LAVORARE NEL TEMPO DELLA CRISI. LAVORARE NELLA PICCOLA IMPRESA

UN CAFFÈ CON… Matteo Brambilla, Imprenditore e Stefano Sala, Amministratore Delegato PER spa. Introduce Francesco Liuzzi, Docente Scuola di Impresa della Fondazione per la Sussidiarietà.

 

FRANCESCO LIUZZI:
Ormai è tradizionale l’appuntamento con il Caffè con… Ricordo che quest’ anno il filo rosso di questi incontri è il titolo “Lavorare al tempo della crisi”, “Il lavoro al tempo della crisi”, e direi che con l’incontro di oggi la parola “crisi” troverà tutta la sua provocazione, perché oggi incontriamo due imprenditori, che quindi col tema della crisi devono fare i conti tutti i giorni. Per introdurre, io volevo solo dire una cosa che ha colpito me, nel preparare con loro l’incontro di oggi. La parola “crisi”, come sapete, viene dal verbo greco che vuol dire giudicare, e nel sentire le cose che ci siamo raccontati in questi giorni per prepararci, a me ha molto colpito come per un imprenditore stare davanti alla propria impresa soprattutto in un periodo di crisi, chiama in causa lo sguardo che uno riesce ad avere verso la realtà, come è disposto a lasciarsi provocare da ciò che accade, come è disposto ad accogliere gli aspetti costruibili della realtà anche in un momento di grave difficoltà. Quindi lavorare al tempo della crisi non è innanzitutto della buona volontà in più, ma è come conosciamo e come guardiamo la realtà. Per capire questo attraverso le testimonianze dei nostri due ospiti, diamo subito loro la parola. Ricordiamo che la modalità con cui svolgiamo questi momenti è assolutamente dialogica, per cui loro ci racconteranno un po’ della loro esperienza, e poi ci sarà assolutamente la possibilità, in maniera molto facile perché avremo a disposizione dei microfoni, di interloquire coi nostri ospiti, fare delle domande, porre delle questioni, raccontare delle cose. Per cui partiamo, e diamo subito la parola a Matteo Brambilla.

