un televisore di vecchia taglia, più piccolo di un’automobile, ma che ha un’antenna che è complessivamente lunga 40 metri: vi renderete conto di qualche cosa di straordinario. Beh, questa antenna è stata sviluppata sotto l’insistenza proprio dell’Asi – Enrico Flamini potrà ricordare questo fatto – dal gruppo del professor Picardi della Sapienza di Roma, scomparso recentemente: ha messo le sue antenne sulla maggior parte delle sonde interplanetarie, inclusa quella di Cassini, che hanno portato tanto successo all’Italia. Bene, queste cose per ricordare: lo spazio vuol dire visione, vuol dire muoversi per tempo, cogliere il momento per prendere delle decisioni importanti, prendersi dei rischi e fortunatamente portarsi a casa alcune volte dei grandissimi successi, come in questo caso, con la scoperta di Marsis. Io non parlerò dello strumento Marsis, non parlerò della scoperta stessa perché sono sicuro che Enrico ne parlerà diffusamente, però volevo fare alcune considerazioni su questa straordinaria questione della vita, se esiste vita altrove nell’universo, di questa straordinaria scoperta che abbiamo da poco più di vent’anni, di pianeti che appartengono ad altre stelle, delle implicazioni e delle prospettive di questo. Innanzitutto, vorrei anche su questo richiamare l’attenzione sul come fosse inatteso, negli anni Novanta, che esistessero pianeti intorno ad altre stelle. Se questa discussione l’avessimo avuta negli anni Novanta, probabilmente in un contesto di una conferenza internazionale la maggior parte degli astrofisici avrebbero risposto che la probabilità di una stella di avere pianeti al di là del sistema solare poteva essere scarsa o addirittura, in alcuni casi estremi, veramente rara, unica. Oggi siamo tutti convinti che per una stella è vero il contrario: non avere pianeti è una situazione anomala.
È un classico esempio di che cos’è la scienza: si passa da un pregiudizio, da un giudizio non basato sui fatti e dopo molto lavoro, molto studio, delle idee brillanti, una tenacia nella ricerca, strumenti innovativi, si cambia completamente idea e guardandosi indietro si sorride sull’ingenuità degli scienziati che ci hanno anticipato. Perché la scienza è sperimentale: non si basa sulle concezioni, sui preconcetti ma, da Galileo in poi, sull’osservazione sperimentale e sull’adattare il nostro modo di vedere il mondo ai fatti che concretamente possiamo, in modo oggettivo, identificare. Questa è una bella storia, una bella lezione che si applica quotidianamente. E vedremo anche qualche altro esempio.
Al 1° agosto di quest’anno abbiamo identificato più di 3800 eso-pianeti e ogni giorno se ne stanno aggiungendo di nuovi: alcuni hanno i parametri più diversi, sono legati a stelle più o meno grandi, sono pianeti più o meno grandi, più o meno lontani. Alcuni capita che abbiano dimensioni simili alla Terra, altri addirittura capita che abbiano posizionamenti, rispetto alla propria stella, analoghi a quelli della Terra. E quindi cominciamo a ragionare di pianeti gemelli, simili, analoghi alla Terra e lì scatta il ragionamento sulla questione: possono questi pianeti ospitare o meno la vita?
Questa questione della vita nell’universo non è solamente dei giorni nostri: ci si è posti sempre il problema della nostra solitudine o meno nell’universo, come vita intelligente, vita simile alla nostra o in generale vita replicante, che abbia la capacità di essere riconoscibile per il fatto che si mantiene nel tempo, generazione dopo generazione. Come guardiamo oggi alla vita su altri pianeti, oggi che abbiamo la coscienza, l’evidenza che di pianeti – come ha ricordato poco fa Marco – ce ne sono miliardi? Alcuni numeri: nella nostra galassia, noi abbiamo fra cento e cinquecento miliardi di stelle. Vi ho appena detto che è molto probabile che ogni stella abbia almeno un pianeta. Sappiate che noi abbiamo probabilmente svariate centinaia di miliardi di galassie, nell’universo osservabile. Moltiplicate due volte cento miliardi e viene un numero che è grande, molto grande. Quindi il numero di pianteti su cui si possa ipotizzare la presenza della vita è straordinariamente alto. Per chi si ricorda che cos’è il numero di Avogadro, è un numero vicino al numero di Avogadro, che è un numero pazzescamente elevato. Quindi, è probabile o no che su uno di questi pianeti o su parecchi di questi pianeti possa esistere la vita? La risposta vera è che non lo sappiamo, perché la nostra conoscenza scientifica di che cosa ha portato la vita a svilupparsi sul nostro pianeta è ancora molto limitata. Certo, noi pensiamo – perché siamo abituati dall’unico caso che conosciamo, che è il nostro pianeta, la Terra, questa bellissima astronave che ci trasporta da sempre nelle profondità del cosmo – che l’acqua sia un ingrediente fondamentale. E nel corso degli ultimi decenni abbiamo scoperto che l’acqua è presente nel sistema solare praticamente dappertutto. La stessa scoperta di acqua liquida sotto la superficie marziana ci dimostra che addirittura oggi abbiamo acqua su Marte: si vede la forma delle strutture geofisiche e geologiche marziane, con i fiumi, le valli, i delta dei fiumi che qualche miliardo d’anni fa percorrevano quella superficie. Questo ci fa capire che l’acqua era abbondante, tre miliardi di anni fa, e ancora oggi è presente in forma liquida. Noi sappiamo di satelliti ghiacciati, pieni di acqua sotto strati di ghiaccio, di pianeti del sistema solare, e quindi riteniamo che dove c’è acqua ci potrebbe essere vita. Naturalmente, come vi ho detto prima, la reale risposta è che noi non capiamo sufficientemente bene questo meraviglioso e complesso meccanismo che ha portato allo sviluppo della vita sulla Terra, la vita come la intendiamo noi. Per darci un riferimento a un richiamo ad una certa umiltà dal punto di vista anche scientifico, vi porto una piccola. barzelletta, quella del matematico che aveva detto: «Io so come predire il cavallo che vincerà le gare ippiche». Ah! Tutti quanti erano molto interessati. Gli hanno chiesto: «Ma come funziona questo straordinario programma che ti permette di anticipare la vittoria del cavallo?». «Ah, molto semplice: io parto dall’ipotesi di cavallo sferico». Cioè, quando non sappiamo, ci aggrappiamo alla prima cosa che abbiamo a disposizione, ne facciamo la base del nostro ragionamento e ci ragioniamo molto a lungo. Ma ricordiamoci che da punti di partenza limitati si possono avere solo conseguenze limitate. Certo, la presenza dell’acqua è un elemento importante, potrebbe non essere sufficiente, potrebbero esserci ambienti diversi da quelli a cui noi siamo abituati, in cui forme di vita completamente inattese sono presenti e possono svilupparsi. Questo lo ricordo per dirvi quanto poco noi sappiamo di quello che stiamo andando a cercare. Questo non toglie nulla all’importanza della ricerca: semplicemente, deve farci riflettere su quanto è lunga la strada. Varie persone, nel corso degli ultimi decenni, hanno riflettuto sul problema della presenza della vita su altri pianeti. Fermi si è posto una domanda del genere, alla fine di un suo ragionamento ha detto: «Dove sono questi extraterrestri che non si sono ancora manifestati sul nostro pianeta?». Perché nel suo ragionamento il numero di possibili civiltà, chiamiamole così, di presenze di vita intelligente nel cosmo, poteva essere rilevante. Partiva da alcuni assunti, da alcuni ragionamenti, da alcuni calcoli di ordini di grandezza, che gli facevano pensare che la presenza di vita all’interno dell’universo potesse essere assolutamente significativa. Però per adesso traccia non ce n’è. Un’altra persona che ha provato a fare questo ragionamento è Drake, che ha fatto un’equazione in cui ha messo dentro come elementi di calcolo delle probabilità quante stelle ci sono, a che ritmo si riformano, quanti pianeti può avere ciascuna stella, quanto è probabile che un pianeta ospiti la vita e via dicendo. Fino a poco tempo fa i parametri di questa equazione, che è un’equazione più logica che predittiva, erano fortemente incerti, per esempio sulla quantità di pianeti che la singola stella può avere. Si pensava ad un numero molto vicino a zero, una frazione molto piccola: bene, oggi quel numero lo conosciamo, è molto vicino a 1. E anche alla domanda: quanti pianeti può avere una stella, sappiamo rispondere, un numero che attualmente, sui dati che abbiamo a disposizione, può essere due o tre. Quindi, quest’equazione sta prendendo piano piano forma ma rimangono tantissimi elementi incogniti, in particolare la probabilità che nasca la vita in presenza di acqua o addirittura che nasca una vita che ha caratteristiche di intelligenza, per potere rendere possibile la comunicazione, se non vogliamo dire addirittura l’esplorazione, da parte di questa vita, di parti significative del sistema solare. Quindi, di nuovo, grande potenzialità, grande interesse ma grande limitazione in quello che noi sappiamo, e quindi grande eccitazione per cercare di capire di più. Ora, se noi pensiamo di andare su altri pianeti o su altri sistemi solari (poi farò un commento anche su questo), beh, ricordiamoci che uno sforzo importantissimo è quello di andare su Marte, prima di tutto con dei sistemi robotici: sappiamo che la Nasa lo ha fatto ma l’Europa ci sta provando molto seriamente col programma Exo Mars. La prima parte di Exo Mars è già stata lanciata nel 2016, ha messo in orbita un primo satellite che sta funzionando e che sta mandando dei dati, che osserva la superficie di Marte, ha fatto anche un tentativo di atterraggio con la sonda Schiapparelli, che è arrivata felicemente fino a pochi chilometri d’altezza e poi alla fine ha avuto un problema che l’ha fatta schiantare al suolo. Era una prova d’atterraggio, sempre per la serie «bisogna imparare dall’esperienza», preparatoria per la missione Exo Mars del 2020 che avrà letteralmente un trattorino che calerà sulla superficie con a bordo strumenti molto sofisticati, tra cui un trapano che penetrerà la superficie marziana per quasi due metri, cercando, letteralmente, tracce di vita, con delle reazioni chimiche, con l’analisi chimico-fisica della polvere che verrà o addirittura del ghiaccio, perché sappiamo che sotto la superficie di Marte ci sono quantità importanti di ghiaccio, per cercare tracce di qualche cosa che miliardi di anni fa poteva essere presente. Se pensiamo più in là, il passo successivo sembrerebbe quello di mandare l’uomo, uomini e donne, astronauti, ad esplorare un pianeta come Marte. Perché ancora oggi la robotica che noi sappiamo sviluppare è una robotica che non è caratterizzata da quella capacità, da quell’intelligenza, quella curiosità, quella capacità di risolvere i problemi e gli imprevisti che è propria della nostra specie. Se avessimo avuto gli uomini su Marte, probabilmente il ritmo a cui avremmo acquisito informazioni fondamentali sulla presenza o sull’assenza di tracce di vita sul pianeta rosso sarebbe progredito, in questi ultimi 30 anni, cento volte di più. Perché noi uomini, a parte la difficoltà di vivere in ambienti ostili, abbiamo una capacità di curiosare, tipica del mondo scientifico, molto, molto maggiore. Bene, Exo Mars è il robot che scaverà in profondità. Quando andrà l’uomo su Marte? Si parla sempre dei prossimi venti o trent’anni perché non si è mai incominciato, perché abbiamo avuto questa esperienza straordinaria sulla stazione spaziale internazionale: da 15 anni puntiamo a tornare sulla Luna ma Marte è dopo, e Marte vuol dire ancora molto tempo. Ci sono però delle iniziative nuove, private. Recentemente sono stato ad una conferenza di Space X, il gruppo di Elon Musk, che ha come obiettivo specifico di portare colonie di umani su Marte. È irrealistico? È fantascientifico? Mah, vi devo dire che dopo due giorni di discussione con questi motivatissimi, entusiasti ingegneri e ricercatori che stanno raccogliendo informazioni e stimoli tecnologici ma anche di carattere scientifico da mezzo mondo, mi sembra molto sfidante ma non mi sembra impossibile. Quindi, c’è il tema di andare verso altri pianeti, spinto non più dalle agenzie ma da singoli individui, singole organizzazioni private che, anche in collaborazione con altre agenzie e altre istituzioni private, stanno puntando ad esplorare e a creare una colonia sul pianeta rosso. Potrebbe avvenire nel giro di dieci anni, non lo possiamo escludere. E per quanto riguarda andare più lontano? È realistico pensare che noi si possa uscire dal sistema solare e andare ad esplorare un’altra stella e altre stelle vicine? Beh, occorre farlo andando molto rapidamente: oggi noi andiamo col più veloce satellite che è in viaggio, Voyager, alla velocità di 60 km al secondo. È l’oggetto più veloce che abbiamo messo in orbita e ci ha messo quasi quarant’anni per uscire dalla bolla del sistema solare. Quarant’anni in orbita è tanta roba, in particolare per degli astronauti. Bene, questa velocità di 60 km al secondo è quasi 50mila volte minore della velocità della luce, che è il limite fisico che riteniamo invalicabile, 50mila volte minore. Nell’ultimo secolo noi siamo riusciti a migliorare di fattore centomila la velocità a cui ci siamo spostati, dal cavallo fino ai satelliti più veloci. Ci rimane ancora uno spazio di 50mila volte da poter esplorare. Chiaro che se potessimo riuscire ad arrivare ad una velocità vicina a quella della luce, improvvisamente il nostro sistema galattico diventerebbe molto più piccolo. Sappiamo che non è per niente facile, specialmente per oggetti macroscopici come sono degli individui, degli uomini e delle donne che possono essere lanciati con un’astronave. Bene, nonostante questa difficoltà ci sono oggi dei tentativi, delle ricerche che chiamerei “serie”, basate su fatti scientifici, per cercare di sparare nano satelliti di pochi grammi, fatti di silicio, spinti da intensissimi fasci di luce, che partono dalla Terra e possono raggiungere, un terzo della velocità della luce in pochi minuti, per poi andare verso la prima stella che sta a quattro anni luce. Si chiama Alpha Centauri, una stella doppia, sappiamo che potrebbe ospitare dei pianeti e, tanto per darvi dei numeri, andare a quattro anni luce con il Voyager richiederebbe circa diecimila anni. Con un razzo come quelli che usiamo per andare in orbita ci vorrebbero centomila anni, numeri assolutamente strabilianti per pensare di farlo non solo mandando astronauti ma anche aspettando sulla Terra. Con il sistema chiamato Starshot, che è sviluppato da una fondazione privata chiamata Breakthrough Foundation, ci si metterebbe dodici anni. E questo progetto penserebbe di lanciare centinaia di questi nano satelliti, sperando che qualcuno arrivi nelle vicinanze, scatti una fotografia e ci faccia un selfie storico che quattro anni dopo tornerebbe verso Terra e verrebbe registrato. Questo per dirvi che, anche di fronte alle sfide più incredibili, c’è qualcuno della nostra specie che entusiasticamente, tenacemente, basandosi su fatti della scienza, su fatti concreti della tecnologia possibile, non si limita a pensare che noi siamo obbligati per sempre a rimanere su questo meraviglioso pianeta. Grazie.

