Vita davanti alla morte

Agosto 2020

di Chiara Ugolini

Piena emergenza Covid i letti negli ospedali sono tutti occupati e qualcuno deve scegliere chi ha più possibilità di sopravvivere. E ancora: dopo anni di sofferenza si può decidere di morire? O è più ragionevole lottare fino alla fine?

A queste domande hanno cercato di rispondere, al Meeting, tre storie di vita e di tentativi di “cambiare le cose”. L’occasione è stata l’incontro “La vita: un mistero”.

“Nessuno poteva darci la certezza che il letto in terapia intensiva già occupato da un paziente non avrebbe potuto salvare un altro ammalato arrivato dieci minuti dopo – ricorda Antonio Pesenti, responsabile del dipartimento di Anestesia e rianimazione del Policlinico di Milano -. I posti non bastavano mai e continuavano ad arrivare persone”. Non c'era tempo per pensare, “dovevamo agire in fretta, ma anche seguire la logica”, aggiunge il medico che ha coordinato la rete delle Rianimazioni lombarde.

“Per ricoverare insieme più di millequattrocento malati di coronavirus – sottolinea Pesenti - abbiamo trasformato in terapie intensive corridoi e sale operatorie dopo aver sospeso tutti gli interventi non urgenti. A volte è stato impossibile ricoverare tutti, per questo alcuni pazienti sono stati trasferiti in altre città o addirittura all'estero”.

Guardarsi indietro e individuare errori commessi, può essere facile. Ed è necessario. I medici sfidavano il virus mettendo a rischio la propria vita, avendo tra le mani la responsabilità di scegliere chi salvare. Intanto donatori e volontari mettevano anonimamente il loro coraggio a disposizione di tutti, “i giornali dimenticavano il senso etico della scienza – sottolinea Pesanti –. Invece, in questi casi di emergenza bisogna astenersi dal parlare di ricerca e innovazione se si è ancora nella fase sperimentale”.

La morte ci ha colti impreparati durante la pandemia, le persone non hanno avuto neppure la possibilità di salutare i propri cari dopo averli affidati alle cure di infermieri e medici.

La stessa morte che, a volte, è cercata come soluzione finale o come drammatica via di fuga dalla sofferenza. “Un’opzione che troppo facilmente viene concessa”, sottolinea Theo Boer, ex membro della Commissione ministeriale olandese sulle autorizzazioni alle richieste di eutanasia. Dopo essere stato un convinto sostenitore della “dolce morte”,  Boer ha deciso di dare le  dimissioni quando si è “accorto che l'eutanasia era divenuta in Olanda il modo automatico di morire (la default way to die) – sottolinea -. I Paesi Bassi sono stati tra i primi a legalizzare la morte assistita, ma ad oggi non sta portando alcun beneficio”. Ad esempio, l'aumento di casi di eutanasia non ha comportato una riduzione dei suicidi, anzi negli ultimi dieci anni sono aumentati entrambi. “La morte assistita cambia il modo in cui noi gestiamo la malattia e la tragedia. L’offerta genera la domanda, se l'eutanasia non fosse legale meno persone sarebbero attratte da questa opzione”, aggiunge Theo Boer.

Elvira Parravicini, docente di Pediatria all'Università della Columbia e direttrice del programma neonatale “Comfort care”, si occupa invece da sempre della nascita. “La vita deve essere vissuta in modo naturale”, è il suo mantra. Il suo programma infatti prevede cure palliative neonatali a bimbi con aspettativa di vita limitatissima: un bimbo malato, anche se neonato, ha il diritto di “guidare il medico” con i suoi ultimi respiri. Non è necessario accanirsi nel tentativo di  un impossibile miracolo clinico. E’ più importante godere la vita riconoscendone il valore, per come è in quel momento,  in quella particolare circostanza. “Tra i miei pazienti ricordo Samuel, la sua famiglia sapeva fin dalla gravidanza che la sua vita sarebbe stata breve – racconta Elvira Parravicini –. Dopo la nascita ci siamo trovati di fronte a un ulteriore complicanza e mentre noi medici cercavamo di decidere se operare, uno dei miei infermieri ci ha ricordato “che eravamo ancora vivi”. Così Samuel è stato lavato, vestito e tra le braccia della madre, il suo piccolo cuore si è fermato. “Questo non è un caso eccezionale - ricorda la docente - ma è solo uno dei tanti esempi in cui i miei piccoli pazienti mi sorprendono e io mi lascio guidare da loro”.