SOTTOMETTERE LA RAGIONE ALL’ESPERIENZA

Partecipa Giampaolo Pansa, Giornalista e Scrittore. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

 

GIAMPAOLO PANSA:
La parola a te, Alberto Savorana.

ALBERTO SAVORANA:
Ringrazio molto Gianpaolo Pansa che anche quest’anno mi ha invitato al Meeting…, e mi permetterà di fargli qualche domanda. Quello di Pansa è un ritorno, perché era già venuto tanti anni fa ma l’anno scorso lo avevamo invitato ad un dialogo che, forse, ha visto alcuni di voi presenti e che ci ha molto colpito. Ma non ha colpito solo noi, ha colpito anche lui, tanto è vero che, con grande sorpresa generale, sull’Espresso, dove ha scritto fino a settembre-ottobre del 2008, scrisse la sua rubrica dedicata al Meeting, che finiva con il suo tono, tra l’ironico e lo scanzonato, con queste parole.

GIAMPAOLO PANSA:
Devi leggere anche il titolo e il sommario.

ALBERTO SAVORANA:
Titolo: “Quel Meeting ci batterà. La ruota della storia ha cominciato a girare nel senso opposto”. Le altre due righe non le leggo perché ci penserai tu a fare polemica con chi credi. Il pezzo si chiudeva così: “Ripenso al Meeting di Rimini e concludo: maledetti ciellini, ci sconfiggerete”. Non è finita, rincarava: “Anzi, ci avete già battuti”. E io mentre leggevo queste righe – e poi l’ho anche chiamato – pensavo: “Ma chi siamo noi, per poter meritare un giudizio di questo tipo?”. Infatti, se c’è una cosa che personalmente ho imparato, nella mia storia, nella mia vita, dall’amicizia con don Giussani, è che noi siamo un niente a cui è stato dato tutto. Perciò parole come quelle che ha scritto Pansa, piuttosto che provocare orgoglio o esclamazioni del tipo “finalmente ce l’abbiamo fatta”, profondono una certa umiliazione, perché noi abbiamo vissuto questi 30 anni di Meeting sommando errori, inadeguatezze, limiti ma sempre sapendo che stavamo in qualche modo rispondendo ad una sfida che qualcuno ci aveva lanciato. La sfida era che vivere l’esperienza che ci era stata proposta, avrebbe reso cento volte più interessante, utile, bella, giusta la nostra vita. E ci avrebbe fatto incontrare tutto e tutti, a cominciare da quelli che, avendo una ferita aperta nella loro vita, avrebbero accettato di dialogare. Per questo l’incontro di oggi è titolato “Sottomettere la ragione all’esperienza”. Questa è una frase che tantissimi anni fa don Giussani ha ripreso dal filosofo francese Jean Guitton, che voleva indicare la priorità del reale, di ciò che accade, rispetto alla ragione dell’uomo, che non produce la realtà ma è piuttosto quel fattore che registra ciò che accade, sottomettendosi e riconoscendo l’imponenza della realtà. Noi l’anno scorso siamo rimasti colpiti dalla rilettura della storia del nostro paese, dalla rilettura di oltre mezzo secolo di vicende italiane, fatta da un uomo che ha accettato la sfida di un paragone e che ha cominciato a guardare la realtà, non accontentandosi dei preconcetti, dei luoghi comuni, di una mentalità comune e dominante che impera ormai in tutti i libri di scuola. E così, dopo un anno, noi siamo curiosi di sentire da lui come è andato avanti questo percorso. Anche perché ci ha regalato un nuovo libro pubblicato di recente da Rizzoli, “Il revisionista”, che è una sorta di autobiografia nella quale, raccontando eventi e circostanze anche intime della sua vita, rilegge 60 anni di storia del nostro paese. In questo libro mostra come la vicenda di un uomo sia profondamente inserita e legata alla vicenda del suo popolo, del paese in cui è nato e cresciuto, in cui si è formato e dove ha cominciato il suo mestiere. In questo libro Pansa rilegge un grande patrimonio di esperienze, frugandoci dentro e scoprendo cose che, da come ne parla si capisce, erano sconosciute anche a lui. E allora, se è vero che tu, sempre in quell’articolo dell’Espresso, hai scritto che una delle cose che ti avevano colpito di più del Meeting era che qui la gente non ti chiedeva da dove venivi, ma voleva soltanto comprendere dove stavi andando – e tu l’anno scorso questo ce lo hai raccontato -, quest’anno devi provare a rispondere alla domanda “da dove vieni?”. Devi farlo perché a questo punto non è più indifferente, e siccome hai dedicato un libro intero a questo, se tu cominciassi a regalarci qualche perla dei tanti fatti di cui hai scritto, potremmo introdurci al dialogo di oggi. Grazie.

