LE STRADE DEL SABATO SERA: SICUREZZA E STUPEFACENTI

Le strade del sabato sera: sicurezza e stupefacenti

26/08/2011 - ore 19.00_x000D_ In collaborazione con la Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale. Partecipano: Marco Bertoli, Psichiatra e Direttore Sanitario dell'Azienda per i Servizi Sanitari Isontina di Gorizia; Iles Braghetto, Presidente della Fondazione San Gaetano; Silvio Cattarina, Presidente della Cooperativa Sociale L'Imprevisto; Umberto Guidoni, Segretario Generale della Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere-Opere Sociali.

In collaborazione con la Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale. Partecipano: Marco Bertoli, Psichiatra e Direttore Sanitario dell’Azienda per i Servizi Sanitari Isontina di Gorizia; Iles Braghetto, Presidente della Fondazione San Gaetano; Silvio Cattarina, Presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto; Umberto Guidoni, Segretario Generale della Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale. Introduce Monica Poletto, Presidente Compagnia delle Opere-Opere Sociali.

 

MONICA POLETTO:
Buonasera, buonasera a tutti. Iniziamo subito questo incontro che ha un tema che ci interessa tanto perché riguarda il rapporto dei giovani con le dipendenze e, conseguentemente, con la sicurezza stradale, in un Meeting che è stato caratterizzato molto fortemente dal tema dell’educazione dei giovani. Non tolgo tempo e passo subito la parola al primo relatore che è il dottor Guidoni, Segretario Generale della Fondazione ANIA per la Sicurezza Stradale, che fin d’ora ringrazio molto e vi chiedo un applauso per la collaborazione che da sempre ANIA ha avuto con il Meeting. Il dottor Guidoni ci introdurrà, inizierà a tratteggiare il tema, tema che poi affronteremo con l’aiuto dell’esperto e, secondo il metodo del Meeting, con l’aiuto dei testimoni. Perciò dottor Guidoni, a lei la parola.