MATTEO BRAMBILLA:
Innanzitutto, mi presento, ho 53 anni e da 30 e rotti anni mando avanti l’azienda di famiglia che aveva fondato mio nonno nel 1919. Di solito dicono che la prima generazione è quella che la fonda, la seconda quella che la sviluppa, la terza quella che la fa fallire. Io ci sto tentando ma non ci sono ancora riuscito. La prima cosa che voglio dire, è raccontare il momento in cui ho deciso di fare questo lavoro. Io avevo in mente tutt’ altro per il mio futuro tant’ è che dopo aver fatto il liceo classico, mi sono iscritto a filosofia, mi sono laureato bene, e pensavo di fare tutt’ altro. In quegli anni di università avevo dato una mano a mio padre nell’azienda. Era una piccola azienda artigiana, che fra l’altro attraversava un momento di crisi. Allora c’era Taiwan, la Cina non c’era ancora, e i prodotti che noi facevamo, producevamo piccoli pezzetti meccanici, subivano una prima crisi nell’ondata di Taiwan, nella concorrenza, e l’azienda era al limite della chiusura. Per cui io a maggior ragione ero convinto di proseguire per altre cose, mi piaceva la politica per esempio. Fu così che in un colloquio con don Giussani, che avevo avuto la fortuna di incontrare e di diventare amico negli anni dell’università, mi disse: “Ma se tu continui l’azienda di tuo papà, rendi meno improbabile la chiusura della stessa?”. E io che volevo fare altre cose, per sincerità davanti a lui risposi: “Sì, meno improbabile, anche se non mi considero bravo, ma comunque meno improbabile”. Allora mi disse: “Fallo! Se questa cosa è così, falla!”. Anche perché si era accorto che in realtà a me quel lavoro piaceva. Così ci tentai, forse sono stato fortunato, e la cosa è andata avanti. Però io ho avuto già un grande insegnamento, cioè che era assoluta la volontà di difendere un bene, e anche in passaggi successivi, fui sempre aiutato a capire l’importanza della difesa di un bene che comunque c’è, grande o piccolo che sia, fragile o importante, con tanto o poco fatturato, con tanti o pochi dipendenti. Poi l’azienda si è sviluppata, per dire, da 4 dipendenti siamo arrivati a 40. Una volontà continua di costruzione. Poi un anno fa di questi tempi è successa la crisi. Adesso su questo vorrei spendere una parola, perché è un anno che tutti sentiamo parlare della crisi, però la cosa è molto differenziata, perché suppongo che ci sia almeno la metà della popolazione italiana che non sappia cosa vuol dire la crisi, o che sappia molto poco che cosa voglia dire in realtà, o che per lo meno, grazie a Dio, venga toccata poco. Noi invece siamo proprio nell’occhio del ciclone della crisi; noi quando parliamo di crisi nel mondo produttivo metalmeccanico, parliamo di aziende che come la mia hanno perso mediamente il 50% del fatturato. Capite bene che con il 50% in meno, un’azienda non può stare in piedi. E neanche la cassa integrazione salva o risolve il problema. Parliamo di aziende sull’orlo del fallimento, di gente a casa. Parliamo di una situazione estremamente grave, estremamente preoccupante. Non solo, ma di una situazione che viene da lontano, e che non ha dei precedenti storici. Perché forse l’unico paragone possibile è quello con la crisi del ’29, ma la velocità che il mondo ha acquistato in tutti questi anni fa sì che ci troviamo di fronte a un evento…. Se leggete i giornali, i grandi pensatori ed economisti alla fine della fiera non sanno prevedere nulla, anche perché hanno sbagliato tutte le previsioni…. In questo siamo uniti almeno. Per cui la sensazione di essere di fronte a un evento enorme, nel quale tu sei un fuscello in balia del vento. In questa situazione qui, non verrebbe neanche voglia di parlare, verrebbe voglia di stare zitti e lavorare, secondo un motto milanese che il mio cognome tradisce: “tasi e laùra!”. Però devo dire che, sollecitato da amici, alcune cose noi non possiamo non dirle. E la cosa da dire è questa, che questa situazione, che nessuno sa come andrà a finire, sta comunque portando a galla alcuni elementi sorprendenti, alcuni fatti di cui noi stessi siamo sorpresi. Primo fra tutti, che quando inizi a pensare che forse la tua azienda per la quale hai lavorato 30-40 anni, l’azienda del nonno, forse può accadere che tu debba piantarla lì sul serio, pensare questa cosa qui per la prima volta, tranquillamente non è una passeggiata. Però, pensare questa cosa è capire che se anche può anche andar male, puoi anche chiudere l’azienda, però non chiudo io! Per me questo è stata una grande sorpresa. Perché un conto è dirlo astrattamente, un conto è dire “può anche andar male come risultato economico”, ma non va male la mia persona. La mia persona non è nel contenuto di ciò che faccio, la mia persona è strutturalmente rapporto con qualcosa di più grande, il mio cuore desidera qualcosa di più che non avere la bella azienda, alla quale mi dedico. E questo è stata una bella scoperta, perché il vantaggio di questa drammaticità, è che con la drammaticità non si scherza, quindi non si riescono a dire balle. Ammettere questa cosa, fosse anche questo il futuro, e capire che non per questo uno si sente fallito lui, questa è una grande cosa. E soprattutto questa osservazione ci ha fatto capire di più cosa vuol dire avere un’azienda, e cioè che la verità è che l’azienda non è una cosa tua! Primo, non è mia perché innanzitutto mi è stata data, io l’ho sviluppata, ma mi è stata data. Secondo, non è tua perché oggi ce l’hai e potresti non averla. E poi il fatto che non sia tua, è il modo più giusto e più vero per guardare la natura di questa vicenda, che è un’attività economica. Attenzione, stranamente dire che guardi l’azienda come una cosa non tua, va assolutamente insieme al fatto che è responsabilità totalmente tua. La mia è un’azienda piccola, dove io comando assolutamente, non ho soci, sono il padrone, punto! Comando io, si fa tutto quello che dico io, quindi so bene cosa vuol dire avere responsabilità. Però la vita è strana, siamo fatti in modo che da un lato è responsabilità mia, ma ciò che mi sostiene proprio in questa responsabilità che sento mia (mi sento responsabile di decine di famiglie che dipendono dall’andar bene della mia azienda), è che uno si sente ultimamente più sollevato e più aiutato proprio per il fatto che lui è come se obbedisse a un compito. Quest’osservazione poi ha anche dei valori, diciamo nel modo con il quale si gestisce, perché se l’azienda non è una cosa mia, ma io servo un bene che mi è stato dato, sviluppo un bene che mi è stato dato, svolgo un compito che mi è stato assegnato, allora vuol dire che lo scopo non è accaparrare tutto quello che è possibile. Lo scopo dell’azienda non è farsi la villa in Sardegna il più presto possibile. Una volta che io ho un dignitoso stipendio ho già raggiunto un obiettivo, direi che ho delle risorse con cui guardare al futuro. Mi ricordo il dialogo con Giussani quando ero un ragazzo, e le prime volte mi diceva: “Matteo, vedi la fede determinerà il modo in cui guarderai i futuri ed eventuali utili”. Allora a me veniva da ridere, perché non avevo neanche i soldi per piangere, vivevo di debiti. Però dopo 20 anni ti trovi addosso questa educazione e diventa il modo con cui per esempio guardi le cose. Questo tipo di modo di guardare le cose, che cosa ha fatto sì? Che nel momento in cui ti è mancato il 50% del fatturato, non ti è mancato il capitale, non ti è mancato il patrimonio, perché non è stato dilapidato per utilizzi personali. Gli utili sono sempre stati reinvestiti. E questo ci ha dato una chance di forza in questa crisi, tale per cui i concorrenti che chiudevano, li abbiamo comprati. Non perché siamo più intelligenti o più bravi, ma perché siamo stati educati a guardare le cose in un certo modo.
Non so se avete notato, ma mi viene quasi di istinto usare quando racconto queste cose di usare il plurale. Uno mi ha detto: “scusa ma non hai detto che sei da solo?”, sì sono da solo nel senso che sono l’unico padrone della mia azienda. Ma non sono da solo nel senso che in tutti questi anni, ed è una cosa che per me è sempre stata un grossissimo desiderio da quando ho iniziato a lavorare, 30 anni fa, ho cercato amici che vivessero la stessa condizione, cioè essere imprenditori, spesso manifatturieri, quindi produttivi, concreti. E così si è creata, grazie a Dio, in questi anni e ancor di più adesso, un trama di amici. Per cui io ho sempre pensato, come diceva mio nonno, che le aziende e le società vanno bene in numero dispari, ma tre son troppi, quindi dovevo comandare solo io… . Io ho cambiato parere su questo, perché in questi anni è come se si fosse creato un gruppo di amici, che è come se fossero il mio vero consiglio di amministrazione. Io, tutte le scelte operative concrete, assunzioni, licenziamenti, investimenti, strategie commerciali, le ho decise con un gruppo di persone con cui si condivideva il fatto di voler vedere nel lavoro che facevamo, nella particolare condizione di essere imprenditori, l’occasione per approfondire quell’incontro che avevamo fatto negli anni dell’università. Per questo mi viene da usare il noi, e poi mi viene da usare il noi perché penso ai miei collaboratori, che siano fattorini o dirigenti, perché li sento parte e compagni di quest’avventura. Sì, perché l’altra cosa è che ti trovi addosso e ti sorprendi un modo di guardare l’umano, un modo di guardare il dipendente, il concorrente, il fornitore, il cliente, che ha dentro il desiderio di andare oltre il ruolo, di spaccare il ruolo, magari di cambiare le regole del gioco se possibile. E questa è una grande forza, perché io sono stato educato da mio padre a una certa onestà, a una certa regolarità, a un certo modo per cui la parola è una cosa che conta, e queste sono cose utili e importanti, ma ancora di più è questa volontà come di spaccare… questo fatto che tu guardi il dipendente, il fornitore, il concorrente, il cliente, come una persona, fatta come te, che desidera le stesse cose, e non puoi non volere essere suo compagno.
Vi racconto una cosa freschissima, ed è che per una conoscenza ho incontrato un mio concorrente, un’azienda che anche lei da tanti anni fa il nostro lavoro. Ci siamo incontrati, ci conoscevamo a distanza, sapevo chi era, ecc… lui in difficoltà molto grosse; quest’uomo è rimasto sorpreso dal tipo di rapporto, perché cercava di inquadrarmi e di dire: “dunque tu sei un amico di un mio conoscente, vieni qui…”, cioè cercava di mettermi addosso il ruolo, invece non avevo addosso nessun ruolo, avevo iniziato a rapportarmi con lui come con uno che come me era in difficoltà, forse in difficoltà più grosse. Poi ho detto “secondo me devi fare così così così…”, lui poi aveva un parere diverso e l’ha fatto. È rimasto sorpreso dal fatto che ha fatto la sua strada. Quando dopo un paio di mesi si è ravveduto e la sua strada non funzionava, è tornato da me e io, come se fosse il giorno prima, gli ho detto: “guarda se vuoi possiamo fare insieme questa cosa”. Morale, la faccio breve: veramente, è stata un punto di forza in una trattativa che poi è diventata una trattativa commerciale, la stima vicendevole, per uno sguardo all’umanità, un modo di rapportarsi con le cose e le persone, di un certo tipo. Questo ha fatto sì che la sua azienda non fallisse, ne salvassimo una parte e adesso lavoriamo insieme. Un tentativo che è una scommessa freschissima, di 15 giorni fa. Io non so se ce la faremo, non so quello che succederà, ma quello che so è la sostanza delle cose dette, che in estrema sintesi è questa: non è che uno sia più bravo, più intelligente, più forte, più capace, per l’amor del cielo! Uno semplicemente si trova addosso la forza di un incontro fatto, si trova addosso, un patrimonio che gli è stato dato, e va dietro a quello che veramente è la nostra ricchezza. Grazie!