GIAMPAOLO PANSA:
Grazie allora. Prima di tutto vi devo dare un dettaglio tecnico: Alberto Savorana ed io siamo accecati da queste luci che, a quanto ho capito, sono indispensabili perché che c’è una trasmissione televisiva, però non riusciamo a vedere quanta gente c’è qua. Vedo la metà della sala, immagino che la sala sia piena. Sono sempre emozionato e vi sono molto grato, perché ogni volta che devo parlare in pubblico mi domando sempre, e non perché sia un oratore voglioso di popolarità, quanto il mio lavoro, la mia fatica e anche la mia vita possano interessare alla gente. Il Meeting non delude mai, spero non di non deludervi io. Vi sono molto grato e quindi anche quelli che non vedo li abbraccio: immagino che siano venuti qua con uno sguardo di simpatia non appena nei confronti del mio percorso futuro, ma anche del mio percorso passato.
A proposito del mio percorso passato. Alberto Savorana è stato gentile a riesumare questo vecchio bestiario ma non ha letto la data di pubblicazione e quindi la leggo io, poi vi spiego perché per me è importante. La data è 11 settembre 2008. Io 20 giorni dopo me ne sono andato dall’Espresso, mi sono dimesso: ero li da 17 anni che, più 14 anni di Repubblica, fanno 31. Me ne sono andato perché non mi sentivo più in sintonia con il giornale e non con le persone che ci lavorano. In questa sala c’è anche uno dei più bravi giornalisti de l’Espresso, Marco da Milano, non so dove si sia piazzato, anche lui è o era un cattolico e immagino lo sia ancora oggi. Questo bestiario mi ricorda che ormai sono un signore anziano, abbiate pietà di me, il 1 ottobre ne farò 74. Sono nato il 1 ottobre del 1935 a Casale Monferrato e questo libro, che Savorana ha avuto la cortesia di citare, ha un inizio che non comincia da un personaggio politico importante, da un autore, da uno storico, comincia da mia nonna Caterina. Chi era mia nonna Caterina? In apparenza era l’ultima degli ultimi. Mia nonna Caterina Zaffiro era una povera ragazza della campagna vercellese, che si è sposata con Giovanni Eusebio Pansa, che era povero quanto lei e faceva il bracciante. Non soltanto era povero ma, cito le parole di mia nonna, ha avuto l’infelice idea di morire a 38 anni zappando il campo di un altro, di una malattia che non sono mai riusciti a stabilire perché le ricerche anagrafiche negli uffici dei comuni registrano solo la data dei decessi, non dicono mai perché. Mia nonna diceva in dialetto, non so se c’è qualche piemontese qua, “gl’il venì un culp”, gli è venuto un colpo. Sta di fatto che questa mia nonna si è trovata a 33 anni vedova con 6 bambini, e dico 6 bambini: la più grande era quella che poi sarebbe diventata la mia zia Carolina, una bellissima ragazza, mio padre Ernesto aveva 2 anni e mezzo ed era il penultimo. Poi c’era un altro bambino, mio zio Francesco, che aveva 6 mesi. Quindi mia nonna si è trovata, nell’Italia del 1901-1902, un’Italia già povera, molto più povera di quella di oggi, ancora più povera. Il parroco del suo paese, che era poi una frazione di Casale Monferrato, San Germano, le ha detto “Cara Caterina, qui i tuoi figli, soprattutto quelli più piccoli, li devi affidare alla carità pubblica, cioè metterli in un ricovero, in un orfanotrofio”. Mia nonna si è ribellata, non ha mai voluto affidare alla carità pubblica nessuno dei suoi figli e li ha allevati tutti, facendo di tutto. Gli unici due mestieri che mia nonna non ha fatto sono il minatore nelle cave di marna, che a Casale erano tantissime, perché le donne non le accettavano e la prostituta, perché lo considerava immorale. Ha cominciato a rubare nei campi, il motto di mia nonna era: “La roba dei camp l’è di Dio e di Sant”, la roba dei campi è di Dio e dei Santi, “e quindi anche mia”. Ne ha fatte di tutte, morale: ha allevato questi figli. Dopo di che, essendosi mio padre sposato per ultimo, come si usa dalle nostre parti, mia nonna, che a quel punto aveva sistemato tutti i figli, è venuta a vivere con l’ultimo che si era sposato, cioè è venuta a casa nostra. E dopo aver allevato questi 6 bambini, ha allevato anche me, mia sorella e un mio cugino. Piccolo dettaglio, mia nonna era analfabeta, mentre il marito, Giovanni Eusebio Pansa, aveva imparato a leggere e scrivere durante il servizio militare, perché nell’esercito piemontese le reclute analfabete erano tantissime e quindi durante il servizio militare, che durava 2 anni, la “ferma”, dovevano imparare a leggere e scrivere dai maestri militari. Alla fine della “ferma” la recluta veniva sottoposta ad un esame severo, per capire se aveva imparato la scrittura e la lettura. Se aveva imparato lo mandavano a casa, se non aveva imparato gli facevano fare altri 6 mesi di “ferma”, se dopo questi 6 mesi non aveva ancora imparato ne faceva altri 6, alla fine si faceva 3 anni di ferma e se la recluta era così cretina o così indolente da non aver imparato a leggere o scrivere, l’esercito di sua Maestà gli dava un calcio nel sedere e lo mandava fuori comunque.
Mia nonna, non avendo fatto il servizio militare, non sapeva leggere e scrivere. Per cui la vedevo fare 3 operazioni in una: squartare le rane, dire il rosario e leggere bolero film. E io dicevo: “Come fai a leggere bolero film?”, e lei: “Vedi che sei cretino! Io questi segni neri che stanno nelle nuvolette non so che cosa vogliono dire, però se guardo le foto, capisco tutto, il rosario lo so a memoria e le rane le squarto perché è venerdì”. E il venerdì da noi d’inverno si mangiavano le rane. Ecco, mia nonna è stata la mia prima maestra di religione, perché aveva una concezione della vita che derivava anche dalle sue sventure, terribile. Mia madre bocciava tutti, prima di tutto non poteva soffrire i comunisti. Questo libro comincia con una battuta che sembra finta, perché mia nonna quando aveva l’ondata anticomunista, cantava “bandiera rossa la trionferà sui cessi pubblici della città”. Questa era la sua versione di bandiera rossa, dopo di che odiava i fascisti, odiava i socialisti, odiava i democristiani, odiava ahimè anche i preti. Mia nonna aveva una sola passione, per i frati di san Francesco, perché accanto a casa nostra, in via Corte d’appello, c’era una chiesa di frati francescani e mia nonna li adorava, perché li vedeva andare con i piedi nei sandali, senza calze, anche d’inverno. E gli inverni piemontesi, gli inverni del Monferrato spesso sono durissimi e mi diceva: “Vedi, quelli sono i veri figli di Cristo, come me”, diceva. “Io non sono di nessun partito perché sono di un partito solo, quello della miseria” e la prima cosa che ho imparato da mia nonna, anche se la seconda guerra mondiale era già finita, era che tutte le guerre andavano condannate perché, a sentir lei, erano fatte dai ricchi a danno dei poveri. Quindi senza rendersene conto era pure una pacifista. E quando mio padre, Ernesto Pansa, classe 1898, venne arruolato a 18 anni e qualche mese, perché era un operaio del telegrafo, un operaio apprendista, mia nonna disse: “Ernesto morirai!”. E mio padre diceva, toccando ferro: “Perché devo morire?”, e lei: “Perché nelle guerre muoiono persino i figlio dei ricchi, figuriamoci se non muoiono gli operai delle braghe stracciate come sei tu”. Naturalmente abbiamo visto la guerra civile, quando è finita io avevo 10 anni, da noi è finita l’ultimo giorno, quindi abbiamo visto partigiani fucilati, poi abbiamo visto i fascisti massacrati, abbiamo visto di tutto e di più. Mia madre diceva: “Si salveranno soltanto le strusone”. Le “strusone” erano le ragazze allegre che facevano i festini, parola oggi tornata di moda, insieme agli ufficiali tedeschi in un albergo in cima alla salita di sant’Anna. Mio padre chiedeva: “Perché secondo te si salvano?” e allora mia madre, altra proto-revisionista, rispondeva: “Perché quando sarà finita la guerra faranno le stesse cose con gli americani e con gli inglesi”.
