UN CAFFÈ CON… UN BANCHIERE

Partecipa Miro Fiordi, Amministratore Delegato Credito Valtellinese. Introduce Mauro Bottarelli, Giornalista.

 

MAURO BOTTARELLI:
Buongiorno e benvenuti. Dopo il caffè con il finanziere di ieri, oggi ci prendiamo un caffè con un banchiere. Però c’è banca e banca, non solo per lo spot, che “la mia banca è diversa”, “la banca è costruita intorno a te”… ci sono le banche cosiddette commerciali e le banche che possiamo chiamare territoriali, le banche dell’ultimo miglio, le banche popolari che sono più legate al territorio. E c’è una differenza netta, non soltanto nell’impostazione, è una differenza anche della cosiddetta governance, una differenza statutaria e sono cose di cui non si parla tanto, ma sono realtà che hanno dinamiche, difficoltà e anche cose positive differenti rispetto ai grandi gruppi bancari di cui sentite parlare tutti i giorni. Noi abbiamo qui oggi l’Amministratore delegato del Credito Valtellinese, Miro Fiordi, che è qui con noi, che ci spiegherà adesso quali sono le differenze tra un grande gruppo bancario, come quelli che conosciamo, e una banca come il Credito Valtellinese, che invece ha una vocazione differente, una governance differente e di fatto anche un mandato, forse, differente rispetto all’economia reale.

MIRO FIORDI:
Ci proviamo. Innanzitutto buongiorno a tutti, ringrazio il Meeting, la Fondazione per la Sussidiarietà per questo invito a questo Caffè. Mah, dunque, la differenza fra le banche c’è. Ecco, io credo che il primo concetto che sia importante fissare è che le banche non sono tutte uguali. La comunicazione che normalmente passa è che le banche hanno generato la crisi, che le banche sono un coacervo di problemi molto seri e molto gravi, ma credo che sia importante fissare questo concetto. Le banche non sono tutte uguali. Perché non sono tutte uguali? Perché ci sono banche che hanno vocazioni, ruoli, attività di contesto diciamo molto più ampio, e che lavorano un po’ su tutti gli spettri dell’attività finanziaria, sono banche che assumono anche molti rischi da questo punto di vista, e poi ci sono banche che hanno una connotazione più specifica, che lavorano in un settore molto più specializzato. Sono le cosiddette banche commerciali, come il Credito Valtellinese, come la pluralità delle banche popolari, come molte casse di risparmio, come le banche di credito cooperativo. Cosa vuol dire fare banca commerciale? Vuol dire fare una cosa molto semplice e se vogliamo anche molto tradizionale: vuol dire occuparsi di raccogliere il risparmio dalle famiglie, gestirlo al meglio, con pochi rischi, ma soprattutto utilizzare queste risorse finanziarie quasi completamente per finanziare l’economia reale, cioè per finanziare famiglie e per finanziare le imprese. Questa attività di banca commerciale oggi va di moda definirla anche come banca del territorio, ne sentite parlare, oggi tutti hanno riscoperto l’importanza delle banche del territorio. Perché queste banche hanno questa facilità nel fare l’attività di banca commerciale? Proprio perché hanno una immagine precisa all’interno dei territori. Il banchiere non è un personaggio che sta molto lontano, in uffici molto distaccati dal mondo reale, ma il banchiere, il direttore generale e i dirigenti, sono persone che si incontrano tutti i giorni sulla piazza della città, con cui è facile parlare, con cui è facile interloquire, presentare progetti, discutere delle proprie difficoltà. A tutto questo, e chiudo, aggiungo la particolarità della banca popolare, che è una forma specifica di banca del territorio, di banca commerciale. Quale è la specificità? La banca popolare è costituita da soci che investono risparmi, quindi investono capitali nel patrimonio della banca, ma che contano, dal punto di vista del voto, solo a livello capitario, cioè indipendentemente dal capitale che hanno investito votano per uno, votano per testa. Questo che cosa significa? Significa che le banche popolari sono strutturalmente delle società a capitale diffuso, dove non c’è, non si costituisce un gruppo di comando o di pressione ben identificato, ma dove i soci complessivamente intesi, valutano anno per anno, bilancio per bilancio, la bontà del comportamento della banca, delle sue strategie, del suo posizionamento. E questo spiega anche perché al modello della banca popolare noi siamo saldamente attaccati dal 1908, quando la nostra banca è stata costituita. Spendo trenta secondi su questo. Noi nasciamo sull’onda dell’Opera dei Congressi. Nel 1908 un gruppo di trenta coraggiosi, piccoli agricoltori della Valtellina, insieme a una ventina di loro parroci, di fronte alla necessità di poter aver il credito che le altre banche, che già operavano sul territorio, non davano alle piccole realtà, si sono inventati quello che oggi, con un linguaggio che qui credo di poter usare, potremmo definire un’opera: si sono inventati una banca. Noi cerchiamo di rimanere fedeli a questa impostazione. E io dico, provate per una attimo a immaginare, in una fredda serata d’inverno del 1908, un gruppo di trenta, quaranta persone, che si trova una sera in canonica e a fronte dei problemi del non riuscire a trovare le risorse finanziarie per sviluppare l’economia del territorio, per creare benessere, si inventa di creare una banca. Il nostro compito oggi è di continuare questa strada, e da cento anni stiamo cercando di farlo, evidentemente in un contesto molto cambiato, con strumenti molto diversi, ma all’interno di questo medesimo solco.

MAURO BOTTARELLI:
Le banche non hanno creato la crisi, non hanno generato la crisi, ha detto prima. Il problema è che comunque questa crisi, soprattutto nell’area, chiamiamola area euro, c’è e perdura. I dati che stanno arrivando dalle trimestrali delle banche greche che verranno diffusi settimana prossima, parlano di perdite per il 60/70%; la Spagna ha un 20% di tasso di disoccupazione ed è dovuta correre in salvataggio delle Casse di risparmio; la stessa Germania che ha dati record di export, ha però problemi bancari interni molto seri. Come gestire questa crisi a livello europeo?