FRANCESCO LIUZZI:
Ringraziamo tantissimo Matteo per le cose che ci ha detto. Mentre lui parlava mi sono segnato alcune espressioni: “Può chiudere l’azienda ma non chiudo io”, “Il vantaggio della drammaticità”, “l’azienda non è una cosa tua ma è una tua responsabilità”, “la mossa di cercare degli amici che diventano il primo consiglio di amministrazione”… anche questi punti che tu ci hai detto mi sembra introducano il tema che costruire un’impresa e farle attraversare il periodo di crisi diventa il problema di come uno guarda la realtà e di come uno ci si appassiona. Quindi grazie! Penso che ci siano molti spunti per riflettere, per andare a fondo. Adesso diamo la parola a Stefano Sala che ringraziamo tantissimo e che ci racconterà un po’ di cose della sua esperienza più o meno recente.

STEFANO SALA:
Bene! Grazie dell’invito! In realtà sono un po’ in imbarazzo perché in realtà io non sono un vero imprenditore, sono imprenditore da soli due anni, e quindi due anni non sono nulla per dire se sarò un imprenditore per davvero. E poi come dice il titolo dell’incontro, non sono neanche un imprenditore di successo, perché dopo soli due anni sto parlando del lavorare nel momento della crisi. Il tempismo con cui ho deciso di fare l’imprenditore è particolarmente significativo. Comunque, io come dicevo non sono nato imprenditore, né sono imprenditore di famiglia, anzi per tanti anni sono stato manager di un’impresa. Noi lavoriamo in un settore molto particolare, che adesso mi dilungo in un minuto a raccontarvi, perché è particolare: c’erano solo due aziende nel mondo che facevano questo mestiere e io insieme a due amici ho deciso di fare la terza, non so se imprudentemente o meno. Noi facciamo servizi per le aziende e per i privati, dopo che questi soggetti hanno avuto problemi di alluvioni o di incendi. Quindi questo spiega molto bene cosa facciamo, noi lavoriamo quando gli altri hanno avuto qualche sfiga, questo è il nostro business… non so quanti in questo momento fanno gesti di scongiuri…
Io lavoravo in un’azienda svedese, una delle due che faceva questo mestiere, e ho lavorato per tanti anni, anzi direi che sono cresciuto in questa azienda, ho imparato cosa vuol dire fare il manager, ho imparato un metodo di lavoro e, checché se ne dica in giro, il metodo di lavoro che si impara in una multinazionale è assolutamente utile per sempre. Per esempio una certa attenzione ai numeri, perché ogni lavoro deve fare i conti con i numeri. E chi non fa i conti con i numeri, prima o poi qualcun altro li farà per lui, quindi questo l’ho imparato in un’azienda di questo tipo. Quest’azienda, però, nel corso degli anni, ha subito delle trasformazioni e, per farvi capire, io sono stato in questa azienda dal 1995 al 2007, facendo il responsabile di questa filiale italiana. Verso la fine, sono cominciate ad arrivare dalla casa madre domande sempre più pressanti, per esempio: “Questa settimana hai fatto un fatturato che è l’8% in meno della stessa settimana dell’anno scorso, spiegami perché!”. Soprattutto per un’azienda come la nostra che lavora su eventi eccezionali non è facile da capire… diciamo che tutti gli effetti della crisi che vediamo oggi, cioè di un’eccessiva finanziarizzazione delle imprese, l’ho cominciato a tastare sulle mie spalle. Nella nostra azienda, per esempio, vigeva una regola che viene chiamata in inglese free man’s crystal ball, cioè la regola aurea di questa multinazionale era: tu devi fare sempre meglio del trimestre precedente. Se per due trimestri di fila non fai meglio del trimestre precedente, sei in crisi, se sei in crisi vuol dire che devi tagliare i costi. Quindi mi sono trovato nella situazione di avere un’azienda con tanti utili, ma siccome aveva la sfortuna di avere utili più bassi del trimestre precedente, ero nella situazione di dover tagliare i costi, e questo sinceramente mi sembrava poco realista rispetto a un’azienda. Ma il fattore che mi ha fatto decidere di fare l’imprenditore è questo: un certo anno, nel 2007, nella prima parte dell’anno, siamo riusciti a prendere un lavoro molto importante, un lavoro che da solo valeva il 50% del fatturato dell’anno. Io ero molto orgoglioso di questa situazione, certo che questo lavoro, essendo così grande, avesse un margine di contribuzione, cioè l’utile che generava il lavoro, un po’ più basso dei lavori tradizionali. Siccome il lavoro eccedeva il mio potere di firma, sono andato dal presidente dell’azienda, molto orgoglioso: “guarda che bravi siamo stati, abbiamo preso un lavoro e abbiamo fatto già metà del budget a gennaio”. Il presidente mi guarda e dice: “Stefano, io ti ringrazio molto, ma siccome questo lavoro ha un margine basso, il giorno in cui tu lo finirai e dovrai fatturarlo in quel mese, avrà un utile percentuale sul fatturato più basso. Quindi questo lavoro non ci interessa”. Voi scherzate, ma questa è la realtà della aziende…
Allora lì ho capito che quest’attenzione ai numeri, pur avendo una partenza giusta, riduceva l’ampiezza dell’azienda. Mi sono detto insieme ad alcuni amici che lavoravano con me: ma questa non è un’azienda! Un’azienda, come diceva Matteo prima, non è soltanto il risultato dei suoi numeri, un’azienda deve avere un bene di lungo periodo, deve poter sviluppare, poter creare le premesse per la sua presenza in futuro. Un’azienda non è una mucca da mungere nel breve termine! E allora con un po’ di peripezie che non sto a raccontarvi, sennò la faremmo troppo lunga, insieme a qualche decina di collaboratori abbiamo fatto quello che viene chiamato uno spin off, che significa sostanzialmente staccare da quest’azienda delle persone e farne una nuova. E così abbiamo fatto. Così è partita questa azienda nuova. Però mi interessava farvi capire che la molla per fare l’imprenditore mi è nata non da una particolare vocazione. Ma mi è nata dall’osservazione della realtà, che il modo con cui stavo lavorando, era un modo che in fondo andava contro me stesso.