Invece non è andata così. Non è andata così perché tra queste ragazze, alcune hanno tagliato la corda, e non si sa dove siano finite, un paio di altre si sono chiuse in casa e ne sono uscite dopo due o tre mesi e hanno fatto le stesse cose con gli Americani. Quelle arrivate per prime si sono prese i neri della divisione Buffalo, e le altre invece hanno avuto un dopoguerra non facile perché i partigiani le hanno prese, le hanno portate in piazza, le hanno rapate… Insomma, il mio revisionismo era già insito in un dato di fatto banale, cioè la mia data di nascita e la famiglia in cui sono cresciuto, perché era una famiglia larga, povera: mio padre e mia madre non sono mai andati in vacanza, mai. Da un certo punto in poi avrebbero voluto farlo, perché mia madre era diventata una modista brava e una pellicciaia anche importante per la città, ma siccome mio padre aveva incominciato a lavorare quando aveva finito la quarta elementare e mia madre quando aveva finito la quinta, non erano mai andati in vacanza e non ci andarono mai. Io non sono mai andato in vacanza. Quando ho fatto le mie prime vacanze ero già un redattore de La Stampa. La stessa cosa successe a mia sorella, che però per due o tre anni aveva fatto un mese di mare perché vigilava sulla colonia comunale del Comune di Casale Monferrato. Però la sua squadra era di 27-28 bambini, per cui non credo che fossero delle vacanze comode. Io non ho mai avuto, non dico, la lambretta o la motoretta, ma nemmeno il cucciolo, forse qualche anziano se lo ricorda, era una bicicletta a motore: “Se vuoi venir con me ti porterò sul cucciolo”, neanche quello. Ho imparato a fare che cosa allora? In una sola cosa i miei genitori largheggiavano, nei libri. Mio padre e mia madre hanno sempre impedito a me, mia sorella e mio cugino – che era come un fratello aggregato perché i suoi genitori facevano i pantalonai fuori città, e quindi lo depositavano a casa nostra alla mattina alle 7 e lo riprendevano alla sera alla 11 – di parlare in dialetto. Dicevano: “Voi dovete parlare in italiano”, perché per loro l’italiano era la lingua dell’emancipazione culturale e sociale. Mio padre e mia madre parlavano tra loro in dialetto e con mia nonna parlavano in dialetto. Ma volevano che anche con la nonna parlassimo in italiano. Tra l’altro mi ricordo ancora una cosa che mi commuove: mio padre e mia madre davano a mia nonna del “voi”, per rispetto agli anziani. Dicevano: “Vui Mama”, cioè voi madre. Poi mia sorella, che è andata a lavorare prestissimo in negozio con mia madre, ha dovuto imparare i dialetti, perché tutte le clienti del negozio di mia madre parlavano il dialetto. Io non l’ho mai imparato, però volevano che noi leggessimo, volevano che noi studiassimo, volevano che noi avessimo una vita meno infelice e meno dura soprattutto di quella che aveva avuto mio padre, perché anche mia madre non scherzava: anche lei era la quinta di 6 figli e mio nonno materno, Giovanni Cominetti, era bracciante specializzato nella coltura degli alberi, mestieri che oggi forse non esistono più. Poi mia nonna è mancata, e quindi non ha visto quel disgraziato di Giampaolo Pansa che sorte avrebbe avuto. Però ogni volta che mi sono messo a raccontare della guerra civile, il mio percorso, il mio cammino, ogni volta mi ricordo delle cose che si dicevano in famiglia, perché in casa nostra non avevamo niente. Io facevo già il liceo e ogni giorno d’estate andavo a comprare il quarto di panno di ghiaccio, che mettevo nel sacco e lo portavo a casa, perché non c’era il frigorifero, avevamo quello che noi in dialetto chiamiamo il “giassarin”, la ghiacciaia. E mi ricordo soprattutto di una famiglia dove c’era grande abbondanza di discussioni, perché alla sera, non dovendo andare da nessuna parte, perché non potevano andare da nessuna parte, venivano di solito a casa nostra, perché abitavamo in un vecchio caseggiato di ringhiera nel centro della città, in un appartamento persino troppo grande, accanto al palazzo della contessa della Valle di Pomaro. In quella villa c’era un rifugio fantastico. Quando cadevano le bombe, io volevo sempre andare in quel rifugio li, e mia madre diceva: “Io lo so perché tu vuoi andare in quel rifugio li”. E io: “Perché?”, e mia mamma: “Perché vedi la sporcacciona”. La sporcacciona era la ragazza di una casa vicino, una brunona che, quando suonava l’allarme di notte, si presentava in rifugio in una vestaglia che lasciava vedere e non vedere, e stava li mezza addormentata e mi guardava e mi faceva l’occhiolino, come per dire: “Aspetta, aspetta, verrà anche il tuo turno”. Posso dire perché mia madre voleva che andassimo in quel rifugio lì? Hanno cominciato a bombardare i due ponti sul Po di Casale, Casale aveva un ponte pedonale e un ponte ferroviario, nell’estate del ’44, anzi fine maggio del ’44, gli alleati pensavano di infrangere subito la resistenza dei tedeschi e Roma stava per essere liberata, e infatti l’hanno liberata, ed erano convinti di arrivare a Firenze e a Bologna in un momento, di sfondare nella pianura padana, e invece col cavolo! Allora hanno cominciato a bombardare i ponti. La prima terribile domenica, io ero un bambino, stavo per compiere 9 anni e non ho mai provato una paura come quella: non so se qualcuno di voi, i più anziani, si siano trovati sotto i bombardamenti, è impressionante. Pensate ad un bambino che non ha mai avuto questa esperienza. Dopo che è successo mia madre disse: “D’ora in poi andremo sempre nel rifugio della contessa della Valle di Pomaro”, e io domandavo: “Perché?”. Stamattina Mario Calabresi ha detto che le sue figlie domandano sempre – come mai e perché – e anche io domandavo sempre così. Tra parentesi, quando ho deciso di fare il giornalista, mio padre temeva che non sarei riuscito a mantenermi, mia madre invece più sicura ha detto: “Ma sì, finalmente ha trovato qualcuno che lo paga per chiedere tutti i perché e i come mai che ha sempre chiesto a noi a gratis”. Perciò, tornando al rifugio, mia madre diceva: “Andiamo in quel rifugio perché una figlia della marchesa della Valle di Pomaro ha sposato il conte Calvi di Bergolo, che è l’aiutante del Re. Gli inglesi lo sanno e quindi non bombarderanno mai il palazzo e quindi il rifugio della suocera dell’addetto del Re, dell’ufficiale d’ordinanza del Re, è sicuro, perché gli inglesi sono precisi”. Io dicevo come tutti i bambini che rompono: “Scusa mamma, guarda che quelli che ci bombardano non sono inglesi, sono americani”. E mia madre: “Come americani?”. E io: “Sono americani perché non hanno il cerchio colorato simile a quello degli italiani ma hanno la stella”. E mia madre: “Cosa vuol dire?”. “La stella vuol dire che sono aerei americani. E che ne sanno gli aerei americani della contessa della Valle di Pomaro?”. E mia madre rispondeva: “Uffa! Quanto rompi sempre! Andiamo lo stesso li perché è il rifugio più sicuro”.