UMBERTO GUIDONI:
Grazie, sono io che devo ringraziare il Meeting. Volevo dirle che sono particolarmente emozionato a parlare in questo contesto che m’ha iniziato ad apprezzare dei valori che forse al di fuori del Meeting non si percepiscono e che si possono percepire solo qua. Quindi è anche difficile dire qualcosa, perché sembra banale rispetto al clima che si respira qui all’interno, quindi sono io che ringrazio il Meeting per quello che ci sta dando e per il supporto che ci dà nelle iniziative che noi realizziamo. Allora il tema… la Fondazione ANIA rappresenta un mondo delle compagnie di assicurazione che nel 2004 hanno deciso di investire nel sociale attraverso la realizzazione della fondazione che io dirigo appunto dalla sua nascita, proprio esclusivamente finalizzata alla riduzione degli incidenti stradali. Noi realizziamo iniziative solo per questo scopo. I giovani rappresentano il nostro punto di riferimento nelle attività che noi svolgiamo e rappresentano purtroppo anche un punto di caduta della incidentalità stradale, perché è proprio sui giovani che, come vedremo, si caratterizza un maggior numero di incidenti e di morti. Perché ? Io ho recuperato una frase che mi ha colpito particolarmente che dice: “Capita a tutti, soprattutto ai giovani, di pensare di avere il mondo in pugno e a volte è anche vero, ma nell’attimo stesso in cui uno è convinto che vada tutto per il meglio, ci sono leggi statistiche che lavorano alle sue spalle, pronte a smentirlo”. Perché ho voluto riprendere questa frase? Perché noi ci troviamo a parlare con i giovani che in qualche modo percorrono le strade e la convinzione diffusa è quella che un incidente stradale a loro non possa mai accadere, cioè, come dire, una condizione di onnipotenza rispetto a quelle che sono le insidie sulla strada, che caratterizza soprattutto i giovani. In realtà non è così, perché purtroppo l’incidente può accadere e non è spesso una fatalità. Tant’è che oggi come oggi, nonostante noi abbiamo dei risultati che migliorano nel tempo, ancora oltre mille giovani muoiono sulle nostre strade. E negli ultimi 10 anni, anche se c’è stata una diminuzione significativa del numero di morti in età inferiore ai 30 anni, l’incidenza percentuale dei giovani che muoiono sulla strada inferiore ai 30 anni, è praticamente invariata. Quindi questo significa che totalmente c’è una riduzione dei morti, ma continuano a morire sempre nella stessa percentuale i giovani al di sotto dei 30 anni. Questo è il dato che entra nello specifico: nel 2009, che è l’ultimo dato che noi abbiamo disponibile, 1152 giovani sono morti, 716 avevano tra i 21 e i 29 anni, 426 avevano tra gli 0 e i 20 anni. Quando scriviamo zero è un dato che sembra impossibile da percepire, ma la prima causa di morte dei giovani da 0 a 14 anni è l’incidente stradale. Così come la prima causa di morte per i giovani al di sotto dei 30 anni è l’incidente stradale, la terza causa di morte in assoluto nel nostro Paese. Abbiamo anche cercato di avere una localizzazione degli incedenti stradali, la Lombardia è la Regione che ha il maggior numero di incidenti mortale, seguita dal Lazio e dalla Sicilia, chiaramente la spiegazione risiede nel fatto che le aree metropolitane che vengono ricomprese in queste regioni sono tali per cui la congestione del traffico, la presenza, voglio dire, di un certo numero di veicoli circolanti determina chiaramente una più alta incidentalità, spesso grave. L’Emilia Romagna, abbiamo voluto estrapolare un po’ il dato di questa area dove c’è una maggiore densità di locali notturni, ai quali spesso viene attribuita la responsabilità dell’incidente stradale, in realtà è la settima Regione per numero di morti e questo sembrerebbe un po’, come dire, andare in contro tendenza rispetto allo scenario che ciascuno di noi spesso si costruisce. Ora, noi abbiamo cercato di capire come mai i giovani hanno questa tendenza a fare incidenti stradali e spesso sono vittime di incidenti stradale gravi che producono morti e feriti. 4237 morti nel 2009, di cui un milione di feriti, di cui 20 mila invalidi permanenti gravi, cioè gente che ha una disabilità che dovrà portare avanti per tutto il resto della propria vita, che quindi vede cambiare la propria esistenza, l’esistenza della propria famiglia. Il tutto costa allo stato circa 30 miliardi di euro ogni anno. Non c’è altra catastrofe naturale di nessuna altra natura che ha questi risultati in termini di vittime, questi risultati in termini di costi. Abbiamo cercato di capire perché i giovani. Nelle indagini che abbiamo fatto nei pronto soccorsi, dove i giovani vengono ricoverati dopo l’incidente stradale, nella maggior parte dei casi, quando fortunatamente possono raccontare come sono andati gli eventi, è sempre colpa di qualcun’altro o di una causa diversa determinata dall’infrastruttura stradale piuttosto che da condizioni metereologiche. E questo che è stato studiato, questo fenomeno è stato definito poi il “paradosso del giovane guidatore”, cioè paradossalmente quando si scampa un incidente stradale si rafforza quello che vi dicevo all’inizio, cioè la propria convinzione di essere onnipotenti e di essere esenti dal rischio di morire, di rimanere gravemente feriti in un incidente stradale. Questo che cosa comporta? Comporta quello che vi dicevo prima, cioè che oggi i giovani muoiono e spesso lo fanno perché hanno un comportamento scorretto alla guida, un comportamento scorretto alla guida spesso legato all’utilizzazione di alcool e droghe quando si decide di mettersi al volante di un veicolo. É stato stimato che, in Europa, circa un incidente mortale su 4 è legato ad alcool e droghe e in Italia l’Istituto Superiore di Sanità ha stimato che il 30% degli incidenti mortali è legato all’alcool correlato o legato all’utilizzo di stupefacenti o spesso alcool e droga insieme e addirittura il 50% degli incidenti complessivi è legato a forme di dipendenza di questo tipo. Ora che cosa succede quando si decide di assumere una sostanza stupefacente? Tendenzialmente, quando si è molto giovani, la maturazione del cervello si completa dopo i 20 anni e durante tutto il processo di maturazione del cervello c’è una particolare sensibilità, come dire, a degli stimoli che possono provenire dall’esterno, quali quelli che possono essere prodotti da droghe e dall’alcool. Questi stimoli, oltre a determinare chiaramente, quando si crea dipendenza, dei danni fisici, determinano anche un’alterazione della percezione della realtà che circonda se stessi e il mondo esterno. Questa alterazione della percezione può diventare una vera e propria distorsione cognitiva, che rimane nel tempo e addirittura può rimanere per sempre e alterare in questo modo il sentire, il volere, il pensare, il reagire a determinati tipi di stimolo. Capite che l’uso di sostanze stupefacenti, determinando questo tipo di meccanismi, ha un’influenza assolutamente negativa per quanto riguarda le capacità di guida, perché la errata percezione del mondo esterno è il primo effetto negativo che si ha quando si è alla guida, per cui c’è un maggiore rischio di incidente stradale e quindi un maggiore rischio per se stessi e per gli altri che, in qualche modo, incappano in una persona che ha queste caratteristiche. L’assunzione di droghe per altro altera il funzionamento di alcune funzioni di dopamina e serotonina che incidono sulla coscienza, sull’umore e sulla percezione. Quindi tutto questo insieme di cose ci consegna un soggetto che ha un’alterazione delle percezioni esterne e che si mette alla guida.