Allora abbiamo fatto quest’azienda nuova che fa lo stesso mestiere e siamo partiti. In questi due anni sono successe tante cose. La prima cosa che ho capito è che a fare l’imprenditore bisogna imparare, non è che siccome uno ha fato il manager allora sa fare l’imprenditore, bisogna mettersi a scuola, bisogna imparare. Allora questi due anni sono stati anche l’avvicendarsi di errori e riprese. Per esempio, abbiamo subito avuto la fortuna di avere un lavoro molto grosso, questa volta l’abbiamo preso, anche se aveva un margine più basso. Ho fatto subito l’errore di pensare che lo start up fosse finito, e quindi abbiamo cominciato a spendere come se fossimo un’azienda già avviata. Invece questo non era vero, quindi adesso siamo stati costretti a tornare un po’ indietro. Per esempio un’altra cosa che ho capito è che tra un utile lordo e un utile netto, c’è una bella differenza. Voi dite “lo sappiamo tutti”. Mi ricordo ancora il primo anno, 2007, abbiamo chiuso facendo un utile lordo di 125.000 euro, per essere il primo anno… utile netto 25.000! Forse non tutti sanno, io non lo sapevo, che l’incidenza dell’Irap, che è la tassa per cui il costo del lavoro non è deducibile, sugli utili molto bassi incide tantissimo. Quindi io il primo anno ho avuto tasse per il 75% del valore; io non sono un politico, ma credo che dal punto di vista morale, questo sia un fatto da correggere.
La seconda cosa di cui mi sono accorto è questa, che il rapporto con le banche è un rapporto molto particolare. La prima cosa che tutte le banche hanno cominciato a dire, quando sono andato a chiedere dei soldi per poter cominciar l’azienda, è “va bene, noi ti prestiamo dei soldi, ma tu che garanzie ci dai? Dacci le tue fideiussioni!”. E questo è un caposaldo che noi abbiamo voluto fare, cioè: un conto è l’azienda, un conto è il patrimonio personale. Occorre non mischiare le due cose, quindi abbiamo fatto la fatica di dire “questo è il mio progetto imprenditoriale, dateci una mano a partire da questo progetto”. Allora cosa accadde, che tutte le banche, e questo è un altro punto di lavoro secondo me, tendono, se tu non dai fideiussione, a finanziare soltanto il circolante, quindi a darti dei soldi a fronte di fatture che tu stai emettendo. Questo ha fatto si che io dovessi fare tutti gli investimenti, l’acquisto delle attrezzature – noi abbiamo dovuto comprare più di 500.000 euro di attrezzature per fare il nostro business – tutte finanziate dal capitale di breve termine. Quindi la mia azienda è squilibrata finanziariamente su breve termine. Secondo me anche qui occorre trovare un modo perché le banche si fidino di più delle aziende e le aziende si fidino di più delle banche. Occorre trovare dei modi in cui questo possa accadere in maniera più realistica. Ma la cosa decisiva di questi due anni è che tutto questo percorso fatto di errori, di riprese, è tutto stato dentro, come diceva anche Matteo, dentro l’amicizia con degli imprenditori più adulti di me, di chi essendo già passato da queste cose mi ha aiutato a guardare all’azienda come qualcosa da cui imparare. Guardate, penso che anche molti di voi molto spesso abbiano un concetto di amicizia per cui uno lavora tutto il giorno, si fa un mazzo, poi alla sera per riposarsi c’ha gli amici per andare a giocare a tennis… per carità, ce li abbiamo tutti…. Io ho imparato in questi due anni che l’amicizia vera non parte dallo svago, ma l’amicizia parte dal condividere il tuo bisogno particolare. Quindi in questi due anni, proprio attraverso tutte le difficoltà che ho vissuto da imprenditore normale, ho imparato il valore degli amici che già avevo, che si sono coinvolti con me nel particolare della mia azienda e mi hanno gratuitamente aiutato a crescere. E quindi io oggi sono conscio del bene che ho ricevuto, molto di più che se neanche questi fattori di difficoltà non fossero accaduti.
Quando ho cominciato l’azienda ho fatto un consiglio di famiglia. Una sera parlando a casa io ho detto: “avrei intenzione di far questo…”. E mi ricordo ancora e me lo tengo sempre presente, i miei due figli, il grande dice: “ma sì papà, mi sembra una bella cosa, falla!”; la figlia piccola dice: “papà ma sei sicuro, i nostri soldi che abbiamo messo via in questi anni, rischiamo di perderli, cosa facciamo…”. A questo punto interviene ancora mio figlio grande cercando di difendermi: “ma Paola, non preoccuparti, solo i cretini falliscono!”. Mi sono messo le mani nei capelli: così se fallisce l’azienda non solo fallisce l’azienda, ma perdo anche la considerazione della mia famiglia! Però questo mi fa tornare al terzo punto di oggi. Che oggi, come diceva anche Matteo, siamo dentro la crisi, siamo dentro una situazione in cui il fatturato cala e quindi in questo periodo io sto imparando sostanzialmente due cose. La prima che non bisogna essere buonisti, che se il fatturato cala e non si riesce a sostenerlo, bisogna tagliare i costi. È falso cercare di salvare capra e cavoli, perché cercando di salvare capra e cavoli rischiamo tutti di andare a fondo. Questa è una cosa che ho imparato. Della seconda cosa devo ringraziare sia i miei soci sia i miei colleghi, perché quando ci siamo trovati nella situazione di dover tagliare i nostri costi del 20-25%, c’erano due grandi chance, una era quella di tagliare il 20-25% del personale, l’altra era quella di dire: cerchiamo di tagliare tutti un costo medio del lavoro del 25%. Allora i miei consulenti mi dicono: “sì Stefano, questa è una tua grande idea, ma questa idea non è realizzabile senza il consenso di quelle altre due persone”. Allora mi ricordo ancora che circa qualche mese fa mi trovo insieme ai miei colleghi e, anche lì giocando a carte scoperte, perché la situazione di difficoltà fa giocare a carte scoperte, ho detto: “ragazzi la situazione di difficoltà è questa, questi sono i numeri, questa è la situazione, io vi chiedo di rinunciare a una parte importante del vostro stipendio”. E la cosa che mi ha colpito è stata che tutti i dipendenti, eccetto uno, hanno detto: “volentieri, anzi ti ringraziamo che invece di passare per la via maestra per la quale tutti gli imprenditori passano, dicendo di ridurre il personale, hai accettato di tenerci a un prezzo più basso”. E questo ha portato un livello di gratitudine e un livello di coinvolgimento con le sorti dell’azienda che non avrei mai immaginato potesse accadere. Quindi io credo che questo concetto per cui gli imprenditori sono seduti da una parte, e i propri dipendenti son seduti dall’altra, è un concetto ormai astratto. Siamo in fondo dentro reciproci ruoli, perché io sono un imprenditore, se l’azienda perde i soldi ce li metto io. Io credo però che se vogliamo passare a un nuovo modo di risolvere la crisi, occorre riconoscere di fatto che l’impresa è una grande comunità di persone, che è insieme per rispondere a un bisogno. E che quindi in fondo gli imprenditori e i dipendenti, da questo punto di vista, hanno ruoli diversi dentro una grande opera comune, che è quella di costruire una risposta a un bisogno originale, che se tal azienda non ci fosse, verrebbe a mancare. In questo senso io credo che tutti noi, in qualche modo, collaboriamo a creare qualcosa che, se noi non ci fossimo al mondo, mancherebbe. Grazie!