In casa nostra abbondavano le grandi discussioni, si discuteva sempre di tutto. I bambini erano ammessi perché si discuteva non di cose poco morali, ma di politica, di vita, di fame, di quattrini, di lavoro. Soprattutto di politica, perché l’Italia del ’46, del ’47 e del ’48, dal punto di vista della passione politica, del piacere della libertà di discutere, era un’Italia impagabile. È vero che io la ricordo con la nostalgia di cui si parla della giovinezza. Posso citare una battuta celebre di Enzo Biagi? Enzo Biagi un giorno mi ha detto: “Caro Gianpaolo il passato ha il sempre il culo più rosa”. Questo è vero, allora il mio primo revisionismo è nato li perché c’erano pareri disparati, anche se la famiglia tendeva più al rosso socialista che comunista, perché l’unico comunista della famiglia era il fratello più piccolo di mio padre. E mi ricordo di quando hanno inaugurato la bandiera della sezione comunista del ponte del Po, di cui lui era il segretario. Io me lo ricordo soprattutto perché a reggere la bandiera c’era mia cugina Luigina, io avevo 12 anni, lei ne aveva 18 ed era tanto bella che sembrava Sophie Marceau da giovane. L’ho anche descritta in un libro perché ho visto le foto.
In casa mia si discuteva tanto, quindi c’era libertà e soprattutto, specialmente prima che morisse, c’era mia nonna che sosteneva: “Guardate che i comunisti sono uguali ai fascisti”, questo era quello che aveva in testa. “E hanno fatto tutti delle porcate infinite: partigiani, fascisti, tedeschi, americani, inglesi”. Forse su questi ultimi due in qualche modo si sbagliava. E lì è cominciata la mia passione per la storia. Io non sono uno storico: oggi pomeriggio incontrerò due storici bravi che credo siano venuti al Meeting anche per parlare. Aga-Rossi e Victor Zavlasky? E poi c’è Tommaso Piffer, attenzione a quello che farà Tommaso Piffer perché è uno storico straordinario. È qui? No? Ah, eccolo là in prima fila. Io sono un narratore di storie e ho fatto tutto un mio percorso, non è che ho fatto scoperte ma usiamola questa parola per comodità: sono revisionista. Non è che una mattina mi sono svegliato – come dice la canzone: “Una mattina, mi son svegliato e ho trovato l’invasor” – e ho trovato chissà cosa. È stato un percorso molto lungo che poi è approdato ne “I figli dell’aquila”, che è approdato in una serie di romanzi che non penso verranno ripubblicati questo autunno ma soprattutto è approdato nel libro che mi ha reso non celebre ma molto noto: “Il sangue dei vinti”. Il libro aveva un sottotitolo molto semplice: “Quello che è accaduto in Italia dopo il 25 aprile”. Io racconto ne “Il revisionista” la genesi di questo libro, perciò adesso non starò a ripeterla.
Voglio dire soltanto una cosa che lì ho spiegato nel dettaglio: io non mi sono accorto di quello che facevo. Mi è buona testimone Adele Grisendi, che ha poi contribuito tanto a questo libro, me lo ha corretto e mi ha detto: “Guarda che hai sbagliato a fare così, devi fare cosà”. Io non mi sono reso conto di quello che facevo, non se ne è accorto neppure l’editore. Tanto è vero che “Il sangue dei vinti”, che oggi è arrivato quasi ad 1 milione di copie vendute, la prima edizione uscita nel 2003, se non sbaglio a ottobre, aveva tirato 30 mila copie di questo libro, che era già una tiratura molto alta. La prima ristampa ho dovuto deciderla la mattina stessa in cui era uscito il libro, perché i librai cominciavano a telefonare dicendo: “Guardate che questo libro va via come le pagnotte”. Io allora ho cominciato a capire che cosa avevo fatto, e voglio solo raccontare questo, poi mi fermo e aspetto che Alberto Savorana mi chieda qualche altra cosa. Ho cominciato a capirlo quando sono iniziate ad arrivarmi le lettere delle persone che per l’80% erano donne perché la memoria famigliare non sparisce soprattutto per merito delle mogli, delle figlie, dei nipoti, delle nuore, delle donne in generale. Erano lettere di tutti i tipi, da quelle colte a quelle più semplici, da quelle scritte al computer a quelle scritte con una biro su dei fogli di quaderno delle scuole elementari. Mi dicevano: “Caro Pansa, ho letto ‘Il sangue dei vinti’ ma non ho trovato la mia storia, quindi adesso gliela racconto”. Allora, come ho detto un istante fa, il libro è uscito ad ottobre, alla fine dell’anno, cioè a Natale, io avevo già ricevuto 2 mila lettere. Guardate che 2 mila lettere, detto così sembra una cosa da niente, ma sono una specie di Vajont, di tsunami di vite private che irrompono dentro la tua. Nei 2 mesi successivi ne ho ricevute altre 200 e ancora adesso mi arrivano. Ricevo lettere a tutti gli indirizzi possibili: all’Espresso e poi dopo al Riformista e poi alla mia vecchia casa editrice, la Sperling, e poi alla nuova, Rizzoli. Non so perché sia accaduto, non sono convinto di crederci fino in fondo alla Provvidenza ma dovrei dire che la Provvidenza aveva scelto un microbo qualunque, cioè Giampaolo Pansa, per rompere un muro di paure e di omertà che era stato imposto dai vincitori della guerra civile, i quali avevano detto: “Chi ha perso non deve parlare, e la storia la scriviamo soltanto noi vincitori”.
