’68 E OLTRE. «NOUS VOULONS VIVRE». Giovani, consumi, rivoluzioni

’68 E OLTRE. «NOUS VOULONS VIVRE». Giovani, consumi, rivoluzioni

Partecipano: Edoardo Bressan, Professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Macerata; Eugenio Capozzi, Professore Ordinario di Storia contemporanea all’Università “Suor Orsola Benincasa” Napoli; Giovanni Orsina, Professore Ordinario di Storia Contemporanea e di Sistemi Politici Europei all’Università LUISS “Guido Carli” di Roma. Introduce Marta Busani, Assegnista di Ricerca in Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano.

 

Ore: 19.00 Arena della Storia A5
‘68 E OLTRE. «NOUS VOULONS VIVRE». Giovani, consumi, rivoluzioni

Partecipano: Edoardo Bressan, Professore Ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Macerata; Eugenio Capozzi, Professore Ordinario di Storia contemporanea all’Università “Suor Orsola Benincasa” Napoli; Giovanni Orsina, Professore Ordinario di Storia Contemporanea e di Sistemi Politici Europei all’Università LUISS “Guido Carli” di Roma. Introduce Marta Busani, Assegnista di Ricerca in Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano.

MARTA BUSANI
Grazie a tutti di essere qui, benvenuti al primo incontro dal titolo: «Nous voulons vivre». Giovani, consumi, rivoluzioni”, di un ciclo che vedete anche sul muro di questa Arena della Storia, legato alla mostra che poi vi invito a visitare, “Vogliamo tutto 1968-2018”. Nei prossimi giorni, incontreremo tanti testimoni o interlocutori che dialogheranno con noi a partire dalle domande che sono nate appunto dal lavoro della mostra, ma oggi iniziamo da un incontro di storia. Mi sono chiesta: «Perché proprio un incontro di storia al Meeting?»; «Perché una mostra di storia sul ‘68 al Meeting?». Vi rubo qualche minuto per raccontarvi di uno dei dialoghi da cui un anno fa è nata la decisione di iniziare il lavoro che poi ha dato vita alla mostra e a questo ciclo di incontri. È stato il dialogo con uno studente di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano che esprimeva il desiderio di poter fare qualcosa sul ‘68 in occasione dell’anniversario, dei cinquant’ anni della protesta studentesca. Approfondendo la discussione con questo studente, è stato chiaro che il suo interesse nasceva da una domanda che lui sentiva bruciante rispetto al presente, ovvero: «Come posso cambiare il mondo?». Come possiamo contribuire al cambiamento del mondo? Il ‘68 – magari allora percepito nel mito in cui era ancora racchiuso per noi – sembrava offrire degli spunti, magari essere una strada da riproporre. Per questo abbiamo iniziato questo lavoro, abbiamo avuto bisogno di un anno di studio. Infatti, la mostra doveva essere di qualche pannello e ci è esplosa fra le mani perché avevamo bisogno di capire anche la complessità, le contraddizioni del ‘68, di cui parleremo stasera. A questo credo serva la storia: a non appiattire la realtà, a imparare a tenere conto di tanti fattori, a complicare e a rendere complesse cose che normalmente sono complesse. E alla fine di questo lavoro – lo dico come introduzione a questa settimana di incontri – la domanda di quello studente di Giurisprudenza è rimasta, non si è affatto chiusa: «Come si può contribuire al cambiamento del mondo? Come possiamo noi contribuire al cambiamento del mondo?».
Magari si è acuita, però certamente si è trasformata, è diventata forse meno romantica, più matura perché in questo cammino, anche di conoscenza, dei giovani del ‘68 è nata una nuova domanda: «Che cosa cambia veramente il mondo?». Oppure, come recita anche il titolo di questa edizione del Meeting: «Che cosa rende felice l’uomo?», potremmo dire. A quella domanda bruciante se ne sono aggiunte di nuove e forse ben più radicali, su cui dialogheremo in questa settimana con gli ospiti che abbiamo invitato. Anche perché è chiaro, dal percorso della mostra, dalle vicende dei sessantottini, che forse è un’illusione pensare che si possa cambiare il mondo senza cercare strade che cambino – come appunto recita il titolo del Meeting – il cuore dell’uomo. Volevo lanciare questa provocazione per l’inizio di questa settimana insieme. In questo incontro, abbiamo chiesto a tre importanti storici italiani di rispondere ad alcune domande che sono nate dal cammino della mostra “Vogliamo tutto”. Ve li presento: Edoardo Bressan, che è anche uno dei curatori della mostra, docente di Storia contemporanea all’Università di Macerata e prima all’Università degli Studi di Milano. Ha studiato moltissimo il mondo cattolico, importantissimo il suo libro sulla figura di don Gnocchi, la storia dell’assistenza in modo particolare. Infatti, a lui chiederemo di aiutarci a capire anche il cammino del mondo cattolico negli anni Sessanta; il prof. Eugenio Capozzi, per la prima volta qui al Meeting, siamo molto contenti che abbia accettato il nostro invito, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. I suoi studi sono talmente vasti che è difficile sintetizzarli, per ora dico i suoi ultimi lavori. È del 2016 Storia dell’Italia moderata. Destre, centro, anti-ideologia e anti-politica nel secondo dopoguerra: la storia dei partiti e del pensiero politico italiano, uno dei tanti ambiti di cui si è occupato. Sta elaborando nuovi studi sulla storia delle contro-culture della fine degli anni Cinquanta, della musica rock e ci aiuterà a capire alcuni di questi aspetti. Il professor Giovanni Orsina non ha bisogno di presentazioni. Professore ordinario di Storia contemporanea e di Sistemi politici europei all’Università LUISS “Guido Carli” di Roma, i suoi studi sono famosissimi. Cito uno degli ultimi volumi, sulla storia del “berlusconismo” in Italia. Ha studiato però moltissimo le vicende dell’associazionismo studentesco giovanile negli anni Sessanta. È uno storico-politico e a lui vedrete chiederemo cose interessanti. Per non togliere altro tempo, inizierei con alcune domande che ci aiutano ad entrare in questo percorso e che sono state pensate insieme agli studenti che hanno fatto la mostra. Poi, ci saranno alcune domande preparate ed eventualmente, se saremo molto veloci, anche domande ulteriori. Prof. Capozzi, uno degli aspetti che emerge è che alla fine degli anni Cinquanta, e poi negli anni Sessanta, si sviluppano tutta una serie di culture giovanili anti-sistema che esprimono in fondo, forse – chiedo anche a lei – una prima forma di ribellione alla società capitalistica, e comunque al mondo che si sta prefigurando. Parlo dei Teddy boys, della nascita del rock, degli hippies, della cultura dei capelloni, varie forme di ribellismo giovanile che però allora, da molti interlocutori e osservatori dell’epoca, vengono liquidate come teppismo giovanile. Allora, la domanda che nasceva era, innanzitutto, perché proprio in quel momento storico nascono queste prime forme di controcultura giovanile? E poi e, in un certo senso, riguardandole con gli occhi di oggi, sono ancora esempi di teppismo e delinquenza giovanile o forse già allora esprimevano altro. Infine, con un breve aggancio anche alle conseguenze del ‘68, se e in che modo queste culture vengono riassorbite dal sistema capitalistico.