MIRO FIORDI:
Domanda complessa, cerchiamo di spaccare la risposta in due. Allora, la crisi nasce evidentemente per molti motivi, e per capire bene come nasce la crisi vi invito a visitare questa splendida mostra che è nella sala proprio qui attigua, fatta dalla Fondazione per la Sussidiarietà, dove si capisce bene come la crisi si è generata e quali sono le prospettive utili per poterne uscire. Ma certamente la crisi nasce per un eccesso di debito. Vedete, il debito, qualsiasi debito, è una questione di puro buon senso, ha una caratteristica: prima o poi bisogna restituirlo. Nel mondo, in particolare nel mondo della finanza anglosassone ma non solo, si è creato un enorme eccesso di debito per, sostanzialmente, stimolare i consumi. E questo debito veniva ed è stato progressivamente coperto dall’accrescimento di una serie valori e di attività. C’è stata la bolla di internet, che è servita a questo, fine anni novanta, primi anni duemila. Poi, dopo il dramma dell’11 settembre, piccola grande crisi e allora parte la bolla immobiliare, la grande crescita dei valori immobiliari. A un certo punto questa catena si rompe, si rompe con il 2007: l’enorme debito accumulato deve essere in qualche modo ripagato, e questo ha generato la crisi, in cui ci stiamo dibattendo. Ci sono banche, grandi banche, che hanno lavorato moltissimo per ampliare questo enorme debito, ci sono banche, e torniamo al tema delle banche commerciali, che non hanno fatto molto in questa direzione, anzi per fortuna non hanno fatto niente. Abbiamo due paesi nel mondo in cui il sistema bancario non ha contribuito alla crisi, solo due paesi: uno è l’Italia e il secondo è il Canada. Sono gli unici due paesi del mondo in cui il sistema bancario non è andato in crisi, proprio perché le banche di questi paesi hanno finanziato molto meno, pochissimo, questo meccanismo che ho molto sinteticamente descritto. Ora, il debito veniva anche coperto attraverso una serie di strumenti finanziari, diciamo più o meno sofisticati. Nasce negli anni duemila la grande ingegneria finanziaria, nasce sostanzialmente questo meccanismo dei derivati di credito e di tutto quello che ne consegue. Molte banche in molti paesi, e qui vengo alla seconda parte della risposta, cosa hanno ritenuto di fare? Invece di accontentarsi di continuare a guadagnare nel differenziale fra il costo del denaro che ricevevano dai risparmiatori e il prezzo che si facevano pagare per i loro prestiti, quindi accontentandosi di uno spread di un punto e mezzo, un paio di punti in quegli anni, hanno pensato di guadagnare molto di più cominciando a investire e a sottoscrivere questi strumenti finanziari complessi. Il risultato quale è stato? Che in molti paesi, la Spagna, la Grecia e la stessa Germania, anche molte banche commerciali, cioè banche che avrebbero dovuto occuparsi solo dell’economia reale, si sono impastate nella sottoscrizione di questi strumenti, che in quegli anni rendevano molto di più, quindi hanno fatto bilanci molto floridi, grandi utili, ma quando è scoppiata la crisi si sono ritrovate con un grave problema. Un grave problema sia di liquidità sia proprio di solidità. E questo problema, è stato per ora parzialmente affrontato. In molti paesi i governi hanno dovuto pompare decine e decine di miliardi di euro di denaro pubblico per salvare le banche. Perché signori, vedete, le banche – la si può pensare in tutti i modi – sono utili, sono fondamentali nell’equilibrio del sistema economico in cui viviamo. È chiaro che non ci si può permettere che le banche saltino, perché quando un sistema bancario – Dio ce ne scampi – in un paese salta, e oggi con la globalizzazione questo diventerebbe un problema generale, dovete immaginarvi che questo significa di colpo sprofondare, tornare indietro di qualche decina di anni dal punto di vista del benessere delle persone e delle famiglie. E questo è il problema della Grecia. Perché non possiamo permetterci di far andare la Grecia in default? La Grecia è un piccolo paese dal punto di vista economico, come peso complessivo su Eurolandia e su tutto il contesto europeo, ma se si spezza un anello della collana e della catena, se questo paese andasse in default, signori, da chi hanno ricevuto i soldi le banche greche? Attraverso gli strumenti derivati dalle banche tedesche e francesi, soprattutto, e se saltasse la Grecia, questi sistemi bancari di questi paesi avrebbero enormi problemi. E quindi quando oggi Eurolandia aiuta la Grecia con decine e decine di miliardi di euro, sta aiutando un paese e le sue famiglie, ma sta anche salvando le banche di altri paesi di Europa che altrimenti avrebbero grossi problemi. In sintesi è stato perso per molti anni il buon senso. Io credo che questa sia una riflessione molto elementare, che però è fondamentale fare. Perché è stato perso il buon senso? Perché si è perso di vista che le banche devono avere un’ottica di gestione di lungo termine. Io per anni ho dovuto fare i conti con le società di rating e con gli analisti finanziari che continuavano a dirmi “la sua banca guadagna troppo poco” e io che continuavo a rispondere “è vero, ma è anche una banca che prende pochi rischi”, “ma guadagna troppo poco. Dovreste fare come fanno tutti gli altri”. Noi ci siamo sempre rifiutati di fare questo, abbiamo sempre preso pochissimi rischi sulla finanza. Certo, oggi abbiamo una situazione sicuramente più tranquilla su questo fronte. Paghiamo la situazione di crisi generale dell’economia reale, di cui magari parleremo fra un attimo. Ma abbiamo sempre resistito all’obiettivo e alla golosità di avere come unico obiettivo la massimizzazione dell’utile. Quando una banca commerciale ha questo tipo di preoccupazione che la guida, questo è l’inizio della perdita del buon senso.

MAURO BOTTARELLI:
Prima di arrivare alla situazione dell’economia reale dell’Italia, ancora due parole sulla questione del sistema bancario, in questo caso italiano, visto anche ieri sera l’incontro del presidente dell’ABI, Mussari, proprio qui al Meeting. Mussari ha parlato chiaramente della necessità di riannodare il rapporto tra banca e piccola-media impresa, di chiarificare la situazione e soprattutto ha fatto un attacco nemmeno troppo velato alla rigidità delle normative di Basilea 3, che sostanzialmente, a suo modo di vedere, non solo creano un danno o comunque ulteriore difficoltà alle banche, già in un momento non facile, ma rischiano di frenare anche la crescita, cioè la possibilità che il sistema bancario aiuti l’economia. Lei cosa pensa riguardo i giudizi dati da Mussari e della situazione generale?