Una di queste lettere – io l’ho anche citata ne “II revisionista” insieme a qualche altra -, era di una signora il cui nonno era stato ucciso, un poveraccio qualunque, fascista di Genova. Lei scriveva da un’altra città, e diceva: “Con noi che abbiamo perso, i vincitori si sono comportati come fa la mafia con le sue vittime. Ci hanno messo il sasso in bocca e hanno detto ‘voi non parlerete mai più’”. Allora io, senza volerlo, senza rendermene conto, ho tolto il bavaglio, il sasso in bocca e ho dato, come dire, un minimo di sicurezza a chi non aveva mai potuto parlare. Nel senso che se parlavano con Giampaolo Pansa, sapevano che Giampaolo non soltanto non li avrebbe traditi ma avrebbe fatto buon uso delle storie che gli raccontavano. Quindi per me questa è stata ben altro che la laurea, che avevo preso tanti anni fa – 110 la lode e dignità di stampa -, è stata una prova di stima nei miei confronti impressionante. Allora studiando anche la storia dei vinti, e arrivandoci per gradi, ho anche capito un’altra cosa, che è l’ultima cosa che voglio dire: la storia della guerra civile o della resistenza o della guerra partigiana o della lotta di popolo che viene raccontata, anche nei libri di scuola, anche nei testi scolastici, è una storia per metà falsa. È falsa su tanti punti ma su uno fondamentale sul quale io sono pronto poi a discutere con chiunque. Anzi, alla fine di agosto andrò ad un convegno degli amici di Enrico Letta, e farò un pomeriggio una cosa intitolata “Revisionista Pansa contro tutti”. Voglio vedere questi tutti di Enrico Letta che cosa vorranno chiedermi. Il secondo aspetto che rende falsa la storia è che non viene mai spiegata bene. Io parlo del piano del narratore di storie, non dello storico. La resistenza aveva un difetto importante, cioè che la maggior parte della resistenza, e quindi quella che ha anche pagato di più e sofferto di più in termini di vite, quella comunista, non voleva la libertà d’Italia: voleva sostituire una dittatura nera con una dittatura rossa. Ecco, questa è l’altra storia. Per cui quando leggo sui giornali di oggi o di ieri, ma soprattutto di oggi, quello che fa l’attuale segretario del Partito Democratico – so che voi non amate le polemiche, però le faccio io -, che va a Genova, in certi posti, e poi dice: “Voglio che la memoria del Partito Democratico sia sempre viva e che non dimentichi la storia della resistenza”, io direi: “Sì. caro sciocco segretario. Purché la storia sia vera e non falsa”. Perché la storia deve essere vera, altrimenti perché la devo conservare? Guardate che io direi la stessa cosa alla festa, o meglio, al festino del Partito Democratico a Genova, solo che c’è un piccolo dettaglio: che ormai da anni non mi invitano più. Allora posso dire una cosa che mi ha colpito a proposito di revisionismo spinto, senza trascinare il Meeting di CL, tanto meno il mio amico Alberto Savorana, in polemiche politiche. Come spiego, penso bene, ne “Il Revisionista”, in un capitolo intitolato “Revisionismo rosso”, se c’è un partito o un’area politica che si è sempre abbandonata al più sfrenato revisionismo è la sinistra. Ma insomma, io me lo ricordo Stalin, io ero un ragazzino, ero anche uno studente, Stalin sembrava il padre buono di tutti i popoli. Dopo che c’è stato il XX congresso e il rapporto Kruscev è diventato il despota più crudele che ci fosse. Ma il revisionismo stupefacente l’ho visto con il maresciallo Tito: fino al 27 giugno del 1948 il maresciallo Tito è stato il capo della guerra popolare in Jugoslavia, della lotta antitedesca, antifascista degli jugoslavi. Un eroe per tutti i popoli. Poi il 28 giugno Tito rompe con Stalin e diventa la feccia dell’umanità. Io racconto nel libro che cosa scrivevano di lui i giornali comunisti. Dopo di che, non è che passa un secolo, passano 7 anni, nel ’55 ormai Stalin è morto, c’è stato il XX° congresso, Kruscev fa la pace con Tito e sbarca in estate all’aeroporto di Belgrado, vestito come un mezzadro che ricava pochi soldi dal suo lavoro, con un vestitaccio che gli cadeva da tutte le parti, e trova davanti a sé, vestito di bianco come un possidente coloniale, Tito, tutto bianco, persino con il panama e le scarpe bianche. Si abbracciano, si baciano e da quel punto il compagno Tito diventa di nuovo un eroe. Quel giorno un giornalista americano chiese a Tito: “Maresciallo, ma se lei non avesse fatto il capo comunista della Jugoslavia che cosa avrebbe voluto fare nella vita?”. E Tito: “Il miliardario naturalmente”.
Se non fosse tragico, il revisionismo sarebbe comico. Adesso mi metto su un terreno alto, Scalfari avrebbe detto: “Giampaolo, c’è la messa di Paolo VI per Moro ucciso, vola alto mi raccomando”. Volo alto: la sinistra italiana è politicamente e culturalmente finita. A meno che il centro destra non faccia delle catastrofi, prima che la sinistra torni al governo ne passerà di tempo. Io non la vedrò perché dovrei scampare: mi hanno detto che c’è un signore di 96 anni che è venuto col figlio per salutarmi. Ecco, io non arriverò a quella data. Però la spia della crisi politica e culturale della sinistra è che non hanno avuto il coraggio di raccontare la verità su se stessi. Non solo, hanno talmente ingannato i loro militanti, i loro elettori, che ormai hanno creato delle persone che non leggono più nulla, che si guardano bene dal leggere, non dico un libro di Pansa, ma un articolo di Pansa, che danno a priori dei giudizi negativi o positivi su cose che non conoscono.
A questo punto che cosa devo dirvi? Devo dirvi che, per forza di cose, quando il Meeting mi chiama, io vengo perché mi rendo conto di essere molto più in sintonia, caro Alberto, col vostro popolo che con quello che per tanti anni è stato il mio popolo. Votavo a sinistra, per un partito o per l’altro, e adesso mi rendo conto che quando ho scritto “I figli dell’aquila” e poi “Il sangue dei vinti”, e poi tutti i miei libracci successivi, io non mi accorgevo di raccontare anche la mia crisi personale, cioè la mia crisi politica, la mia crisi culturale. Adesso però che l’ho capita, farò un libro revisionista sulla prima Repubblica e posso dirti che dei personaggi che finora ho passato in rassegna, sai chi mi è piaciuto più di tutti? Ti sembrerà strano: Mariano Rumor. Non so se qualcuno di voi se lo ricorda, ve lo ricorderete, è stato segretario della Democrazia Cristiana e ha guidato ben cinque governi, cinque, ed è stato un premier saggio. È stato il premier che si è trovato tra i piedi prima il ’68, poi l’autunno caldo, poi la stagione delle stragi cominciate con Piazza Fontana, poi nelle grandi città del Nord il ribellismo di una sinistra nevrotica che menava, sprangava, ed è stato così saggio da non far precipitare l’Italia in un’altra guerra civile. Quando leggerete i due capitoli che ho dedicato a Rumor, come segretario della “balena bianca”, e poi come premier di ben cinque governi, vi renderete conto che è bene fare un po’ di revisionismo non soltanto sulla guerra civile ma anche sulla fase più recente. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Avrete notato che il Pansa revisionista, anche se dice di non esserlo, il Pansa storico, per descrivere la sua posizione, è andato a pescare l’esperienza della sua infanzia e nell’esperienza della sua infanzia ha rintracciato una grande ipotesi di lavoro. Lui ha detto: “Quando eravamo nel rifugio si discuteva sempre di tutto e soprattutto di politica”, cioè di tutto quello che capitava. Perfino lo stemma dei bombardieri era sottoposto a verifica, a paragone, a giudizio critico e questo segna una originalità che brandisce ciò che raggiunge l’orizzonte della vita di un uomo. E questo lavoro lo fa anche un bambino sotto le bombe della guerra, perché quel come mai è inesorabile.