FRANCESCO LIUZZI:
Ringraziamo tantissimo anche Stefano. Mi sembra evidente che le due testimonianza di oggi abbiano una portata culturale impressionante. Io mentre li ascoltavo sono rimasto impressionato dal fatto che in quello che loro han detto riverberi molto delle frasi che si posso trovare nell’enciclica appena uscita. Ad esempio uno dei punti di insistenza della Caritas in Veritate è che fare impresa e fare affari ha dentro di sé una dimensione ineludibile di gratuità. E questo sembrerebbe quasi impossibile a leggerlo, ma mi sembra che le esperienze che ci sono state raccontate oggi, facciano vedere come in un avvenimento questo sia possibile e umanamente gustoso. Mi sembra che sia il caso di approfittare della presenza di Matteo e di Stefano per porre delle domande, raccontare delle esperienze, provocare ancora i nostri ospiti a raccontare di sé. Quindi abbiamo due microfoni che senza indugi vi inviterei a utilizzare. Altrimenti ne approfitto io…. Allora le cose che voi avete raccontato mi suscitano due domande, una per Matteo: vorrei che tu ci aiutassi ad andare un po’ più a fondo della frase che hai detto: “se chiude l’azienda, non chiudo io”. Qual è il punto che permette di dire questa frase che poi rilancia uno slancio di entusiasmo e di generosità rispetto alla responsabilità che hai?