EUGENIO CAPOZZI
Grazie. Io sostengo assolutamente che le culture giovanili nel secondo dopoguerra (anni Cinquanta, Sessanta) sono già l’inizio della rivolta che poi noi chiamiamo affrettatamente ‘68. In realtà, con il termine ‘68 noi vogliamo intendere quasi un ventennio di storia in cui c’è stata una grande frattura nella civiltà occidentale, una frattura che è cominciata da una ribellione generazionale, della generazione che noi chiamiamo dei baby boomers, cioè di quei ragazzi che nascono alla fine degli ultimi anni della seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra, in cui abbiamo l’ultimo picco demografico dell’Occidente; dico l’ultimo perché poi, dagli anni Sessanta, Settanta, comincia una decadenza demografica che oggi è entrata in una fase addirittura drammatica. Questi sono i ragazzi che crescono nelle condizioni di maggiore pace e sicurezza, tempo libero, livelli di istruzione di tutta la storia del mondo. Per la prima volta, abbiamo una civiltà di massa che coniuga la pace con la sicurezza, il welfare e l’istruzione ad un alto livello. Paradossalmente, è questa la generazione da cui nasce una ribellione profonda a tutto il sistema della cultura, della società, delle gerarchie dell’Occidente. Come mai e perché si esprime in questa forma? Perché in realtà il sistema della cultura, delle tradizioni, dei costumi, delle gerarchie dell’Occidente era stato già stato fortemente corroso da molti fenomeni che lo avevano destabilizzato, a partire, se vogliamo, addirittura dalle grandi rivoluzioni di fine Settecento, dalla Rivoluzione industriale, dall’urbanizzazione. Poi sono arrivate le ideologie che hanno fortemente corroso la cultura occidentale, culminando con i totalitarismi. La fine della seconda guerra mondiale, la nascita della società del benessere fanno credere a molti che la civiltà occidentale si sia ripresa dalle sue ferite, sia tornata a trovare un baricentro, una stabilità. In realtà, quello che manca è un baricentro etico, politico e culturale e questo lo capiscono benissimo i ragazzi che crescono in quel periodo, tanto è vero che cominciano ad esprimere il loro rifiuto di un ordinamento sociale, culturale, formale, cominciano ad esprimere la loro accusa di quello che ritengono un sistema di oppressione, di coercizione, di repressione della vera, autentica vitalità degli individui e delle collettività. Ora, questo ci deve far capire però una cosa: che la controcultura di cui fanno parte il rock and roll, la beat generation (che ne è l’antesignana), il movimento hippy, le comuni di San Francisco, i grandi raduni giovanili, non è un’anticipazione del ‘68 ma è il vero nucleo di quello che poi noi chiamiamo il ‘68. È una rivolta culturale prima che politica, ed è una rivolta culturale contro un modo di vivere, contro una “way of life”, non è una rivolta anticapitalistica. Infatti, il progressismo che nasce dalla controcultura non è più incentrato sul rapporto capitale-lavoro perché, proprio in quel periodo, le classi sociali si stanno destrutturando, si stanno destabilizzando rispetto all’Ottocento, Novecento. Nasce invece una nuova classe colta, una nuova generazione che punta sulle capacità personali, sulla competenza, che punta soprattutto su quella che poi viene chiamata “l’immaginazione al potere”. E vuole destrutturare un sistema di gerarchie che ritiene ammuffito, ormai morto, senza motivo d’essere. Quindi, la vera rivoluzione è una rivoluzione culturale. Dove porta questa rivoluzione? Porta all’affermazione di una cultura dell’autodeterminazione, di una cultura della mobilità, di una cultura dello sradicamento, di una cultura in cui il rifiuto della tradizione occidentale si traduce in realtà in un nuovo individualismo. Questo non è subito chiaro. Sembra, fino ad un certo punto, che il ‘68 sia una nuova forma di marxismo, una nuova forma di collettivismo. In realtà, i veri frutti di questa rivoluzione li vediamo nel decennio successivo, con l’affermazione di una società edonista, profondamente relativista, che soprattutto concepisce la rivoluzione come un cambio di mentalità, come l’affermazione di una mentalità libera da qualsiasi condizionamento. Ovviamente, si tratta di un’utopia ideologica che ha lo stesso grado di radicalismo delle vecchie ideologie ma ne è diversa: non la possiamo paragonare al vecchio marxismo come non la possiamo paragonare all’ideologia democratica, ai nazionalismi, al liberalismo. Siamo su un altro terreno, siamo su un terreno molto ambizioso che è la ridefinizione dello statuto stesso della condizione umana, quella che poi sarà chiamata anche rivoluzione antropologica. Il primo ad usare questo termine è stato Pier Paolo Pasolini quando ha condannato proprio la cultura del ‘68 come in realtà funzionale all’affermazione di un tipo di consumismo molto più radicale di quello che si è affermato. E mi fermo qui per ora, perché non voglio andare oltre. Il punto è questo: la rivoluzione antropologica, ideologia della controcultura come affermazione di una nuova tipologia di società, senza radici, senza tradizioni, fondata radicalmente sull’autodeterminazione individuale.

MARTA BUSANI
C’è un tema che emerge, in modo molto significativo, dalla mostra di cui volevamo chiederle, anche perché siamo partiti dai suoi lavori per capire questo tema. Sicuramente, oggi siamo in un mondo in cui la democrazia rappresentativa è in crisi. Anche nel ‘68 la democrazia rappresentativa entra in crisi. Gli stessi studenti che poi saranno sessantottini già a metà degli anni Sessanta, mettono in discussione quegli organismi rappresentativi che esistevano all’interno del sistema dell’Università perché, in fondo, sembrano constatare che rappresentavano una parte ridotta degli studenti. C’è un problema, e forse si pone ancora oggi, di partecipazione: emerge dialogando con alcuni studenti che hanno fatto la mostra. Alcuni di loro sono oggi rappresentanti degli studenti negli organismi rappresentativi dell’Università. Gli stessi professori mettono in discussione il loro ruolo dicendo: «Siete stati eletti ma in fondo non rappresentate tutti gli studenti». E quindi, cercano nuove forme, ad esempio i questionari da dare a tutti gli studenti, mettendo in crisi questa idea della rappresentatività. I sessantottini la mettono in crisi; sostituiscono le forme tradizionali e ne cercano di nuove, cercano di fondare una nuova democrazia. È un tentativo che, però, abbiamo constatato che fallisce, si trasforma in liberismo forse un po’ intollerante. Allora la domanda è: nel cammino dei sessantottini, in questo loro paragone con la democrazia rappresentativa, c’è qualcosa che noi oggi possiamo imparare, sia in senso positivo che in senso negativo?

