LIBERTÀ VA CERCANDO, CH’È SÌ CARA. VIGILANDO REDIMERE

Presentazione della mostra. Partecipano: Angelino Alfano, Ministro della Giustizia; Franco Ionta, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Giovanni Maria Pavarin, Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Padova. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
L’incontro sarà preceduto dalla proiezione di un video internazionale e dalle testimonianze di due detenuti.

 

MODERATORE:
Buongiorno. Perché questo strano incontro? Strano anche perché due anni fa ne abbiamo fatto uno analogo. Perché ci interessiamo tanto delle carceri? Se è vero che la nostra storia è segnata da fatti, da avvenimenti puramente casuali ma che segnano un significato, questo è veramente un significato che passa attraverso questi fatti apparentemente casuali. Perché ad alcuni di noi, da un po’ di anni, cominciano ad arrivare lettere dalle carceri italiane e del mondo. Leggo due o tre scampoli di queste lettere, una da un carcere italiano, da un detenuto in regime di massima sicurezza: “Pur con l’attraversamento di tutta una vita nel male, nelle nefandezze più assolute, perché questo ha voluto Lui, nel lasciare la libertà di agire anche nel male. Ma poiché c’è un solo destino della vita e quello voluto da Lui, a quel punto la verità sarà determinata e riuscirò a vivere di un nuovo fulgore. Lo sconforto di non potere far assurgere a verità le scelte fatte, è quello che ti fa vivere peggio. La verità mi contraddistingue in questo nuovo uomo, a cui tanto bene ha fatto l’essere accompagnato da voi tutti per la rinascita”. E poi un’altra lettera di una detenuta per terrorismo, dopo 30 anni di carcere: “A seconda se ciò che prevale è il potere o la bellezza, una esperienza può andare in una direzione piuttosto che in un’altra, può umiliare e soffocare potenzialità oppure aprire spazi entro cui ruota la creatività e l’armonia. Questo dilemma mi è penetrato nella pelle e mentre lavoro, mentre parlo, mentre sto in silenzio, si affaccia con dolcezza alla mia coscienza”. E ancora, dal nostro amico Joshua che vedrete nel filmato, da un carcere del North Carolina, una lettera di questo tipo: “Il risultato di queste letture di don Giussani è un rinnovato apprezzamento per il ruolo della libertà nel pensiero cristiano. Don Giussani dice: «In nessuna altra concezione religiosa l’uomo è così libero». Le parole del Santo Padre a Regensburg hanno assunto un’importanza rinnovata per me; Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato e che ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore”. Abbiamo incontrato una umanità sconosciuta nel profondo di queste carceri. E il punto forse più cruciale è stato il carcere di Padova, dove è presente questa cooperativa di lavoro “Giotto”, presente anche alla mostra e in cui abbiamo visto persone che attraverso il lavoro in carcere hanno rinnovato la loro esperienza umana. Allora l’interesse per questo ambiente strano è l’interesse per una umanità che rinasce, come vedremo oggi, e che quindi non ci poteva lasciare indifferenti, anche perché noi siamo venuti su con l’idea che tutti noi siamo peccatori. Allora l’incontro di oggi nasce per descrivere questa nuova libertà in carcere, non ambigua. Non è il tema della non pena o non è il tema del giustizialismo. È il tema del Meeting, il protagonismo che avviene ovunque. Ma più che le mie parole serviranno i fatti che saranno in questo incontro, che comincerà con il video, che molti di voi hanno già visto dentro la mostra, che descrive questo percorso di molti e continuerà con la testimonianza di due detenuti che sono, grazie alla concessione dell’Autorità carceraria, qui presenti al Meeting di Rimini e poi con le parole di Giovanni Maria Pavarin, già nostro ospite due anni fa, Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Padova che ci ha guidato in questo percorso; di Franco Ionta, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e di Angelino Alfano, Ministro della Giustizia.
Allora cominciamo l’incontro vedendo insieme il video.

VIDEO

MODERATORE:
Ringraziamo Enrico Castelli e la direzione del TG1 che ci ha dato la possibilità di questo video e invito allora a parlare i due detenuti che ci daranno le loro testimonianze.

DETENUTO, WELLINGTON:
Grazie e buongiorno. Io non sono abituato a parlare, non so come funzionano queste cose, perciò scusatemi. Io saluto di cuore tutti voi. Un detenuto di Padova che oggi non c’è più, Ilario, in una lettera scritta insieme ad altri detenuti indirizzata al Santo Padre e al Presidente della Repubblica, dice: “Non è facile questa cosa soprattutto per tutti gli errori commessi ma oggi più che mai è un momento in cui occorre ricostruire dentro come fuori. Noi siamo chiamati per primi a scardinare una mentalità e delle usanze, delle regole, delle leggi, quelle del carcere, che ormai sono diventate delle incrostazioni difficili da togliere”. E continua: “Ma l’esempio di oggi dice che la vita cambia a chi di noi seriamente cerca di vivere con lealtà e con verità quel poco di buono che arriva”. Mi chiamo Wellington, ho 33 anni, arrivo da Santo Domingo. Sono in Italia dal ’95, in carcere dal ’96 per omicidio; il mio fine-pena nel 2012. Ho voluto partecipare a questo incontro per testimoniare quanto importante sia per me far parte di questo gruppo di lavoro. Sono circa due anni che faccio parte della cooperativa Giotto; prima d’ora non avevo mai fatto parte di un gruppo di lavoro, ho sempre lavorato in modo individuale. Per cui non immaginavo quanto interessante sia lavorare in gruppo, principalmente come quello nostro. Vedere ogni giorno i miei compagni di detenzione lavorare fianco a fianco, sapendo che facciamo parte di qualcosa di molto importante. Ed è importante perché una realtà come la nostra deve esistere per dare speranza a persone come me, che hanno sbagliato nei confronti della società, ma che cercano di reinserirsi in essa. Oggi so come si lavora in gruppo grazie a queste personalità. Un altro aspetto che mi ha colpito profondamente sono stati gli incontri con gli amici della cooperativa che, nonostante noi detenuti siamo loro operai, non ci trattano con indifferenza bensì comportandosi come se fossero uno di noi, tra virgolette. Se c’è un problema ci si può parlare tranquillamente e sono sicuro che se possono ti danno una mano. Inoltre, il lavoro ci permette di non aggravare ulteriormente economicamente la famiglia. Provate a pensare quanto sia difficile per i nostri famigliari far fronte alle spese di viaggio per vedere il proprio caro. “Protagonisti o nessuno” è il titolo di questo Meeting; non ci sono parole per definire quella specie di emozione che nasce dal mio cuore. Voi dite protagonisti; effettivamente questa è la parola giusta, dopo anni di vita vissuta da finto protagonista. Io ho riflettuto molto sentendomi nessuno; poi voi, il lavoro, la fiducia datami, gli apprezzamenti che mi hanno ridato autostima come uomo che sta dando oltre che ricevere. Oltre a me, questo dare sento che è anche verso la società a cui ho mancato. Questo mi ridà stima, speranza, contentezza per il presente e per il futuro che mi vedrà diverso, e questo grazie a voi oltre che a me stesso. Ciò che mi ha colpito di più di questi due giorni in questa mostra è stato l’incontro che ho fatto con la signora Vicky, quando lei dice che in qualche modo si sente di scontare un ergastolo, eppure lei non è una prigioniera. Questa cosa mi ha toccato particolarmente, per il modo con il quale da un certo punto di vista comincia ad essere protagonista della sua vita, testimoniando di persona che non importa la condizione in cui si è per essere veri protagonisti. Grazie.