GIAMPAOLO PANSA:
Mi ha colpito molto Mario Calabresi che ha detto che le sue figlie che hanno due anni e mezzo, due gemelle, chiedono sempre “come mai?” e “perché?”. Mi ha colpito perché in quel momento ho letto, non so se è anche riprodotto qua lo slogan del Meeting, “La conoscenza è sempre un avvenimento”. Quando io ho letto dai giornali che questo era il vostro motto, diciamo, di quest’anno, mi ha molto colpito perché come ho cercato di spiegarvi un po’ alla buona, la conoscenza per me è sempre un avvenimento, soprattutto ogni volta che mi capita di scoprire una cosa che non conosco, quando non l’ho cercata e mi viene incontro. Un’altra grande prova di umiltà è riconoscere la pepita d’oro che non hai cercato ma che ti ferma per strada e ti dice: “Tu sei Giampaolo Pansa, guarda che io sono venuta qui per te, ti regalo una cosa che non conosci”. Ecco perché mi piace molto il titolo. Io, nonostante la mia tarda età, leggo tanto, leggo di più di quanto non scriva perché sono curioso di tutto, perché da questo punto di vista sono un fanciullo. Io leggevo i libri della “Scala d’oro”, non so se ci sono dei signori e delle signore con i capelli bianchi che hanno letto questa serie di libri per ragazzi, dove i grandi classici venivano ridotti e diventavano dei libri per bambini o bambine dagli 8 ai 13/14 anni. Spero che il Padre Eterno mi aiuti a conservare a lungo questa capacità di stupirmi.