GIOVANNI ORSINA
Innanzitutto, grazie dell’invito, Marta. Mi fa molto piacere essere qui: anche per me è la prima volta al Meeting, quindi sono molto interessato e molto affascinato da questo evento. Ne ho letto per tantissimi anni però non lo avevo mai visto in prima persona. Mi riallaccio a quello che stava dicendo prima Eugenio. In fondo, questa ribellione culturale di cui lui parlava è una ribellione culturale contro promesse fatte e non mantenute. Qual è l’idea di questi ragazzi che negli anni Sessanta si ribellano? Dice giustamente Eugenio: questa è la generazione più fortunata della storia del genere umano. È una frase fortissima, però è indubbiamente così, un benessere crescente, possibilità, spazi di libertà veramente privi di precedenti. Eppure, questi ragazzi sono molto arrabbiati e contestano questa società che pure sta garantendo loro una fortuna, dei vantaggi che nessuno dei loro predecessori, in migliaia di anni, aveva mai avuto. Perché si ribellano? Si ribellano perché, anche se capiscono di avere tanto, pensano che quello che era stato loro promesso fosse ancora di più. Il problema non è quello che ho, il problema è quello che mi avete promesso. Allora, mi date un milione di euro ma me ne avevate promessi quindici. Dove sono gli altri quattordici? Che cosa viene promesso a questa generazione, qual è la promessa che fa la democrazia come insieme di valori, non necessariamente come sistema istituzionale, non solo come sistema istituzionale? La promessa, come diceva Eugenio, è quella della piena autodeterminazione individuale: puoi fare quello vuoi, puoi essere quello che vuoi, hai il diritto di dire quello che vuoi, hai il diritto di fare quello che voi, hai il diritto di controllare chi ti comanda, hai il diritto di essere chi ti comanda, hai il diritto che nessuno ti comandi. Dentro la democrazia, questa promessa c’è, in teoria, poi tutto il pensiero democratico cerca di capire come questa promessa, che ovviamente è impossibile da realizzare nella sua orma pura, possa essere approssimata nella realtà.
Però la promessa c’è e in qualche modo questa generazione, i baby boomers, prendono questa promessa per buona. Mi hai promesso che nessuno mi comanderà, perché devo andare all’Università e studiare libri polverosi che un professore mi ordina di studiare? Anche se i libri non fossero polverosi, mi ribellerei comunque, poi magari lo sono pure, però il problema è che semplicemente arriva uno e mi dice: «Guarda, per passare l’esame di Diritto privato ti devi prendere il manuale di Diritto privato e studiartelo». Nessuno mi doveva comandare. Perché una volta laureato dovrò andare a lavorare in una azienda o in una istituzione nella quale avrò un capo che mi comanda? Mi avete detto che ho il diritto di non essere comandato da nessuno? Allora, perché, cosa state facendo? Dice giustamente Eugenio che il problema non è il neocapitalismo, il problema è che a fronte della promessa di una libertà, di un potere illimitato di autodeterminazione mi trovo preso in un ingranaggio per il quale devo studiare, devo fare esami, mi devo laureare, poi dovrò andare a lavorare, dovrò stare sotto il capo che mi comanda sul lavoro, dovrò inserirmi dentro un meccanismo familiare per il quale, poi, se mi scoccio di mia moglie o di mio marito non posso divorziare, mi trovo in una vita piena di vincoli. Naturalmente, la risposta potrebbe essere: «Guarda, caro mio, cara mia, che questi vincoli sono il minor livello di vincoli della storia dell’umanità, perché nessuno è stato così poco vincolato come te». La risposta è: «Sì, ma la promessa è che vincoli non ce ne siano! A me non importa nulla che mio nonno fosse più vincolato di me. A me importa che mi avete detto che non sarò vincolato e ciò nonostante sono preso in una gabbia di vincoli». Questo naturalmente vale anche per la democrazia. Sì, io voto, ma voto ogni cinque anni, poi quello che io ho votato mi comanda, mi dà ordini. Io non partecipo alle decisioni, non sento realizzata la promessa della democrazia, ossia che sarò io stesso a comandarmi. Cosa legittima il potere democratico? Che è espressione di noi stessi, siamo noi stessi che ci comandiamo. Questo, in teoria. In pratica, questo si concretizza con il fatto che ogni quattro, cinque anni voto, poi arrivederci!. Che controllo sento di avere su questo sistema che mi dà ordini? Pochissimo!!! Di nuovo, la risposta potrebbe essere: «Pensa a tuo nonno che manco votava!». «A me non interessa, a me interessa la promessa che mi è stata fatta». Quindi, la ribellione ai vincoli, alle gerarchie è la ribellione alla democrazia delegata: «Voglio partecipare». Ora, qual è il problema di tutto quanto questo modello? Il problema è che è un modello non realizzabile, ossia che il mondo dell’autodeterminazione individuale assoluta è un mondo che non esiste perché la condizione umana è incompatibile con l’autodeterminazione individuale assoluta. Questo vale anche per la democrazia diretta. Oggi se ne parla tantissimo ma la democrazia diretta è un sogno che nella modernità inseguiamo almeno dal XVIII secolo, guardando naturalmente all’agorà delle Città-Stato greche, ma erano modelli molto diversi dai nostri, erano società nelle quali la cittadinanza era molto ristretta. Sì, i cantoni svizzeri, ma siamo parlando di realtà molto piccole. In un contesto molto diverso come l’attuale, che è molto più complesso, quel tipo di modello è molto difficile, a mio avviso impossibile, da replicare. Questo vuole dire che alla fine – “Siate realisti, desiderate l’impossibile”, “Pretendere l’impossibile” o “Vogliamo tutto” -, il problema è che la contestazione della società così com’è, che contesta anche aspetti realmente malfunzionanti della società così com’è, la contestazione in sé può anche starci, può anche avere delle radici, anche perché la promessa effettivamente è stata fatta. E quindi si può dire: «Mi avete promesso delle cose che non state mantenendo». Il problema è che mantenere quelle cose non è possibile e che il modello alternativo non c’è e non funziona. È per questo, come diceva Eugenio, che poi la contestazione negli anni Settanta finisce per risolversi semplicemente (semplicemente si fa per dire, con molte virgolette) nell’ampliamento massimo di spazi di libertà individuali, ma non nella costruzione di un modello alternativo di società. Il modello alternativo della società non c’è, non può esserci, non funziona. Un’ultima battuta, che invece è cruciale secondo me per capire da dove viene il ‘68 e per capire la situazione nella quale stiamo adesso, è che i contestatori prendono una promessa che è stata fatta, cioè contestano il sistema dall’interno, non dall’esterno. Con la contestazione sessantottina, questo si vede molto bene: i contestatori del ‘68 contestano gli organismi rappresentativi universitari. L’Università italiana aveva degli organismi rappresentativi studenteschi e i contestatori del ‘68 dicono: questi organismi rappresentativi non funzionano. Il problema è che molti di questi contestatori del ‘68 vengono da dentro gli organismi rappresentativi universitari e riprendono delle parole d’ordine che nascono dentro gli organismi rappresentativi, ossia sono gli organismi rappresentativi stessi, è la democrazia delegata stessa che da dentro esprime persone e gruppi che dicono che la democrazia delegata non funziona. È la rappresentanza stessa che auto-delegittima, è la democrazia stessa che promette cose che non riesce a mantenere. Insomma, il germe è dentro il modello democratico, e molto spesso sono i rappresentanti stessi che ammettono che la rappresentanza non funziona, sostanzialmente aprendo le porte a qualcuno che dice: «Scusami, tu sei il primo a dire che non funzioni! Allora, se sei il primo a dire che non funzioni, io ti caccio nel nome di quello che dici, non devo neanche fare la fatica di costruire una critica perché già me l’hai costruita tu». Già a partire dall’inizio degli anni Sessanta, dentro le associazioni studentesche universitarie, si dice: il modello non funziona. Quando arrivano i sessantottino colgono una pera che è già matura, non devono fare un grande sforzo perché la pera è maturata da sola. Allora, il problema qual è? Il problema è che da dentro i meccanismi rappresentativi bisognerebbe avere consapevolezza dei limiti inevitabili dei meccanismi rappresentativi e accettarli, in qualche modo anche difenderli e legittimarli agli occhi dell’opinione pubblica. Si, non ti rappresento bene, è vero, ma più di così non si riesce a fare. Invece, i rappresentanti cavalcano l’onda della contestazione fin quando non arriva qualcuno più contestatore di loro.