MIRO FIORDI:
Dunque, io sono completamente d’accordo con quello che il presidente Mussari, ieri sera proprio qui al Meeting, in un incontro ha dichiarato. Il tema per il grande pubblico non è probabilmente chiarissimo, quindi anche qui mi prendo un minuto per cercare di inquadrarlo, perché altrimenti rischiamo di parlare di sigle che alla maggior parte delle persone dicono poco o nulla. Basilea 2 e Basilea 3 sono sostanzialmente un sistema di regole fissato alla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea per la gestione, diciamo, del rischio che le banche in tutti i paesi occidentali possono assumere. Le banche per gestire il rischio, per far fronte ai rischi che assumono, hanno sostanzialmente uno strumento: lo strumento che hanno è il proprio patrimonio, cioè il capitale di cui dispongono. Quindi le regole di Basilea sono una serie di algoritmi, regole abbastanza complesse e complicate ma che sostanzialmente dicono “tu, per assumere un certo tipo di rischio, una certa dimensione di rischio, devi avere un certo livello di capitale” e questo sostanzialmente dovrebbe garantire stabilità e anche dare ai banchieri dei limiti nella loro azione. Basilea 3 in più, dopo la crisi, perché è un sistema di regole che verrà introdotto appunto a seguito della crisi, introduce anche un secondo livello della questione, che è quello che riguarda la gestione della liquidità delle banche. Sapete che la gestione della liquidità per una banca è la questione vitale. Le banche saltano innanzitutto quando vanno in crisi di liquidità. Ricorderete nel 2007, all’inizio della crisi, quell’immagine al telegiornale della banca inglese, la Northern Rock, con i risparmiatori che facevano la fila davanti alle filiali per ritirare i loro risparmi. È chiaro che quando si innesca un problema di questo tipo, una banca va per aria, perché se domani mattina tutti i clienti della mia banca o di qualsiasi altra banca decidessero di perdere la fiducia e di presentarsi a ritirare tutto, la banca non potrebbe contemporaneamente riavere tutti i soldi che ha prestato. E questo crea una sorta di rischio. Allora, anche su questo tema, le nuove regole di Basilea 3 fissano dei paletti molto più rigidi rispetto a prima, proprio per gestire questo rischio. Sono come due grandi argini e l’attività della banca è il fiume che ci deve scorrere in mezzo. Questi due argini, regola sul capitale, regola sulla liquidità, servono ad evitare che il fiume dell’attività della banca esondi e faccia danni. Allora qual è la questione che anche il presidente Mussari ieri sera ha presentato? È che queste regole sono massimamente importanti nella loro applicazione per quelle banche che avevano e hanno avuto una vocazione ad assumere moltissimo rischio. Ma se la regola è uguale per tutti, e quindi quella stessa nuova regola si applica anche a una banca come la mia o le banche popolari in generale o le casse di risparmio, che si occupano solo di finanziare l’economia reale, il rischio qual è, che una buona intenzione – facciamo nuove regole più rigide per evitare i rischi – diventi purtroppo un esito difficile, perché significa che per banche come le nostre viene alzata, e di molto, l’asticella per continuare a fare la nostra attività normale. Quindi il rischio qual è? Che con regole troppo rigide, nuove, applicate a banche commerciali, come una banca popolare, poi l’esito è che si può fare meno questa attività e quindi in ultima istanza il rischio potrebbe essere quello che si riduce il credito disponibile per l’economia reale. La grande, il grande dibattito che è in corso tra sistema bancario, sistema delle imprese e regolatori, quindi in Italia in primis la Banca d’Italia, ma in generale il complesso di coloro che fissano le regole, è proprio questo: cerchiamo di introdurre queste nuove regole in modo tale che l’asticella non venga alzata troppo e troppo di colpo. Il dibattito è aperto. Questo dibattito è cominciato due anni fa. C’è già stata una prima, come dire, messa a punto rispetto alla prima bozza che a mio giudizio va nella direzione giusta, che il comitato di Basilea ha rilasciato come nuovo documento di consultazione i primi di luglio, la decisione finale verrà assunta nella riunione del G20 in programma in autunno a Seul. Quindi è chiaro che noi ci aspettiamo, e quando dico noi parlo del sistema delle popolari, ma anche del sistema delle banche commerciali in tutta Europa, che si lavori con una forte interlocuzione con le autorità sistemiche, ma anche con le autorità politiche, perché questo tipo di decisione, pur necessaria per evitare il ripetersi dei disastri che abbiamo visto, non finisca con il crearne di nuovi potenzialmente come quelli che ho detto. Quindi è importante però che ci si parli. Ecco, io credo che questa sia la questione di fondo. Non esiste da un lato l’operatore bancario e dall’altro qualcuno che fissa un sistema di regole, ma occorre che le due componenti abbiano un confronto continuo e attivo. Io sono abbastanza fiducioso che in questa direzione si stia lavorando, certo, fino a quando non avremo il dispositivo ufficiale, non potremo effettivamente dire se questo tipo di battaglia saremo riusciti a vincerla completamente.

MAURO BOTTARELLI:
Certo. Tanto per capirci e riallacciarci a quello che diceva poco fa il dottor Fiordi, negli ultimi 4 mesi le banche greche hanno perso l’8% dei depositi, cioè i greci ricchi tolgono i risparmi e li portano all’estero. Questo in 4 mesi, tanto per capire la situazione attuale qual è e perché tocca intervenire a volte in maniera che sembra eccessiva…

MIRO FIORDI:
Anche perché, mi scusi, l’attività bancaria è una attività che ha una caratteristica incredibilmente particolare. Tutta l’attività bancaria, se ci pensate, è basata su una questione assolutamente impalpabile, non misurabile, che è la fiducia. Perché quando una persona affida i propri risparmi a una istituzione finanziaria o una banca, o quando da questa banca si assumono crediti per poter sviluppare i propri progetti, sia quello di comprare una casa per una famiglia, sia quello di prendere soldi per finanziare la propria impresa, alla fine cosa si sta decidendo di fare? Si sta decidendo di fidarsi di questa realtà. Allora è chiaro che, quello che diceva adesso Bottarelli, i risparmiatori che cominciano a ritirare i risparmi da queste banche che hanno problemi, capite che significa che si sta rompendo il rapporto di fiducia. Ora, la fiducia è una cosa che si costruisce in decenni nell’attività finanziaria, e che si brucia in giorni. Bisogna tenere conto di questo fatto. Quindi quando si attaccano le banche o si fa del facile populismo, attenzione, perché rompere la fiducia nei confronti di un sistema bancario, che naturalmente deve cercare di meritarsela tutti i giorni, ma se si va a intervenire creando una distonia rispetto al rapporto fiduciario fra mercato, risparmiatori e banca, si va veramente a giocare con il fuoco. E quindi quando vedo articoli o leggo interventi che con grande faciloneria sparano sull’attività delle banche, io mi preoccupo molto, mi preoccupo molto di più di questo che neanche di quando una società di rating dà una valutazione un pochino cervellotica dell’attività.