Se noi consideriamo che il dipartimento antidroga ha stimato circa 3 milioni di persone che fanno uso di droghe in maniera permanente, noi ci rendiamo conto che 3 milioni di persone che hanno queste caratteristiche possono essere 3 milioni di guidatori e 3 milioni di guidatori hanno, come dire, una presenza nell’ambito del traffico stradale assolutamente frequente e quindi ciascuno di noi può incontrare ogni giorno persone che hanno queste caratteristiche. Come vi ho detto prima hanno una seria alterazione della percezione della realtà esterna. Per altro chi fa uso di droga? I giovani e quindi questa è una delle spiegazioni per cui poi i giovani fanno un maggior numero di incidenti. Il 37,5% tra 15 e 34 anni fa uso di cannabis e circa l’8% fa uso di cocaina. Persone integrate socialmente e persone che ignorano la loro patologia e la necessità di cura e persone poi che hanno delle patologie psichiatriche. Ora sicuramente noi abbiamo un trend in miglioramento rispetto alle dipendenze da droghe, ma questo trend in miglioramento – che vedete rappresentato in questa slide – è nel complesso significativamente positivo, ma se noi facciamo riferimento, come fa il Dipartimento anti-droga, all’uso di droga della popolazione studentesca, vediamo una significativa riduzione dell’assunzione di sostanze stupefacenti ma assolutamente inferiore rispetto alla popolazione complessiva. Quindi ancora una volta i giovani mostrano un trend in linea rispetto al resto della popolazione ma meno incidente rispetto al resto della popolazione. Anche dai dati della Polizia Stradale si evidenzia che c’è un maggior numero di sanzioni per guida sotto l’effetto di stupefacenti. Ma va detta una cosa fondamentale: l’attuale disciplina del codice della strada stabilisce che per poter dire che una persona che è al volante ha assunto droghe tali per cui essa è sanzionabile, è necessario fare un controllo presso una struttura sanitaria competente e quindi è chiaro che la pattuglia a quel punto deve prendere la persona, andare in ospedale, far fare il controllo e quindi il servizio di pattugliamento non ha la sua efficacia, perché significa fare un controllo in una notte. Conseguentemente, nella maggior parte dei casi, si fanno i controlli sull’alcool e la polizia mi dice che, nel 90% dei casi che loro hanno verificato, chi ha bevuto in modo forte è anche drogato, e conseguentemente vanno molto più nel sanzionamento rispetto all’alcool piuttosto che le droghe. Quindi il dato ha questo tipo di limite nel momento in cui viene valutato.
Come intervenire? Chiaramente le possibilità di intervento si racchiudono su una serie di azioni che devono essere combinate fra loro e devono portare a un combinato disposto di fattori, che possano consentire un miglioramento complessivo dei livelli di sicurezza stradale. Che cosa noi abbiamo cercato di fare? Attività di educazione: siamo andati all’interno dei locali e abbiamo cercato di spiegare ai ragazzi che cosa significa bere o drogarsi e poi mettersi alla guida. E poi abbiamo sostenuto l’attività della polizia Stradale attraverso la fornitura di etilometri, di crack-test, che consentono un maggior numero di controlli. Quindi che cosa significa questo? Significa cercare di rendere i ragazzi consapevoli dei rischi in cui vanno incontro e rafforzare i controlli come forma di deterrenza da condotte di guida e comportamenti di guida inadeguati. Che cosa vorremmo fare? Per esempio abbiamo avuto un incontro con la Comunità di San Patrignano e c’è stato raccontato che circa il 90% della popolazione presente in comunità non ha la patente, o perché non l’ha avuta mai, in quanto trovato già dipendente in età minore o perché gli è stata revocata in quanto si è messo alla guida in condizioni in cui non poteva guidare, perché sotto l’effetto di droga. La nostra idea sarebbe quella di entrare all’interno della Comunità per trasferire, come dire, il nostro know-how dal punto di vista delle competenze sulla sicurezza stradale e anche per fare dei corsi di guida e consentire quindi ai ragazzi che escono dalla Comunità di poter recuperare la patente. che noi consideriamo una forte forma di reintegrazione sociale. E quindi questo è un nostro obiettivo, un nostro progetto, che porteremo avanti con San Patrignano e con chiunque svolge questa attività e che vorrà avere il nostro contributo e il nostro supporto.
Che altro bisogna fare? Sicuramente comunicazione. Noi abbiamo fatto un’indagine tra gli italiani e abbiamo scoperto che la maggior parte degli italiani non sa le regole della strada. Io, se faccio un sondaggio qui dentro, scommetto che molti di voi non sanno qual è il limite alcoolemico oltre il quale scatta la sanzione della confisca, cioè della perdita di proprietà del veicolo, così come scommetto che è difficile che molti di voi sappiano che, ad esempio, tra i 18 e 21 anni, cioè nei primi 3 anni di patente, è entrata in vigore una norma in cui ai ragazzi è vietato l’uso di alcool, cioè alcool 0, non si può bere neanche una goccia di birra. Insomma tutto questo noi lo consideriamo un fatto grave, perché non conoscere le regole comporta il fatto di non rispettarle.
E poi c’è in questi giorni un dibattito che noi abbiamo aperto da circa un anno e mezzo: esistono dei numeri che in qualche modo ci dicono che circa l’85% degli incidenti mortali sono legati al comportamento del guidatore. Ora il comportamento del guidatore, entro certi limiti chiaramente, non può considerarsi tale per cui chi si mette alla guida esca con l’intento di ammazzare qualcun’altro. Esistono però delle situazioni nelle quali – e noi abbiamo dei casi che sono eclatanti nella giurisprudenza – si pongono in essere tutta una serie di comportamenti tali per cui, il rischio di poter far male a qualcuno, è un rischio accettato da chi si mette alla guida in quelle condizioni. E allora, secondo noi, in tutti questi casi è assolutamente necessario non parlare più di omicidio colposo, ma di parlare di omicidio doloso. Perché quando una famiglia perde un figlio perché il guidatore era ubriaco, è andato contro mano per 30 chilometri su un’autostrada e ha ammazzato la persona e qualche volta scappa pure senza prestare soccorso, dire che l’omicidio è colposo e che non c’erano le condizioni per poter evitare tutto questo, secondo noi è estremamente difficile. Quindi il nostro plauso al Governo che si sta impegnando per introdurre un reato di omicidio stradale, perché l’incidente stradale in questi casi non ha nulla dell’accidentale, ma è un fatto che in qualche misura si configura come un fatto voluto. Tutto questo, per altro, è voluto dagli italiani, perché noi abbiamo fatto un’indagine e circa il 90% degli italiani è d’accordo nell’introduzione di un reato di questo genere.
E infine la comunicazione. Noi sono 3 anni che facciamo delle campagne di comunicazione, cercando di sensibilizzare tutti all’uso corretto del veicolo. Il primo anno abbiamo focalizzato l’attenzione sulla guida in stato di ebbrezza e sulla velocità. Il secondo anno sulla distrazione alla guida, un fenomeno che era molto sottovalutato e che invece oggi comincia ad essere più attenzionato, diciamo così. E quest’anno abbiamo finalizzato la nostra campagna di comunicazione sul rispetto delle regole, con delle immagini crude. Abbiamo scritto: “Rispetta le regole della strada: eviterai regole più dure a te e agli altri”. Abbiamo rappresentato una sedia a rotelle, come vedete, una persona priva di un arto, proprio perché abbiamo voluto dire che il fatto di non rispettare le regole comporta delle conseguenze che poi porteranno a cambiare il modello di vita, il proprio stile di vita, rispettando tutt’altre regole.
Concludo dicendo che tutto l’insieme di azioni che vanno poste in essere da strutture come le nostre, da ciascuno di voi, in un’azione educativa che deve essere trasferita al prossimo, deve portare ad una conseguenza logica, cioè a quella di stravolgere l’attuale modello giovanile, che purtroppo è legato più all’esaltazione della cultura della morte, riaffermando la cosa più importante che c’è, che in qualche modo viene ripresa dal titolo di questo Meeting, cioè che l’esistenza è una immensa certezza e cioè riaffermando il principio e la cosa più bella che noi abbiamo, il dono della vita. Grazie.