MARTA BUSANI
Forse ripartirei da quella promessa di autodeterminazione. Si potrebbe anche dire di compimento, azzardare di felicità, perché sono termini che i primi contestatori degli anni Sessanta iniziano ad usare. È vero che la società degli anni Sessanta ha dentro questa promessa, però qualcosa evidentemente si incrina: gran parte, una buona parte almeno dei contestatori, soprattutto nella parte iniziale dei primi anni Sessanta, sia in America del Nord che in Europa, ma anche in Sud America, provengono dal mondo cattolico, sono giovani laici, spesso militanti dell’associazionismo cattolico, come Mario Savio, leader della protesta di Berkeley, di cui si parla nella mostra, ma anche la stessa esperienza di Gs, cui si accenna, in Italia. Puoi aiutarci a capire, ad approfondire qual è il percorso di questo mondo giovanile cattolico? Si ribellano, questi giovani cattolici? Certamente si, ma a cosa si ribellano, che cosa ha incominciato ad incrinarsi? E in fondo, cosa vogliono, cosa desiderano, anche rispetto a quella promessa di compimento e di felicità che forse è portata anche dalla società del benessere, da una generazione che è la più fortunata della storia? Non sono i giovani usciti dalla guerra ma sono forse i giovani borghesi degli anni Sessanta, quelli che si ribellano. E se puoi, in una battuta, rispetto alle conseguenze: credi che il ‘68 abbia cambiato la Chiesa e come?

EDOARDO BRESSAN
Ti ringrazio, Marta, per l’invito e per la domanda: perché la Chiesa istituzionale degli anni Cinquanta faceva sentire ai giovani lontano questo desiderio di felicità, di autenticità. «Nous voulons vivre»: in mostra, c’è una citazione del giornale degli studenti cattolici milanesi molto significativa. «Siamo giovani, abbiamo uno spirito sufficientemente libero per ribellarci ad ogni imposizione, per non venderci al conformismo in cambio della tranquillità e del lieto vivere». Ci sono molte istanze dietro a tutto questo, c’è questa evidente critica a gerarchie tradizionali che apparivano non più motivate e, non a caso, uno dei punti di riferimento di questo ‘68 cattolico – che poi bisognerebbe distinguere, perché c’è la partecipazione dei cattolici al ‘68 di tutti e c’è un ‘68 interno alla Chiesa che non necessariamente coincidono – certamente uno dei testi fondanti è Lettera ad una professoressa, la contestazione di un modello pedagogico ritenuto dogmatico. Poi c’è la polemica contro l’istituzione militare, ancora don Milani, ancora l’ambiente fiorentino, padre Balducci. A Barbiana, la scuola popolare di don Lorenzo, c’era scritto proprio il contrario, I care, mi interessa, questo mi interessa davvero. E quindi la premessa è sicuramente quella di una denuncia dell’autoritarismo che non era soltanto italiano. Siamo al ruolo svolto dalle reti cattoliche internazionali che tu hai studiato. Lo sguardo all’America Latina, lo sguardo alla Spagna, alle situazioni di maggiori difficoltà in cui la Chiesa istituzionale sembrava più compromessa con il potere. Ed è comunque dal punto di partenza così bene evidenziato da loro che ci spostiamo leggermente perché, la prima variante, la Chiesa al suo vertice, nella parte dello stesso pontificato, recepisce questa istanza di cambiamento, di aggiornamento. Il Concilio Vaticano II apre una grande stagione da questo punto di vista, pensiamo ai documenti programmatici, io direi particolarmente, per quello che ci interessa, la Gaudium et spes. Ma al tempo stesso c’è il magistero del Papa iniziatore del Concilio, Paolo VI, Ecclesiam suam, la Populorum progressio, il giorno di Pasqua del 1966, che è questa forte denuncia delle contraddizioni sociali a livello planetario, questa rivendicazione di un altro umanesimo, di un umanesimo possibile ma diverso. Qui io recupererei una osservazione di un protagonista di allora, di cui pure trovate il segno nella mostra, Paolo Sorbi. Dall’antiautoritarismo, però – e questa mi sembra una specificità – si passa ad una sorta di anticapitalismo sociale, cioè quella contraddizione viene ricondotta ad un sistema complessivamente ingiusto. Anziché seguire, ovviamente non negandolo e non mancando i punti di contatto, il percorso dell’autonomia individuale, viene piuttosto rivendicato quello della autonomia sociale quando non appunto della rivolta sociale, tale da garantire la realizzazione di quelle promesse. Perché le promesse non si realizzano? Non si realizzano perché, Paolo Vi lo dice, c’è un regime capitalistico ingiusto che impedisce lo sviluppo dei poveri, lo sviluppo dei popoli, lo sviluppo di chi è più debole. Qui muta il paradigma perché quello che salta è proprio l’idea di una terza via, quella che aveva incarnato la Dottrina sociale della Chiesa: né capitalismo né socialismo, né liberismo né collettivismo. Eh no, non basta! Con questo, salta anche l’idea maritainiana della “nuova cristianità”, quel progetto di cui ha parlato anche Pietro Scoppola, che era il corrispettivo delle grandi ideologie del Novecento. Tutto questo viene meno, in favore di che cosa? In favore, per esempio, di una Teologia del Mondo di Metz, o Gonzalez Ruiz, Il Cristianesimo non è un umanesimo, la Chiesa che vuole stare nella piazza della storia, una Chiesa policentrica, non più legata ad un potere oppressivo. C’è la teologia della Liberazione, che partendo da una contraddizione sociale evidente e drammatica come quella dell’America Latina, lo sfruttamento economico da una parte, la negazione delle libertà politiche dall’altra, elabora un altro paradigma, quello della sequela del Gesù storico, povero tra i poveri. Ma chi sono i poveri in quel momento? Sono gli sfruttati del mondo. Questa, secondo me è una componente che si rivela decisiva. Certo, come tutte le cose, giustamente prima hai ricordato la complessità, è decisiva ma è problematica, perché qui c’è un parallelo: sì, la liberazione degli oppressi, degli sfruttati, dei popoli utilizzando uno strumento, per esempio il marxismo, che qualche problema lo poneva, con tutte le derive che ne sono venute. Ricordo proprio tutto il dibattito all’interno di Gioventù studentesca a partire dal libro di Gonzalez Ruiz: su questo tema possiamo utilizzare il marxismo, questo non è un problema ulteriore, invece di essere una risposta è una soluzione. Quindi, è certo: il ‘68 cambia la Chiesa perché ne viene un altro modello di rapporto con la politica, con l’economia, con la società, perché vengono messe in discussione strutture che non potevano più reggere: un padre autoritario, che spesso aveva il volto di un padre cristiano, perché soprattutto c’è un’autenticità da cercare che possa rispondere al desiderio della persona e particolarmente del giovane che si affaccia alla vita. Ora, noi abbiamo tanti problemi che sono stati causati da questa fase di passaggio, problemi diciamo di rivendicazione di diritti che sembra avvitarsi su se stessa, problemi derivanti da una ricerca di soluzione ai problemi sociali che si è rivelata contraddittoria, quantomeno. Però abbiamo anche un’altra cosa importante: abbiamo ormai acquisito – molti delle donne e degli uomini protagonisti di quegli avvenimenti lo compresero bene – che l’esperienza cristiana o è vera per la persona oppure non ha semplicemente senso, tanto più nel contesto che è stato descritto. Mi viene in mente questo punto, ma ci sarebbero tanti esempi da fare, quello che diceva Romano Guardini, e lo diceva nel vivo della crisi del Novecento, dei totalitarismi, ma quello che diceva Luigi Giussani quando, di fronte alle piazze piene e alle associazioni rigogliose degli anni Cinquanta, diceva: «Questo non reggerà perché non è radicato nella coscienza personale». Quindi, i problemi da una parte ma anche l’urgenza di una risposta personale dall’altra, da cui non si torna indietro.