MAURO BOTTARELLI:
Veniamo allora a quello che abbiamo accennato prima, la questione Italia all’interno di questo contesto di crisi. Mussari, ieri sera, parlava di una crisi che è cominciata come una caduta che siamo riusciti più o meno ad attutire, grazie a quello che lui ha definito come un paracadute creato sia da un sistema bancario sano, rispetto agli altri sistemi bancari europei, sia dalle decisioni e scelte del governo, e trovarci adesso in una seconda fase, in cui c’è la necessità di una risalita, quindi di tornare a crescere. Ma con gli indicatori macro che abbiamo in questo momento in Italia, come è possibile crescere? Non servirebbe qualche investimento? Ovviamente la politica di Tremonti è stata quella molto rigida del “non c’è un euro da spendere” e probabilmente questa rigidità in un primo periodo è servita. Forse però adesso quale può essere una ricetta per tornare veramente un po’ a crescere?

MIRO FIORDI:
Mi verrebbe da fare la battuta che, se avessi una risposta chiara a questa domanda, oltre che essere l’uomo più felice del mondo, probabilmente farei anche fortuna. Però possiamo provare a dare qualche linea interpretativa. L’Italia è entrata nella crisi e sta attraversando questa che è la più brutta crisi finanziaria dal ’29 a oggi molto meglio di altri paesi.
Il primo fattore lo abbiamo detto, meglio di altri paesi perché il sistema bancario italiano era sano e sano è rimasto. Quindi il governo italiano, a differenza di tutti i paesi occidentali, tranne il Canada, non ha messo un euro di soldi pubblici per salvare le banche. Quindi questo è un elemento certo, positivo. Secondo elemento positivo – e qui credo di non scandalizzare nessuno – in Italia, il senso di fare la ricchezza facendo impresa non si è fortunatamente mai perso. Ci sono economie – facciamo due esempi – come l’economia inglese, che si è trasferita dai tempi della Thatcher sul concetto di economia di servizio, per cui il mondo delle imprese si è enormemente ridotto, il mondo delle imprese reali, che producono beni, beni industriali concreti; oppure pensiamo alla Spagna – ricordate gli articoli sul grande miracolo spagnolo, fatto non con la produzione reale, ma fatto sostanzialmente con il grande boom edilizio e con un’enorme costruzione di case. In Italia, nonostante non ci sia mai stata una politica industriale a favore soprattutto delle piccole e medie imprese, abbiamo la straordinaria fortuna di avere quattro milioni e mezzo di italiani che, nonostante tutto, hanno continuato a fare gli imprenditori: quello straordinario mondo delle piccole e medie imprese. Se ci stiamo salvando meglio di altri paesi, lo dobbiamo sostanzialmente al fatto che l’economia reale è rimasta ancorata su fattori di produzione. Terzo elemento positivo che io vedo, è che la società italiana è una società dove i corpi intermedi – anche questi mai aiutati con politiche e interventi mirati – esistono e sono vivi: la società italiana è ricchissima di associazioni, di associazioni di imprenditori, di associazioni culturali, sportive, caritatevoli. Sono decine di migliaia che coinvolgono milioni di persone, milioni di nostri concittadini. Questo crea dentro la struttura della società una maglia fortissima, una maglia che crea solidarietà e che la crea indipendentemente dalle politiche che i governi e i parlamenti hanno fatto, è un fatto che c’è e ha tenuto. E, quarto elemento positivo – signori, diciamocelo chiaro – in Italia regge ancora la famiglia. La famiglia è stata ed è uno degli elementi di ammortizzazione sociale più forte che esista. Pensate, e noi lo vediamo tutti i giorni, quante persone, che facevano fatica a pagare la rata del mutuo sulla casa, sono andate avanti a pagarla perché è intervenuto il papà, è intervenuto lo zio, è intervenuto il fratello, è intervenuto il cugino, aiutando l’altra persona, l’altra famiglia in difficoltà.
Questi sono fatti, questi quattro fattori, che a mio giudizio sono gli elementi su cui puntare per uscire dalla crisi, sono gli asset positivi del paese. Mi concentro su uno che è quello della piccola e media impresa. Io dico spesso – e chi lavora con me se lo sente ripetere di continuo – che la crisi deve essere vissuta come una opportunità, come si fa a far diventare la crisi una opportunità? Facendosi una domanda semplice: io, con la crisi che è successa, la mia impresa, con la crisi che è successa, la mia famiglia, con la crisi che è successa, come deve cambiare? Come si deve cambiare? Cosa devo cambiare? Ecco, io credo che la questione di fondo oggi è che i nostri piccoli e medi imprenditori devono porsi di più e più profondamente questa domanda. Non si esce dalla crisi stando seduti e aspettando che la bufera passi per ricominciare a giocare più o meno come prima, perché il mondo di prima, come l’abbiamo conosciuto, dal punto di vista del mercato, della realtà finanziaria eccetera, non ci sarà più. Sarà diverso. Allora, in un mondo diverso bisogna arrivarci un pochino preparati, allora, per una piccola e media impresa la questione è: è possibile che su quattro milioni e mezzo di piccole e medie imprese ce ne siano solo duecentomila che si sono internazionalizzate, che sono andate alla caccia di nuovi mercati, che sono andate nella direzione di trovare nuove possibilità di sbocco? Sono poche! È possibile che l’imprenditore continui a fare l’imprenditore mettendo pochissimo capitale proprio nell’attività che fa? Non funziona, non va bene così! Questo era il mondo di prima. È possibile continuare a pensare che siccome io facevo un buon prodotto nel 2007, il mio prodotto sia ancora buono e quindi sia il mercato che non capisce e io continuo pervicacemente a fare la stessa cosa? Parlavo con un imprenditore 3-4 giorni fa, in montagna, che mi diceva: “io facevo uno splendido prodotto di alto livello che andava benone, è arrivata la crisi e vendevo poco, mi sono dovuto mettere a pensare come fare lo stesso prodotto, comunque come stare sul mercato, con un prodotto di livello più popolare, più ‘medio’. Ma questo mi ha consentito di entrare in America, di entrare in Cina. Adesso vendo questo prodotto di livello medio ma sto preparando anche la possibilità, quando la situazione ripartirà, di posizionare lì anche i prodotti di gamma alta”. Si riesce a fare quando si è troppo, troppo piccoli? Probabilmente no. Bisogna cominciare a pensare di mettere un pochino insieme, fare rete, fare molta più rete di prima, eccetera. Le cose da fare sono tante. Abbiamo delle carte da giocare a mio giudizio estremamente positive, certamente la situazione è stretta, il sentiero su cui stiamo camminando è stretto, ma piangersi addosso serve a poco! E soprattutto via dal negativismo e dal nichilismo! Scappare a gambe levate dai guru che dicono: è finita, va male, è un disastro, non c’è niente da fare! Questo non ce lo possiamo permettere, bisogna rimboccarsi le maniche e, così come hanno fatto i nostri genitori e i nostri nonni dopo la seconda guerra mondiale in un paese distrutto, in sette otto anni hanno rimesso in piedi il paese e messo le basi di quello che tutti abbiamo studiato essere conosciuto come il miracolo economico. Bisogna mettersi in questa prospettiva, magari facendo più sacrifici, lavorando di più, certamente però andando a ricercare tutte le nuove possibilità che ci sono e sono possibili.
Per finire, per dare l’ultimo pezzo della risposta, in questo contesto, io credo che – lungi dall’insegnare qualcosa al nostro eccellente ministro Tremonti che poi, essendo nato in Valtellina, per me è anche un conterraneo, quindi certamente ho un pregiudizio positivo nei suoi confronti a prescindere – Tremonti abbia pilotato l’Italia dentro la crisi in un modo che io giudico eccellente; ha avuto la fortuna di non impiegare i soldi pubblici per salvare le banche, ha tenuto i cordoni molto stretti della spesa pubblica e in questi due anni ci ha consentito di camminare senza subire eccessivi contraccolpi. Io credo che adesso, nei prossimi mesi, con il 2011, un po’ di risorse, per favorire questi processi di evoluzione e di cambiamento, debbano essere in qualche modo messe a disposizione.
Non si tratta necessariamente di trovare nuovi soldi o tanti soldi. Il mio personale parere, la mia opinione, è che basterebbe concentrarsi sullo sblocco dei meccanismi della spesa pubblica per quelle decine e decine di miliardi di euro disponibili fra fondi italiani e fondi europei, in particolare sulle infrastrutture. Non possiamo permetterci di continuare ad essere un paese dove, per fare una opera pubblica necessaria e importante o per fare una rete a banda larga, ci vogliono 6 anni, 8 anni, quando si può tranquillamente lavorare per fare queste cose in due. Allora concentrarsi per sbloccare in modo mirato certi meccanismi della macchina pubblica potrebbe liberare rapidamente delle risorse che creerebbero certamente un maggiore volano.