MARCO BERSANELLI
Grazie, Roberto. direi subito di dare la parola ad Enrico che ci racconterà, per la sua esperienza diretta, quello che ha significato questa recente scoperta dell’acqua nel sottosuolo di Marte.

ROBERTO BATTISTON
Grazie. Visto che tra l’altro Roberto ha dato già il contesto con cui il discorso di Marsis è iniziato un bel po’ di anni fa, possiamo iniziare con la presentazione?

VIDEO

Questa che vedete è la pagina di Science pubblicata su carta. Sono un po’ legato ancora alle riviste cartacee, anche se quella elettronica è uscita appunto il 25, quando abbiamo fatto l’annuncio cui Marco si riferiva prima. È un articolo che in qualche maniera è il completamento di un’attività durata molti anni ma allo stesso tempo credo che sia anche l’inizio di un nuovo capitolo di ricerche che potrà essere fatto su Marte, in particolare ma non solo, con questa tipologia di strumenti che adesso andremo a vedere. Il discorso di Marte nasce, in effetti, anche un po’ prima di Viking, ma le immagini di Viking sono state le prime con una risoluzione superficiale alta, a sufficienza da poterci effettivamente mostrare che in un periodo della storia di Marte c’era tanta acqua sulla superficie di quel pianeta e molta ne scorreva. Qui vedete un’immagine della Ma’adim Vallis, un lungo fiume, seicento chilometri, molto grande, che finisce poi nel cratere di Gusev. Questo di Eberswalde è un delta fluviale molto più grande del delta del Nilo, erano fiumi che portavano tantissima acqua. Questo è un altro esempio di delta, qui vedete anche che ci sono dei crateri perché quel fiume è più vecchio dei crateri che si sono formati. Ma in questo caso, per esempio, vedete un bellissimo scorrimento di un fiume, questa è la Reull Vallis, stiamo parlando di un fiume di una decina di chilometri, relativamente giovane. Si vede un cratere sul bordo che è stato tagliato dall’acqua del fiume, quindi quella che stiamo osservando era una superficie che aveva dei crateri, il fiume poi scorreva e ha consumato e scavato anche il cratere. Quindi, l’acqua c’è stata in un periodo abbastanza lungo, e c’è ancora: l’abbiamo nel polo Nord, ghiacciata, nel polo Sud, sotto forma di ghiaccio, stagionalmente coperta anche da ghiaccio di CO2, perché il polo Sud di Marte è più freddo del polo Nord (un po’ come anche sulla Terra, tra l’altro, visto che l’inclinazione è quasi la stessa della Terra). E c’è ghiaccio nel permafrost, ovvero nella mistura di terreno e di acqua che è abbastanza ubiqua sul pianeta. Una parte, pochissimo, è nell’atmosfera come traccia, e quindi tutti i modelli a seguito di quello che ricevevamo da Viking ci dicevano che se una parte dell’acqua era stata portata via dal vento solare, quella che era sotto forma di gas: immaginate queste particelle altamente energetiche che colpiscono una molecola di H2O, la rompono, l’idrogeno è molto leggero, viene portato via dal vento solare, l’ossigeno è più pesante, si lega e va ad ossidare la superficie. Ma una parte doveva essere rimasta nel sottosuolo, così come anche sulla Terra abbiamo acque sotterranee, e quindi quell’acqua sotterranea doveva e poteva essere rimasta in qualche maniera lì, sin dall’inizio della storia del pianeta. È su questa base che ad un certo punto, nel 1996 l’Esa si propose di fare una missione a basso costo, riutilizzando gli strumenti che in Europa erano già stati sviluppati dalla missione russa Mars 96, che non è mai entrata in orbita perché c’è stato un problema sul lanciatore, e di farla in tempi relativamente brevi, proprio – come diceva prima Roberto – per incontrare quella finestra di lancio estremamente favorevole nella quale Marte e la Terra erano più vicini, cosa che avviene secolarmente. Peraltro, in questi giorni vedete Marte particolarmente luminoso e brillante, perché è uno di quei momenti di avvicinamento significativo (non così significativo come il ‘96, quando cominciammo a parlare di questa cosa). Erano quattro gli strumenti che stavano sulla missione Mars 96 e l’ASI propose di mettere un altro strumento, che era uno strumento totalmente innovativo, che ci era stato proposto già come idea, non aveva mai volato prima ed era Marsis che è un radar sounding, ovvero capace di penetrare a bassa frequenza nel terreno, e anche un misuratore della ionosfera marziana. Eravamo molto preoccupati, nessuno aveva fatto misure di ionosfera: che la ionosfera fosse così densa da comportarsi da sciame, da usare questa energia come un velo di metallo, da riflettere tutte le onde radio del Marsis. Beh, approvammo l’idea di Mars Express durante la riunione dell’International Mars Express Working Group, che si teneva a Cape Canaveral, in occasione del lancio del Mars Pathfinder, 1996, appunto. Fu lanciata nel giugno del 2003, alla fine di quell’anno arrivò intorno a Marte ma per un anno abbiamo dovuto aspettare l’apertura dell’antenna di Marsis. Un’antenna realizzata per noi dal JPL: come diceva prima Roberto, un lungo stilo di venti metri ognuno. Immaginate queste due braccia di venti metri, pesano un chilo ognuna, sono è un sottile tubo di kevlar. Se lo provo sulla terra, per la gravità succede quello che vedete nella slide, quindi è impossibile da provare a terra. Nello spazio si prova tutto, nelle condizioni di temperatura, radiazione e vuoto, prima di lanciarlo, perché i costi sono tali che non ci si può permettere di affrontare failure, o per lo meno bisogna diminuire al massimo le probabilità che essi accadano. Ma nel caso dell’antenna di Marsis questo non fu possibile, ne provammo un pezzo, l’apertura funzionava bene, era come una scatola di pupazzi a molla, bracci da un metro e mezzo l’uno ripiegati su se stessi che, al momento dell’apertura del coperchio della scatola in cui erano contenuti, si sarebbero aperti per l’effetto molla. Ma era impossibile provare a terra. Quindi arrivammo intorno a Marte e nel frattempo facemmo girare molte simulazioni: alcune simulazioni davano la probabilità che l’antenna rimbalzando andasse a colpire nuovamente il satellite. Per un anno, siamo stati a fare modelli e a cercare di capire quali potenziali danni avrebbe potuto arrecare al satellite questa apertura e quest’effetto-frusta involontario. Alla fine, uscì fuori che non c’era nessun problema e finalmente aprimmo l’antenna: Marsis da luglio del 2005 ha cominciato ad operare e ancora funziona, senza alcun problema. Marsis era un’idea del professor Picardi, che è stato anche il primo dei principal investigator della missione e lo è rimasto finché non ci ha lasciato. A lui è poi succeduto Roberto Rosei come principal investigator, il primo autore dell’articolo. C’è anche Jef Cloots, e abbiamo altre figure. A distanza di 15 anni dall’apertura, Marsis continua a funzionare perfettamente, e ovviamente come Asi continuiamo a dare supporto al team, anzi a lavorare con il team. Tuttavia Marsis era veramente uno strumento nuovo, mai volato, quindi non c’era nessuna esperienza di quello che avrebbe potuto fare, delle sue potenzialità. Ovviamente è stato progettato per uno scopo, e realizzato e provato per quello scopo: sapevamo che funzionava in un certo modo ma le sue vere potenzialità non le potevamo sapere perché dipendevano ovviamente da un pianeta che era sconosciuto per quanto riguardava le onde elettromagnetiche di un radar, ovvero Marte. Quindi avevamo l’idea che potesse penetrare qualche chilometro nelle condizioni migliori, ma non sapevamo fino a quanto. Arriviamo su Marte, facciamo le prove e scopriamo che può arrivare fino a quasi 4 km di profondità nelle condizioni ottimali. Quindi, era effettivamente in grado di fare quello che ci aspettavamo potesse fare, ovvero cercare la presenza di acqua in profondità. Perché? Essenzialmente, un radar è un emettitore di segnale elettromagnetico e un ascoltatore del riflesso di quel segnale, come un sonar. Solo che lo usa su frequenze che possono essere selezionate per scopi precisi. Si usano radar a microonde, ovvero onde di lunghezze anche millimetriche, per poter fare ad esempio imaging della superficie. Normalmente (ne avrete viste) ci sono immagini radar della Terra ad altissima risoluzione. L’Italia peraltro ha la migliore costellazione di radar per osservazione della Terra, del mondo, Cosmo-SkyMed. Oppure, utilizzando lunghezze d’onda molto lunghe si può cercare di penetrare. Diciamo che, aggiustando un po’ le cose, potete ricevere il segnale del cellulare anche dentro casa, perché quelle frequenze penetrano le mura di casa. Ma certamente non potete ricevere dentro casa, senza un’antenna che sta fuori, il segnale della televisione, perché ha frequenza molto più alta e quindi non penetrerebbe nelle mura di casa. Quindi, se io seleziono per bene la frequenza, e in genere più è bassa la frequenza e più riesco a penetrare, posso andare in profondità e, se trovo l’acqua, l’acqua è un bellissimo specchio e quindi mi riflette, a qualsiasi frequenza. Ed è quello che è stato fatto per Marsis. La grande, geniale idea di Giovanni Picardi fu quella di dire: cerchiamo di fare un radar che lavora tra 1 megars e 5 megars. Una cosa mai fatta prima. L’altra parola chiave è “costante dielettrica”, ovvero la resistenza di un materiale ad essere attraversato da un’onda elettromagnetica. Più alta è la