BUSANI MARTA
Grazie mille! Adesso aprirei alle domande che sono state preparate, prego, senza paura.

DOMANDA
Buonasera, in questi sei, otto mesi ho tentato di studiare il ‘68 e mi è parso che soprattutto agli inizi, soprattutto nei primi anni Sessanta e soprattutto in America, la protesta dei giovani non era tanto indirizzata ad un mutamento di sistema, non c’era la urgenza di abbattere il capitalismo e sostituirlo con un altro modello, ma che piuttosto fossero oggetto delle loro istanze, delle loro proteste, le domande sul significato delle cose, sul significato dell’Università, su quale fosse lo scopo ed il metodo in forza del quale stare insieme, sia nei rapporti relazionali e affettivi, sia nei rapporti comunitari, su quale fosse il senso del lavoro. Questo genere di domande è stato capace, soprattutto ad esempio nel campo di Berkeley nel ‘64, di raccogliere un numero di studenti molto grande. Come si spiega il fatto che ai tempi fosse naturale e fisiologico per i giovani mettere in piazza domande sul senso delle cose? Perché attualmente, almeno nella mia esperienza personale, non ho visto questa dinamica: le domande sul significato delle cose, quando ci sono, perché non è nemmeno scontato che ci siano, non trovano spazio e volume pubblico ma al massimo individuale o, ancora peggio, sono annichilite, perché i ragazzi di un tempo erano arrabbiati e adesso ormai noi tendiamo forse più ad annichilirci. La mia domanda è: come si spiega questo mutamento? Negli ultimi decenni, almeno per la mia memoria, non ricordo di cortei o manifestazioni di giovani universitari fra gli studenti tutt’al più liceali o comunque delle scuole superiori, ma sempre per ottenere al massimo dei sacrosanti finanziamenti in più, soldi in più, strutture migliori.

MARTA BUSANI
Grazie, liberamente, chi vuole rispondere.

EUGENIO CAPOZZI
Tu cogli un aspetto cruciale: nella ribellione generazionale del secondo dopoguerra, la frattura è una richiesta sul significato, sul senso delle cose, sul senso della società, sul fondamento della società occidentale. Questo mi sembra un punto cruciale, possiamo dire sinteticamente così: l’Europa, che poi è diventata Occidente, allargandosi sino al Nord America ed alla civiltà americana, ha vissuto per secoli su una promessa – non solo quella della democrazia, che però ne è un aspetto fondamentale, ma prima ancora quella della modernità, del progresso, delle magnifiche sorti e progressive, quelle che sbertucciava Giacomo Leopardi ne La ginestra – che poi si è attuata in tante forme a evoluzione scientifica, illuminismo, le grandi rivoluzioni, le nazioni, la democrazia, il socialismo. Tutto questo è andato di pari passo con l’erosione delle basi della civiltà europea: l’etica cristiana, il senso della comunità che all’Europa aveva dato il cristianesimo. Questo ha portato ad una destabilizzazione dell’Occidente che è sfociata nei totalitarismi. Dopo si è ricostruito, si è nuovamente incollato l’Occidente con le democrazie del benessere, si è creduto che, dando il welfare, dando gli elettrodomestici, dando le società dei consumi, si sarebbero sanate le piaghe. Ma dopo Auschwitz, dopo i gulag, dopo quella roba lì, i sessantottini hanno il merito di mettere in evidenza questa gigantesca ipocrisia. Dicono: «Di che cosa stiamo parlando? Voi stiate qui a dirci che siamo fortunati, che abbiamo gli elettrodomestici. Ma vi rendete conto che qua è venuto meno il collante della comunità, della civiltà? Dove andare, come ricostruire tutto questo?». Fino a qui, è la grande attualità del ‘68: con quale autorità voi, classi dirigenti, ci parlate? Oggi stiamo qui a parlare di elite e di populismo ma è cominciata lì la contestazione di fondo: qual è l’autorità per cui il politico, il dirigente, il professore sta lì? È una messa in questione radicale di tutti gli equilibri. Questa operazione di demolizione poteva sfociare in una ricostruzione, se ci fosse stato un principio forte di comunità alla base, tale non da incollare i pezzi ma da far nascere una nuova creatura. Questo collante i sessantottini non ce l’avevano, non era colpa loro né dei loro genitori, è che già non c’era più e loro non hanno saputo produrne uno. Che cosa hanno prodotto? Hanno prodotto l’ideologia del «Vogliamo tutto» e del «Puoi essere, puoi fare quello che vuoi». Alla fine, perché dici che non c’è più domanda sul fondamento della comunità, da trent’anni a questa parte? Perché si è affermata una classe dirigente che si è dotata di questa ideologia, cioè l’ideologia bio-politica del libertarismo, l’ideologia secondo cui tu puoi controllare, dalla nascita alla morte, tutto quello che puoi essere e puoi indefinitamente, con l’aiuto della tecnica, il trans-umanesimo, il post-umanesimo, diventare qualcosa di diverso. È ultra politica, non c’è più il senso della comunità, c’è solo che l’idea che l’individuo può puntare verso una forma di onnipotenza, grazie alla tecnica e grazie agli altri che non gli rompono le scatole. In realtà, era l’ideologia di una classe di potere che è la borghesia della conoscenza, quelli che hanno intasato i posti di potere delle grandi imprese, dell’hi-tech, quelli che hanno fondato il cosiddetto Ceo-capitalism, il grande management delle industrie hi-tech, quelli che hanno intasato il sistema dei media che è diventato il sistema dei media pervasivo, con l’epoca digitale, come mai era stato in passato. Parlavamo del condizionamento dei mass media negli anni Sessanta, e vogliamo paragonarlo con il condizionamento che i media digitali possono avere oggi? Tutto questo ha prodotto un’ulteriore disgregazione del collante delle comunità occidentali, un seppellimento della richiesta di senso. Paradossalmente, noi oggi stiamo in condizioni di ipocrisia peggiori di quelle in cui eravamo cinquanta, sessant’anni fa. E non c’è più una idea di rivoluzione contro questo, se non la cieca rivolta contro le élite, il dire che le élite sono cattive, quello che viene chiamato populismo. In realtà, tante cose belle o brutte hanno a che vedere con la crisi della globalizzazione. Ma noi siamo ancora nel pieno della disgregazione di una società che punta soltanto alla soddisfazione individuale. E così, sicuramente non si ricostruisce il senso della comunità, non si dà una risposta a quella domanda profonda che i sessantottini avevano fatto senza sapere rispondere. Era cinquant’anni fa, ma cinquanta o sessanta anni dopo, non abbiamo fatto dei grandi passi avanti.