MAURO BOTTARELLI:
Domanda secca e telegrafica, la risposta può essere anche lunga e articolata. Vista da un banchiere, da qualcuno che lavora nell’economia e ha il polso della situazione tutti giorni dell’economia reale dello stato, come vede l’ipotesi oramai abbastanza paventata da più parti di elezioni anticipate, quindi di fatto di instabilità politica a breve?

MIRO FIORDI:
La risposta è fin troppo semplice: per me sarebbe un assoluto disastro. Questa è la mia valutazione. Cioè, pensare oggi di mettere il Paese in una situazione di grande instabilità sui mercati, significherebbe evidentemente assestare un colpo negativo rispetto alle prospettive di cui ho parlato pocanzi. È chiaro che il Presidente della Repubblica farà quello che deve fare sulla base della situazione che si andrà a determinare, ma certamente oggi, pensare di mettere il paese per tre o sei mesi in una situazione di sostanziale instabilità, avrebbe come risultato certo sui mercati, un immediato innalzamento del valore dei CDS [credit default swap], cioè del costo per riassicurarsi sul rischio del debito sovrano italiano e quindi inesorabilmente ci porterebbe a pagare molti più interessi al servizio del debito pubblico. Cioè l’instabilità raggiungerebbe lo straordinario risultato di sottrarre quel poco di risorse che ci sono disponibili per finanziare la ripresa e lo sviluppo, per destinarle a pagare di più il servizio al debito pubblico. Io credo che questo non sia una cosa auspicabile e poi, naturalmente, dovremo fare i conti con la realtà. Ma il mio auspicio è che questo non accada.

MAURO BOTTARELLI:
Piccola annotazione, prima di passare alle domande del pubblico, se ci sono. In tre giorni il CDS italiano è passato da 181 punti base a 199, questo senza che ci sia qualcuno che abbia detto che si vota di sicuro. Solo sui rumors, il salto è da181.5 a 199 in tre giorni, per cui, questo è per far capire come si guarda alla situazione interna anche da fuori.
Se c’è qualche domanda dal pubblico…

DOMANDA:
Una domanda che riguarda l’inizio di quello che abbiamo sentito: cioè la banca di cui si parla, il Credito Valtellinese, è stata molto brava a seguire il cliente. In generale, il sistema bancario italiano tenderà a tornare vicino alle aziende, al di là della vostra banca che è nata per questo, o secondo voi sarà sempre più formale il rapporto tra banca e impresa, nell’evoluzione del nostro territorio?