ALBERTO SAVORANA:
Mi colpisce molto questa descrizione che dai del titolo del Meeting: “Scoprire una cosa che non conosco, una cosa che non ho cercato e mi viene incontro”, come la pepita d’oro che ti dice: “Ti regalo una cosa che non conosci”. Questa forse è l’immagine plastica, evocativa, della parola “avvenimento”. Se non fosse qualcosa d’imprevisto, d’imprevedibile, di non calcolato, neanche ci potremmo stupire. Allora ti volevo chiedere che guadagno c’è nella conoscenza perché, in fondo, è come se fossimo costretti o condannati a una sorta di passività, come uno potrebbe immaginare: sto qui e qualcosa succederà. Eppure tu in tutti questi anni di carriera giornalistica sei stato tutt’altro che passivo, anzi, hai esercitato un bel protagonismo, per usare il titolo dell’anno scorso. Allora, questo avvenimento come un regalo che non conoscevi. che segno ha lasciato in te?

GIAMPAOLO PANSA:
Dunque, intanto non è mai un regalo, come avrebbe detto mia madre, non è mai “a gratis”, perché di solito la pepita d’oro è molto raro che capiti addosso a chi non ha mai fatto nulla per cercarla. Quindi attenzione: quando io dico “la pepita che ti capita tra le mani senza che te l’aspetti” mi guardo bene dall’invitare alla passività, soprattutto se mi rivolgo a dei giovani. Io ho sempre cercato delle cose nuove e la mia grande fortuna è essere stato costruito in questo modo, se esiste il Padre Eterno, dal padre Eterno, se non c’è il Padre Eterno, da mia madre, da mio padre, dai geni dalle cose. Cioè, io sono uscito da una coppia di ragazzi di campagna, uno dei quali cresciuto con una madre, che poi fu mia nonna come ho detto prima, analfabeta, però sono sempre stato curioso e ho sempre cercato di imparare. La mia mitica carriera giornalistica che dura da tanti anni, solo perché la sorte, il Padre Eterno, le mie coronarie, me lo permettono, è una cosa che io mi sono guadagnato ma non lavorando solo sul campo, prima di tutto lavorando dentro me stesso. Allora la conoscenza è sempre un avvenimento, ma è sempre un avvenimento per chi è pronto a riceverla, per chi si prepara a riceverla. È molto difficile, non è che io me ne sto sulla spiaggia di Rimini sei mesi all’anno a “bamblinare” sulla sedia a sdraio e ad ascoltare con le cuffiette qualche musica. Io non lo sopporto, infatti non ho mai messo le cuffiette e non saprei nemmeno come metterle: confesso che l’iPod non so che cosa sia, non vado mai su internet, mai, trasmetto i miei libri, i miei articoli grazie alle email di Adele, me li spedisce lei perché io non sarei capace di farlo. Per programma politico culturale mi sono dato di non navigare mai su internet, mai, non sono mai andato a controllare una voce su Wikipedia, piuttosto vado sulla Garzantina o sulla enciclopedia Treccani. Non so che cosa sia Google, io sono un vero uomo delle caverne. E in questa caverna c’è una luce che splende, parliamo della tecnica, che è il mio computer, che uso come una macchina per scrivere, anzi, la uso soprattutto per correggere quello che scrivo. Un grande spirito bizzarro, Leo Longanesi, diceva ai giovani giornalisti: “Mi raccomando, grattate sempre i vostri capolavori”. Che cosa intendeva per grattare? Ripulire, rileggere, correggere, togliere le parole inutili, le ovvietà, le parole oscure, le banalità. Con il computer è facilissimo, anzi, io ho detto un giorno a una giornalista che mi ha intervistato: “Il computer è la mia grattugia”. Naturalmente nel pubblicare l’intervista il caposervizio ha tagliato le ultime cinque righe e quindi questa battuta del computer.
Un avvenimento non può mai essere provocato, però può essere preparato, puoi predisporti perché se non ti predisponi puoi anche salutare la conoscenza, scordarti l’avvenimento, non ti capita nulla: la pepita d’oro ti passa accanto e tu pensi che sia una pietra qualunque. Non la guardi neppure. Volevo dirlo specialmente ai giovani, che penso siano parecchi in questa sala. Vedo tantissimi visi di ragazze e di ragazzi, questa è un’altra cosa bella del Meeting. Se tu guardi le platee del Partito Democratico, vedi una massa di capelli bianchi che mi sembra di essere con tanti Pansa, ma come è possibile! Ecco, mi viene in mente una cosa: se dovessi scrivere un articolo sul Meeting, lo farei sui capelli che si intravedono da questo tavolo. È quella la prova. La vostra forza sta nei tanti capelli grigi, figuriamoci se io non sto attento ai capelli grigi, non sono mica scemo, tanti miei lettori vengono di lì, però quello che impressiona è vedere tanti giovani che hanno fiducia, non in Comunione e Liberazione, ma in questo modo di stare insieme che poi si traduce nella fiducia in CL. Avete una quantità di volontari che un quarto basterebbe, bravissimi, devo rendere omaggio a Rosanna, Rossana anzi, sbaglio sempre il nome. Non so perché oggi la chiamavo Emma, poi ho scoperto che una delle figlie di Calabresi si chiama Emma, avevo una premonizione su quello che avrebbe raccontato Mario. Insomma, sono contento di essere qui, ma che razza di domande mi vuoi fare ancora?