MONICA POLETTO:
Marco Bertoli è Psichiatra e Direttore Sanitario dell’Azienda per i Servizi Sanitari Isontina di Gorizia. A Marco chiediamo un approfondimento, iniziamo ad entrare nel tema della dipendenza, che abbiamo visto essere una causa così straordinaria di tante cose, tra cui gli incidenti stradali e gli chiediamo di approfondire alcuni termini che sono introduttivi alle testimonianze che sentiremo dopo. Grazie Marco

MARCO BERTOLI:
Grazie, io parto dalla conclusione di quanto abbiamo ascoltato sui dati che rappresentano una realtà, una realtà sufficientemente drammatica e di fronte alla quale in qualche maniera bisogna interrogarsi e anche proporre dei percorsi. Ragionando su questa tematica, io introduco dei termini che mi sembrano ripresi da una esperienza sia di amministratore di una Azienda Sanitaria sia di padre e anche di educatore, in qualche maniera.
Parto da un progetto che abbiamo a Gorizia, che è il cosiddetto progetto overnight, dove come azienda Sanitaria e come Comuni, noi ci mettiamo a disposizione per il trasporto dei ragazzi che vanno nelle discoteche del litorale adriatico e questo evita loro, in qualche maniera, di mettersi alla guida in stato di ebbrezza e quindi di preservare questo aspetto dell’andare in macchina, perché i ragazzi vengono portati con dei bus. In realtà, ciò che viene poi riportato dai vari autisti, è che questo permette la totale deresponsabilizzazione rispetto al bere stesso: su questi autobus si caricano persone completamente sfatte dall’alcool e da altre sostanze. Quindi il tema che va affrontato è proprio il tema della responsabilità, come si aumenta il senso di responsabilità, si parla dei giovani ma è chiaro che la problematica è aperta agli adulti, perché le parole, i termini responsabilità ed educazione vanno insieme. La responsabilità significa etimologicamente un rispondere a qualcuno, l’educazione è, ancora una volta, un problema di rapporto, si è insieme, si vive insieme, giovani e adulti, il mondo è per tutti. Se il dato è che il consumo di droghe è un fatto, se è un dato che queste auto vengono utilizzate andando a portare il pericolo sulle strade, allora, come si deve produrre maggiore responsabilità?
Questo secondo me è un tema che è prettamente degli adulti e degli educatori e in questo senso racconto un’altra brevissima storia, che mi è capitata recentissimamente, come terapeuta di una famiglia che era venuta lamentandosi del fatto che la figlia ancora diciassettenne, frequentasse i bar la sera, abusasse di alcool in particolare. Siccome erano successi dei fatti, anche alcune risse, alcune situazioni incresciose, alla domanda come mai frequentasse certi ambienti, come mai bevesse, che cosa la portasse a questo, la ragazza, per tutta risposta, disse a me che ero il terapeuta: “tutti mi hanno chiesto come avvenivano queste cose e anche delle conseguenze che portavano, quindi le punizioni eccetera, ma nessuno mi ha chiesto come stavo”. E questo mi ha fatto riflettere, mi ha fatto riflettere su un’altra parola. La prima parola è “come si aumenta la responsabilità”, la seconda parola è “la scontatezza”. E probabilmente nei nostri rapporti, anche quelli più interni, anche quelli più intimi, anche nei rapporti familiari, diamo troppe cose per scontate. E’ come se fosse un fatto che ci sia un rapporto madre-figlia, padre-figli, genitori-figli, ma questo non è così, perché la scontatezza uccide, la scontatezza uccide la persona da un punto di vista psicologico, da un punto di vista della responsabilità e soprattutto da un punto di vista affettivo. Perché la questione dell’uso delle sostanze, cioè non dico delle cose estremamente nuove, ma è chiaro che va a completare dei vuoti che si stanno largamente facendo nelle relazioni che abbiamo con gli altri. Allora io credo che la possibilità di una responsabilità maggiore stia nella non scontatezza dei rapporti fra di noi. Nei rapporti tra padri e figli, nei rapporti tra le persone più significative che abbiamo vicino, ma anche nei rapporti della vita quotidiana. E, per non cadere nella scontatezza, io credo che ci voglia una particolare attenzione al reale. E, in realtà, svegliarsi ogni mattina non è così scontato, in realtà avere delle opportunità non è così scontato. In realtà avere la moglie al fianco al mattino, non è così scontato: potrebbe essersene andata. E quindi credo che recuperare un’attenzione al reale – che vuol dire recuperare un’attenzione alle cose che ci stanno più a cuore, che sono comunque la famiglia, il lavoro, le relazioni più significative – possa aiutare non tanto a dare delle risposte, ma comunque a rendere aperto e vivace un rapporto. Un grande educatore, che molti di noi abbiamo conosciuto, Enzo Piccinini, nel rapporto coi suoi figli, mi colpiva quando indicava anche a me come educare i miei figli. Diceva che molto spesso è importante provocare, facendo delle domande, provocare amorevolmente, non provocare per distruggere, ma provocare per sentirsi più vicini. E chiedeva ai suoi figli quando andavano fuori, in discoteca, senza impedire questo inizialmente, chiedeva loro: “ma, a cosa ti serve?” E non la faceva solamente una volta, la domanda. Proponeva questa domanda ogni qual volta l’atteggiamento e il comportamento dei ragazzi lo lasciava perplesso, lo lasciava dubitoso sulla bontà dello stesso comportamento. Questo “a cosa ti serve?” serve a rilanciare una profondità, a lasciar fuori la scontatezza. Serve a rimettere in gioco. E magari, come adulto, ad indicare una profondità e un senso che è necessario avere nella vita, perché altrimenti la vita rimane superficiale e scontata e un pochino inutile. La terza questione: responsabilità e scontatezza, io trovo che abbiano una dinamica tra di loro. La terza parola comunque è libertà. Io credo che un paladino della libertà sia stato sicuramente don Giussani, che ha rischiato tutto sulla libertà dall’altro. Ma anche questa, anche questa è una libertà amorosa, una libertà che accompagna. Se la libertà è un’adesione al vero, allora io ci devo essere, devo essere al fianco, io devo essere compagno nella vita. E questa compagnia permette di essere un provocatore reale e ancora una volta il vero io lo trovo molto legato alla questione della realtà. Perché il vero è ancora una volta un rapporto, un incontro che qualcuno, che ognuno di noi deve fare e in quel rapporto la vita si apre, la vita trova una dimensione, una passione e un gusto che aiutano a far superare le adesioni alle cose effimere, voluttuarie e transeunti. Ecco, io credo che le regole vadano conosciute, ma la possibilità di aderire a dei comportamenti virtuosi, non nel senso moralistico, ma nel senso di comportamenti che costruiscono ognuno di noi, credo sia un’educazione che va al di là della regola, che ti riprende come persona con tutti i tuoi limiti e che, in qualche maniera, torna a te direttamente. Ritorno alla domanda iniziale che faceva questa ragazzina: “ma nessuno mi ha chiesto come stavo”. Questa mi sembra la cifra del rapporto che ti sostiene, della intenzione di accompagnare in senso compiuto l’altro. E quindi, in questa dinamica, credo che come adulti, ma insieme ai ragazzi, in questo rapporto educativo che prevede entrambi, scatti l’indicazione di un positivo. Il tema del Meeting è la certezza e la certezza io la leggo come una positività di costruzione. La positività di costruzione nel reale, nel sociale, nella comunità, una possibilità di costruzione per ognuno di noi, che va proprio indicata nel rapporto, nella relazione tra persone che si riconoscono – e per questo dico la relazione – nella relazione tra persone che si riconoscono, che hanno desiderio di fare un pezzo di strada assieme. Un pezzo di strada, non è detto che sia tutta la strada. Penso che anche il senso del Meeting sia proprio questo, di poter incontrare, di poter fare un pezzo o pezzi di strada insieme e aiutarci a costruire quei rapporti che ti fanno costruire, poi, nel tempo, percorsi positivi, percorsi di bellezza. Chiudo dicendo che c’è bisogno di uno stupore continuo. C’è bisogno di aprire gli occhi al mattino e di poter giocare quella opportunità per un bene che sia personale e comune. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie, grazie. Allora, a questo punto, abbiamo invitato questi due nostri amici con delle esperienze estremamente significative, proprio perché a loro chiediamo: allora, con questi ragazzi che si fa? Cioè, che sguardo portate voi su questi ragazzi che vi sono affidati, che cos’è la vostra opera e come si muove. Iniziamo con Iles Braghetto, che è Presidente della Fondazione San Gaetano, qui presente al Meeting anche con uno stand. E’ tutta la settimana che ci portano ospiti delle loro comunità: ieri sono arrivati i ragazzi profughi libici, che abbiamo visto girare per il Meeting. Innanzitutto lo ringraziamo per la presenza sua e di tutta la Fondazione che qui è rappresentata e gli chiediamo di raccontarci la sua esperienza, grazie.

ILES BRAGHETTO:
Beh, grazie. Io ringrazio Monica. Tutti al Meeting sono emozionati quando intervengono. Napolitano si è tolto la cravatta perché era anche lui emozionato.