costante dielettrica e meno il segnale passerà, fino ad arrivare al metallo, che riflette tutto, o all’acqua, che riflette praticamente tutto. Ogni altro materiale è più o meno trasparente. Il vuoto o l’aria sono completamente trasparenti, il ghiaccio è quasi del tutto trasparente, la sabbia arida è del tutto trasparente. E infatti, in questo senso, il radar Saunders è lo strumento ideale per cercare l’acqua in profondità, anche perché su Marte le condizioni di aridità superficiale media e di freddo (ovvero, quando c’è acqua è in superficie ghiacciata), sono le condizioni comuni di Marte. Quindi, se c’è acqua liquida in profondità, l’idea era che sarebbe stata evidenziata da un forte riflesso sotto-superficiale. Infatti il ghiaccio, come dicevo, è molto trasparente e l’acqua liquida è sempre molto riflettente, quindi, mentre il segnale mi si propaga molto bene nell’aria, non ho una forte attenuazione nel materiale. E mi devo aspettare, se c’è acqua, un forte riflesso. Le frequenze di Marsis furono scelte proprio con quest’idea: c’è una curva che è quella superiore, che è quella essenzialmente dell’acqua, e le altre due curve sono del basalto, quella azzurrina chiara è di un materiale misto di acqua e terreno, e sotto c’è quella del ghiaccio. Il ghiaccio penetra tutto, l’acqua riflette molto. E in questa maniera posso andarmi a vedere, per esempio, la roccia basaltica che posso trovare in alcuni esami o comunque il bedrock, il fondo di roccia sotto la superficie. Oppure posso vedere se ci sta del materiale misto con acqua o se c’è acqua allo stato liquido. In altri termini, quello che succede quando un radar del genere di Marsis, passa, quello che avrebbe dovuto succedere è la seguente cosa: i segnali gialli che vedete sono gli impulsi del radar; i picchi che vedete di lato sono il segnale; nel caso di un terreno roccioso, la riflessione, ovvero il picco, della superficie è abbastanza piccola. Si ingrandisce nel caso che ci sia acqua mista a materiale, diventa molto più ampia nel caso che ci sia acqua liquida. Questo accade sotto una grossa superficie di ghiaccio. Quello che abbiamo avuto con Marsis è esattamente questo: abbiamo avuto questi segnali, quello era il punto della superficie e quello che abbiamo dovuto analizzare era il rapporto tra gli echi di superficie e gli echi – che qui vedete come variazioni di quel segnale in verticale – che corrispondono alle diverse caratteristiche dielettriche del materiale. Il grande lavoro che abbiamo dovuto fare è stato proprio disaccoppiare questo da altri possibili effetti strumentali. Se per esempio invece di acqua di ghiaccio, nella sotto-superficie ci fosse stata acqua di anidride carbonica, che è molto più trasparente, avremmo avuto una riflessione amplificata, e quindi sarebbe stato un segnale sbagliato. Invece, avevamo ghiaccio d’acqua, e questo lo sapevamo anche da altre missioni, lo sapevamo dalle osservazioni fatte dagli spettrometri di Mars Express, dallo spettrometro che sta su Mars Reconnaissance Orbiter, e anche dal nostro radar, anch’esso simile a Marsis ma che sta su Mars Reconnaissance Orbiter, che si chiama Sharad, che lavora a frequenza di 20 megahertz e ci diceva che quel ghiaccio era anche molto omogeneo. Quindi, non avevamo disturbi particolari che avrebbero potuto venire da quel ghiaccio. E infatti, alla fine quello che abbiamo trovato è che l’informazione che vedevamo lì sotto corrispondeva effettivamente a qualcosa di significativo. Il punto è che l’abbiamo cominciato a cercare in quel rettangolino rosso, perché quella è una zona abbastanza liscia: non sto adesso a perdere troppo tempo, ma diciamo che più è rugoso e più il segnale di superficie del radar può dare informazioni false. Inoltre, quella era una zona in cui sapevamo che c’era ghiaccio, anche per una South Polar Layer Deposits: sono depositi di ghiaccio vicino al polo Sud, quindi zona omogenea, zona abbastanza liscia. Soprattutto avevamo una traccia, una!, presa all’inizio, sei o sette anni fa, che dava un segnale molto forte. Ora, con una traccia non si fa un articolo, con una traccia non si determina l’esistenza di qualcosa, però viene il dubbio. E in particolare quello che vedete è il radar gram, ovvero la radiografia della superficie del pianeta in quel punto: vedete che la sotto-superficie è molto chiara, luminosa quasi come la superficie. In effetti, questo era quello che succedeva su una singola traccia. Il punto è che, per limitazioni del satellite, non potevamo mandare a terra un’enorme quantità di dati, quindi dovevamo fare compressione dei dati a bordo. È come una macchina fotografica da 16 megapixel: può lavorare a 800 pixel, e ovviamente producete molte più immagini, fa prima a trasmetterle quando la collegate al computer ma perdete anche moltissima informazione, perché ogni pixel è molto grande. Quindi, se ho dei segnali che vanno all’interno di due pixel vicini, non li vedo più. Per fortuna, durante la fase di costruzione di Marsis c’era la possibilità di aumentare la memoria di bordo. Acconsentii ad aumentarla, dicendo: va bene, il satellite ci consente di mandare soltanto a 80 kbit al secondo, però, se noi li memorizziamo, magari quando il satellite non sta mandando nient’altro a terra, ci facciamo mandare i dati di memoria. E per fortuna! Perché, guardate, questi sono i dati processati, ovvero compressi, e questo è il dato non compresso. Nel dato non compresso c’è l’informazione. Quindi abbiamo cominciato ad apprendere tutte le orbite con passaggi nella stessa area – anche con orbite con angolazioni diverse -, nel corso degli anni nei quali avevamo potuto accumulare dati raw, dati grezzi, non processati. E su questo abbiamo potuto lavorare. E questi, a differenza dei dati compressi, processati, che soltanto in un caso o due ci facevano vedere un segnale, in tutti i passaggi che abbiamo avuto sulla stessa area davano costantemente un segnale molto forte. Quanto forte? Forte quanto ci si sarebbe potuto aspettare da uno strato di acqua sotto la superficie a 1500 m di profondità. Qui vedete, in rosso, il segnale della superficie, e in blu il segnale della sotto-superficie; i picchi in quell’area, che sono circa 20 km, sono tutti superiori al segnale di superficie. E questo, ripetuto per 36 passaggi nella stessa area. Abbiamo preso una persona apposta, un esperto di elettromagnetismo, per criticare quello che dicevamo all’interno del team, ed è uno degli autori, perché ovviamente sapevamo che poteva essere veramente un sasso in una pozzanghera dire che c’era acqua liquida su Marte! Noi italiani per primi, per altro. L’altra cosa che ci ha confortato sono le misure di Phoenix (missione Nasa al polo Nord) che, grattando sotto la superficie, ha visto il ghiaccio, lo ha preso e misurato, e ha visto che c’era una grossa quantità di sali. Ora, acqua salata è acqua che non ghiaccia alla stessa temperatura: a seconda della quantità di sali, si abbassa il punto di congelamento. Quindi, le informazioni che avevamo dirette, da Marsis, quindi il dato sperimentale – che tra l’altro contrasta con alcune teorie, e infatti stiamo discutendo adesso, in particolare con un americano che ha elaborato una teoria, ma senza il dato sperimentale, e la fisica ci dice che è la sperimentazione che convalida la teoria e non viceversa – sono che abbiamo un lago di 20 km di ampiezza, a 1400 m di profondità, in quella zona. Se amplifico, vedete che tutte quelle strisciate sono i singoli passaggi, e in un’area in particolare tutti i passaggi coincidono: li abbiamo messi in azzurro per dare più evidenza. Tutti i passaggi corrispondono alla stessa intensità di segnale, un’intensità paragonabile a quella che si trova, nelle medesime condizioni, nei laghi subglaciali dell’Antartide. È un numero magico, è 15: con 15 di riflessione, nei laghi subglaciali ho sempre la presenza di acqua. Questo è quello che avviene nei laghi subglaciali, per altro, dove ho ghiaccio policristallino, su Marte la situazione è ancora migliore. L’altra cosa che so è che nel ghiaccio policristallino – sono cristalli di ghiaccio intorno ai quali ci sono vene di acqua liquida, anche alle temperature dell’Antartide -, in quelle venette si trovano batteri. Quindi, non possiamo dire che su Marte ci sia vita, anche se abbiamo visto l’acqua. Possiamo dire che c’è l’acqua. E se modelli teorici cui diamo conto ci dicono che la vita per come la conosciamo ha bisogno dell’acqua – è una situazione necessaria ma non è detto che sia anche sufficiente o viceversa – ci dice pure che, sulla Terra, l’acqua l’abbiamo in tutte quante le condizioni: liquida, ghiaccio e vapore, nelle tre fasi che l’acqua può avere. E adesso – mi rifaccio anche a quello che ha anticipato Roberto Battiston prima – abbiamo trovato anche l’acqua liquida su Marte. Pochi anni fa l’avevamo trovata in forma liquida sotto il ghiaccio di Encélado, una piccola luna di Saturno, 500 km di diametro, e su Titano. Siamo ragionevolmente certi che c’è acqua liquida sotto la superficie di Europa così come sotto quella di Ganimede, che sono due satelliti di Giove. Oggi sappiamo che l’acqua liquida è molto probabilmente un elemento che è molto più diffuso, in un sistema planetario, di quanto potessimo immaginare solo pochi anni fa. Grazie.