MATTEO BRAMBILLA:
Innanzitutto io questa cosa l’ho vista in un amico. Per me è stata negli anni scorsi una delle esperienze più impressionanti, vedere un amico che aveva un’azienda importante a Milano, che era attiva da 130 anni, e che dopo averle tentate tutte, ha dovuto tirar giù la cler. Mi ha impressionato vedere che non si sentiva un fallito lui, non solo, ma che tirata giù la cler di un’azienda già di medie dimensioni, si è preso il marchio ed è ripartito da un’altra parte. A me veniva voglia di dire: “ma chi te lo fa fare, hai 60 anni compiuti, sei una persona che sta bene, che non muore di fame, chi te lo fa fare?”. E invece è stata una testimonianza di una volontà di costruzione che è l’espressione dell’esigenze della persona, e dunque espressione anche dell’esigenza mia. Potrò andar male da una parte, riparto dall’altra. Come l’acqua: l’impeto di un torrente lo fermi da una parte, gira dall’altra. E questo perché noi siamo fatti così! E scoprire questa cosa qui, è una bella cosa. Poi quando ho incominciato a pensare: “ragazzi qui va male veramente, possiamo anche prepararci al peggio”, sentire da un lato il peso del dramma, e sentire dall’altro che la vita non finisce, è stato grande. Io credo che tutti, lavoro o non lavoro, la vita costringa ad affrontarla, a viverla. Ma il bello è scoprire che noi siamo fatti per la vita, siamo fatti per la continuità, siamo fatti per l’assoluta voglia di riprendere e di continuare. Vada come vada… e quest’osservazione scatena le energie, cioè il riconoscimento di una cosa più grande nella vita, che va oltre, scatena la voglia di aderire e di mettere le mani nel particolare. Questo è quello che mi ha sempre colpito, la volontà di darsi da fare di più, di combattere di più. Il senso del limite suscita le energie, non è vero che le blocca, libera le energie.

FRANCESCO LIUZZI:
Invece a Stefano vorrei chiedere questo, so che oltre a questa attività imprenditoriale molto sfidante sei anche impegnato in una cosa che si chiama banco informatico. Allora mi interessava capire come le due cose stanno dentro la tua esperienza, come dialogano, e come si arricchiscono reciprocamente.