DETENUTO, DARIO:
Buongiorno a tutti. Certo che siete davvero in tantissimi. Per me questa qua è una grande emozione. Io mi chiamo Dario e ho quasi 42 anni; di questi 42 un terzo li ho passati in carcere. Prima da minorenne e via seguendo sono diventato grande, se così si può dire. Attualmente sono detenuto nel carcere di Como, dove sto scontando un cumulo di pene di 21 anni per svariati reati di rapina; di questi 21 me ne mancano ancora 7 da scontare e fine-pena definitivo il 4 aprile 2016. Scusatemi se leggo, ma per me questo momento è davvero fonte di grandissima emozione, come lo è stato stilare questo mio scritto. Pensate che ancor prima di cominciare a scrivere sapevo già che avrei fatto un grande casino tra queste righe e non per mancanza di capacità. Di fatto me la cavo a scrivere i miei pensieri sulla carta, ma in questi giorni sono talmente tanti che mi riesce difficile individuare quello da cui partire. Anche se dentro di me sento che qualunque dei miei pensieri possa andare bene per lasciare la mia piccola testimonianza in merito a questa grande esperienza del Meeting. E il grande è riferito a ciò che mi sta lasciando dentro. Prima di venire qui pensavo che sarei andato in un posto in cui mi sarei sentito totalmente estraneo. In effetti è successo, ma solo giusto per il tempo di ambientarmi. Del resto, dopo tanti anni di carcere, questo è il primo momento vero di confronto con la realtà. E che bella realtà. Poter guardare le persone e ricevere il loro sguardo senza nessun giudizio: è una bellissima realtà. Come lo è il confrontarsi con loro tramite parole che non necessariamente vanno dette, perché questa esperienza mi sta insegnando che il bene va oltre le parole, che il bene passa e si trasmette attraverso mille vie, mille piccole vie, che non hanno bisogno di molto per portarti la gioia dentro. Ciò che sto vivendo in questi giorni, gli incontri con le persone e l’esperienza che vivo, che condivido e che continuerò a condividere al rientro in carcere, sta riempiendo anni di vuoto totale. Anche adesso, mentre parlo con voi, mi sembra di avere le farfalle nello stomaco, farfalle che riempiono ancor di più la libertà che avverto dentro di me. Ieri, mentre facevo la mia piccola parte nello stand, mi accorgevo sempre di più che le persone in visita aumentavano, minuto dopo minuto. Che strano, sembra quasi ridicolo, le persone facevano la fila per entrare in carcere! Se questo non è una cosa grande, ditemi voi cosa lo è! Persone che di questa realtà sanno ben poco e quel poco, a volte, è travagliato dai media. Persone curiose di conoscere, conoscere una realtà diversa da come la si può immaginare, una realtà che sicuramente potrà migliorare. E questa non è una mia sensazione, bensì ciò che l’animo di chi ho incontrato dopo la visita della mostra mi ha trasmesso. Forse qualcuno, visitando lo stand, mi ha visto nel penultimo video, quando parlavo della libertà. Una libertà che sto imparando ad avere dentro di me. Mi riferisco al fatto che la parola libero non è soltanto un termine che si trova sul vocabolario, bensì una condizione che una persona trova in se stessa, crescendo giorno dopo giorno; nel senso che liberi si può essere fuori ma anche dentro un carcere, come del resto si può essere prigionieri sia dentro che fuori. Questo è il mio quinto permesso premio; i primi 4 li ho passati a casa dei miei genitori, senza poter uscire, se non per fare rientro in carcere. E proprio durante i primi due permessi, nonostante io abbia un buon rapporto con la mia famiglia, non mi sentivo libero. Sudavo, ero in ansia e non riuscivo a capire il perché di questo malessere; finché al rientro in carcere tutto mi passava. Qui ho capito che la libertà è dentro di me e va ben oltre quella definita dal termine stesso. Concludendo e riferendomi al tema del Meeting “O protagonisti o nessuno”, credo che ognuno di noi abbia bisogno di essere protagonista per esprimere il bene che c’è in lui, che non vuol dire essere migliore bensì essere considerato e soprattutto saper considerare gli altri, poter condividere un umano che ti abbraccia. Davvero grazie a tutti per avermi dato la possibilità di sperimentare cosa significa vivere da protagonista.

MODERATORE:
La parola a Giovanni Maria Pavarin.