EDOARDO BRESSAN
Dico solo una cosa. Molti giovani cattolici facevano invece conto che questa idea di comunità si potesse conservare in qualche modo, senza rendersi conto probabilmente che il processo in atto la stava minando alle sue fondamenta, proprio in ragione della loro forte sottolineatura sociale. Perché loro dicevano che questa democrazia del benessere non era per tutti, perché già in Italia esistevano realtà totalmente o parzialmente escluse o ancora escluse dal miracolo economico. Le periferie, la lotta per la casa, le manifestazioni operaie, il Mezzogiorno: già in Italia e poi nel mondo. Questo ‘68 si capisce meglio a partire dalle condizioni del Terzo Mondo, dalle contraddizioni apparentemente insanabili. E allora, bisognava combattere contro queste contraddizioni. Certo, il rapporto con le proprie radici, con la propria tradizione, con ciò da cui si veniva, è stato vissuto in modo molto problematico; e quindi questo tentativo ha avuto molti e differenti esiti.

DOMANDA
Ho capito benissimo le conseguenze di questa autodeterminazione che sono state descritte. Però mi sembra di aver capito che nel Movimento studentesco c’è stato un momento in cui c’era, sì, questa matrice di liberazione da qualsiasi vincolo, questa libertà intesa come l’ha descritta prima lei. Però anche una matrice molto comunitaria rivolta ai problemi sociali, che poi si perde nel tempo. Volevo capire meglio perché questa matrice si perde con l’andare del tempo. E perché la mia generazione è totalmente anestetizzata di fronte a quelle che possiamo dire le dimensioni del mondo, a quello che succede nel mondo. Un paio di ipotesi le avrei, però vorrei capire meglio. Ad esempio, il fatto di essere figlio di una generazione così chiusa o, come accennava, la pervasività dei mass media. Non si capisce più che cosa è vero e che cosa non è vero.
GIOVANNI ORSINA
Ci sono tanti modi per affrontare la risposta a questa domanda. Il problema della risposta politica che si cerca di dare a questa domanda è l’ultimo grande tentativo di ricostruire un mondo perfetto attraverso la politica. In qualche modo, la storia del Novecento è la storia del tentativo di ricostruire Dio con la politica. La dico in maniera molto brutale e semplicistica, storicamente le società umane trovano dei criteri di fondo nella religione. Soprattutto, la società dell’antico regime, le società europee pre-moderne si fondano sulla religione, sul cristianesimo, sul cattolicesimo. Nel momento in cui l’unità del mondo cristiano europeo si rompe con la Riforma, ovviamente, questo modello comincia a ballare. E infatti escono pensatori come Hobbes che cercano di rimettere in piedi i cocci: è la rottura dell’unità religiosa europea. Poi, quando arriva la secolarizzazione e, per dirla con una celebre formula, «Dio muore», le società europee cominciano a distaccarsi dalla fede e a pensare che Dio non esista. E quindi si perde questo elemento: l’esigenza di Dio che c’è nell’uomo, che c’è in tutti gli uomini, e in tutte le donne, ovviamente, che c’è nell’umanità, trova uno sfogo nella politica. Allora, qual è il punto? Quell’assoluto che non trovi più nella religione, lo trovi nella politica. Il marxismo è una religione secolarizzata, è un tentativo di rispondere. Dove è la verità? Dove è l’assoluto se non è più in Dio? Marx ti risponde che è nella storia, è la storia che ti dà i valori, che ti dice dove è la verità, che ti dice dov’è il buono e dov’è il cattivo, dov’è il giusto e dov’è lo sbagliato. La storia del Novecento è la storia del tentativo di ricostruire l’assoluto attraverso la politica. Il ‘68 è allo stesso tempo la denuncia della crisi di tutto quanto questo e il tentativo, l’ultimo tentativo di rispondere. Il grande filosofo cattolico Augusto Del Noce scrive pagine illuminanti sul fatto che questi sentono questo vuoto. Allora, non c’è più Dio, d’accordo, benissimo, Dio è morto, e allora? Il mio desiderio di perfezione, di assoluto, come lo soddisfo? Mi butto in politica? Lo cerco nella politica? E allora, la nazione? No, perché nazismo e fascismo sono finiti come sono finiti. La classe operaria? Si, però, guarda la classe operaia come sta funzionando in Unione Sovietica, vuoi riprendere quel modello? Eh no, quel modello non funziona. Quindi sentono questo vuoto, cercano qualcosa d’altro, vorrebbero qualcosa d’altro. Che cosa incontrano? Incontrano una liberazione individuale assoluta. Allora, se non c’è Dio, non c’è la politica, non c’è la rivoluzione, non c’è la nazione, non c’è la classe operaia, che faccio? Soddisfo i miei istinti. Faccio sesso, mi drogo, mi diverto, viaggio ed espando le mie sensazioni. Questa cosa c’è all’inizio del ‘68, però all’inizio c’è anche un tentativo di tenere questo discorso all’interno di una cornice politica. Il problema, come dice Del Noce in maniera fulminante, è che è un ferro di legno è una contraddizione in termini, perché se tu pensi che ciascuno debba espandere la propria soggettività, e poi vuoi che tutti quanti quelli che espandono la propria soggettività facciano politica, tu ti trovi con una contraddizione in termini. Perché, se io devo espandere la mia soggettività non posso partecipare ad una azione collettiva. La politica è azione collettiva, nella quale facciamo le cose tutti insieme. Ma se io metto la mia soggettività prima di tutto, la devo restringere, la mia soggettività. Io ed Eugenio siamo d’accordo al 90%, facciamo politica insieme ma ciascuno deve rinunciare al 10%. Poi c’è Marta, che è d’accordo all’80%, e via un altro 10%. Per fare politica, qualunque azione collettiva implica il sacrificio di sé. Io devo fare politica con gli altri e quindi devo avere, come dice Del Noce, il rivoluzionarismo nel nome dell’espansione della soggettività. Il rivoluzionario è un puritano, i rivoluzionari comunisti sono gente disposta a sacrificarsi fino alla morte in nome della rivoluzione. Altro che drogarsi e fare sesso. Tu sei uno che si sveglia la mattina alle sei e cominci a fare la rivoluzione e fai solo la rivoluzione fino a mezzanotte quando vai a letto e non fai e non pensi ad altro. Le rivoluzioni si fanno così. Quindi, la politica deperisce perché non ci sono più principi e valori collettivi e l’unica cosa che resta sei tu, come dice di nuovo giustissimamente Del Noce. Se tu all’uomo togli tutti i valori collettivi, se gli togli tutte quante le sovrastrutture, quello che resta è l’animalità, è la soddisfazione degli istinti. Ma tu, con un uomo che soddisfa soltanto gli istinti, politicamente non fai più nulla, ed è qui il senso di vuoto che viene dopo. La vostra generazione viene dopo molti fallimenti, perciò non sapete dove andare perché non ci sono più risposte che non siano: fate un po’ quello che vi pare, ciascuno per sé e neanche più Dio per tutti, Dio per chi ci crede e per gli altri neanche quello. E questa è in qualche modo la nostra e la vostra tragedia, e in qualche modo un po’ anche, se volete, quella della mia generazione. Io sono nato nel 1967, in qualche modo ancora un po’ di coda di società tradizionale mi arriva. A voi non è arrivata più neanche quella. Per questo non c’è più una risposta politica, perché il ‘68 è stato la denuncia del fallimento di tutte le risposte politiche e l’estremo tentativo di trovare una risposta politica che poi fallisce nel giro di qualche anno. Il riflusso individualistico comincia già nel ‘72, ‘73: dopo tre o quattro anni, questi si accorgono che la via non è più quella politica e non può più essere quella politica.