ALBERTO SAVORANA:
Ti faccio due domande semplici semplici, sempre per tenere alto il livello. Mi viene in mente una frase, proprio per le osservazioni che hai fatto adesso, che l’avvenimento non lo produciamo noi ma bisogna in qualche modo essere in un atteggiamento adeguato, perché quando arriva possiamo accorgercene. Un grande teologo protestante americano del Novecento, Reinhold Niebuhr, scrisse che “non c’è niente di più assurdo di una risposta ad una domanda che non si pone”.

GIAMPAOLO PANSA:
Come?

ALBERTO SAVORANA:
Voglio dire: o la risposta che mi raggiunge nella forma di un avvenimento, di un imprevisto, legge, scioglie, risolve una domanda che rintraccio in me, bambino o uomo maturo, oppure non mi accorgo della pepita doro. Questo significa che, come tu ci documenti anche oggi, l’umanità è sempre in gioco, sotto la scorza magari di una apparenza effimera. Allora, dicci brevemente che cosa ti ha aiutato a mantenere questa posizione, a riconoscere le tante pepite che ti sono arrivate.

GIAMPAOLO PANSA:
Allora, io ho parecchie domande in testa, che mi hanno aiutato. Poi arriverò a quelle finali, che sono quelle che forse ti stupiranno. La mia prima domanda è sempre stata quella che io rivolgevo a mia madre e a mio padre: “È vero questo?”. Non so perché facevo questa domanda, mia sorella, che ha un anno e mezzo meno di me ed è stata poi la compagna della mia infanzia, della mia adolescenza, e che ha avuto la sua vita come io la mia, dice che io domandavo sempre: “Ma sarà vera questa cosa?”. Quindi, evidentemente, nei miei geni c’era il desiderio di essere sicuro di quello che mi raccontavano e soprattutto di quello che facevo io e che mi raccontavo io. Poi l’altra domanda è stata: “Perché chi ha vinto è così arrogante?”. Perché chi vince dovrebbe essere generoso. La seconda cosa che mi ha spinto su quella strada è stata dunque la vista dell’arroganza dei vincitori che diventava violenza, perché hanno vinto, abbiamo vinto, abbiamo conquistato quello che volevamo, abbiamo abbattuto il fascismo, abbiamo messo in sella la democrazia, abbiamo abbattuto la monarchia, abbiamo messo in sella la Repubblica, volevamo il governo del fronte popolare… Non io però, casa mia per metà non lo voleva, ma l’altra metà eccome se lo voleva. “Ma che cosa vogliamo di più? Perché non ci basta quello che abbiamo?”. Ecco un’altra domanda.
Però le mie domande di oggi sono anche altre. Prima domanda: “Quando morirò?”. Vi stupisce? Ne parlavo l’altra sera con Tommaso Piffer e con Rossana. Quando ero più giovane non mi domandavo mai quando sarei morto. Ho attraversato momenti brutti, soprattutto durante il terrorismo, ho scoperto dopo che per un pelo non sono stato accoppato da Marco Barbone. Quando è morto Walter Tobagi, quando io mi sono trovato nell’auletta dei testimoni del processo Tobagi, mi sono trovato accanto alla moglie di Tobagi, l’ho guardata e le ho detto: “Avrei dovuto morire io al posto di Walter, ero più vecchio di lui, toccava a me”. Lei mi ha consolato con una carezza e un sorriso: grande donna la signora Tobagi. Non me lo domandavo prima ma adesso che ho passato una certa età, mi domando sempre: “Quando morirò?”. Non mi domando come morirò, perché li ho una speranza: vorrei morire subito, in fretta, senza creare troppi problemi, ma non a me, ad Adele. La seconda domanda che mi faccio adesso è: “Come starà Adele quando io non ci sarò più?”. Non parlo di come starà dal punto di vista economico, perché ha molti più soldi lei di me. No, bensì, come starà psicologicamente dopo che per vent’anni si è presa cura del sottoscritto? Terza domanda: “Chi mi difenderà quando quelli che mi hanno sempre preso a calci in bocca per i miei libri revisionisti, quelli che adesso stanno zitti perché hanno paura delle mie repliche, chi mi difenderà da quelli che, una volta morto, cominceranno a diffamare la mia memoria?”. Spero che i giovani bravi, come Marco da Milano e Tommaso Piffer, mi difenderanno. Insomma, sono tutte domande esistenziali.
E adesso ti frego, perché l’ultima domanda che tu volevi farmi, la faccio io. Tanto Adele che io siamo battezzati, siamo cresimati. Io frequentavo il duomo di Casale, specialmente alla Domenica alle 11.00 con mio padre, c’era un grande Vescovo allora, Giuseppe Angrisani, parlo della guerra e del dopo guerra, un grande oratore. Le sue orazioni, le sue prediche sono state raccolte anche dalla casa editrice Marietti che non era una casa editrice generalista, come oggi, era una tipografia che stampava libri per ecclesiastici e aveva raccolto le prediche di Giuseppe Angrisani, grande Vescovo che aveva saputo da solo stare in piedi e mettere al tappeto i tedeschi, i fascisti, i partigiani. Io ascoltavo le sue prediche sempre molto impressionato, perché Angrisani non diceva la “U”, diceva la “V” e quindi non diceva Uomini ma tonava Vomini. La sua voce rimbombava in questa basilica romanica straordinaria che è il Duomo di Casale Monferrato – se non lo avete mai visitato, andate apposta a vederla perché merita un viaggio, è stata tutta restaurata e ha anche un impianto di illuminazione per quando diventa buio. Però, poi, la vita mi ha portato per altre strade. Quindi, sono un credente? Forse no. Sono un cattolico praticante? Certamente no. Sto riflettendo su cosa può esserci nell’aldilà? Certamente si. Che cosa facciamo alla sera io e Adele Grisendi prima di addormentarci? Preghiamo per i nostri genitori. Una volta i romani pregavano i loro penati e quindi cominciamo a pregare: sua madre Iolanda e mia madre Giovanna, poi suo padre Cesare e mio padre Ernesto, poi i suoi due zii Francesca e Pino, che sono quelli che quando la mamma di Adele si è ammalata, e lei era appena nata, le hanno fatto da genitori adottivi. È un corteo infinito perché ci sono gli altri zii, le zie, c’è persino il tuo zio… inabile, handicappato insomma: andava sempre in giro con l’asino. Salutiamo lo zio Mario con l’asino. E poi dopo, nella nostra camera da letto abbiamo una serie di piccoli oggetti d’arte in legno, fatti forse dal più grande scultore ligneo d’Europa, Thoux che sta in Val D’Aosta. La statua più bella e più importante è quella che noi chiamiamo il Gesù bambino con la barba. Che cos’è il Gesù bambino con la barba? È una statua un po’ più grande di Gesù bambino, deve essere il Padre Eterno perché ha una barba lunghissima che diventa una specie di mantella, e ha il mondo in mano come per dire: “Guardate, ragazzi miei, che io sono tutto e voi non siete niente, siete dei microbi in questo mondo”. Allora noi preghiamo Gesù Bambino: “Per favore, abbi cura di noi”, e io aggiungo: “In modo particolare, abbi cura di Adele”. E questa è la nostra serata, questa la nostra fede. Non lo so se diventerò un cattolico, e poi in realtà lo sono già. Figuriamoci, ho fatto anche il chierichetto che accompagnava il canonico del Duomo a fare la benedizione delle case per Pasqua. I chierichetti più solerti – e io ero tra quelli – facevano la lotta per accompagnare monsignor Baiano, perché le mance che venivano date ai chierichetti nelle case dei ricchi dei casali, erano molto forti, e anche se si doveva comunque versarli nella cassa comune dei chierichetti, era sempre un gran piacere. Invece nelle case povere ti accoglievano bene ma non avevano nulla da offrirti. Le signore ricche di Casale preparavano per monsignor Baiano, il canonico del Duomo e quindi l’autorità numero due rispetto al Vescovo Angrisani, un piccolo buffet. E anche i chierichetti potevano mangiare. Infatti le signore dicevano: “Mangia bravo bambino” e il bambino mangiava tutto.
Quindi non so che cosa mi accadrà. Oggi ero stanco, sentivo molto il caldo e avevo pure mal di schiena, poi devo andare a parlare a “Cortina incontri”, poi devo andare a dare dei cazzotti agli amici di Enrico Letta, però confesso che essere venuto qua al Meeting, ed essere stato questo pomeriggio con voi, è stata un‘esperienza entusiasmante: mi sento fortissimo, vi sono grato, mi avete fatto un grandissimo regalo. Ringrazio prima di tutto il nostro, il mio Albertone Savorana, che è sempre così bravo e così generoso. Soprattutto però ringrazio voi perché di solito, quando si incontrano delle platee con tanti capelli bianchi, che è vero che abbiamo meno resistenza di voi ragazzi e ragazze con i capelli scuri, però in tanti se ne vanno. Invece non mi pare che si sia mosso nessuno. Anche questo per me è stupefacente. Il vero miracolo del Meeting sono gli occhi limpidi di tanti che ti guardano e hanno fiducia in quello che hai detto. Ecco, questo è la paga più importante che uno riceve venendo qua. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Io vorrei aggiungere solo una parola a questo applauso. Ti ringrazio perché queste tue ultime parole, questa gratitudine per l’esperienza che hai vissuto oggi qui con noi, mi fanno venire in mente che la settimana scorsa, parlando ad un gruppo di responsabili di Comunione e Liberazione provenienti da 70 paesi del mondo, don Carrón, riprendendo don Giussani, ha detto che “l’esperienza, cioè non il semplice provare qualche cosa, ma il provare qualche cosa con un giudizio, ha un grande test”, e lui diceva che esperienza è vivere ciò che mi fa crescere.
Io ti ringrazio perché oggi anche noi, io perlomeno posso dire di uscire da questa sala, posso affermare di alzarmi da questo tavolo diverso da quando mi sono seduto. Tu ci hai regalato la testimonianza di un uomo e ci hai detto che quest’uomo, tra l’altro battezzato – e per noi questo “tra l’altro” non è indifferente -, che è stato ed è serio con la sua esperienza umana, proprio essendo serio con la sua esperienza umana, ha saputo tirare fuori dalla sua vita delle perle che sono una grande ipotesi di lavoro. Per questo ti sentiamo veramente amico e per questo ci auguriamo che anche l’anno prossimo tu possa tornare e che questo possa accadere anche in futuro, perché noi non abbiamo bisogno di persone che ci spieghino le cose, che ci facciano dei discorsi, ma di persone che ci testimonino che vivere la propria umanità come passione per la verità è possibile. E quella di oggi è stata occasione di un incontro, di un avvenimento e quindi di un’esperienza per tutti. Grazie.

GIAMPAOLO PANSA:
Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2009

Ora

15:00

Edizione

2009

Luogo

Sala A1
Categoria
Incontri