GIOVANNI MARIA PAVARIN:
Ma, non si sa da che parte cominciare. “O protagonisti o nessuno”. Ci sono esempi di protagonismo negativo dei quali spesso i mass media si occupano; gli esempi di protagonismo positivo ci sono, sono frequenti, di essi però la stampa poco si occupa. Il titolo del Meeting, che è una provocazione evidente, ci invita a pensare, e chi ha visitato la mostra l’ha capito, che anche stando in carcere si può diventare protagonista positivo. Se sono due esempi di protagonismo positivo, i due detenuti in permesso che ci hanno appena parlato, a cui avete, mi sembra volentieri, applaudito. Debbo per prima cosa dire che protagonisti positivi sono coloro che hanno pensato, voluto, ideato, organizzato e realizzato questa mostra sul carcere, pensandola all’interno del Meeting di Rimini. Questo è un esempio di protagonismo positivo, perché dico questo? Perché tutti voi, immagino, avrete pensato, in questi minuti, che questo è un momento della storia del nostro paese in cui è vivissimo l’allarme sicurezza, e io dico che è un allarme vero, nel senso che la paura è sempre paura. Anche se qualcuno dimostrasse che la paura è ingiustificata, la paura è sempre paura; un allarme sicurezza c’è ed è giusto dirlo, ed è giusto ammetterlo. In un momento in cui l’allarme sicurezza genera la circolazione di concetti che ad ogni momento ci vengono ripetuti, che sono la certezza della pena, l’effettività della pena, l’aver pensato e realizzato un momento, all’interno del Meeting, che rivela l’attenzione al mondo del carcere e della pena, costituisce una sfida, pone un interrogativo che ci invita a riflettere. Sono stato colpito in questi giorni da un libro, edito da un sociologo nato in Polonia e vissuto in Inghilterra, che definisce la società occidentale come società “liquida”. È talmente grande lo sbandamento, è talmente grande il senso di incertezza che domina il popolo occidentale, che nessuno sa più niente, si tende a smarrire la certezza relativa alla presenza di valori, si tende quasi a credere che i valori non esistano più. Tutto cambia così in fretta che a un certo punto non ci troviamo più con noi stessi. Invece io penso che dei valori, intesi come nuclei forti ed irriducibili di convinzioni profonde che debbono orientare le scelte individuali e collettive, la società non possa fare a meno. Altrimenti la società si disgrega e il tessuto sociale si corrode. In materia di pena, di questo stiamo parlando oggi, noi abbiamo un valore, scolpito sulla roccia: è l’articolo 27 della Costituzione che dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Non è una frase buttata lì in due minuti; ci hanno messo dei mesi per scriverla questa frase. Le persone migliori che all’epoca pensavano sono state lì, tutte insieme, Dossetti, La Pira, Fanfani, Togliatti ministro della Giustizia e altri; lo stesso De Gasperi è intervenuto a dire la sua su come dovessero esser scritte le virgole su questo 3° comma della Costituzione. Abbiamo fatto una scelta, meditata, che rispecchia tutta la concezione dell’uomo accolta nella Costituzione. La persona umana è portatrice di una dignità sua propria; questa dignità porta a dire che la pena deve tendere alla rieducazione. Per i credenti la dignità è tripla, perché l’uomo è fatto ad immagine di Dio; è un motivo in più per riconoscere questa funzione della pena. Ma il fatto che l’uomo sia fatto ad immagine di Dio non implica che, se delinque, debba restare impunito. Lo diceva Sant’Agostino, che spesso è citato da quelli che hanno organizzato quello che voi oggi vedete. “Perché non punire un colpevole sarebbe un gesto crudele”, dice Sant’Agostino, “sarebbe crudele perché toglierebbe al colpevole la capacità, la possibilità di correggersi”. Tutto il sistema penale che si basa sul principio rieducativo fa una distinzione: distruggere, reprimere, castigare, punire il reato, il reato l’ha commesso l’uomo, ma non distruggere l’uomo che ha commesso il reato, perché “l’uomo”, continua Sant’Agostino, “È fatto da Dio”. Da qui discende che, e lo dice il comma successivo della Costituzione, “la pena di morte è bandita”, perché la pena di morte cancella il colpevole. In una visione solo retributiva della pena (retributiva vuol dire: ti castigo per quello che hai fatto), la pena di morte sarebbe perfettamente legittima: a te, che hai ucciso, commino il male uguale e contrario, ti uccido. Sarebbe legittima, in un sistema che credesse nella retribuzione, la pena di morte. Qui abbiamo fatto un’altra scelta, che si basa su questa concezione che ci è stata tramandata; Sant’Agostino scriveva così perché a sua volta era stato peccatore prima di convertirsi. San Paolo usa espressioni analoghe; stessa cosa: ammazzava i cristiani prima di convertirsi. E cosi è stato per tanti altri santi. Ho cercato su Internet il santo più criminale; abbiamo tanti esponenti: Sant’Orso, re di Dalmazia, è stato fatto santo dopo aver ucciso la moglie, uxoricidio, il padre, parricidio e anche il figlio. Dopo una lunga pena, passata in un certo modo che il Papa gli ha consigliato, è stato fatto, di li a qualche secolo, santo. Questa è la concezione della pena che noi abbiamo accolto nella Costituzione. Reprimere, castigare, cancellare il reato, prendere il colpevole e fargli cominciare un cammino che porti alla sua trasformazione, fino a liberarlo dal male commesso per essere ad un certo punto reinserito nella società. Andatelo a dire alle vittime dei reati; andatelo a dire a quelli che subiscono sulla loro pelle, sul loro corpo, sulla loro vita delle conseguenze spiacevolissime che derivano dalla commissione di fatti illeciti. Di fronte a questa visione di principio potremmo dire: siamo tutti d’accordo, siamo qui tranquilli, nessuno ci fa del male; è anche un pensiero su cui è confluito il pensiero socialista, il pensiero liberale, il pensiero cattolico. Tutti d’accordo, però alla prova dei fatti, nell’immediatezza del fatto, quando il giornale dà la notizia di un fatto grave e criminoso, andate a dire alla gente: adesso prendiamo il colpevole e cominciamo a trasformarlo. È un discorso molto difficile; a questo problema si risponde con lo slogan, ripeto, “pena certa ed effettiva”. Non ne voglio più sapere di vedere degli assassini andare ai convegni a prendere la parola; non esiste questa cosa. È ora di finirla! Specialmente nei casi in cui chi ha avuto la concessione di benefici penitenziari torna a delinquere, il tradimento di questa fiducia è così eclatante che mi porta a concludere che, per il bene della sicurezza sociale, io devo chiudere la griglia e devo affermare il principio che forse è uguale e contrario: la pena sia pure rieducativa, però io voglio una pena certa ed effettiva. Se sai che per la rapina che stai commettendo alle poste prenderai 8 anni di carcere, e non uscirai prima dell’ultimo giorno, io credo che tu ci penserai due volte prima di commettere quella rapina. Questo è il ragionamento che penso facciano coloro che si rifanno a questi concetti. Ora, dal nostro punto di vista, dei magistrati, degli operatori penitenziari, di chi ha confidenza con il sistema della pena, non c’è nulla di meno vero. È una illusione pensare che l’esecuzione della pena carceraria in quanto tale porti a stroncare la recidiva, metta il colpevole nelle condizioni di