MIRO FIORDI:
E’ chiaro che io auspico che alla domanda “che cosa bisogna cambiare con la crisi, che anche i banchieri si devono porre se sono responsabili”, è chiaro che io auspico a livello di sistema che questo ritorno alla banca vicina alle imprese sia la scelta di tutte le banche. Un pochettino devo dire che dando una risposta di questo tipo mi tiro la zappa sui piedi, perché è chiaro che un po’ di differenza competitiva tra le banche ce la siamo ottenuta in questi anni di crisi proprio grazie al mantenimento di questa relazione così forte con i territori, è chiaro che se tutte le banche tornano in questa direzione, noi faremo un pochino più fatica, ma va comunque a beneficio del sistema paese. Io questo me lo auspico, dai contatti che ho coi colleghi, coi manager di banche importanti, mi pare che questo cammino sia stato intrapreso. Però per fare la banca del territorio, cari signori, e chi di voi ha rapporti quotidiani con delle filiali di banca vere questo lo sa meglio di me, ci vuole il banchiere del territorio. Il banchiere del territorio è il capo filiale che conosce le imprese, la storia dell’imprenditore, che conosce le famiglie, conosce le associazioni, conosce come i progetti stanno maturando, i capi filiale di questo tipo però non spuntano come i funghi. Sono il frutto di una cultura di impresa bancaria che ha bisogno di anni per essere generata. Mentre uccidere un capo filiale professionalmente parlando con queste caratteristiche si fa in qualche mese, come è stato fatto negli anni da tanti intermediari bancari e purtroppo anche in Italia, basta dirgli “tu adesso non ti occupi più di valutare il credito, tu non ti occupi più di conoscere il territorio, prendi le domande, carichi il tuo parere, prendi due numerini e li mandi alla direzione centrale, perché tu devi fare il venditore di prodotti!” È semplice distruggere un capo filiale. Ricostruire un capo filiale con le caratteristiche di cui parlavo io è un lavoro di anni, non basta quindi solo prendere la decisione strategica, “vogliamo tornare a fare la banca sul territorio”. Quindi bene se questo accadrà come decisione e mi pare che stia accadendo, ma ci vorrà tempo. Il tempo introduce però un altro concetto alla variabile tempo: bisogna che i manager bancari siano messi in condizione di lavorare su programmi di medio-lungo termine. E guardate che quando si governa un’azienda importante e si ha sul collo il fiato di investitori e analisti che l’unica cosa a cui sono interessati è vedere l’andamento dell’utile di trimestre in trimestre, vi assicuro che riuscire a mantenere programmi di attività con queste caratteristiche è una battaglia quotidiana. È una battaglia quotidiana e qui di nuovo viene comodo però il modello della banca popolare, perché la banca popolare è fatta da soci che sono anche clienti, che sono anche quegli stessi abitanti dei territori ai quali è probabilmente più facile trasferire la consapevolezza che per un modello di banca di questo tipo devono probabilmente in questa fase anche soffrire un po’ in termini di redditività. E’ molto più difficile fare questo discorso con investitori istituzionali e tradizionali che sono interessati solo alla massimizzazione della redditività. Ma detto questo io credo che la lezione della crisi anche per le banche stia passando in modo molto forte.

DOMANDA:
Una domanda come azionista della banca, sia pur piccolo. La domanda è questa: se la sfida della crisi è superabile solo attraverso innovazione, internazionalizzazione e probabilmente formazione, che cosa concretamente il sistema delle banche popolari e in particolar modo il gruppo che lei dirige, ha in mente e ha programmato per questo?

MIRO FIORDI:
Per questa domanda la ringrazio, perché è un aspetto che non avevo toccato prima. Direi che il lavoro principale che siamo chiamati a fare, direi anche la responsabilità un po’ storica che abbiamo, noi e molti altri banchieri, colleghi, qualcuno lo vedo anche qui seduto in prima fila, credo che la responsabilità che abbiamo sia di continuare a far sì che i nostri uomini, soprattutto nella rete di filiali, siano un interlocutore e quasi un consulente del mondo delle imprese. Noi oggi abbiamo, lo dicevo prima, un problema: dobbiamo far crescere e sviluppare il tessuto delle PMI. Guardate che le PMI non sono tutte uguali: ci sono aziende medio-piccole che hanno già una struttura interna, una consapevolezza metodologica, aziende dove è normale fare dei business-plane, aziende che sanno valutare bene le prospettive di investimento, aziende che investono adeguatamente sulla formazione delle persone, che assumono giovani, magari giovani laureati, perché capiscono che devono cominciare ad affrontare nuovi problemi. Ma questa è solo una minoranza! Ci sono ancora moltissime PMI che questo tipo di passaggio devono imparare a farlo. Qual è il primo interlocutore che hanno e che li può aiutare a capire anche proprio come fare questi passaggi? È il loro naturale interlocutore, il capo filiale, il capo area con cui discutono della situazione del bilancio, del loro mercato, del fare o non fare l’investimento su quel macchinario, del cominciare a andare o non andare a cercare un aiuto per avere un interlocutore all’estero. Io credo che il lavoro da fare sia un lavoro, se mi passate il termine, molto pedagogico, molto educativo ed è per questo che abbiamo una grande responsabilità. Guardate che il mondo delle PMI ha due soli interlocutori, diciamo tre, ma il terzo non sempre è così immediato: primo interlocutore che hanno le PMI e il piccolo medio imprenditore è la sua banca, il secondo interlocutore che spesso lo indirizza o lo frena è il commercialista che lo segue, il terzo interlocutore, questo però non sempre così pronto, è l’associazione d’impresa a cui fanno riferimento. Io ho avuto modo di vedere, non faccio uno spot perché l’ho visto concretamente, ho visto sul campo l’attività che con la scuola d’impresa fa la CDO. Io giudico quel tipo di lavoro, quello della scuola d’impresa, una delle iniziative più utili rispetto ai problemi che dobbiamo affrontare. Quindi questa è certamente la direzione di marcia.

DOMANDA:
Se la domanda non è troppo difficile e se la risposta non è così complessa, volevo capire da lei quali sono le regole o i parametri che la sua banca fissa per consentire il credito alle piccole imprese.

MIRO FIORDI:
La domanda sarebbe complessa ma nel mio caso non lo è molto. Guardi, noi non abbiamo parametri fissi, non abbiamo mai applicato la regola di Basilea 2 e quindi il rating, il voto complessivo sulla situazione dell’impresa come criterio unico e ultimo per la decisione del credito. La valutazione di un’impresa passa attraverso tre fattori: la valutazione del bilancio, che evidentemente resta importante, anche se sappiamo che più l’impresa è piccola e meno il bilancio è significativo come indicatore della reale situazione dell’impresa; la seconda è la conoscenza diretta dell’attività che l’impresa fa, che deriva proprio dalla rete territoriale delle filiali, e terzo le prospettive che l’impresa, l’imprenditore ha, rispetto alla propria area merceologica e al proprio posizionamento. Ma questo mix di valutazioni non è mai inserito in un programma rigido, dentro il quale poi alla fine esce un numerino, se il numerino è di un certo tipo il credito si dà, se il numerino è sotto un certo livello il credito non si dà. Quindi è sempre una valutazione direi molto personale, molto diretta. Certo in questo momento di crisi questo tipo di approccio valutativo lo abbiamo molto usato anche per decidere, ed è il lavoro che facciamo tutti i giorni da due anni, se continuare a tenere aperto il credito sulle imprese. E il sacrificio che stiamo facendo, spesso, nel continuare a garantire il flusso di credito per far sì che le aziende non chiudano improvvisamente, non lascino le persone a casa, è un sacrificio che facciamo consapevolmente, se l’impresa appunto ha comunque delle prospettive di ripartenza interessanti e credibili. Quindi direi oggi è molto poca la valutazione tecnica che viene fatta esclusivamente sui parametri classici, diciamo. Molto dipende dal dialogo, dalla conoscenza diretta, e quindi evidentemente anche dall’impegno che poi l’imprenditore ha nel cercare di reagire di fronte alle criticità e alla crisi.

