LA VITA: ESIGENZA DI FELICITÀ. TESTIMONIANZE

La vita esigenza di felicità. Testimonianze

Partecipano: Elvira Parravicini, Neonatologa e Assistente di Clinica Pediatrica alla Columbia University di New York; Orlando Carter Snead, Direttore del Center for Ethics and Culture della Notre Dame University. Introduce Andrea Simoncini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.

 

La vita: esigenza di felicità. Testimonianze.

DATA:
Venerdì, 24 Agosto 2012

ORE:
Ore 15.00

PARTECIPANO:
Elvira Parravicini, Neonatologa ed Assistente di Clinica Pediatrica alla Columbia University di New York; Orlano Carter Snead, Direttore del Center for Ethics and Culture della Notredame University.
Introduce: Andrea Simoncini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università di Studi di Firenze.

MODERATORE:

Buonasera, Benvenuti a tutti a questo incontro che ha per titolo la vita: esigenza di felicità. Testimonianze, spero, mi pare sia questo o comunque questo tema ci porta direttamente al cuore del titolo del Meeting di Rimini di quest’anno perché Meeting di Rimini non ha mai avuto paura di mettere a tema questioni decisive, ma forse quest’anno abbiamo raggiunto un punto di non ritorno da questo punto di vista. Perché il tema che vogliamo affrontare questa sera rieccheggiando il titolo generale del Meeting, proprio questo, qual è la natura, il valore della vita umana? Qual è il bene per ciascun uomo e dunque il suo valore? Io, nella breve introduzione che farò,vorrei partire proprio da quest’idea: associare al tema del meeting la natura dell’uomo, la sua aspirazione all’infinito associare al titolo del meeting come questa qualità, l’idea di valore. Perché oggi la parola valore, il tema valore, è estremamente di moda. Tutti si pongono il problema di come creare valore, di come aggiungere valore, di qual è il valore di una economia, di uno scambio, di un di un oggetto, di un servizio. Ecco, in generale, il termine valore sta proprio indicare questo diciamo la potenzialità di scambio una cosa, cosa daresti in cambio di un’altra cosa, il valore di una cosa è cosa sei disposto a dare per averla. Dunque, la domanda, se mettiamo a tema l’uomo e la vita umana è “cosa darà all’uomo in cambio di se stesso?” potremmo formularla così, anche se questa formulazione non è mia, come qualcuno avrà forse intuito, cosa cosa può l’ uomo dare in cambio di sé? oggi ci sono due idee molto chiare e molto distinte su quale sia il valore che noi possiamo dare alla vita umana e all’uomo nella sua natura. Ce n’è una che io direi dominante diffusa molto pervasiva e secondo questa prima idea che si contrappone in maniera estremamente aperta l’un contro l’altra armata, ad un’altra idea che vedremo. Secondo questa prima idea, ripeto dominante, diffusa, il valore della vita è misurabile, il valore della vita è, consiste in una misura, in una quantità, in qualcosa. Tutto ha un prezzo secondo uno slogan, fondamentale per il mondo del business e, dunque, è possibile creare una scala di soddisfazione nella vita, una scala di valori – più valore, meno valore – perché esiste qualcosa di definito, di finito, rispetto al quale io posso considerare il valore della mia vita, o della vita di un altro. E normalmente questo qualcosa con cui si identifica il valore di una vita, questa misura con cui si cerca di delimitare che valore ha la persona é la sua capacità di produrre cambiamenti, é la sua capacità, il valore di una vita è quanto questa vitale è capace di interagire, modificare e cambiare aggiungere, togliere all’ambiente in cui si trova. Con una parola sintetica é la capacità, cioè il potere, potere in senso non sto parlando adesso in termini politic,i il potere, cioè il valore di un uomo, di una donna, il valore di un essere umano é nella sua possibilità di modificare e di produrre cambiamenti, dunque in questa potenzialità, questo potere e, dunque, alla fine il il metro di misura di questo potere, il metro di misura di questa capacità, è facile immaginare qual é. E’ la capacità economica, é la capacità politica, la capacità sociale cioè secondo una prima idea al valore dell’uomo, il valore della vita, è qualcosa di riducibile ad un oggetto. E l’identificazione con quell’oggetto, produce il valore della persona, un’obiezione si potrebbe levare, ma c’é lo spirito negli uomini, c’è anche lo spirito, c’è il desiderio, c’è l’anima Javier Prades con la sua relazione, ci ha detto quanto in questa prima accezione in questa prima idea questa possibile obiezione oggi venga distrutta dall’idea che anche lo spirito, anche il desiderio, non è nient’altro che un prodotto chimico, cioè un prodotto di cose prodotto di scambi particolari di tipo bio-chimico che avvengono all’interno del cervello, dunque, alla fine, l’uomo, per usare l’espressione di Javier citando Francis Crick “non sei altro che un mucchio di neuroni!”