non ricascarci. La pena seria, effettiva e certa non ha automaticamente un effetto rieducativo, a meno che lo Stato non intervenga applicando l’articolo 27, facendo la rieducazione, operando il trattamento. Cos’è il trattamento? È fatto da tutti quegli sforzi volti a dare al condannato le opportunità per cambiare, per progettare un discorso diverso. Si comincia dal riflettere sul reato che ho commesso, dal meditare se è possibile riparare il danno che ho fatto, dal dare prova di un corretto comportamento ecc, ecc. Il trattamento è quello che alla fine la spunta: le persone che avete sentito parlare sono state fatte oggetto di un trattamento. Sono state intervistate, viste, osservate, monitorate; dopo tanto tempo, gli operatori del carcere, il magistrato di sorveglianza si sono convinti che valeva la pena fare l’esperimento, fare l’assaggio. Sono stati qui, questi due detenuti, perché vige oggi un sistema di flessibilità, di modulabilità, di trasformabilità, di elasticità della pena. La prima fettina sia rigida, sia carceraria, sia di osservazione; i tuoi progressi, un po’ alla volta, legittimano per un’ora mettere il naso fuori; il mese successivo un giorno, la progressione del trattamento. Le società che non conoscono la parola trattamento o che non applicano questo concetto, aumentando il tasso di carcerizzazione, che è il rapporto tra popolazione detenuta e popolazione libera, non hanno visto diminuire il tasso della recidiva, il tasso della criminalità. Si sono arricchite di una criminalità di ritorno. Gli Stati Uniti hanno fatto questa esperienza e alla terza volta hanno deciso di chiudere la chiave: al terzo reato, anche se piccolo, la pena è lunghissima, può durare anche in eterno. Perché lì purtroppo il trattamento ha avuto poco successo. Da noi il trattamento c’è, esiste, gli sforzi vengono fatti, gli operatori fanno quello che è nei limiti delle possibilità. Si può fare molto di più. Lo diciamo sempre: cosa si potrebbe fare per accompagnare questo processo di trasformazione del colpevole, per ridare a lui la dignità umana che ha perduto nel momento in cui ha commesso il reato e che riacquista un po’ alla volta quando si rende conto e avvia il processo di revisione, di riflessione critica? Dobbiamo anzitutto, noi Stato, proporre all’interno del carcere modelli socialmente validi. Il padrone del carcere, il padrone di casa è lo Stato, siamo noi. Il carcere non deve essere organizzato come la subcultura criminale impone. Volete un esempio di subcultura criminale? Se io ho un delitto sessuale, per cui sono stato condannato, se sono un infame, cioè uno spione, uno che ha collaborato con le forze dell’ordine, se sono un poliziotto, un carabiniere, un finanziere o ho parenti nelle forze dell’ordine, rischio la mia incolumità. Lo stato mi alloca, mi mette in una sezione a parte; si chiama “sezione protetti”. Devono essere protetti dagli altri, che non sopportano certi tipi di reato o certi tipi di persone. Capite? Il padrone di casa, lo Stato che dovrebbe imporre, proporre quantomeno, la logica rieducativa è costretto ad essere vittima della subcultura carceraria che vuole che la distribuzione della geografia interna del carcere rispecchi la logica deviante. Faccio una provocazione, non posso pensare che domani chiudiamo le sezioni protette. Certamente che provare a smantellarne qualcuna sarebbe il segno che lo Stato comincia a fare sul serio, vuole proporre, a chi ha sbagliato, la sua logica, i suoi valori. Certamente che l’atteggiamento per rieducare una persona deve essere di amorevolezza, di dolcezza. La mia esperienza è questa: se una persona non percepisce che voi la amate, non accetta di essere corretta. Se una persona percepisce che voi avete un interesse positivo verso la sua salvezza, la persona vi segue, la persona accetta di essere corretta. Seconda cosa che dovremmo fare, approfitto della presenza del Ministro della Giustizia, è quella di pensare a questo: per rieducare una persona, per riconsegnarla alla legalità, legalità violata, io per primo devo rispettare le norme che mi sono dato per il carcere. Se c’è una legge che prevede qualcosa in termini di metri cubi, aria, vestiario, igiene, corredo, devo fare di tutto per darglielo. La tutela del diritto, quello che la legge prevede per il detenuto, è fondamentale per la rieducazione. Io per primo ti dimostro che so rispettare le norme che mi sono dato per te. Un po’ alla volta questa compliance si realizzerà tra me e te e io ti traghetterò verso un mondo in cui sarai protagonista. Debbo chiarire che la proposta rieducativa non può ovviamente essere rivolta a chi per principio la disdegna, a chi per principio la rifiuta. Un mafioso, un camorrista, un ‘ndranghetoso che ancora ha collegamenti con la società criminale di provenienza, certamente non può godere di questo trattamento e certamente fa bene il ministro della Giustizia a non mollare l’osso sulla necessità di applicare, magari riformulandolo, l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che significa per i non addetti ai lavori carcere duro per i mafiosi. Fa benissimo, un po’ alla volta se qualcuno si stanca, si dissocia, venga ad abbracciare lo Stato che lo riabilita, fino a quando non fuoriesce dalla mentalità criminale che lo ha spinto in carcere, ben venga che gli siano limitati tutti i diritti che è possibile limitare. Lascio la parola al nuovo capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che è Franco Ionta, è con noi in questo mondo, diciamo da qualche giorno. Ho letto una delle sue prime dichiarazioni, che mi sembra in linea con la visione ideale che vi ho rappresentato. Lui, nuovo capo del Dap, quasi subito ha detto: “Io spero, voglio fare in modo, che anche gli ergastolani abbiano una speranza”. Ecco, detto da un capo del Dap poco dopo il suo insediamento, mi sembra una frase che possa far sperare. Al ministro auguro di essere, di rendersi autonomo iniziatore di una nuova politica penitenziaria, che tenti di attuare al massimo questo Art. 27 della Costituzione. Serve una svolta. Tutti quelli che frequentano e che hanno confidenza col carcere sanno di cosa parlo, gli altri si fidino. Ringrazio il Meeting che ha invitato a parlare il magistrato di sorveglianza, magari molti non sanno cosa facciamo, facciamo i giudizi prognostici, vediamo se è possibile dare o non dare qualcosa nello scorcio finale della pena. La statistica insegna che un detenuto, che ha fatto un pezzo di carcere cui abbia fatto seguito la concessione di una misura alternativa, ha un tasso di recidiva infinitamente inferiore rispetto al detenuto che ha fatto tutta la pena in carcere fino all’ultimo giorno. In questa situazione la recidiva purtroppo è all’80 per cento. Questo è anche il dato statistico vostro, del Consorzio Rebus cooperativa Giotto di Padova, ringrazio tutti voi, da ultimo anche i detenuti, sono tanti, voi non li vedete, che sono oggi in permesso premio o in licenza augurando loro, guardo anche proprio voi di Padova, di poter tornare un giorno in questa stessa sala da persone libere, perché liberate dai mali commessi e per dare testimonianza di questa forma di protagonismo positivo che è in linea con l’idea dell’uomo, accolta dalla Costituzione e con l’idea dell’uomo fatta propria dai credenti. Grazie a voi.