STEFANO SALA:
Io credo che l’uomo è uno, io ho il desiderio sia di fare la mia azienda sia di mettere a disposizione quel che sono per chi ha bisogno. Quindi il concetto di profit e non profit è un concetto che esiste giustamente, perché ci sono le opere profit e le opere non profit, però tendenzialmente la persona è una, e in questo senso leggendo un pezzo di enciclica mi ha molto colpito leggere che anche nell’azienda più profit che esista questa distribuzione di servizi, questa risposta a un bisogno ha dentro il massimo della gratuità, e questo mi ha sempre colpito. Il banco informatico è nato proprio da un’esperienza di lavoro. Nella mia azienda precedente fummo interpellati per sistemare i computer del grattacielo Pirelli della Regione Lombardia, quando quel piccolo aereo da turismo entrò dentro il grattacielo. E quindi la Regione a quel tempo disse: “ma si vi do quei computer lì, se volete teneteli”. Una volta che noi avevamo salvato i dati, a loro non interessavano più i pc. A quel punto io avevo questi pc nel magazzino che non sapevo utilizzare, quando monsignor Panizza di Lima, dell’Università cattolica di Lima, mi disse: “sai noi abbiamo fatto qui l’università, abbiamo tanti studenti, ma pochi computer”. Allora gli ho detto che gli davo quelli che avevo. Una sera tra amici, pensandoci, a uno, non a me, è venuta l’idea: “ma perché non troviamo il modo sistematico di raccogliere dalle aziende i computer che cambiano, che non usano più ma che ancora possono essere funzionanti, non li mettiamo a posto e li doniamo a quelle realtà non profit che avendo già pochi soldi, quei pochi che hanno li usano per la loro attività sociale e non per comprare l’attrezzatura?”. E devo dire che in questi due anni questa attività non profit ormai è un secondo lavoro, alla fine è un’azienda uguale, solo che non profit, ma chiede lo stesso tempo. Quello che mi ha aiutato è che questa responsabilità di questa azienda non profit mi fa cogliere di più il mio valore di gratuità nel mio lavoro normale. E devo ammettere che ne ho avuto anche un beneficio professionale. Non so se fate anche voi la stessa esperienza, ma soprattutto nei rapporti di lavoro normali con i fornitori, con i clienti, io mi accorgo che si riesce a stabilire un rapporto duraturo non solo perché tu fai una cosa che serve, evidentemente, ma perché tu capisci che quello che hai davanti è un uomo come te, ed essendo come te ha gli stessi bisogni che hai tu. E quindi tanto più tu riesci, perché ti interessa, a creare un rapporto duraturo con lui sulla vita, tanto più questo crea un legame anche professionale maggiore. Quindi mi è diventato normale quando sono in giro, purtroppo, dire agli imprenditori: “se ti affidi a me, rapidamente uscirai da questa situazione di crisi”. Mi sono accorto che quello che a me interessa è proporre me stesso, e proponendo me stesso propongo anche tutte le opere di cui in qualche modo sono a conoscenza, e da cui sono stato toccato. E quindi questo crea un legame che qualunque attività solo profit non è mai riuscita a costruire.

MATTEO BRAMBILLA:
Francesco, devo dire che sono stato colpitissimo da questa cosa, perché con Stefano siamo amici, ci conosciamo, ma non ci frequentiamo molto, ci siamo conosciuti non da molto tempo e la cosa che mi ha impressionato è vedere che il modo in cui tu parlavi della cosa è esattamente il modo con il quale da anni io opero e mi facevi pensare, quando dicevi che c’è un imparare a fare l’azienda, un imparare a fare il lavoro, quando 30anni fa eravamo pochissimi, ma don Giussani a me e certamente a Marco Montagna disse: “no, fai l’imprenditore”. Attenzione, allora il contesto era diverso, per cui fare l’imprenditore era visto con sospetto, con un cattivo giudizio generale. E mi sorprende il fatto che con gli anni si siano veramente scardinati alcuni luoghi comuni, alcune regole intoccabili. C’è una trama stabile di rapporti, il club degli imprenditori all’interno della CdO è nato per rendere stabile questo livello di aiuto. C’è proprio un modo, un punto di vista culturale, un giudizio su tante cose. Ci si trova insieme per discutere la concezione dell’azienda, su come fare con i dipendenti, su questo e su quell’altro. E’ veramente sorprendete. Mi piacerebbe che questa forza determinasse anche dei giudizi sociali e perché no politici, che qualcuno facesse delle leggi un po’ meno disgraziate di quelle che ci sono.

FRANCESCO LIUZZI:
Per fare domande, porre questioni o solo reagire a quello che è stato detto, basta alzare la mano, vi verranno portati i microfoni.