MONICA POLETTO:
E così voi non ve la siete messa…

ILES BRAGHETTO:
Sì, e noi non ce la siamo messa. Ma ognuno ha una propria ragione per esserlo. Anche io sono emozionato e ho una ragione precisa. Io, non perché … voglio dire, anche se mi incute sempre timore parlare in pubblico a tanta gente, eccetera, per me non è la prima volta che parlo al Meeting; è, credo, la seconda se non la terza. Ma c’è una piccola e non banale differenza fra quelle volte e quella di oggi: che allora parlavo di me, parlavo del mio lavoro, parlavo della mia competenza, parlavo delle leggi che avevo fatto nei diversi luoghi in cui ho fatto politica. Oggi invece non parlo, come dire, della mia competenza e del mio lavoro. Oggi, come dire, sono testimone di un’esperienza che ha una lunga vita di oltre trent’anni, che ha una lunga vita e che mi è stata affidata, che io ho preso in mano soltanto da qualche mese. Un’esperienza che però mi si è come imposta prepotentemente, quasi come una sfida, perché la responsabilità della mia vita, in questa fase della mia vita, è quella di farmi carico di questa esperienza. E oggi sono qui a parlare con questo tipo di atteggiamento, diciamo, con questo spirito di testimone, peraltro non vi posso raccontare tutti gli episodi che vi racconterà Silvio, che è il guru della sua iniziativa, della sua comunità, ma cercherò con alcune parole di raccontare quello che l’esperienza ha raccontato a me in questi primi otto, nove mesi in cui ci lavoro come Presidente. E io racconto, o declino alcune parole su due esperienze. Una riguarda quella che presentiamo al Meeting: è il progetto BlueRunner, è l’iniziativa per cui noi, come dire, abbiamo attrezzato alcune unità mobili, le portiamo nelle strade, nei luoghi di divertimento, attraverso alcuni strumenti creiamo un rapporto con i ragazzi, gli facciamo l’alcool test, eccetera eccetera eccetera. Questo è… ma quello che voglio raccontarvi io è, come dire, perché questo?
Guardate, innanzitutto perché noi siamo interessati ai giovani, siamo interessati alla giovinezza. Eh, no? Cioè, no? Tutti quelli che lavorano, come dire, nelle comunità di recupero credo che, nell’anima, non è che sono interessati della patologia che hanno di fronte, ma dell’uomo che hanno di fronte, in particolare di quella esperienza che è la giovinezza, che è un’esperienza straordinaria della vita, quell‘esperienza in cui si palesa chiaramente che la vita è una cosa buona, pur in mille difficoltà e in mille traversie, in mille sfide. E noi abbiamo scelto di dare vita a questa esperienza che non ha nessun riferimento – proprio per questa ragione anche lessicale anche formale – alla San Gaetano, alle sue comunità, eccetera. Ma è un altro progetto proprio per segnare questo e perché l’abbiamo fatto? Guardate, tre battute semplicissime. Primo, perché oggi, come dire, nei luoghi bisogna esserci. Cioè noi abbiamo scelto di esserci, di stare nei luoghi di divertimento. Di esserci, di stare nei luoghi in cui questa giovinezza inizia a sperimentare le prime cose importanti della vita, in cui inizia a sperimentare quella cosa straordinaria che è la relazione, il rapporto con i coetanei o con la musica, che è una grande possibilità di espressione della natura umana. Quindi è un progetto per esserci nel luogo di divertimento. Poi è un progetto perché si realizzi l’ascolto. Ciò per cui oggi la nostra società è refrattaria, è perché manca l’ascolto. Quindi il vero lavoro che si fa, attraverso gli strumenti che usiamo, è che nasca un rapporto, come dire, una relazione significativa tra gli operatori e i ragazzi, i volontari che sono attorno alle unità mobili e tutti i ragazzi che vanno a divertirsi. E’ importante. Perché questo? Tutto aiuta, anche le regole, ma soltanto un ascolto vero aiuta il cambiamento di un comportamento. E quindi, come dire, esserci per un ascolto. E, terzo, e qui faccio un piccolo approfondimento, ci siamo – e io uso appositamente questo termine – per dire la verità. Perché per i ragazzi sono importanti le informazioni, sono utili le informazioni, ma, come dire, non sono sufficienti per creare una coscienza e per cambiare un comportamento. C’è bisogno di una verità, cioè di una conoscenza vera. Guardate, ragazzi o adulti che siete qui, questo è un orologio di acciaio. E’ una informazione. La conoscenza qual è? E’ sapere ciò per cui io lo amo e lo porto. E io lo porto perché so a che cosa serve. Questo è il passaggio dall’informazione alla conoscenza. E’ un orologio di acciaio, e va beh, ma ciò che, come dire, fa scattare una mia affezione all’orologio, per cui me lo tengo in mano e me lo attacco, è perché so a che cosa serve, a dirmi che non devo sforare i dieci minuti, in questo caso. Questa è la ragione per cui ho usato la parola verità, perché è più esaustiva, più complessiva del processo che deve avvenire, di cui fa parte ovviamente anche la conoscenza di tutta una serie di pratiche.
E concludo questa prima piccola presentazione con queste tre parole: esserci per un ascolto, per dire la verità, per dire anche che tutto questo, guardate, non lo facciamo da soli. Nel Veneto poi questa esperienza si è, per così dire, alleata, forse è il termine più giusto, si è alleata con le altre esperienze pubbliche e private, per affrontare insieme questo mondo complesso. Credo che l’unica cosa importante che ci unisce, non sono tanto le modalità organizzative, che a volte sono anche diverse, ma è esattamente la decisione di esserci per ascoltare e per dire loro la verità. Allora si costruiscono vere e proprie reti, vere e proprie, noi preferiamo chiamarle alleanze terapeutiche per incontrare il bisogno del giovane. Adesso vi descrivo brevemente invece la Fondazione San Gaetano, l’esperienza delle sue comunità che incrociano le persone che dipendono dalla droga, dall’alcool, dalla malattia psichiatrica, dal carcere, che dipendono da tante cose. Anche qua, come dire, il modo da testimone non poteva essere che questo, o almeno io ho trovato questo modo più adatto per raccontarvi questa esperienza e anch’io mi sono fidato o affidato a quattro parole. La prima parola è la parola speranza. Insomma perché un ragazzo viene in comunità? Al di là di tante ragioni, perché spera di cambiar vita e se uno perde la speranza di poter cambiare vita la battaglia è persa, ecco perché prima parola è una parola fondamentale.