MODERATORE:
La parola a Franco Ionta.

FRANCO IONTA:
Grazie agli organizzatori di questo incontro che mi hanno dato la possibilità di riflettere con voi su questo tema, e ringrazio in particolare il Ministro della Giustizia per la sua sensibilità, perché già dai primissimi incontri la questione penitenziaria è stata fra le sue priorità. E mi piace ricordare qui, dopo aver visto questo filmato, di una visita che abbiamo fatto insieme al Ministro a Regina Coeli, per renderci conto personalmente di quali fossero le condizioni medie della detenzione. Da quella visita e dal filmato che ho visto oggi ho tratto un’emozione che vorrei definire costruttiva. Non basta la suggestione dell’emozione, delle cose che si sono viste e delle parole che si sono sentite, io trovo che sia giusto trasformare le emozioni in costruzione.
E questo perché mi ha colpito in particolare una frase di un detenuto, intervistato in questo filmato, in cui si diceva: “Bisogna dare una risposta alla vita”. Ecco anche ad una persona detenuta bisogna dare una risposta alla vita. Per questo io penso che l’amministrazione penitenziaria abbia il dovere sì di emozionarsi, ma anche di costruire.
Le persone che sono qui, le ringrazio per loro presenza e per l’attenzione al tema. E vorrei loro dire intanto, in estrema sintesi, qual è il compito che mi è stato attribuito. Quello di essere responsabile di tutti gli istituti penitenziari d’Italia, sono 205, e di essere il capo della Polizia Penitenziaria, cosa di cui sono particolarmente orgoglioso.
Il corpo della Polizia Penitenziaria è un corpo fatto di uomini e donne straordinari, che svolgono un lavoro sconosciuto e negletto, ma che ha delle potenzialità enormi, che vanno sicuramente espresse, sono state fino a qui sottaciute se non proprio inespresse.
A loro va il mio ringraziamento per il lavoro quotidiano che svolgono, per quello che fanno fuori e dentro il carcere.
Dicevo, un impegno che mi è stato attribuito molto gravoso ma al contempo molto entusiasmante, ma che deve essere parametrato, compreso nel suo oggetto.
Il mondo della detenzione non è il mondo, è uno dei mondi, su cui bisogna intervenire con quello spirito, che definirei saggio, della Costituzione.
Forse si potrebbe definire anche come uno spirito laico della Costituzione. E non sono qui fuori luogo, perché qui vorrei vincere la tentazione di affrontare tutti i temi possibili del mondo carcerario, che la detenzione pone e propone.
Direi difficile, anzi impossibile, a poche settimane dall’insediamento.
Però vorrei delineare quello che penso, per me e l’amministrazione, l’indirizzo del corso che ho appena intrapreso.
Permettetemi di dire, a mo’ di premessa, che io credo molto nel fatto che la battaglia delle parole possa essere vinta. Se si vince questa battaglia si può vincere, probabilmente, anche la battaglia sui contenuti.
Anche nell’iniziare questo mio viaggio così entusiasmante, avevo detto che avrei sempre parlato di “persone detenute”, e non di detenuti.
Poco fa, mentre accompagnavo faticosamente il Ministro nel suo percorso, ho sentito che una giornalista rivolgendogli una domanda ha usato l’espressione “guardia carceraria”.
Vi sembrerà forse una pignoleria, una cosa da sottovalutare, ma io invece penso che le parole hanno un’importanza fondamentale .
Allora io penso che nello spirito saggio, laico che delinea la Costituzione, giustamente si è passati da un carcere di “pura custodia” a un carcere come creatore di speranza, ma credo che il passaggio ulteriore sia quello di passare ad un carcere con impegno, che deve partire in primis, e qui mi permetto di dissentire rispetto a quello che sentivo prima dal collega che ha parlato, perché in primis l’impegno deve essere della persona detenuta.
Perché senza questo non c’è struttura di accompagnamento che possa portare ad un risultato positivo.
L’amministrazione ha un dovere, sì, di accompagnare nel percorso evolutivo una persona che si vuole rendere protagonista del suo percorso evolutivo.
Comunque, dicevo, battaglia delle parole, di contenuto.
Il carcere, a mio modo di vedere, deve essere un luogo di impegno reciproco, della persona detenuta e di impegno dell’amministrazione, in tutte le sue articolazioni, di accompagnare questo percorso evolutivo, di fare in modo che si possa restituire alla società una persona non dico migliore, ma almeno migliorata.
E in questo si contribuisce in modo evidente alla sicurezza pubblica, perché restituire alla società una persona migliorata che, come dicono gli inglesi, avrebbe avuto anche il diritto di essere differente, e che invece ha accettato le regole del vivere civile, quanto meno quelle minimali, che lo portano al reinserimento, spesso anche attraverso il lavoro, che giustamente deve essere incentivato ulteriormente e su cui occorre intervenire ancora di più.
Complessivamente restituire alla società una persona non necessariamente portatrice degli stessi valori di chi ha “trattato”, ma l’importante è che abbia recuperato il senso della giustizia e del vivere civile ed abbia capito che il crimine, che non è un peccato, ma un illecito penale, non va ulteriormente commesso.
Credo che si possa riuscire a vincere questa battaglia delle parole e dunque a vincere la battaglia sui contenuti.
Prima Pavarin parlava di Baumann, del mondo liquido, che intende come mondo precario e privo di valori e di valori cangianti, in cui comunque tutti si sentono precari, nella loro vita privata, nella vita pubblica.
Io penso che anche attraverso l’impegno della polizia, dell’amministrazione penitenziaria, delle persone detenute, si possa tentare di arrivare ad un mondo più stabile. Vi ringrazio.