. In questa idea anche l’aspetto spirituale dell’uomo, il valore spirituale dell’uomo, alla fine é misurabile. È una misura. La nostra esperienza cosa dice di questo, questo é il secondo ed ultimo punto della mia introduzione, la nostra esperienza umana cosa dice di questo? A noi va bene questa definizione?La cosa che mi ha colpito dall’introduzione che ha fatto Prades e che lui non ha contrapposto a questa concezione, il valore dell’uomo misurabile, un’altra idea, è partito dall’esperienza umana. L’esperienza umana cosa dice? sente sufficiente questa definizione? E è questo il punto forse più interessante: é l’esperienza che grida no. E’ l’esperienza umana che dice, che ci dice, che non esiste cosa, non esiste oggetto, capace di colmare il bene dell’uomo, capace di definire bene dell’uomo, perché la natura dell’uomo stesso della vita umana è desiderare qualcosa di infinito cioè non misurabile. E’ qui tutta l’alternativa: misura o infinito. Regola o apertura. Tutto, la musica rock, la letteratura, la scultura, e così quelle le mostre che abbia visto, tutto grida che l’uomo non accetta questa riduzione del suo valore a qualcosa di misurabile e dunque di scambiabile. Nessun uomo accetta questo. Allora il metodo, con cui noi vogliamo affrontare il tema di questa sera è esattamente questo: é provare a parlare del valore della vita, del valore dell’uomo, partendo dall’esperienza. Non proponendo un’altra visione antropologica che si contrappone quest’idea dominante, ma partendo dall’esperienza che l’uomo ha di sé e che l’uomo ha dell’altro uomo. E’ quello che vogliamo fare oggi osservare l’esperienza, ma, e questa la particolarità dell’incontro di stasera, quando, ecco questa è la è la cosa che mette insieme così arrivo presentarli i nostri due relatori, perché noi vogliamo provare questa sera ad osservare la vita umana, l’uomo, il suo valore, in un momento particolare, che é il suo inizio, l’inizio dell’avventura la nascita, la fase proprio, la primissima fase in cui questo essere nasce, la fase neonatale. Perché? Ascolteremo perché, è molto interessante e per questo il titolo è “Testimonianze”. Ciò non tanto per proporre una particolare teoria antropologica, o porre, contrapporre ad un’idea un’altra, ma per cercare di essere aiutati da due persone, che in maniera diversa tra di loro però, hanno a che fare con esattamente questa fase dell’esperienza umana, questo momento dell’esperienza umana, chiedergli cosa vedono, cosa osservano e se, dunque, il valore della vita dell’uomo sia misurabile, riducibile ad una quantità oppure se questa idea del Meeting che la natura dell’uomo è un valore infinito -perché se é infinito ciò che desidero il mio rapporto uno su infinito è infinito- e chiedere loro dal punto di vista specifico della loro esperienza quale giudizio ci aiutano a dare, e se è vera questa ipotesi del Meeting da cui siamo partiti, che la natura dell’uomo sia questa sua apertura all’infinito. Chi abbiamo invitato questa sera per affrontare il tema.. La prima, alla mia destra é la dottoressa Elvira Parravicini; la dottoressa Parravicini è neonatologa, assistente di clinica pediatrica alla Columbia University a New York, laureata e specializzata in Italia, è uno dei nostri cervelli in prestito agli americani -speriamo ce li restituiscano-; nel 1994 si è trasferita a New York per lavorare, appunto, alla Columbia University Medical Center e la sua attività, come ascolteremo, si concentra particolarmente proprio su questa fase iniziale della nascita e dei problemi che molto spesso accompagnano questa. L’altro ospite che abbiamo -possiamo dire un volto noto, un amico già già sperimentato del Meeting- è il professor Carter Smith dell’Università di Notredame; l’area principale di ricerca di Carter è la public bioethics, quindi proprio i temi connessi all’inizio o alla fine della vita, ma lui è un professore di legge, di politiche pubbliche e quindi il suo background non è quello del dottor ma quello dell’esperto delle politiche, delle istituzioni e delle regole; ha sempre seguito questi temi e, in particolare, va ricordato nel suo curruculum il fatto che dal 2002 al 2005 è stato il Segretario generale del Consiglio per la bioetica del Presidente Bush, che è stato un organismo particolarmente rilevante per le linee guida e per i temi che ha affrontato; insegna attualmente nell’Università di Notredame e proprio quest’anno è stato nominato direttore del Center for Culture and Ethics dell’Università di Notredame che è uno dei programmi più prestigiosi dell’università e che, appunto, ha tra i suoi temi della bioetica; comincerei subito da Elvira e poi passerei la parola Carter. Grazie.