DOMANDA:
Ivana di Castelfranco Veneto. Io voleva raccontare un episodio che mi accaduto in questi giorni e chiedere un giudizio. E’ accaduto che un nostro concorrente – settore autovetture – è fallito e quindi ha chiuso tutto, aveva anche delle filiali nel Veneto e due/tre giorni fa ha chiamato per avere delle informazioni commerciali. Io ho risposto e ho detto: “chi devo dire?” e lui ha risposto: “Beh gli dica che sono il papà della Francesca”. Ha me ha colpito moltissimo perché dentro un fallimento dell’azienda, dentro il fatto che l’azienda vada male soprattutto in questo periodo di crisi, è come se il giudizio sulla persona valesse per come va l’azienda. Volevo capire che cosa toglie questo giudizio con il quale noi guardiamo a queste persone, che cosa può togliere il fatto che la persona non vale per ciò che fa.

STEFANO SALA:
Nelle multinazionali i concorrenti sono come in una partita di tennis, dove c’è un avversario che devi battere e spesso il concorrente diventa un nemico, per cui bisogna fare meglio del concorrente, bisogna cercare di vincere, come se alla fine tutto fosse come un gioco ed io stesso essendo parte di questo gioco, ero così, cioè vedevo in questo modo i concorrenti. Devo dire che adesso da imprenditore vedo le cose diversamente, vedo che tutti hanno un ruolo nella vita, per cui anche il mio concorrente deve vivere, che anche lui sta facendo il suo lavoro. Il mio è un settore molto particolare, dove non esiste neanche una associazione di categoria, io mi sono fatto fautore con queste due/tre aziende e ho detto: “sentite, ma perché dobbiamo sempre farci la guerra così? Proviamo, nel rispetto dei ruoli a lavorare insieme, e se dobbiamo farci la guerra, almeno decidiamo le regole”. Io credo che la differenza la fa l’umano, la differenza la fai tu che sei lì dentro. Io ho molto cambiato in questi ultimi due anni il rapporto che ho con i miei concorrenti: anche loro hanno bisogno della stessa cosa di cui ho bisogno io, quindi in qualche modo cerchiamo di stare insieme, di lavorare, e chiaro che è un cammino lungo, però io credo che lavorare non sia un gioco, e neanche un gioco dove io devo vincere e tu devi perdere. Questo gioco al massacro va bene per chi vuol giocare. Quando uno vuol fare sul serio, capisce che alla fine è insieme a qualcuno.

DOMANDA:
Andrea Casadei per Matteo Brambilla: nella sua esposizione ha detto che per tanti anni ha pensato a capitalizzare l’impresa, mentre tutti gli imprenditori erano abituati a capitalizzare la propria famiglia, cioè se stessi, dove essere vincenti voleva dire avere una bella macchina o la casa. Qual è stato il motivo che le ha permesso di continuare?

MATTEO BRAMBILLA:
L’educazione che avevo ricevuto e la sfida che mi era stata proposta quando avevo iniziato a fare l’imprenditore; la storia di educazione era iniziata con i miei genitori e quindi con un senso della realtà molto concreto. L’educazione ricevuta dalla famiglia, certamente, l’educazione ricevuta negli anni dell’università a far sì che la riuscita della persona non fosse misurabile in termini economici e l’idea di servire una cosa che ti è stata data e non è tua; questo è. Devo dire che non mi è mai mancato nulla; non è mai mancato nulla credo alla mia famiglia, ma questo senso del limite mi ha fatto venire più voglia di lavorare, mi ha fatto sentire più libero quando le cose erano più difficoltose, mi ha fatto sentire più libero quando le cose andavano meglio, mi fa stare meglio oggi da tutti i punti di vista, psicologico ed economico; quindi direi che è stato un buon insegnamento. La fortuna di aver incontrato qualcuno che mi ha educato in certo modo, che mi ha dato un’ipotesi di lavoro e che mi ha fatto scoprire che era assolutamente pertinente all’azienda e al trattare i quattrini.

FRANCESCO LIUZZI:
Abbiamo tempo ancora per una domanda se vogliamo.

DOMANDA:
La cosa che è stata detta più spesso sulla crisi è che è dovuta a un venir meno della fiducia, cioè della possibilità di costruire dei rapporti veri nell’azienda. Come uscirne?

STEFANO SALA:
Innanzitutto speriamo che stia passando perché fino adesso ancora non si vede tanto. La fiducia nasce dal fatto che non sono solo con chi ho davanti. La fiducia si costruisce sul desiderio del bene di chi hai di fronte, chiunque esso sia.

MATTEO BRAMBILLA:
La fiducia è un dato strutturale di cui magari non si parlava, ma se si pensa bene, è la promessa di qualunque tipo di rapporto costruttivo. Il nostro compito è quello di rendere esplicita questa cosa e di capirne il valore economico. La fiducia è la premessa di rapporti economici migliori per poter fare meglio gli affari. Coloro che credevano che l’umanità fosse una cosa ma l’economia, il lavoro e l’azienda un’altra, hanno sbagliato, si è dimostrato che hanno sbagliato. Il fattore fiducia è fondamentale nel rapporto con la moglie, col figlio, con l’amico; è fondamentale nel rapporto economico; il rapporto economico è un rapporto umano, dove la persona nella sua globalità agisce e interagisce; quindi è giunto il momento di scoprire come siamo fatti. Questa paradossalmente è una grande occasione.

FRANCESCO LIUZZI:
Ringraziamo Matteo Brambilla e Stefano Sala per le cose importanti che ci hanno detto. Arrivederci.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2009

Ora

13:45

Edizione

2009

Luogo

PAD. C1
Categoria
Focus