ANGELINO ALFANO:
Grazie dell’avermi invitato e dell’aver pensato ad una mattinata come questa.
Non è la prima volta che vengo al Meeting di Rimini, non solo come ascoltatore ma anche come relatore, grazie agli inviti che mi sono stati rivolti dall’amico Maurizio Lupi, come fondatore dell’Intergruppo sulla Sussidiarietà del quale io ho fatto parte come promotore fin dall’inizio.
Ma è la prima volta che partecipo al Meeting come Ministro.
C’è un motivo per il quale ho fatto questa precisazione. Se le altre volte la mia organizzazione nella partecipazione al Meeting era stata assolutamente artigianale, avevo preso appunti, studiato… Il Ministro, invece, è dotato di uno staff, che anche su mia richiesta e facendo pienamente il lavoro dello staff, in vista della partecipazione a questa splendida giornata di incontro, mi ha preparato, anzi inondato, di numeri, cifre, carte, statistiche, documenti, dossier, quindi potrei tenere una conferenza fondata su ineccepibili numeri che riguardano la popolazione carceraria, il numero di persone presenti italiane e straniere, quelli che sono in attesa di giudizio e quelli che devono uscire. Poi, arrivando qui ieri pomeriggio, e girando un po’ fra gli stand, mi sono ricordato che cosa è il Meeting di Rimini, ovvero un incontro fra persone, un’esperienza.
Allora ho cestinato i miei interventi scritti ed ho cominciato a prendere appunti, finendo esattamente là dove ho messo il punto, ovvero quando il prof. Vittadini mi ha chiamato a prendere la parola.
Quindi perderete qualche dettaglio tecnico, ma penso che guadagnerete in autenticità, perché ho intenzione di parlarvi di alcune mie riflessioni ed esperienze, anche, se mi permettete di dire, da neo Ministro, alcune mie emozioni.
Sono stato più volte a visitare le carceri e lo sono stato da parlamentare, non da Ministro.
Ci sono stato da Ministro, lo diceva poc’anzi il dr. Ionta prima delle ferie, esattamente il giorno in cui ho lasciato Roma per l’inizio ferie.
Siamo stati al Regina Coeli, e adesso faccio una piccola confessione pubblica, e lo confesso anche al dr. Ionta: quella visita per me è stata una predisposizione di spirito, ed ho dedicato al Meeting e a questo incontro la visita, perché volevo arrivare qui pronto non in forza di una riflessione di natura culturale, ma di un’esperienza calda, un’esperienza viva. La mia visita nelle carceri era avvenuta qualche anno prima, sarebbe stato un freddo ricordo, avrei dovuto affidarmi a delle finissime testimonianze dei detenuti che qui hanno parlato, avrei dovuto fidarmi di un video, potendolo fare da Ministro, ho preferito visitare Regina Coeli.
Mi hanno riconosciuto, potenza delle televisioni.
Sono stato chiamato, sono stato nelle celle, ho guardato negli occhi i detenuti, sono stato guardato negli occhi, abbiamo parlato di come loro vivono in cella, abbiamo parlato di un pezzo della loro vita, mi hanno raccontato qualche loro esperienza e mi hanno sempre guardato negli occhi e mi davano del lei, ed io davo loro del lei, non una cella, ma numerose celle.
Non solo italiani, anche stranieri.
Ad un certo punto io ho chiesto, come mi era già capitato qualche anno fa: lei perché è qui? Solo in quel momento gli occhi si sono un po’ abbassati, ma poi sono tornati su, e non è successo né con uno né con due, ma con tutti i detenuti con cui ho avuto modo di parlare.
In quell’abbassare lo sguardo, ma soprattutto in quel rialzare lo sguardo, ho incrociato una mortificazione, e permettetemi di dire, io non faccio lo psicologo, il presupposto di una volontà di riscatto, di una voglia di emancipazione, della voglia di dimostrare che quel che è stato fatto deve essere pienamente pagato, che il saldo con la società per quel delitto commesso è in corso di espiazione, ma che da quella mortificazione vi è il prodromo, vi è l’avvio, il seme di un rinascimento. Quello io ho colto.
Poi sono uscito da quel carcere e mi sono portato dietro in questi 15 giorni una serie di domande che mi hanno accompagnato e che rappresentano il presupposto di fondo di alcune considerazioni che vorrei svolgere insieme a voi.
La prima: esiste un diritto, una possibilità, una chance, un diritto vero alla speranza da parte del detenuto, oppure quell’inferno del corpo è anche un inferno dello spirito, che toglie anche ogni diritto alla speranza?
Diceva Dostoevskij che c’è il delitto, e c’è il castigo. Mi sono posto una domanda: che cosa c’è nella vita di un detenuto, oltre il castigo? Ed una domanda ancora: esiste un’altra via tra i giustizialisti ed i teorici del “farla franca”? E poi, quando noi rivolgiamo lo sguardo ai detenuti, e diciamo, con convinzione, che dentro la cella e dietro la sbarra c’è un uomo, riconosciamo anche però che dentro e dietro quell’uomo vi è un reato, un delitto, spesso anche grave, con il carico di dolore che quel reato e delitto ha fatto patire all’uomo, alla donna, alle loro famiglie, ai loro cari che sono vittime di quei reati.
Quando noi guardiamo negli occhi quei detenuti, immaginando un percorso di redenzione, abbiamo chiuso gli occhi alle vittime di quei reati? E allora lì mi è venuta in mente una domanda, che è la più lacerante per chi, come esponente delle istituzioni e dello Stato, si deve porre il quesito del che fare, e cioè qual è il rapporto in uno Stato laico, ma per chi come me, come noi, crede, fra giustizia e misericordia? Esiste una giustizia senza misericordia? E può esistere una misericordia senza giustizia? Mi sono venute in mente le parole di S.Tommaso d’Aquino del Commento del Vangelo di S.Matteo: “La giustizia senza alcuna forma di misericordia è pura crudeltà, ma la misericordia senza la giustizia è una mano che produce dissoluzione”.
Questa è la riflessione che mi ha un po’ illuminato, ed è in questo preciso rapporto che si colloca la funzione dello Stato, la funzione di noi che dobbiamo dare una risposta al bisogno di sicurezza del Paese e allo stesso tempo adempiere ad una illuminatissima norma costituzionale, che prevede che chi sbaglia paga, ma mentre paga ha il diritto a redimersi, e qualcuno deve aiutarlo a farlo.
E quel qualcuno siamo anche noi. Quelle storie che abbiamo ascoltato, i racconti, le esperienze ci dicono che non ci si salva da soli, ma che a volte ci salva un incontro, una compagnia, un aiuto, e che la funzione delle istituzioni è esattamente questa, di aiutare questo incontro, compagnia, indurre, costringere il detenuto a tirare fuori, in un rapporto di amore, anche di fiducia con chi ha a che fare con lui, anche nelle strutture di detenzione, il meglio di sé.
E diceva bene Pavarin, tutto questo vale per quegli uomini che hanno voglia di tirare fuori il meglio di sé, perché, diciamolo con franchezza, se c’è una cosa che nostro Signore ci ha dato è la libertà, e quella libertà di movimento e di relazione che il carcere toglie non è la negazione della libertà dello spirito.
Ed anche in carcere, rispetto al percorso di ricostruzione dell’io, rispetto alla risposta a quella grande domanda di senso, c’è ancora un futuro per me, dentro una cella e dietro le sbarre. Un uomo è ancora libero di scegliere sì o no.
Ecco perché quei mafiosi che hanno una adesione ideologica ad un ordinamento giuridico parallelo, che crea delle norme in contrasto con quelle dello Stato, per cui alcune cose si possono fare ed alcune no, quei mafiosi dicono: qual è la sanzione per la violazione della regola che loro medesimi hanno posto? A questi mafiosi che dicono no allo Stato, al loro cammino di recupero, perché ancora sono fermi a quella piattaforma ideologica criminale, noi non abbiamo nulla da offrire, perché loro si sono sottratti alla nostra offerta di redenzione.
L’altra questione di fondo riguarda il sistema che non funziona, perché nella nostre carceri vi sono un maggior numero di detenuti in attesa di giudizio, rispetto a soggetti in fase di espiazione di una pena definitiva, quindi, secondo la nostra Costituzione, ci sono nelle nostre carceri, essendo in attesa di giudizio, più innocenti che già dichiarati ed acclarati colpevoli. I presunti innocenti hanno un turn-over altissimo, e la permanenza media nelle nostre carceri è di 11 giorni. È chiaro quindi che il sistema non funziona. Allora che prospettiva di lavoro puoi offrire a chi sta dentro 11 giorni e per di più da presunto innocente, perché è stato arrestato prima del giudizio?
Del resto, questo è un tema che appartiene all’uomo, e di fronte a tanti prelati di altissimo prestigio e a tanti presenti, mi verrebbe da dire che noi veniamo da una tradizione che celebra un arresto ingiusto prima di un processo, quando alcune guardie romane si presentarono un giovedì sera al Giardino degli ulivi e prelevarono un uomo arrestandolo prima del giudizio.