MARCO BERSANELLI
Grazie, Enrico. Credo che questa battuta introduca perfettamente l’argomento di cui adesso ci parlerà Alessandro, andando oltre il nostro sistema solare e guardando la moltitudine di questi pianeti extrasolari che ci accompagnano nella nostra galassia.

ALESSANDRO MORBIDELLI
Grazie, buonasera a tutti. Quindi, parliamo della pluralità dei mondi, lasciando il nostro sistema solare per andare nello spazio della galassia. Ovviamente, l’idea che potessero esistere altri pianeti al di fuori del sistema solare non è nuova: già Giordano Bruno aveva espresso l’idea della pluralità dei mondi nel XVI secolo, l’ha anche pagata cara. Il dibattito sull’esistenza o meno di pianeti al di fuori del sistema solare è passato dal dominio della filosofia a quello della scienza nel 1995, quando due astronomi svizzeri, Michel Mayor e Didier Queloz, a partire dall’Osservatorio dell’Alta Provenza, in Francia, hanno scoperto il primo pianeta extrasolare, cioè il primo pianeta che orbita una stella diversa dal sole. Infatti, intorno alla 51esima stella della costellazione del Pegaso, Mayor e Queloz hanno trovato l’esistenza di un pianeta che ha all’incirca la massa di Giove. Quindi, il primo pianeta extrasolare, 51 Pegasi b. Questa scoperta ha lasciato di sasso anche i professionisti, gli scienziati, perché fino a quel momento pensavamo, senz’altro in modo naif, che tutti i sistemi planetari assomigliassero più o meno al nostro. E nel nostro sistema solare, vicino al Sole, ci sono pianeti piccoli e rocciosi, e i pianeti grandi come Giove sono nel sistema solare esterno. Invece questo pianeta, che è grande come Giove, si trova a una distanza dalla sua stella che è soltanto un decimo della distanza fra Mercurio e il Sole, mentre Giove si trova a dieci volte la distanza fra Mercurio e il Sole. Quindi, già subito, a partire dal primo pianeta, la constatazione è che i sistemi planetari possono essere assai diversi dal nostro, come vedremo in seguito. Questa immagine che vedete alle mie spalle non è una fotografia, è un disegno d’artista, ovviamente, perché, com’è spiegato molto bene nella mostra sui sistemi extrasolari qui al Meeting, che vi invito a visitare, i pianeti extrasolari di solito non sono direttamente visibili perché sono molto piccoli rispetto alla stella e sono molto vicini rispetto alla loro stella, e quindi vengono detettati in modo indiretto. Ad esempio, quando un pianeta orbita una stella, anche la stella si muove un pochino, e questo movimento della stella può essere misurato da terra con quello che si chiama l’effetto Doppler. Oppure, durante la sua orbita, il pianeta può passare davanti alla stella, e in questo caso crea una mini-eclisse, e anche questa si può detettare dal suolo, e quindi rendersi conto che periodicamente c’è un piccolo oggetto che passa davanti alla stella. Gli unici pianeti extrasolari che possiamo vedere direttamente sono dei pianeti assai eccezionali, sono pianeti molto grossi che si trovano lontani dalla loro stella. Quello che vedete qui, ad esempio, è il sistema HR 8799, che è un sistema fatto da quattro pianeti giganti, molto grossi, una massa fra 5 e 10 masse di Giove, e che si trovano tutti a una distanza dalla loro stella che è superiore a quella di Urano dal Sole, per intenderci. E quello che vedete girare alle mie spalle non è una simulazione o un’immagine sintetica, è veramente quello che si vede al telescopio: questa è una sequenza di fotografie prese fra il 2009 e il 2016, che fanno vedere i quattro pianeti ruotare intorno alla loro stella. Io mi emoziono ogni volta che vedo quest’immagine, perché mai avrei pensato, vivente, di poter vedere un sistema extrasolare in rotazione con i miei occhi. È veramente qualcosa di incredibile, di inimmaginabile. Adesso, il diagramma che vedete – niente panico, è l’unico diagramma cartesiano che vi mostrerò – mostra il censimento dei pianeti extrasolari noti al giorno d’oggi: oggi conosciamo qualcosa come tremila pianeti extrasolari in quattrocento sistemi extrasolari; l’asse orizzontale indica la distanza del pianeta rispetto alla loro stella in unità astronomiche (l’unità astronomica è la distanza fra la Terra e il Sole), e l’asse verticale indica la massa del pianeta in masse gioviane. Quindi, ogni punto che vedete, rosso o blu, è un pianeta extrasolare scoperto al giorno d’oggi: il colore dipende dalla tecnica osservata per scoprirlo, ma poco importa. Invece, i disegni mostrano Venere, la Terra, Giove e Saturno per paragonare la struttura del nostro sistema solare con la distribuzione dei pianeti extrasolari scoperti al giorno d’oggi. E già a colpo d’occhio vedete che i pianeti extrasolari si raggruppano in tre classi: c’è un gruppo che è quello di Giovi caldi, perché sono pianeti che hanno una massa comparabile a quella di Giove, come 51 Peg b, ma che sono molto vicini alla loro stella, più vicini di quanto Mercurio lo sia al Sole, e quindi immaginiamo che la temperatura della loro atmosfera sia enorme a causa dell’irraggiamento della stella, da cui il nome “Giove caldo”. Poi c’è un altro gruppo di pianeti di massa gioviana che è più lontano: questi pianeti tendono ad essere più vicini di Giove alla loro stella, tendono ad essere più o meno al posto dei nostri pianeti terrestri, della Terra, di Venere, della cintura degli asteroidi, da una frazione di unità astronomica fino a 4, 5 unità astronomiche di distanza dalla loro stella. Il terzo grande gruppo di pianeti extrasolari è quello delle Super-Terre, su cui tornerò dopo: sono pianeti che hanno una massa comparabile fra 1 e10 masse terrestri, e un’orbita più piccola dell’orbita di Mercurio o dell’orbita di Venere. Allora, ci sono già due considerazioni che si possono fare a partire da questo diagramma. La prima considerazione è che molte stelle, in realtà fra il 50 e il 70% delle stelle osservate, posseggono dei pianeti che non hanno analogo nel nostro sistema solare. Per esempio, Giovi caldi, che da noi non ci sono, o Super-Terre (il sistema solare non ha Super-Terre). L’altra considerazione che si deve fare guardando dove sono i pianeti del sistema solare rispetto ai pianeti del sistema solare detettati, è che, a parte qualche Giove, pianeti analoghi ai nostri non sono stati ancora scoperti. Questa però è una limitazione tecnica perché i nostri pianeti sono piccolini, abbastanza distanti dalla stella, e quindi sono pianeti assai difficili da vedere. Per un extraterrestre che possiede una tecnologia analoga alla nostra, e che guarda, quindi, il Sole da fuori, l’unico pianeta del sistema solare detettabile per il momento, con la tecnologia attuale, sarebbe Giove. Quindi, se vogliamo rispondere dal punto di vista osservativo alla domanda: quanto è tipico il nostro sistema solare?, dobbiamo sapere che, per il momento, abbiamo dati scientifici solo rispetto alla tipicità della coppia Sole-Giove. Gli altri pianeti non sono detettabili ma Giove sì. Cominciamo col chiederci quanto sia tipico il Sole. In una distanza di trenta anni luce da noi, ci sono 414 stelle che sono state studiate e misurate dagli astronomi negli anni. Le stelle si classificano in diversi gruppi spettrali, che – come vedete nel diagramma alle mie spalle – dipendono dalla massa, dalla luminosità, dalla temperatura delle stelle. Più sono piccole, più sono numerose. Il Sole è una stella di tipo G, e in realtà soltanto il 10% di stelle nella galassia è di tipo G. Il 90% restante è diverso, tipicamente più piccolo, meno brillante, meno caldo del Sole. Dalle scoperte fatte sui pianeti extrasolari – dicevo che i pianeti della massa di Giove possono essere detettati -, si è scoperto che solo il 10% circa delle stelle possiede un pianeta di massa comparabile a Giove. Di solito, i pianeti che hanno le stelle sono molto più piccoli, il 10% ha un pianeta di massa gioviana. Ma quando guardiamo questi Giovi extrasolari, ci accorgiamo anche che la loro orbita è molto strana, diversa da quella del nostro Giove: sono le orbite che vedete alle mie spalle tracciate in giallo, tipicamente o molto piccole, che assomigliano più a quella della Terra che a quella dello stesso Giove, oppure molto ellittiche, mentre Giove ha un’orbita abbastanza circolare e assai distante dal Sole. In realtà, fra tutti i pianeti di massa gioviana osservati intorno ad altre stelle, solo il 10% circa ha un’orbita più o meno simile a quella di Giove. Possiamo