DOMANDA:
Io volevo chiedere: come si fa invece a valutare una banca? Che cosa dobbiamo guardare noi per capire se una banca sta facendo bene il suo lavoro o no? Perché lei ci ha raccontato della sua banca, ma non abbiamo la possibilità di incontrare tutti i direttori generali.

MIRO FIORDI:
Bella domanda. Allora, darei una risposta spero convincente. Si insegnava una volta, adesso non so se lo si insegna ancora, ma secondo me sarebbe bene che venisse fatto, che il primo modo per valutare una banca è guardare il suo attivo. Prendere il bilancio e guardare l’attivo. Cominciare a vedere se tra quello che la banca dichiara di voler fare, voler essere, quello che il suo amministratore delegato dice pubblicamente, o nelle interviste o nelle conferenze o in un incontro di questo tipo, cominciare a vedere se le dichiarazioni fatte coincidono con l’attivo che la banca ha. Faccio un esempio: se io fossi qui a fare il discorso che ho fatto oggi, e lei aprendo il bilancio consolidato allo stato patrimoniale del gruppo Credito Valtellinese trovasse all’attivo, invece che circa il 90% dell’attivo in prestiti a imprese e famiglie, trovasse un 50%, forse meno, dell’attivo in prestiti a imprese e famiglie, e il 50% investito in attività finanziaria ad alto rischio perché con più alto rendimento, lei potrebbe cominciare a dubitare del fatto che la mia banca e soprattutto il suo amministratore delegato siano persone credibili. Questo è il criterio fondamentale: bisogna guardare da che cosa è composto l’attivo di una banca. Se una banca è commerciale, e dice di voler fare la banca commerciale, la grande parte dell’attivo della banca devono essere prestiti all’economia reale. Altrimenti non fa la banca commerciale, fa un altro mestiere, dignitosissimo, con maggiori rischi, ma sarebbe bene che allora dichiarasse che sta facendo un altro mestiere. Non c’è altra strada. Potrei risponderle però anche in un altro modo, potrei dirle, se la banca è quotata, si affidi alle valutazioni delle società di rating. Non le ho dato questa risposta non a caso, perché a mio modo di vedere le società di rating, senza voler colpevolizzare nessuno, hanno però degli stereotipi di valutazione un filino troppo stretti. Diciamo che per una società di rating oggi la grande generazione di utili viene un po’ prima della valutazione spesso dei rischi, e quindi se la banca guadagna meno di prima, per la società di rating va già un po’ meno bene. Io penso che questo sia un criterio di valutazione non tanto buono, perché come ho cercato di spiegare, spesso a maggiori utili si accoppiano anche grandi rischi. Preferisco dirle, se poi lei per caso si diletta in studi di economia, impari a guardare l’attivo. L’attivo di un bilancio bancario parla come un’acqua cristallina di montagna.

DOMANDA:
Io volevo chiederle chiarimenti sui tremonti bond che come banca avete sottoscritto.

MIRO FIORDI:
Aspettavo questa domanda con ansia, perché sapevo che prima o poi la questione dei tremonti bond sarebbe uscita. Dunque, innanzitutto le banche che li hanno sottoscritti sono quattro, Monte dei Paschi, Banca Popolare, Banca popolare di Milano e noi, quindi sono quattro i gruppi bancari. Questa è una questione interessante, perché mi permette di fare una valutazione che ha a che fare con il senso di realtà. Allora noi ci troviamo a metà del 2009, inizi 2009, primavera 2009, la crisi è in pieno svolgimento, le banche devono avere il capitale sempre più solido possibile, lo stato italiano dice: metto a disposizione delle banche che vogliono ulteriormente rafforzarsi uno strumento che è una obbligazione ibrida, le banche lo emettono, lo stato lo sottoscrive, le banche pagano allo stato un interesse per questo strumento e poi hanno quattro anni di tempo per restituirlo. Allora di fronte a questo tipo di opportunità si poteva reagire in due modi: primo, valutarlo per quello che effettivamente era; secondo, mettersi gli occhiali del pregiudizio e dire ah, ma non è che dietro questo tipo di provvedimento c’è la volontà dello stato di nazionalizzare la banca o di intervenire sulla sua governance? E quindi sostanzialmente far sì che la banca sarà meno libera eccetera eccetera? Io mi sono preso la responsabilità di mettermi sul primo tipo di valutazione, ho fatto una valutazione tecnica, molto tecnica e ho detto: lo stato mi dà dei soldi, mi presta dei soldi all’otto e venticinque per cento, enorme tasso di interesse, quanto mi costa se vado sul mercato europeo a inizio 2009, quindi a mercato chiuso a emettere uno strumento ibrido più o meno della stessa natura? La risposta a inizio 2009, per un gruppo come il mio, era un tasso tra il tredici e il quattordici per cento. Seconda valutazione. Mi conviene proporre subito un aumento di capitale ai miei soci o usare questo strumento per un paio d’anni e fare l’aumento di capitale quando i mercati sperabilmente saranno un pochino più tranquilli? Ho valutato e abbiamo valutato che fosse più opportuno fare questo tipo di scelta e quindi abbiamo sottoscritto i tremonti bond per una quota pari al dieci per cento massimo del patrimonio, duecento milioni su due miliardi di capitale, e contemporaneamente abbiamo emesso un prestito convertibile ai nostri soci per circa seicento cinquanta milioni di euro. Quindi i nostri soci lo hanno sottoscritto interamente nel 2011, nel 2012 potranno convertirlo in azioni nostre e grazie a questa parte che avremo di capitale aggiuntivo ci siamo già dotati del capitale necessario a rimborsarli prima della scadenza dei quattro anni. Ora tutto questo sembra un gioco semplice, in effetti potete capire che le decisioni non sono proprio semplicissime su questi ordini di grandezze, però mi ha fatto molto piacere, molto piacere, osservare che questo anno nel mese di Giugno, una grande banca italiana di cui non faccio il nome, tanto chi vuole può andare a vederlo, ha avuto la necessità, dopo aver rinunciato ai tremonti bond, di emettere cinquecento milioni di obbligazioni ibride. Questa banca le ha emesse a un tasso del nove e centoventicinque sul mercato europeo. Allora la domanda che faccio io è: era più conveniente sottoscrivere i tremonti bond l’anno scorso all’otto e venticinque o sottoscrivere un ibrido sul mercato europeo, comunque poi trasformabile in capitale, a circa un punto in più un anno dopo? Mi viene il sospetto, ma resta solo un sospetto per l’amor di Dio, che la decisione dell’anno scorso fosse una decisione forse anche un filino politica, pur di non far vedere che Tremonti aveva avuto una buona idea, facciamogli fallire l’emissione dei tremonti bond. Ma tutto questo fa parte della dietrologia. Io lavoro sui numeri e sui fatti e quindi non ho timore, questa è un po’ anche la nostra scuola di pensiero, non ho timore a pigliare anche delle decisioni abbastanza fuori dal coro. Le faccio un altro esempio, Bottarelli questo lo sa bene, siamo stati la prima banca italiana nel 2008, a crisi appena avviata, che non ha collato, cioè tecnicamente non ha rimborsato anticipatamente un prestito subordinato sul mercato europeo del capitale. Io mi sono beccato un articolo sul Financial times che sostanzialmente diceva: ma tu guarda questi originali del Credito Valtellinese che si permettono, unica e prima banca in Europa, di non rimborsare dopo cinque anni un prestito subordinato, che per altro il contratto mi permetteva di rimborsare a dieci anni, sostanzialmente dicendo che questi sono un po’ montanari, che vengono giù un po’ con la piena e che non hanno capito che non ci si comporta così nel sofisticato mondo dei mercati finanziari. Poi cosa è successo? E’ successo che la crisi è scoppiata in pieno, e nel 2009, 37 gruppi bancari europei, trentasette fra cui le più importanti banche d’Europa, non hanno collato dei prestiti subordinati. Allora bisogna imparare sempre, anche nel mondo della finanza, a usare il buonsenso e il senso di realismo e non essere eccessivamente pecore, cioè fare sempre e solo quello che fanno tutti.