Possiamo dire, tramutando in parte, l’Inno alla Vergine di Dante “Sei di speranza fontana vivace”, sulla inutilità della vita. Noi possiamo anche tradurla in questo modo: che questa fontana vivace di speranza ci richiami ogni mattina al senso della vita. Che questa fontana vivace di speranza sia ciò che ci rianimi appena apriamo l’occhio al mattino; noi e i ragazzi che sono con noi. Tra l’altro la lingua italiana, come dicono tutti, è molto bella, Dante anche. Immaginate: fontana vivace, se uno conosce le fontane e fa esperienza di ascoltare il suono delle fontane, come dire, richiama effettivamente all’apertura di una speranza per una vita grande. Seconda parola: ho usato il termine “la voce” ma può essere “la parola”. Nel nostro stand, per esprimere ciò che provoca l’entrata nel tunnel della dipendenza, abbiamo deciso di usare, non so se alcuni di voi lo conoscono, di usare una foto di Branciaroli nel brano In Exitu di Giovanni Testori. Quella foto in cui Branciaroli rappresenta Ribaldi Gino, che è sfatto dalla droga e sta per morire in una toilette della Stazione Centrale di Milano. Perché dico questo? Perché Ribaldi Gino si rivolge allo scrittore, che è Testori, e non è umiliato perché è sfatto dalla droga e sta per morire, ma perché lo scrittore non lo ascolta, perché non trova una persona che lo ascolti. Lo stato di umiliazione nel quale il ragazzo si trova, non dipende tanto dalla droga, che è piuttosto una conseguenza dell’umiliazione – leggo un breve passaggio che ha fatto Testori nella sua critica – “quanto dal fatto che Gino è stato espropriato di tutto e soprattutto delle parole per raccontare il proprio dolore e delle parole il ragazzo si fa mendicante, le chiede, le esige, dallo scrittore nel nostro caso, ma nel caso di ognuno di noi le chiede alla persona che ha di fronte. La necessità di riavere le parole del proprio racconto, della propria biografia, perché un destino buono comincia a essere tale solo quando è condiviso”. È questa la sfida dell’operatore di comunità: essere capace di dare la parola per condividere insieme un percorso di vita buona. Terza parola: io ho tradotto meglio, mi piace di più “la compagnia”, invece che la comunità. Alla fine che cosa il ragazzo, ma ognuno di noi in realtà cerca? Perché poi noi parliamo sempre degli altri ma è la stessa domanda che possiamo porre a ognuno di noi: perché ci interessa una compagnia? Perché dentro una compagnia siamo aiutati a essere più noi stessi e siamo aiutati a cambiare vita se serve, a cambiare atteggiamenti se serve, a modificare comportamenti se è utile. Insomma i ragazzi cercano la compagnia perché desiderano cambiare vita; desiderano che quella speranza si realizzi e la modalità più naturale per realizzarsi è dentro una relazione. È chiaro che qui dentro c’è poi tutta la dinamica della relazione, la dinamica dell’autorità da riconoscere, ma deve essere un’autorevolezza che condivide la tua vita, non un’autorità che si impone. È chiaro che in questa relazione c’è una strada da compiere, c’è una fatica da avviare, ma tutto ciò è possibile dentro una compagnia. Possiamo approfondire, magari faccio due battute su questo: perché è la compagnia la modalità in cui quella speranza, quel cambiar vita può realizzarsi? Perché la compagnia per sua natura riconosce la persona, l’altro per quello che è: uno che ha gli stessi miei bisogni, ha gli stessi miei desideri, ha le stesse mie voglie di felicità; è uno come me. Secondo: perché la dipendenza abbraccia tutto l’essere della persona, per questo chi dipende da una sostanza ha bisogno della compagnia, perché la dipendenza abbraccia tutto di sé. Per carità, mi diranno gli psicoterapeuti, c’è la criticità, serve la farmacologia, c’è il momento di difficoltà, serve la psicoterapia. Usiamo tutto e di più nelle nostre comunità dal punto di vista degli strumenti di carattere scientifico, ma su ciò che è decisivo quando la persona, detto in un altro modo, inizia a rivivere, il medico e lo psicologo e le altre figure professionali debbono confrontarsi continuamente con l’educatore nell’esperienza del quotidiano. Tenete presente che sul piano di molte legislazioni, Veneto compreso, non era prevista la figura del pedagogista nei primi anni nella pianta organica delle comunità. In forza dell’approfondimento di questo tipo di impostazione è stata inserita la figura del pedagogista, che è quella che aiuta lo svolgersi di questo lavoro. Quarta parola: la libertà, perché comunque anche chi è schiavo della sostanza non si realizza senza libertà. In realtà, anche qui siamo tutti innamorati della libertà, così come tutti abbiamo imparato che la libertà è anche un lavoro, è anche un cammino, è anche un impegno. E’ un impegno a considerare tutti gli aspetti del reale, essere legati a chi ci ha donato quella umanità e perché quell’umanità si esprima c’è bisogno di un atto di responsabilità, che poi è un atto di libertà. Anche qua posso concludere con quest’ultima battuta: perché sfidiamo i nostri ragazzi alla libertà? Sfidiamo i nostri ragazzi, schiavi della sostanza, alla libertà, perché non abbiamo timore di chi sbaglia; guai quando abbiamo questo timore, perché non esiste una possibilità di una strada di recupero su questo. Concludo dicendo due cose semplicissime. La prima: ci hanno invitato al Meeting un po’ alla fine e allora ci siamo posti il problema su come prepararci, alla fine abbiamo scelto una modalità semplicissima. Alla fine la vita è anche più semplice di come la facciamo noi e quindi anche in questa grande esperienza che è il Meeting la cosa più semplice è essere se stessi e per essere noi stessi qui dobbiamo portare nella semplicità quello che è la fondazione S. Gaetano, quindi non i suoi dépliants, le sue carte, non i suoi responsabili, neanche solo i suoi direttori o operatori, ma portare tutti, dal fondatore che è qua e al quale vi invito a fare un applauso, al presidente, ai direttori, al consiglio di amministrazione, via via fino agli ultimi che sono le ragazze. Queste ragazze, pur essendo portatrici di una doppia diagnosi psichiatrica e da dipendenza, si sono esercitate in questo ultimo mese a scrivere poesie per la festa dell’apertura della loro comunità e queste poesie le hanno presentate nella stand del ClanDestino e mi ha promesso Rondoni che poi andranno nella rivista de il ClanDestino. Ma voglio ricordare anche gli ultimi arrivati, che sono i ragazzi dalla Libia e che sono stati qui ieri. Ci è parso il modo più semplice. Concludo con una breve poesia che esprime lo stato d’animo di oggi, è una brevissima poesia di Carlo Betocchi che dice: “Ciò che occorre è un uomo, non occorre la saggezza, ciò che occorre è un uomo in spirito e verità, non un Paese, non le cose, ciò che occorre è un uomo, un passo sicuro e tanto salda la mano che porge che tutti possano afferrarla e camminare e salvarsi, liberi”. Grazie.