tirare le somme di queste considerazioni. Soltanto il 10% delle stelle è come il Sole, soltanto il 10% delle stelle ha un pianeta di massa gioviana, soltanto il 10% dei pianeti di massa gioviana ha un’orbita più o meno simile a quella di Giove. E soltanto la metà delle stelle non hanno Super-Terre, come il sistema solare. Quindi, se si fa il prodotto, si trova che la coppia Sole-Giove esiste nello 0,05% dei casi. Vuole dire che soltanto una stella su duemila ha un pianeta come Giove e costituisce una coppia Sole-Giove. Ovviamente, il sistema solare è molto più complicato della coppia Sole-Giove: per esempio, è essenziale, l’esistenza della Terra, l’esistenza di Saturno. E di questi pianeti non sappiamo nulla. Sicuramente, la probabilità che un sistema solare analogo al nostro esista nella galassia è inferiore a uno su duemila, e questi sono proprio dati scientifici, vengono dall’osservazione, non sono speculazioni. È un fatto importante, un po’ una controrivoluzione copernicana. Con Copernico, infatti, con la rivoluzione copernicana noi abbiamo capito che la Terra non è il centro dell’universo, è un pianeta come tanti altri che girano intorno a una stella; e il Sole non è il centro dell’universo, è una stella come tante altre che gira intorno al centro della galassia. Con la scoperta dei sistemi extrasolari troviamo, adesso, che il sistema solare non è poi un sistema così banale: non voglio arrivare a dire che sia un sistema privilegiato ma, senz’altro, è una “minorità etnica” nella popolazione dei sistemi planetari. D’altra parte, però, come è stato già detto più volte, c’è un grandissimo numero di stelle nella galassia: le stelle nella galassia sono stimate in qualche centinaio di miliardi, che è un numero molto grande ma, in fin dei conti, è un quarto del debito pubblico italiano in euro. C’è ancora qualcosa che si riesce a concepire, il noto debito galattico, non stellare, ma addirittura galattico! E quindi, se anche le coppie Sole-Giove esistono solo nello 0,05% dei casi, ci aspettiamo che ci siano 250 milioni di coppie Sole-Giove nella galassia, tutti candidati ad essere analoghi al nostro sistema solare; poi, una frazione di loro lo sarà e il resto no. In più, ci sono centinaia di miliardi di galassie nell’universo, quindi sicuramente sistemi solari come il nostro devono esistere. Però l’universo è enorme: vuole dire che statisticamente sono lontani l’uno dall’altro. Se vogliamo parlare di vita, penserete che è un po’ riduttivo pensare che si possa sviluppare solo in un sistema solare analogo al nostro, su un pianeta identico alla Terra: probabilmente è vero. Quindi, dobbiamo ragionare sulla possibilità dell’esistenza di una vita esotica, cioè una vita che possa svilupparsi su pianeti, in sistemi planetari non identici al nostro. Fra tutti i pianeti extrasolari scoperti al giorno d’oggi, le Super-Terre sono senz’altro i migliori candidati per ospitare potenzialmente la vita; senz’altro non i pianeti di massa gioviana, perché sono gassosi, fatti essenzialmente di idrogeno ed elio ed è difficile immaginare che ci sia vita. Ma nelle Super-Terre, forse, c’è una chance. Quindi, parliamone. Vi ho detto che le Super-Terre sono pianeti, essenzialmente rocciosi, che hanno una massa fra 1 e 10 masse terrestri, e un’orbita più piccola dell’orbita di Venere, come vedete nel diagramma. Le Super-Terre, tipicamente, appartengono a sistemi di Super-Terre: quando si trova una Super-Terra intorno a una stella, di solito se ne trovano parecchie, a differenza dei pianeti giganti. Quando invece si trova un pianeta gigante intorno a una stella, di solito è da solo. Invece le Super-Terre appartengono a sistemi. Qui, ad esempio, alle mie spalle, c’è lo schema di un sistema extrasolare, Kepler 11, che possiede sei Super-Terre. Vedete le orbite dei pianeti in scala rispetto all’orbita di Mercurio e all’orbita di Venere. Sono orbite co-planari, quasi circolari, molto simili a quelle dei pianeti terrestri, semplicemente più piccole: il tutto sta all’interno dell’orbita di Mercurio o all’interno dell’orbita di Venere. Ovviamente, essere su un’orbita piccola, ravvicinata alla stella, può essere un problema, perché se la stella è brillante come il Sole e il pianeta orbita molto vicino al Sole, fa molto caldo e quindi la temperatura diventa molto elevata, impossibile per la vita. Pensiamo, infatti, come è stato ricordato prima, che la vita, per potersi sviluppare, abbia bisogno di acqua liquida; e per avere dell’acqua liquida in superficie bisogna che la temperatura sia moderata. Ovviamente, se un pianeta è molto vicino alla stella la temperatura è altissima, quindi l’acqua evapora sotto forma di vapore, non liquida, e la vita non può svilupparsi. Se invece il pianeta è troppo lontano dalla stella, la temperatura è molto bassa, tutta l’acqua gela, e per avere acqua liquida in superficie bisogna essere in una zona intermedia, che in questo diagramma è tracciata in verde. La chiamiamo zona abitabile, dove zona abitabile dipende poi dalle caratteristiche dei pianeti. Però, grosso modo, è una zona intermedia e la distanza della zona abitabile dalla stella dipende ovviamente dalla luminosità della stella. Intorno a stelle molto brillanti, ad esempio come Vega, che quindi emettono una grande quantità di energia, la zona abitabile deve essere abbastanza lontana dalla stella, se no la temperatura è troppo elevata. Con una stella di massa intermedia come il Sole, la zona abitabile è a un’unità astronomica, e non a caso questa è la distanza Terra-Sole, e la Terra si trova in centro alla zona abitabile. Infatti, come sappiamo, è abitabile. Ma se andiamo a stelle di massa e luminosità inferiore, che sono più rossicce, come questo diagramma mostra, la zona abitabile è molto più vicina alla stella perché la stella è molto meno brillante e scalda molto meno. Ora abbiamo visto che le Super-Terre tipicamente hanno una distanza dalla loro stella, indipendentemente dal tipo di stella, che è comparabile alla distanza di Mercurio dal Sole. Se orbitano stelle come il Sole o più massicce del Sole, sicuramente non sono abitabili, fa troppo caldo, non c’è nessuna speranza di trovare acqua liquida; ma se orbitano stelle nane, di debole massa, cadono in pieno nella zona abitabile. Questo diagramma infatti mostra uno dei casi più interessanti, il sistema solare “trappista uno” scoperto recentemente dai colleghi dell’università di Liegi. È un sistema di sette pianeti di massa e dimensione veramente analoga alla Terra, che orbitano in una stella molto piccola, grande un ventesimo del Sole. Questo diagramma mostra le orbite dei pianeti, così vicine alla stella che sono state ingrandite 25 volte per farle vedere. In realtà, sono come un sistema in miniatura che è ben più piccolo della distanza Sole-Mercurio, mentre le dimensioni dei pianeti sono in scala, quindi come vedete, i sette pianeti, grosso modo, sono tutti di dimensione terrestre. Ebbene, di questi sette pianeti, tre – D, E, F – sono nella zona abitabile: in teoria ricevono una quantità di energia sufficiente, non eccessiva, non troppo poca, per mantenere acqua liquida alla superficie. Quindi, pianeti abitabili, Super-Terre esistono, però l’abitabile deve essere messo fra virgolette perché, a questo punto, uno deve porsi la domanda se questi pianeti che si trovano nella zona abitabile siano veramente tali. Effettivamente, ci sono delle difficoltà non banali da investigare. Una di queste è che le Super-Terre abitabili, come abbiamo visto, sono molto vicine alle stelle di piccola massa, quindi soffrono molto gli effetti di marea. Di conseguenza, questi pianeti dovrebbero mostrare sempre la stessa faccia alla loro stella, come la Luna mostra sempre la stessa faccia a noi, alla Terra, a causa degli effetti di marea. Allora, se un pianeta mostra sempre la stessa faccia alla stella, è vero che in media la sua temperatura sarà buona per l’acqua liquida, però in realtà c’è un emisfero che è sempre al sole dove fa molto caldo, e un emisfero dove è sempre notte e fa molto freddo. Quindi, non è chiaro qual è la vera abitabilità di questi pianeti. Può darsi che la vita si sviluppi al margine fra la parte illuminata e la parte scura, dove c’è una specie di tramonto perenne, oppure è possibile che questi pianeti abbiano una spessa atmosfera, con fortissimi venti che distribuiscono energia dall’emisfero illuminato verso l’emisfero