MARTA BUSANI
Volete aggiungere qualcosa? Visto che ormai è una certa ora, se ci sono ancora un paio di domande le raccoglierei, farei un giro di risposte, poi finiamo.

DOMANDA
Buonasera. Mi sono segnata un punto del primo intervento, quando si parlava del baricentro culturale: si crede che l’Occidente si sia ripreso, in realtà no. E allora mi è venuta questa domanda, perché quest’anno ho fatto la maturità e ho portato come tesina all’esame orale di Storia su come il fascismo abbia influenzato l’insegnamento nelle scuole elementari. Ho avuto questa opportunità, poi mi sono iscritta alla facoltà di Storia e ho detto: proviamo a vedere se davvero mi piace. E mi sono accorta, anche guardando la Storia che ho studiato negli anni precedenti, che tutti hanno avuto più o meno qualcosa in cui riconoscersi: i Greci avevano la polis, i francesi la Rivoluzione, c’erano i Giacobini e gli altri, anche nel Fascismo c’era gente che si riconosceva davvero in quello che diceva Mussolini. E anche i Sessantottini, come avete detto, avevano questa forte ideologia per cui volevano andare contro il sistema. Adesso però mi sento buttata in un mondo gigante: cosa posso fare? Da che ho iniziato le Superiori, e anche prima, mi dicono: se ti impegni, puoi fare tutto quello che vuoi. In realtà, è una bugia anche questa, perché io magari voglio fare la hostess – un esempio stupido -, mi impegno tantissimo, so perfettamente inglese, francese e tedesco, però per fare la hostess devo essere alta almeno uno e settanta, e per quanto mi possa impegnare non cresco. E quindi, se non c’è più niente in cui io mi possa riconoscere, come posso fare a cambiare il mondo? Mentre rispondevate agli altri ragazzi che dicevano che la nostra generazione è magari annichilita, dico: ma che cosa posso fare se mi sento da sola contro tutti? Non posso fare niente!

DOMANDA
Mi chiamo Tommaso e la mia domanda è un pochino esistenzialista, un po’ meno individualista delle altre. Ho portato alla tesina di maturità Pasolini e ho fatto un breve riassunto del suo pensiero in correlazione anche alla modernità. Avevo notato e l’ho scritto, che nel celebre articolo sulle lucciole, quello famosissimo, criticava il fatto che Chiesa e Democrazia cristiana dei tempi fossero fondamentalmente degli organismi vacui, vuoti, a cui erano stati sostituiti i valori di una società post-capitalistica, post-moderna, che aveva praticamente azzerato qualsiasi valore della morale cristiana, non tanto a un livello politico – perché la Dc continuò a governare ancora e la Chiesa esiste ancora – ma sociale. Il Sessantotto portò poi alla legge Fortuna-Baslini sul divorzio e successivamente anche alla legge sulla legalizzazione dell’aborto. Quindi, vorrei capire quanto sono fondate le parole di Pasolini perché non ho mai avuto una voce dall’altra parte che potesse magari controbatterlo, sulla entità e sul valore della Chiesa, della sua morale e anche della Democrazia cristiana, da un punto di vista politico e non sociale.

DOMANDA
Da tutto questo farci diventare delle “monadi”, un niente, gente che non sa cosa vuole, dove andare, cosa fare, tutto sommato si vede che la società regge. La domanda è: in che misura c’è un disegno dietro questo nostro divenire domande senza risposte, promesse non mantenute, democrazia tipo grillini, diciamo così?

MARTA BUSANI
Il tema del potere. Farei un giro veloce.

EUGENIO CAPOZZI
La prima domanda è quella che sollecita di più, ma in realtà poi è una risposta a tutt’e tre. Un mondo senza direzione, in cui i giovani vivono questa finta cultura del “puoi fare tutto quello che vuoi”, perché poi è finto, come ha detto giustamente e molto intelligentemente la ragazza, è una cultura ideologica che non tiene conto delle realtà materiali, dei condizionamenti e quindi anche delle fatiche e dei sacrifici, proprio perché è figlia di un’estrema ideologia che rifiuta l’idea che ci si possa impegnare e sacrificare per qualcosa che non sia la soddisfazione immediata individuale. Esiste un’alternativa, esiste una risposta in questo momento? Secondo me, nel mondo globalizzato c’è una grande richiesta di identità, e questo è evidente. Identità culturale, identità nazionale, anche identità inventate, le identità di gruppi e gruppetti che si costituiscono su base di preferenze, di genere, tutto questo mondo della modernità liquida di cui parlava Bauman, questo mondo di movimento e di precarietà e di incertezza, che cerca continuamente appigli ma sono appigli che rischiano di essere essi stessi precari, perché sono semplicemente un ritorno indietro ad uno stadio precedente del problema. Porsi seriamente il problema significa ragionare su che cos’è la civiltà a cui noi apparteniamo, e se questa civiltà implica soprattutto qualcosa che trascenda gli obiettivi e le soddisfazioni e le gratificazioni individuali. È questo il punto centrale, quando Giovanni giustamente diceva: le ideologie erano religioni secolarizzate ma ancora ragionavano come la religione trascendente. Il militante politico, rivoluzionario è uno che combatteva per cose che sapeva di non vedere nella sua vita, uno disposto a morire, disposto a soffrire, che non chiedeva per sé nessuna gratificazione. Il punto sta proprio lì: è possibile che noi ci poniamo di nuovo all’interno di un contesto di civiltà in cui la comunità è qualcosa per cui siamo disposti a contribuire con la nostra vita, a prezzo della nostra vita, o no? Perché se la risposta è no, siamo condannati a cercare forme di identità che sono identità fittizie. La vera identità è un’identità per cui si sia disposti a morire e a vivere, perché poi le due cose sono chiaramente complementari.