Quell’uomo si chiamava Gesù Cristo e fu arrestato dalle guardie romane prima di essere giudicato, la condanna fu ingiusta e tutti sappiamo come finì.
Quindi è un sistema da rimettere in movimento, sapendo, ed è qui la risposta a quella domanda sul rapporto fra giustizia e misericordia, ma anche sul rapporto fra gli autori e le vittime del reato, sapendo che l’incentivare il lavoro nelle carceri è la forma più solida e solenne di battaglia contro la recidiva e di contributo alla sicurezza per il nostro Paese. Le cifre e i dati che sono arrivati, testimoniano che un uomo che non ha solo una via, che è quella del tornare al delinquere perché non sa fare altro nella vita, ma a cui il sistema penitenziario, noi, abbiamo costruito il bivio, tornare a delinquere o la possibilità di tornare a lavorare, bene questa è la prova che attraverso il lavoro nelle carceri abbatti la recidiva, perché crei il bivio ad un uomo che ha una sola strada, e spesso l’uomo, portatore di bene in sé, sceglie la via del lavoro e non quella della delinquenza. Così si abbatte la recidiva e il nostro diventa un paese più sicuro.
Ecco come noi chiudiamo, nella nostra riflessione, il cerchio del rapporto tra la sicurezza del nostro paese, la tutela del diritto delle vittime, ma anche il percorso, l’agevolazione del percorso di ricostruzione di un uomo che, negli anni della propria pena e della propria detenzione, ha saputo ritrovare se stesso.
Ma per ritrovare se stesso occorre che noi abbiamo chiaro davanti che siamo testimoni storici di un percorso fallito, ed ecco perché io sono contrario alle idee demagogicamente, retoricamente ed anche vagamente buoniste.
Qual è il progetto fallito? È il progetto fondato sul perdono senza presupposto, senza perdono dello spirito, del perdono in quanto tale, del perdono senza presupposto come si è chiamato, ed è un giudizio sul voto che noi demmo all’epoca, chiamati anche a questo compito da un meraviglioso Papa che venne alla Camera e ci spronò a farlo, ed era Karol Wojtyla, un percorso che si chiamò indulto.
Oggi facciamo i conti, non dieci anni dopo, ma pochi anni dopo, e le nostre carceri oggi sono esattamente piene come nel giorno in cui cominciarono ad uscire gli indultati.
Questo vuol dire che l’indulto è fallito, perché vi è stata la recidiva, perché queste persone sono uscite d’amblè, senza che prima ci fosse stato nelle carceri un lavoro di recupero dell’umanità presente negli uomini e cioè prima che vi fosse stata la possibilità di offrire a quegli uomini quel bivio di cui parlavo prima.
Ecco, tutto il nostro lavoro si finalizza a ciò, alla creazione di questo bivio esistenziale e materiale, che è la possibilità, usciti dal carcere, di fare un’altra cosa, di lavorare. Prima, però, dobbiamo anche creare delle condizioni dignitose di vita nelle carceri. Vi sono alcune patologie nelle nostre carceri, ed esempi provenienti dagli altri paesi che noi dobbiamo pienamente sfruttare, e che a mio avviso devono diventare anche programmi per il nostro governo.
Il braccialetto elettronico: che pericolo c’è, per chi ha commesso peccati non gravi e non è socialmente pericoloso, di fare intasare i nostri istituti di pena, e non mandarlo a casa con i nostri braccialetti elettronici che, come l’esperienza francese dimostra, non produce la recidiva e non produce nemmeno evasione?
È anzi, un caso in meno per lo stato.
Secondo, nelle nostre carceri vi sono 4300 detenuti stranieri che devono scontare una pena residua inferiore ai 2 anni. Con un serio rapporto di accordi bilaterali con i loro paesi, può bastare la sanzione dell’espulsione; se la vadano a scontare a casa loro questa pena, perché, mentre ci mancano le risorse e abbiamo difficoltà a reperire le risorse per costruire nuove carceri, 4300 detenuti in meno corrispondono alla costruzione di 8 carceri di media grandezza.
Altra cosa, qualcuno di voi avrà visto la mostra ed il laboratorio di pasticceria ed i suoi frutti del carcere di Padova, ed i risultati, la mangiabilità e l’eccellenza culinaria di quei prodotti. Nelle carceri si può lavorare, ma occorre creare, ed è il terzo punto che io vi sottopongo del nostro programma sul “sistema carceri”, occorre creare una grande agenzia di collocamento per detenuti, che crei un momento tra domanda ed offerta di lavoro, specializzando i detenuti che hanno grandi periodi di detenzione davanti e dando loro una missione nella vita, specializzandoli affinché si possa creare una appetibilità per il mercato del lavoro dei detenuti stessi.
Poi un’altra cosa che ha gridato fortissimo nella mia anima fin dal primo giorno in cui sono diventato Ministro, quando ho appreso questo dato: le mamme detenute che hanno bimbi sotto i 3 anni portano con loro in carceri i bambini .
Io ritengo che, anche se si tratta di 50 bambini in Italia, sia ora di dire basta.
Perché non importa di chi siano figli questi bimbi. Ciò che importa è che sono bimbi, e i bimbi non possono stare in carcere, e allora noi ci faremo subito promotori di un progetto che confischi i beni dei mafiosi e che adatti le strutture in modo che non abbiano le sembianze di luoghi di detenzione, ma siano luoghi dove queste donne possono scontare la loro pena facendo vivere in casa dei bambini che non possono avere il trauma di conoscere il carcere a 20 o 30 mesi.
Cosi vi sono anche le donne detenute che sono mogli, che sono mamme.
Occorre subito, ed io ne ho già parlato con gli uffici dell’amministrazione penitenziaria, valorizzare questa funzione, soprattutto quella di mamma, perché non si può smettere di essere mamme perché si è detenute ed occorre individuare immediatamente nuove forme di regolamenti carcerari, che permettono ad una donna che sia moglie o mamma, quanto meno di fare la mamma, in una qualche misura sempre fatto salvo il diritto del bambino di avere come mamma una donna che non sia più pericolosa socialmente.
Vi sono queste 4 o 5 cose che possono dare la misura di come il carcere non sia il luogo dove muore ogni speranza, dove si spengono tutte le lucine dell’anima.
Sono convinto che non siamo di fronte ad una missione impossibile, ma che dobbiamo avere la forza di coordinare in un ambito più grande, nel più grande ambito che è la riforma della giustizia.
Credo sia giusto che il ministro della Giustizia dica qualcosa a voi anche su questo argomento.
Vedete, si fa un gran parlare in questi giorni di alcuni aspetti che fanno parte della riforma della giustizia.
Dico qui che noi non ci faremo scappare questa occasione e la riforma della giustizia la faremo, sarà a nostro avviso un grande spartiacque, una grande sfida tra chi vuole cambiare e chi vuole lasciare le cose cosi come sono.
Allora noi dobbiamo essere chiari fin dal principio.
Noi stiamo dalla parte di chi le cose le vuole cambiare, ma non per il gusto di cambiare, ma perché la giustizia non funziona, e rispetto a questo o ci mettiamo mano o resta cosi.
Allora dobbiamo metterci mano.
C’è una cosa che stride rispetto alla mentalità comune. C’è che si parla di riforme, interventi legislativi, milioni di processi pendenti, trascurando sempre l’uomo, la persona, non ce n’è uno che faccia presente che dietro ogni processo pendente vi è almeno un uomo o due, perché c’è la controparte, ed allora ci sono milioni di cittadini in attesa di giustizia.
Si dimentica che come dietro ogni sbarra, cella, vi è un uomo, così anche al centro di ogni processo di riforma vi è un uomo, perché al centro di ogni processo pendente, civile o penale che sia, c’è un uomo col suo carico di patimenti, di ansie, di trepidazioni, che ha formulato una domanda di giustizia allo Stato e cui lo Stato non sa rispondere, perché vi risponde dopo 10 anni. Dimenticare questo, è la prospettiva di un uomo di governo che non ha l’idea della riforma.
Allora noi vogliamo una riforma che metta al centro i cittadini, nella consapevolezza che il grado di fiducia di ciascun cittadino rispetto alla giustizia finisce col coincidere esattamente con il grado di fiducia di quel cittadino nei confronti dello Stato e noi non possiamo seguitare a pensare che i cittadini non abbiano fiducia nello Stato perché non hanno fiducia nella giustizia.
E siamo convinti che questa grande riforma della giustizia noi dovremmo farla dialogando e decidendo, perché una riforma fatta senza dialogo somiglia tantissimo ad una dichiarazione di guerra unilaterale nei confronti di chissà chi.
Ma un dialogo senza decisioni, che finisce solo con l’essere un parlare senza decidere, questo è l’esatto contrario di quel buongoverno a cui siamo affezionati, di quella grande prospettiva di riforma della giustizia che, partendo dalle carceri, invaderà tutti i settori che ricadono in questo ambito.
Grazie.