oscuro, ridistribuendo la temperatura. Non lo sappiamo. Un’altra difficoltà è che queste stelle di debole massa hanno sì una debole luminosità ma anche una tendenza a emettere molti raggi ultravioletti e molti raggi X: e come sappiamo tutti dalle radiografie, con i raggi X bisogna andarci calmi, perché sono nocivi alla vita. Quindi, non è chiaro se i pianeti che si trovano nella zona abitabile ma sono continuamente bombardati da raggi X, una specie di radiografia perenne, possano sviluppare vita oppure no. Un’altra difficoltà è che la vera abitabilità di un pianeta non dipende solo dalla sua distanza dalla stella ma anche dalla sua composizione. Ovviamente, se un pianeta di acqua non ne ha, anche se è nella zona abitabile la vita non è possibile; ma anche se c’è acqua, anzi se c’è troppa acqua, è un problema. E questo ho mostrato nei tre diagrammi. La Terra ha una composizione che è indicata nel diagramma di destra: un nucleo di metallo, un mantello e una superficie essenzialmente occupata dall’oceano. La Terra ha l’acqua ma non ne ha tanta, l’acqua in totale costituisce solo lo 0,02% della massa della Terra. Se una Super-Terra ha una composizione analoga alla Terra, diciamo ha una quantità d’acqua fino a 1% della sua massa, più o meno è analoga alla Terra. Ma se prendiamo una Super-Terra che ha più dell’1% della sua massa in acqua, le cose cambiano radicalmente perché l’acqua va in superficie ma, essendo l’oceano molto profondo, c’è una grandissima pressione. Indipendentemente dalla temperatura, ad alta pressione l’acqua ghiaccia, quindi ci si aspetta che il pianeta abbia la struttura che ho mostrato nel diagramma di sinistra, una coltre di acqua liquida se è nella zona abitabile, ma sotto questa coltre di acqua, una spessa zona di ghiaccio che separa l’acqua dalle rocce. Questa ad esempio è la composizione di Ganimede, una delle lune di Giove, e in più ha anche una banchisa sopra l’acqua liquida. Ora, questo è un problema per la vita perché in realtà non ci vuole solo l’acqua per sviluppare la vita, l’acqua per se stessa è sterile; per sviluppare la vita, ha bisogno di essere contaminata con nutrienti, con sali minerali come il fosforo, ecc. E questi sali minerali vengono dall’erosione dell’oceano, dall’erosione del fondo oceanico e delle coste continentali da parte dell’oceano. Ma se c’è uno spesso strato di ghiaccio che separa l’acqua dal mantello, questa erosione non ci può essere e quindi l’acqua resta sterile: può essere un problema allo sviluppo della vita. Gli unici elementi minerali che si possono trovare in questa acqua possono essere portati da eventuali meteoriti che cadono nell’oceano, non lo sappiamo. Un terzo elemento di difficoltà può essere legato alla natura dell’atmosfera e alla velocità alla quale questi pianeti si sono formati. Ci sono buone ragioni per pensare che le Super-Terre si formino molto in fretta, e i pianeti che si formano molto in fretta catturano dal disco foto-planetario idrogeno ed elio. Quindi, hanno un’atmosfera di idrogeno ed elio, acquisiscono una struttura simile a quella di Nettuno, che ha un nucleo, un mantello e poi un’estesa atmosfera di idrogeno ed elio. E questa atmosfera di idrogeno ed elio può essere un problema. Perché può essere un problema? Ad esempio, non è possibile produrre ossigeno: immaginate che ci sono dei cianobatteri che producono ossigeno, l’ossigeno si libera nell’atmosfera e si combina immediatamente con l’idrogeno e forma acqua, quindi l’ossigeno non si può accumulare nell’atmosfera. È vero che non tutte le forme di vita hanno bisogno di ossigeno per prosperare, però sulla Terra le forme di vita più evolute, gli animali, usano l’ossigeno. Quindi, se le Super-Terre hanno queste atmosfere di idrogeno, è assai limitante la qualità della vita che si può sviluppare. Sappiamo che molte Super-Terre hanno un’atmosfera estesa di idrogeno, questo viene dedotto dalla misura del loro raggio rispetto alla loro massa. Vorrei poi dire una parola sulla diversità di questi sistemi planetari. Abbiamo visto che il sistema solare è tutt’altro che tipico, e può sorgere una domanda naturale: perché tanta diversità tra i sistemi planetari? I processi della fisica sono universali, quindi ci aspetteremmo che i processi universali dessero strutture universali. Ad esempio, ci aspetteremmo, ci aspettavamo – prima della scoperta dei pianeti extrasolari – che vicino alla stella la temperatura nel disco foto-planetario fosse elevata e quindi si potessero formare solo pianeti relativamente piccoli, fatti da materiale refrattario che è solido ad alta temperatura come i silicati. Mentre più lontano, al di là di una certa distanza limite che chiamiamo in inglese la snow line, la linea del ghiaccio, l’acqua è in forma di ghiaccio, c’è più massa solida, quindi si formano dei pianeti molto più grossi e ricchi di ghiaccio. Ci si aspettava che questa struttura che troviamo nel sistema solare fosse universale, invece non è così. Perché? La risposta è che c’è un altro processo universale che è la migrazione. La migrazione non è solo un processo universale nell’evoluzione dei popoli, è anche un processo universale nell’evoluzione dei sistemi planetari. Quando i pianeti si formano nel disco foto-planetario intorno alla stella, per interazione gravitazionale col disco migrano e si spostano verso la stella, e questa velocità di migrazione dipende dalla massa dei pianeti, da dove si trovano, ecc. Quindi, anche se all’inizio tutti i pianeti si formano con un certo ordine universale, con la migrazione i pianeti si spostano a velocità diverse, si avvicinano, le orbite si intersecano, i pianeti si possono scontrare, possono disturbare mutualmente le loro orbite. E quindi, la migrazione è veramente il processo che distrugge questo ordine primordiale, introducendo una fase temporanea di evoluzione che chiamiamo in matematica caotica, e quindi un’evoluzione molto diversa, molto sensibile, dai piccoli valori, dai parametri alle condizioni del sistema. E questa evoluzione caotica dà alla fine una panoplia, una grande diversità di sistemi finali, di nuovo stabili. Fra questi sistemi finali possibili, c’è anche la struttura del sistema solare, ma servono determinati avvenimenti ben precisi, probabilmente di debole probabilità che spiega perché il sistema solare probabilmente non rappresenti più dello 0,05% dei casi. Quindi, per concludere, bisogna ricordare che, alla luce dei dati odierni, praticamente tutte le stelle sono accompagnate dai pianeti. Sappiamo anche però ormai che il sistema solare non è un sistema planetario tipico, anzi, deve essere un sistema planetario assai atipico, che rappresenta al più lo 0,05% dei casi, probabilmente meno. Le Super-Terre sono invece pianeti assai tipici, circa la metà delle stelle hanno le Super-Terre, e ce n’è un po’ dappertutto. Le Super-Terre che orbitano le stelle più piccole possono essere pianeti abitabili, e c’è una Super-Terra abitabile vicino a noi, la stella più vicina, Proxima Centauri. È una stella nana, come ricordava Roberto, ha una Super-Terra abitabile, è il pianeta che si pensa di visitare con la piccola sonda spinta a un terzo della velocità della luce con i raggi laser di cui parlava Roberto prima. Non è chiaro se questi pianeti, detti abitabili perché sono a distanza giusta dalla loro stella, siano effettivamente abitabili, come ho detto, è tutt’altro che evidente, ne sapremo probabilmente di più con i futuri strumenti che permetteranno di sondare le proprietà della loro atmosfera. E questi strumenti sono il James Web Space Telescope che dovrebbe essere lanciato nel 2021; a un orizzonte un po’ più lungo, il satellite Ariel della Agenzia Spaziale Europea, che fra l’altro è stato ideato ed è diretto da una scienziata italiana, Giovanna Tinetti, che è professoressa a Londra. Tutto ciò riguarda l’abitabilità dei pianeti. Resta l’ultimo punto: il passaggio dalla chimica al vivente è tutt’altro che evidente ed è ancora molto poco compreso. Sono totalmente ignorante in materia, ma sarà il soggetto dell’incontro che ci sarà qui giovedì, nella stessa aula, stesso orario. Vi invito a partecipare, ci saranno grandi esperti e sarà estremamente interessante. Ma alla luce di questi elementi, direi che è legittimo pensare che la vita esiste nell’universo, visto il numero di stelle e di galassie. Però è possibile, è probabile che la vita sia rara. Grazie.