MONICA POLETTO:
Grazie, grazie Iles. Silvio Cattarina, Presidente della Cooperativa L’Imprevisto, insomma Silvio Cattarina e basta. Si è portato il tifo.

SILVIO CATTARINA:
Esiste una forte, indiscutibile, documentata relazione tra il cosiddetto “Sabato sera” – le varie attività, proposte, animazioni, discoteche – le morti del sabato sera (più esattamente della domenica mattina) – e l’uso e l’abuso di droghe e di alcool. Non lo si vuole ammettere, non se ne vuol parlare… per tanti motivi.
Non solo l’uso e l’abuso di droghe ed alcool, ma tutto l’insieme di idee, di progetti del tempo libero, del divertimento del sabato sera (la movida).
Sembra ormai che il giovane, l’idea di giovane (di ragazzo) debba identificarsi con ciò che avviene il sabato sera (ma non solo il sabato sera, ormai tutte le sere, la notte …) con ciò che il mondo offre in termini di divertimento, di svago, di sballo, di evasione. Il giovane è la notte. Ciò che avviene, che si fa avvenire di notte è il giovane.
La notte come luogo in cui vivere, in cui ricercare uno spazio che si sottrae al giorno, alla normalità. Questo spazio, fuori dalle regole, dal consolidato, dal consueto, diventa il luogo della libertà assoluta (che viene interpretato in modo borghese: cessano le regole, i riferimenti, le appartenenze, che vigono di giorno… ma scattano nuove regole, riferimenti e appartenenze vincolanti come quelle diurne (chi detta queste regole?)
Questo spazio è lo spazio dei giovani, totalmente plastico… la regola di questo luogo diventa la trasgressione delle regole (e si ripone il problema di prima: loro continuano ad obbedire ad una regola, stabilita dai ‘signori della notte’.
In questo luogo dove la regola è la trasgressione delle regole diurne, l’elemento trasgressivo domina. Solo che invece di chiedere la rivoluzione, come chiedeva la nostra, la mia generazione, o di chiedere al loro cuore che cosa devono chiedere, obbediscono alla omologazione delle regole della trasgressione alla regola.
E il signore, o i signori delle regole trasgressive oggi impongono la regola dell’alcool e della droga.
Lo spazio proprio che così loro creano è una realtà, uno spazio predeterminato e questo è il suo primo elemento distruttivo. “non mi farò mai ingabbiare da nessun luogo” mi diceva un ragazzo… “guarda invece come sono andato a finire: nella peggiore delle prigioni”. Ma soprattutto è uno spazio ripetitivo. Se per trasgredire alle regole del giorno obbedisci allo spazio della regola trasgressiva dettata dal signore della trasgressione questa regola è la più ferrea perché ha bisogno di essere assolutamente ripetitiva.
Alcool e droga cosa producono: la dipendenza e da lì in avanti dipendi dalla regola della notte che ti da l’illusione di essere una trasgressione delle regole, mentre invece è la regola più ferrea perché chiede incessante ripetizione: la dipendenza.
I ‘signori’ della notte giocano con il profondo senso religioso dei giovani, che chiede libertà, lo stravolgono, se ne impossessano e così possiedono le persone che cadono nella loro rete.
Come dice il mio amico Marco: è un popolo che è degno di morire quello che consente che i propri figli siano preda del signore della notte.
A Pesaro, ad esempio, da qualche anno, sempre più massicciamente, avviene una cosa stridentissima … scandalosa e ingiustificabile: 4, 5 sere di movida sfrenata, lunghissima, con volumi musicali impossibili ed irricevibili lungo tutta la spiaggia… nel mezzo sorge la nostra Comunità Terapeutica Educativa Maschile.
Lì un corposo gruppo di giovani ragazzi, quegli stessi che un tempo erano i più assidui frequentatori di simili luoghi e che sono anche giustappunto finiti in Comunità, si cura, riprende in mano la propria vita.
Tutt’intorno si consuma, si celebra l’ennesima esperienza di rovinamento del corpo e dell’anima di tanti giovani, di corruzione, di corrompimento del cuore della persona, di stordimento, di ottundimento dei sensi, dei sentimenti…, di invasione della persona e di immissione dentro di essa di tante cose cattive…
Penso sempre ai genitori di tutti questi ragazzi che sono a casa, che non vanno a letto, che vegliano, che attendono … che sperano che non succeda niente di grave (ma il grave è già successo ancor prima che i figli raggiungano quei luoghi…). Penso a questi genitori che non hanno saputo, potuto, dire di no… che attendono ore e ore il ritorno del figlio… ma alle volte ciò che arriva a casa è una telefonata: il genitore vede che è il cellulare del figlio, ma chi parla è la voce rotta di un carabiniere, di un poliziotto…
Lanciamo un allarme: così non si può continuare… Proponiamo soluzioni, limitazioni, divieti, annulliamo, impediamo…
Non vergogniamoci di vietare, di impedire.
Partiamo da una presa di coscienza della situazione assurda e ribaltata in cui versa la condizione giovanile del nostro tempo, la concezione di divertimento e di tempo libero.
Partiamo dal dolore, dalla pena che ci procura tutto questo.
Questo esodo notturno alla ricerca di chissà quale paradiso…
che si risolve invece in un grido sordo e solitario ad una luna in cielo immobile, senza nome e senza volto, senza una speranza.
Perché le nuove generazioni hanno questo bisogno di uscire dalla realtà, di trasgredire, di costruire una realtà parallela?
Perché nella realtà i ragazzi non trovano qualcheduno che è capace di introdurli, un adulto che si renda responsabile di essa, che indica che è buona, che dice ‘ti faccio compagnia io…’ che indica una strada.
Questo qualcheduno, questo adulto si chiama padre, perché questa è la funzione del padre.
Tant’è che questi ragazzi, molto vendicativamente, quando entrano in comunità piano piano lo dicono, chiarissimamente: andiamo in questi luoghi per romperci, ma anche come per vivere una vendicatività. Siccome non ho avuto e non mi è stato dato, allora mi faccio del male; loro lo dicono apertamente. Loro usano questa espressione, molto drammatica, ma anche così impossibile, così assurda: mi faccio, come se intendessero dire mi creo io, mi costituisco io. Ma la vera grande questione è di invitare tutti questi ragazzi a cercare una grande cosa. Nella mia esperienza parto come sociologo, come psicologo; i primi anni si pensava chissà che cosa e chissà come tutto intorno a queste problematiche. Ma la vera grande questione abbiamo capito che non è il passato; non è tutto quello che è stato sofferto nel passato. In tutto questo mondo così psicologizzato, si pensa che il dolore e la sofferenza incidano tantissimo e determinino e si portano dietro all’infinito. Non è così; ciò che fa veramente soffrire un giovane come un