MODERATORE:
Concludo questo incontro tornando all’inizio, perché, grazie all’intervento del nostro interlocutore, abbiamo centrato il problema nei termini politici e giuridici.
Perché siamo interessati alle carceri? Perché abbiamo visto questo scampolo di umanità che nasceva, questo grido.
E allora ciascuno di noi si è ricordato di quanto gli ha insegnato Giussani. Ciascun uomo, e anche noi, quando prende coscienza della sua umanità, capisce di essere peccatore. Noi siamo contro la società divisa a metà, tra quelli giusti ed ingiusti.
È una delle cose più schifose che hanno dominato il mondo negli ultimi anni, i buoni e i cattivi, è il ritorno del mondo dei farisei, in cui chi denuncia è sempre dalla parte del bene, e gli altri dalla parte del male.
Noi siamo dalla parte del male, siamo peccatori, come quelli che sono in galera, perché noi abbiamo sbagliato, abbiamo incontrato qualcosa di vero ma ogni giorno veniamo meno.
Ma a differenza dei giustizialisti e dei buonisti, che sono la stessa cosa, noi pensiamo che la coscienza di essere peccatori, quella che abbiamo visto nel filmato, spinge a diventare uomini.
Anzi, la prima coscienza del diventare uomini è prendere sul serio il proprio bisogno di bene, perché dire sono peccatore vuol dire io sono fatto per il bene, sono fatto per la verità, per la giustizia, e questo è dentro di me, vuol dire che io ho qualcosa di più grande del male che ho fatto.
Gesù ha detto, sono venuto per i malati, che vuol dire che voglio diventare sano, che ho un insopprimibile desiderio di diventare sano: è un anelito di tutti.
E allora sentire questa domanda di verità che nasce da questo mondo, vuol dire anche per noi metterci alla ricerca, non sentirci a posto: siamo alla ricerca di qualcuno che ci liberi dal male, come loro.
Questa è una delle opere di misericordia spirituale, visitare i carcerati, è metterci alla ricerca con loro, di qualcuno che ci liberi.
Quando io vado, capisco che ho bisogno di un cammino, che non posso essere a posto.
Già questa è umanità.
È un atto di espiazione verso di me, per tornare a riconquistare questo grido che mi caratterizza.
A qualcuno capita di fare un percorso fino alla conversione cristiana.
Il mio cuore batte per le stesse cose per cui batte il cuore di ogni uomo, fino a scoprire il cuore di questo percorso: io sono fatto, io sono creato, c’è Qualcuno al mondo che mi può liberare dal male. Capita perché si incontra qualcuno che te lo dice, come all’inizio del Cristianesimo.
Noi siamo testimoni di questo fatto, di questo incontro.
Un percorso che penetra nelle carceri e genera quei luoghi, e questo diventa un valore sociale, un valore civile, un percorso umano ed un giudizio sulla società.
Questo spinge al bene comune, che nelle carceri diventa spaventosamente evidente nel lavoro.
Si comincia a rispondere alla costituzione del proprio cuore, per questo vogliamo che il lavoro cresca nelle carceri, perché è uno strumento, per il percorso di cammino.
Quindi la CDO ha dato al Ministro una petizione per il lavoro.
Ciò che conta è il protagonismo rispetto al cuore. La vera lotta per la sicurezza è questo annuncio che rinasce e riporta al bene coloro che sono stati presi dal male.
I dati sono impressionanti anche come recidiva, ma anche questo è solo un esito.
Ciò che deve tornare a risuonare è questa fiducia del cuore.
Non è vero che la libertà nasce dalle circostanze esterne, che è figlia della società, bensì del cuore che riprende coscienza di sé, della soddisfazione più grande che è la fede quando è vissuta come esperienza personale, fuori o dentro il carcere.
In questo Meeting del protagonismo, noi vogliamo dire, con questa mostra delle carceri, e vogliamo ricordarlo prima di tutto a noi stessi, che questo è il percorso che ciascuno deve fare.
E in certi casi questo diventa clamorosamente e socialmente evidente. Grazie.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008

Luogo

Salone D7
Categoria
Incontri