MARCO BERSANELLI
Grazie di questo straordinario contributo, come detto ci sarà modo di rincontrare i nostri relatori di oggi nell’area Exoplanets, propongo una rapida domanda per un giro velocissimo per poi magari riprenderlo in queste conversazioni. Quali sono secondo voi le prossime tappe decisive per arrivare a una risposta più chiara a questa grande domanda della possibilità di vita altrove? E poi, perché secondo voi questa domanda cattura così profondamente la nostra attenzione, e che tipo di cambiamento implicherebbe l’eventuale scoperta della vita altrove rispetto a quello che noi pensiamo essere la vita?

ROBERTO BATTISTON
Per quanto riguarda il prossimo passo, credo che l’approfondimento dello studio di un pianeta come Marte, dove sappiamo che c’è stata e c’è ancora acqua, anche se sottoterra, con strumenti più sofisticati, penetrando la superficie per la prima volta con exomas, sia sicuramente qualcosa di meritevole e importante. L’Italia ha la leadership di questa missione e sta facendo un grandissimo sforzo economico ma anche intellettuale, tecnologico. Ci aspettiamo ottimisticamente sorprese positive da tutti quegli studi. Il prossimo passo: sarebbe fantastico avere la possibilità di vedere la nostra specie umana su un pianeta come Marte, perché il ritmo a cui faremmo scoperte aumenterebbe di ordini di grandezza e quindi ci avvicineremmo molto, nel caso in cui Marte avesse in serbo delle sorprese, a delle scoperte. Per quanto riguarda la seconda domanda, penso che la risposta stia veramente all’interno di ciascuno di noi. È una di quelle domande fondamentali per cui, nell’istante in cui viene formulata, ci mette in contatto con l’universo intorno a noi, ci mette in contatto con l’immensità. Credo sia qualche cosa di irresistibile porsi la domanda se siamo soli o meno nell’universo, e lavorare per sforzarci di rispondere è qualcosa di primordiale, come la fame, come la sete, come il sonno, è qualcosa che interroga profondamente il nostro essere.