DOMANDA:
Io lavoro presso una grande banca nazionale. Quello che emerge dal bilancio della mia filiale, dal conto economico della filiale della banca, è che nell’ultimo anno, per la caduta dei tassi, c’è una forte diminuzione della redditività per la caduta del margina d’interesse. Adesso quando io vado a guardare il bilancio di una banca popolare, non specificatamente il Credito Valtellinese, ma un’altra banca o di banche locali che conosco io, noto che questo fenomeno c’è un pochino per tutti, no. Adesso la mia banca sta facendo un’azione di riorganizzazione nell’ambito di un contenimento dei costi, insomma, visto che poi i costi sono prevalentemente costi di personale, voglio dire, è una riorganizzazione che taglia i costi. Cosa possibile per un grande gruppo magari in una diversa locazione proprio delle persone, dei centri di servizio eccetera. Una banca più piccola, come può essere quella del Credito Valtellinese, che nelle intenzioni dovrebbe avere un, come dire, un servizio anche personale – la valutazione del credito è importante, necessita di persone -, come può rispondere a questa esigenza di contenimento dei costi, quando appunto magari c’è proprio quasi un’esigenza di seguire il cliente one to one?

MIRO FIORDI:
La questione è molto chiara. Allora, guardi, cercando di essere sempre un po’ sistematico e sperabilmente breve. La questione che lei pone è la questione che oggi hanno diciamo tutte le banche. Noi stiamo vivendo un periodo in cui la compressione della redditività è massima. Abbiamo i tassi d’interesse al minimo storico. Quindi è chiaro che il sistema bancario, banche grandi, banche medie, banche piccole, stanno attraversando in questo 2010 il peggior anno degli ultimi cinquant’anni. Io lavoro in banca da trentacinque anni, un anno come questo che stiamo attraversando non l’ho visto mai. Ho visto altri anni brutti, anni difficili, ma come questo mai. Quindi è chiaro che il tema è: come si fa a recuperare redditività? La risposta è in un mix di azioni. Quando si interviene tagliando le risorse, che è sicuramente una possibilità, è un po’ come se l’imprenditore che ha una capacità produttiva di cento vede che il mercato attualmente gli consente di utilizzare le macchine al sessanta e, dopo un anno, taglia la sua capacità produttiva del 40%. Per una banca tagliare le risorse umane, chiudere le filiali, ridurre l’operatività, vuol dire tagliare le linee di produzione, ridurle, restringerle. Questo è sicuramente una possibilità, però è una possibilità che io vedo solo come possibilità di ultimissima istanza, perché prima di fare questo, io credo che si debba lavorare nell’ottimizzazione degli altri costi e per ottimizzare gli altri costi una banca di medie dimensioni deve mettersi in rete, mettersi in network. Faccio un esempio. Noi siamo associati all’Istituto Centrale delle Banche popolari italiane come tante realtà, questa è una banca di secondo livello, ci dà tutto il servizio sui sistemi di pagamento internazionali, abbiamo fatto un’alleanza con banche olandesi e tedesche, oggi abbiamo una società che gestisce in Europa circa nove miliardi di transazioni di pagamento, un po’ come una grande banca europea unica. Risultato, i costi marginali per transazioni sui pagamenti internazionali che noi possiamo avere sono pari – noi con cinquecento filiali oggi in Italia – sono pari ai costi che ha il grande gruppo che ha una massa critica venti volte più grande della nostra. Quindi, una possibilità è di cominciare a gestire i servizi in rete, quindi non farsi più tutto in casa. E questa è la prima strada. La seconda strada è ottimizzare in modo puntuale proprio quel servizio al cliente in cui siamo forti e cercare evidentemente con i nostri clienti di avere un posizionamento sempre più ampio, cioè fare in modo che i nostri clienti ci scelgano per un basket di prodotti e di servizi sempre più grande, perché questo comunque aiuta la ripresa dei margini. Credo che queste due strade, per una banca di medie dimensioni, così come per quelle più piccole, sia la prima strada da tentare, perché per una realtà come la nostra pensare di intervenire tagliando le linee di produzione è un po’ come se pensassimo di segare il ramo su cui siamo seduti. Nell’immediato possiamo anche ottenere un buon risultato; a medio termine vuol dire che ci condanniamo a morire. Non è quello che abbiamo intenzione di fare. Io spero di tornare al Meeting fra qualche anno con un gruppo sempre in buona salute.

MAURO BOTTARELLI:
Ok, è stato un caffè lungo ma ci ha dato una bella svegliata, penso. Quindi ringraziamo Miro Fiordi e grazie a voi.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

24 Agosto 2010

Ora

13:45

Edizione

2010

Luogo

PAD. B5
Categoria
Focus