GIOVANNI ORSINA
Parto dall’ultima domanda. No, secondo me, no, non c’è nessun grande vecchio, non c’è nessuna pianificazione, macro-pianificazione, che non vuol dire che non ci possano essere molte micro-pianificazioni e che non vuol dire che non ci possano essere molti comportamenti che si orientano tutti nella stessa direzione perché il sistema di incentivi è lo stesso per tutti. Se adesso comparisse là dietro un signore e dicesse: «Regalo iPhone X», molti di noi si precipiterebbero, non perché ci siamo messi d’accordo ma perché c’è un incentivo che ci attira tutti quanti ad andare lì. Ci sono dei sistemi di incentivi che in parte sono anche pianificati, che orientano i comportamenti. La modernità è stata un’esplosione, un processo di corrosione, di distruzione mostruoso. Noi viviamo, ormai sono più di duecento anni, a valle di un processo di distruzione. E anche molti di quelli che della distruzione si avvantaggiano spesso ne sono vittime. Non è vero che l’antipolitica è prendersela coi politici: i politici spesso sono delle vittime. Sono vittime del sistema, anche loro sono presi in un ingranaggio, in un meccanismo. Poi possono goderne più di noi, ma anche loro spesso non sono per niente contenti e si sentono oppressi da un meccanismo. Quindi, io non penso che ci sia un “grande vecchio” dietro a tutto. Rispetto invece alla seconda domanda, molto brevemente, penso semplicemente che Pasolini avesse visto che quei valori ai quali la Chiesa si rifaceva, ai quali la Democrazia cristiana si rifaceva, erano valori che non reggevano più, la modernità li aveva corrosi. Quando tu sostieni un valore vivo, sei percepito come vivo; quando tu sostieni un valore che ormai la gente intorno a te non sente più, sei un sepolcro imbiancato, sei un ipocrita, sei qualcuno che dice delle cose nelle quali le persone non credono più. In fondo, non ci credi più neanche tu perché ti senti superato dalla storia. Molto rapidamente, molto brutalmente, penso che Pasolini stesse denunciando questo ma, di nuovo, qual è la sua risposta? Non c’è, perché quella roba è stata corrosa dalla modernità e non c’è niente da fare. Però, che cos’è che non è stato corroso? Io continuo a pensare, e lo dico a mio figlio che è un po’ più giovane di te, ha 13 anni, però è proprio un figlio del nichilismo: «In fondo, papà, ma perché mi dovrei comportare bene se non c’è più un sistema di valori accettato?». La mia risposta è: «Guardati dentro». Perché forse, anzi, io non dico forse, è così, dentro c’è ancora il senso del bene e del male, lo portiamo ancora dentro, la legge morale dentro di me c’è! Lo dico a mio figlio: «Quando fai una cosa sbagliata, te ne accorgi che è sbagliata?». «Sì che me ne accorgo!». Tutti i tentativi di fondare razionalmente un sistema di valori sono falliti. L’unico modo che abbiamo per fondare un sistema di valori è attraverso l’intuito, attraverso qualcosa che ci esce da dentro. Dice: «Ma non posso difenderlo razionalmente». Certo che no! La ragione non può fondare, la ragione, può dedurre da premesse. La geometria euclidea si basa su un postulato: le rette parallele. Quel postulato lì non lo dimostri con la ragione, lo devi prendere con l’intuito. Poi, da quel postulato che hai intuito, deduci il sistema razionalmente. L’avevano capito bene già qualche secolo fa, qualche millennio fa! Forse, il punto di partenza è dire: che cosa hai dentro? Dentro lo sai che cosa è bene e che cosa è male: parti da quello e cerca di ricostruire da quello. Se poi riesci a parlare con altre persone che sentono la stessa cosa, tanto meglio, se no, costruiscitelo da solo. Però il punto di partenza secondo me non può che tornare ad essere quello. C’è un bellissimo libro di Albert Camus che si chiama L’homme révolté: è tutto su questo. Parte dal dire: ma se l’uomo si rivolta contro il niente, forse è perché, dentro, l’uomo qualcosa ce l’ha. Se no, non si rivolterebbe e direbbe: «Vabbè, sai che c’è? Mi faccio 80 anni, poi tiro le cuoia, arrivederci e grazie». Perché siamo così arrabbiati contro il fatto che in capo a 80 anni, 85 o 90, tiriamo le cuoia? Perché ci ribelliamo contro questo? Forse perché, dentro, il senso dell’eterno ce l’abbiamo. Allora partiamo da questo. Capisco che la mia proposta è molto insoddisfacente.

EDOARDO BRESSAN
Solo per aggiungere un ricordo a quanto hanno detto Eugenio e Giovanni, perché io sono molto più anziano di loro, faccio in tempo a ricordare che in Gioventù studentesca c’era un libretto dove si consigliavano delle letture, le più disparate, le più varie, le più libere. Con un intento, dichiarato, di porsi di fronte alla tradizione. Poi ciascuno fa le sue scelte ma di qui parte. Parte da un dato, parte dai volti che di questa tradizione sono parte. E poi opera, opera nel mondo. Era il punto forse sfuggito a molti amici di quegli anni, di quella stagione che, per ragioni anagrafiche, ho fatto in tempo almeno a vedere. E allora, è bello quello che tu dicevi, Eugenio, come possiamo pensare a qualcosa che non vedremo? Ce lo dice, credo, bene Papa Francesco: il problema non è difendere degli spazi, chi ha provato a farlo, anche allora, ha perso. Il problema è costruire dei processi che sono più grandi di noi e a cui forse potremo dare un piccolo contributo e di cui magari mai vedremo l’esito. Però questo è anche, secondo me, il motivo per sperare e per riprendere, come dicevi, da quello che c’è, da quello che abbiamo, da quello che abbiamo incontrato. E da lì, per quanto possibile e se possibile, magari cambiare anche il mondo.

MARTA BUSANI
Vi ringrazio moltissimo, non devo aggiungere nessun tipo di conclusione. Vi ricordo innanzitutto brevemente l’appuntamento di domani alle 12.30 per un dialogo con Franco Bonisoli, che vedo già qui, peraltro. Ricordo anche che, come già l’anno scorso, è possibile contribuire al Meeting di Rimini attraverso una donazione spontanea. Come sapete, il Meeting è completamente gratuito e fatto da volontari. Perciò è importante contribuire alla costruzione di questo luogo che, per esempio, ha reso possibile il dialogo di stasera. Si trovano evidenziati dei punti “Dona ora”, in cui è possibile in varie forme, in varie modalità, donare qualcosa per contribuire al Meeting. Vi ribadisco l’invito alla mostra a cui vi aspettiamo, grazie a tutti e buona serata.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

19 Agosto 2018

Ora

19:00

Edizione

2018
Categoria
Arene