MARCO BERSANELLI
Grazie.

ENRICO FLAMINI
Io penso che se parliamo dei prossimi passi, dobbiamo guardare sicuramente nella direzione di Marte. E concordo con quello che diceva prima Roberto, però aggiungerei anche che la superficie di Marte equivale alla superficie di tutti i continenti della Terra sommati, è grande come pianeta, e cercare, nei pochi punti in cui si è riusciti finora ad atterrare, di trovare tracce può essere anche un fatto di fortuna. Se una sonda aliena atterrasse nel deserto di Atacama, la probabilità di trovare forme viventi potrebbe essere molto bassa; se atterrasse in questo momento in questa sala, ovviamente, ne troverebbe a dismisura. Marte è grande, quindi dovremmo probabilmente cercare di sviluppare strumenti che sono in grado di fare lunghi percorsi sulla sua superficie. L’altro elemento secondo me fondamentale è il ritorno di campioni sulla Terra, perché miniaturizzare uno strumento per cercare tracce anche fossili di vita non è banale, mentre per un campione sulla Terra si possono utilizzare laboratori grandi e piacevoli. L’altra cosa che mi piacerebbe fare è atterrare su Encelado o su Europa e cercare di portare tracce di materiale, analizzato in loco o portato sulla Terra. Abbiamo già visto, passando con Cassini nei geiser di Encelado e riportando indietro campioni, che potrebbe darsi una visione di quello che succede in un’acqua che sta lì da molto tempo a contatto con delle rocce, quindi sali e protezione dalla radiazione. Per quanto riguarda la seconda domanda, la risposta è probabilmente che noi non possiamo: è difficile che l’uomo riesca a immaginare un singolo essere, noi non siamo abituati a essere soli, l’uomo è comunque una specie gregaria, in qualche maniera. E pensare che come specie gregaria siamo l’unica specie presente nell’universo, è sicuramente molto difficile, non impossibile ma difficile. Devo dire che c’è un fattore che non stiamo considerando perché, anche mentre sentivo la presentazione di Alessandro, noi stiamo vedendo un’istantanea dell’universo che scorre nel tempo. Ammesso che gli altri sistemi planetari abbiano più o meno l’età del sistema solare, parliamo di cinque, sei, nove miliardi di anni, quindi parliamo di periodi lunghi. Sappiamo che anche sulla Terra la vita si è sviluppata in un arco di tempo che non è un intero arco di formazione e tanto meno di migrazione all’interno del sistema solare dei vari pianeti. Quindi, quello che vediamo è hic et nunc, è tutto?

MARCO BERSANELLI
Grazie.

ALESSANDRO MORBIDELLI
Per quanto riguarda i pianeti extrasolari, come ho detto ci saranno presto nuovi strumenti, come il James Web Space Telescope e Ariel, che permetteranno di caratterizzare l’atmosfera di queste Super-Terre abitabili. Io però sono un po’ scettico sul fatto che le Super-Terre siano veramente abitabili, credo si sia capito. Penso che la prossima tappa sia scoprire dei veri pianeti analoghi ai pianeti terrestri, quindi pianeti intorno a stelle come il Sole, equidistanti per essere nella zona abitabile. È molto più probabile che questi pianeti si formino lentamente, la Terra si è formata molto lentamente e questa è una chiave per la sua abitabilità. La ragione per cui non abbiamo un’atmosfera di idrogeno ma di azoto, è legata alla lentezza con cui la Terra si è formata, circa cento milioni di anni fa. E il telescopio spaziale Plato, che verrà lanciato nel 2024, se non mi sbaglio, permetterà di trovare pianeti terrestri nella zona abitabile intorno a stelle di tipo Sole. A quel punto, si potranno avere esempi più concreti di pianeti abitabili. Per quanto riguarda la seconda domanda, io penso che l’uomo in quanto animale intelligente e curioso si ponga le domande e la domanda sull’esistenza della vita: se siamo soli nell’universo o no è la domanda regina di tutte le domande, quindi è la domanda principale. In realtà, nei miei momenti di depressione, quando vedi i lati peggiori della società così individualista e consumista, ho paura che se un giorno scoprissimo la vita, la reazione sarebbe: «So what?». Farebbe i titoli dei giornali per un giorno o due e poi la cosa finirebbe lì. Spero di sbagliarmi, vorrei vedere l’umanità entusiasmarsi di fronte alla scoperta della vita e lanciare il proprio motore in una nuova fase della ricerca, per capire bene quali sono le caratteristiche di questa vita e fino a dove l’evoluzione darwiniana ha portato la vita.

MARCO BERSANELLI
Grazie. Siamo molto grati ai nostri ospiti di oggi, credo che ci abbiano resi partecipi di un momento straordinario che stiamo vivendo per la nostra conoscenza dell’universo, in particolare rispetto alla possibilità della vita, del posto che ha la vita nella grande stanza dell’universo. Ma bisogna riconoscerlo, lo abbiamo potuto toccare con mano, sono ancora molte più le domande che le risposte, e questo è molto bello. Bisogna avere il gusto di sostare sulla domanda quando ancora la risposta non c’è, perché questo muove la ricerca, fa venire voglia di interrogare la realtà in un modo nuovo. Sono domande grandi, che ci appassionano e magari un po’ ci inquietano, ma la ragione umana è un’apertura a una realtà che non abbiamo fatto noi, che non possiamo decidere noi come è fatta, ed è questo che ci rende liberi nella ricerca, senza paura, senza preconcetto nel tentare di comprendere ciò che sta oltre l’orizzonte del già noto, del già conosciuto. Da questo punto di vista, mi permetto di concludere citando un’osservazione che Papa Francesco ha fatto recentemente a un convegno di astrofisici. Come sapete, il Vaticano ha un suo osservatorio astronomico, tra l’altro fra i più antichi. Alla Specola vaticana c’era un convegno di astrofisici a cui il Papa è intervenuto e ha fatto delle osservazioni molto interessanti. Ha detto: «È sempre importante iniziare una ricerca ammettendo che c’è molto che non sappiamo, d’altra parte, proprio come non dobbiamo mai pensare di sapere tutto, allo stesso modo non dovremmo mai temere di provare ad imparare di più». Grazie.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

21 Agosto 2018

Ora

17:00

Edizione

2018
Categoria
Incontri