adulto è il presente, è se nel presente non ci fosse una grande chiamata, un grande invito, una grande scommessa su di sè, sulla propria persona. Non importa più di tanto il passato; il passato lo si può anche piano piano superare, purché nel presente, oggi, io incontri delle persone che si affiancano a me e mi invitino a cercare una grande cosa, perché questa procura un entusiasmo – per altro poi nel corso degli anni ho scoperto che la parola entusiasmo dal greco vuol dire “essere dentro Dio”. Questo ti dà energia e ti dà forza, questo fa dire anche a me, nonostante tutto quello che ho passato e ho avuto: “Anch’io ci posso stare, anch’io posso concorrere a una grande cosa”. Come se ogni giorno dovesse venire un principe che ti invita a un banchetto regale, proprio per te. Questo è quello che fa veramente soffrire, quando i ragazzi dicono: “Quanto sono stato solo, quanta solitudine ho mai vissuto pur essendo vissuto in mezzo a tanti ragazzi”. Ma la vera solitudine non è innanzitutto quella fisica; la vera solitudine è che non ci sia un motivo grande per vivere. Penso che nelle nostre comunità, così come è stato detto, sia possibile testimoniare una cosa di questo genere. Spesso dico: fallo per tutto il mondo; quello che hai avuto non è da buttar via, è una cosa che vale; parla della tua sofferenza, parla del tuo passato, raccontalo, perché può essere una via per tutti, una cosa che serve. Dio non manda mai una prova se non per essere giocata e per essere valida sempre per tutto il mondo. Quello che fai qui dentro, fallo non solo per te, ma per tutto il mondo. Penso che ci sia una possibilità di grandezza e di bellezza veramente infinita. Tante cose ce le hanno insegnate i nostri ragazzi e forse più dei nostri ragazzi ce le hanno insegnate i loro genitori, i loro papà e le loro mamme. Dobbiamo abituarci a imparare una nuova misura, uno sguardo e una misura diverse; non può essere solo ciò che facciamo noi e solo le nostre persone; io so che tanto passa attraverso le nostre persone, ma le nostre persone devono testimoniarci come erano i nostri genitori, quello che ci testimoniavano i nostri genitori e i nostri nonni. Dobbiamo testimoniarci appunto questa speranza. Dico spesso: non fermatevi alle nostre persone, guardate dove guardiamo anche noi, guardate lontano. Le nostre persone possono essere un grande aiuto, ma mi farebbe incazzare tremendamente se ciò che manca a te ce l’avessi io e fosse una cosa mia, delle mie mani. Io andrei via, non accetterei una cosa così. Io accetto che un altro mi possa aiutare se la cosa che mi insegna lui, che mi passa piano piano lui, a lui gli è stata data da uno molto più grande di lui. Non accetto che sia una cosa sua, questo sarebbe il massimo della ingiustizia, che io non abbia ciò che mi serve sommamente per essere me stesso, per vivere. Io non ce l’ho e ce l’ha un altro. Io non l’accetterei. Io accetto che le cose più belle e più vere ce le porti direttamente Dio, sia Dio a portarci ogni dono nella vita. Io desidero essere il più povero, il più bisognoso di tutti noi, che siamo lì in comunità; desidero essere l’ultimo, perché ho lo stesso bisogno e lo stesso problema che hanno i miei ragazzi e quello che mi colpisce molto, e arrivo alla conclusione, è che i ragazzi ma anche noi – si parla dei ragazzi perché è più facile parlare di loro, ma noi siamo peggio – pensiamo che nella vita bisogna essere capaci in mille cose. Questo è terribile, perché se la vita è essere all’altezza di prestazioni sempre più grandi, sempre più perfette, più forti, più potenti, più ricche, più persuasive, più tutto, la vita è una condanna, una prigione. Nella vita bisogna essere forti in un’unica cosa, come ci ha sempre detto Giussani o Piccinini e giù giù come diceva Bertoli, nella vita bisogna essere grandi in un’unica cosa: in una grande attesa, in un grande desiderio. Tutte le altre ti devono venire in forza di questo, perché tu sei attento a questo grido. Gridate a Dio, non gridate agli uomini. Siete stati cattivi – lo dico spesso ai ragazzi ma lo dico affettuosamente – perché vi siete fatti tanto male e soprattutto perché l’avete fatto ai vostri genitori. Ma perché non avete gridato a Dio? Abbiate il coraggio e la forza di combattere con Dio, non con gli uomini; chiedete l’aiuto agli uomini per questo ma arrivate direttamente al vero destinatario di tutto il nostro grido, non fra di noi. Penso che in tutto quello che facciamo – noi siamo anche molto precisi, come tutte le comunità, precisi, esigenti, alle volte anche punitivi, chi non merita lo si sanziona, a volte lo si punisce, non per quello che ha fatto, ma perché abbiamo veramente una grande aspettativa verso ogni persona – il vero punto è forse questo: bisogna essere forti; come diceva mia mamma insomma: “Tu devi avere un cuore grande Silvio, tutto il resto verrà da solo”. Ma è proprio così, occorre che tutto il resto venga portato dagli altri, dagli amici; tutto ti deve venire da solo, non come una tua conquista. E’ terribile questa idea che la vita è la realizzazione delle nostre mani, della nostra capacità. Dobbiamo imparare a guardarci come ci guarda Dio, un’altra misura. Spero che ancora a lungo ci venga data questa possibilità e questo dono, so che ci può essere portato via da un momento all’altro, se ce ne impossessassimo, se ce ne inorgoglissimo; ma spero che ci duri a lungo perché desidero vedere tutti i doni e tutte le grazie che Dio ci può portare, se veramente lo invochiamo tantissimo, perché è il presente ciò che conta, casomai il futuro, non il passato e ciò che conta è di scoprire che, nonostante tanto dolore e tanta sofferenza, ognuno è sempre stato amato, ognuno è amato da sempre e lo sarà per sempre. Come dice Enrico che è qui, ci ha colpito tanto quando ha usato questa espressione: “Io ho avuto tanto dolore, tanta droga…Ma la cosa più drammatica per me non è stata l’esperienza della droga; l’esperienza più drammatica io l’ho fatta all’imprevisto in comunità, perché l’imprevisto mi ha sempre aiutato a gridare tantissimo tutto il mio dramma e tutto il mio dolore, ma a gridarlo giusto, a gridarlo verso colui a cui veramente doveva essere rivolto”.

MONICA POLETTO:
Grazie, abbiamo visto questa sera la verità della poesia che ci hai citato alla fine, ciò che occorre è un uomo, e mi viene da dire: ciò che occorre è un incontro tra uomini, come questo è certamente stato e per questo ringrazio i nostri amici che, come tutta la nostra storia, questo ci testimoniano. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2011

Ora

19:00

Edizione

2011

Luogo

Sala C1
Categoria
Incontri