ELVIRA PARRAVICINI:
(SLIDE)
Io credo che il momento della nascita è proprio il momento della vita dove è evidente riconoscere che siamo fatti per la felicità. E’ una cosa che mi ha sempre lasciata piena di stupore fino a quando ho iniziato ad andare in sala parto ,diciamo trent’anni fa ,la prima volta ,è questo:che tu vedi entrare in sale parto la mamma,il papà,poi vedi l’ostetrica,l’infermiera eccetera. Conti le persone che ci sono li ,sono 4 o 5 e dopo un po’ c’è né una in più. Sono sei. A un certo punto c’è una persona in più. Non c’era prima adesso c’è. E l’altra cosa è che questa piccola persona suscita lo stupore e l’ammirazione e l’amore di tutti quelli intorno. Solo ed esclusivamente perché c’è. Infatti se ci pensate bene un bambino neonato non si impone parchè ha delle caratteristiche fisiche ; è alto ,biondo…O ha delle caratteristiche morali ; è coraggioso ,è generoso …Oppure caratteristiche, non so, capacità di organizzazione o intelligenza eccetera . ma si impone solo ed esclusivamente perché c’è. Per cui dico che tutta questa sorpresa , eccitazione , amore che questo bambino suscita sono nient’altro che la manifestazione della speranza, dell’aspettativa per quello che succederà. Per cui per me la nascita non è primariamente un meccanismo biologico ma un evento che scatena una promessa senza limiti,cioè ,una promessa di felicità. È in questo contesto che io ,mentre studiavo medicina ho deciso di diventare neonatologa e infatti,l’intuizione che ho avuto, è di desiderare di supportare con le mie conoscenze mediche la realizzazione di questa promessa di felicità per i bambini che avevano dei problemi medici. Io volevo guarire questi bambini. Mandarli a casa felici con i loro genitori. In poche parole, io sono diventata neonatologa per salvare i neonati. Questo è l’ospedale dove lavoro. Sono li dal 1998 .Noi abbiamo circa 70 letti di terapia intensiva e abbiamo bambini che arrivano dalla nostra sala parto o vengono da tutto il new york state o anche da posti più lontani e ,la gran parte di questi bambini , guariscono per fortuna e vanno a casa felici con i loro genitori. Però ,come ben sapete, questo non è sempre possibile. Ci sono infatti delle malattie congenite o legate alla prematurità che sono definite letali o in inglese diciamo life limiting e queste malattie non sono suscettibili a trattamento medico- chirurgico e questi neonati purtroppo hanno una vita molto breve. Per varie circostanze io mi sono trovata a un certo punto a prendermi cura di loro. Ma come mai? Non è stato un mio progetto. Vi avevo detto prima che sono diventata neonatologa per salvare tutti i bambini per cui è evidente che qualcuno mi ha chiamato li ,perché, proprio io che voglio salvare i bambini devono mettermi a lavorare con i bambini che muoiono? Però vi voglio raccontare la storia che è il primo passo di un lungo cammino. Come neonatologa iniziai a lavorare all’ospedale di Monza,qui in Italia , e da sempre mi è piaciuto coinvolgermi nella diagnosi prenatale, per poter offrire appunto ai genitori una prospettiva, per poter dire loro: quando questo bambino nasce abbiamo una terapia possibile, possiamo fare qualcosa per lui o per lei e anche quando mi sono trasferita in America mi sono subito lanciata nello stesso campo. Però i tempi cambiano, la mentalità cambia e praticamente siamo arrivati a un certo punto in cui, come voi tutti ben sapete, la diagnosi prenatale è diventata non una metodica medica per prendersi cura della salute della mamma e del bambino ma praticamente è centrata sulla possibilità di identificare dei problemi nel bambino per sopprimere la vita. Per cui, riunione dopo riunione, io ero sempre più triste, mi sentivo impotente, non potevo far nulla per difendere questi bambini e a un certo punto non sono più andata a queste riunioni del gruppo della diagnosi prenatale. Però, dopo circa due anni di assenza un giorno è capitata una cosa un giorno. Stavo camminando nel corridoio mi incontra la responsabile della diagnosi prenatale e mi dice: “Ma Elvira, come mai non viene più alle riunioni? Sono così interessanti, impariamo tante cose …”
E lei lo diceva sinceramente. E lì io, dentro le sue parole, ho sentito la voce di un altro, la voce del Mistero che mi chiamava, che mi diceva «tu devi andare lì». Allora, ho detto: va bene, se vuoi io torno. Questi bambini soffrono: soffro con loro, questo lo posso fare. E la settimana dopo mi sono presentata alla riunione, e incredibile cosa succede: che presentano il caso di due signore che aspettavano due bimbi appunto con queste malattie che daranno al bambino una vita molto molto breve, e però queste due mamme non accettavano l’ipotesi dell’aborto, non volevano abortire, volevano tenere loro bambini. E c’era panico tra le fila con gli ostetrici: cosa si fa in questi casi? Allora alzai la mano e dissi: date a me questi genitori, noi facciamo il Comfort Care. Naturalmente in quel momento, quando ho detto questa frase, non sapevo cosa dicevo perlomeno in termini tecnici, cioè ho detto quello che ho detto perché volevo rendere presente il fatto che questi erano bambini. Io ero una neonatologa, e per cui ci sarebbe stato un modo di trattarli, no? Per cui non sapevo ancora cosa fosse la Comfort Care, però sapevo che io ero già il loro dottore e allora volevo aiutarli. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, quello che succede, quello che è successo nel mio ospedale è che quando queste mamme che volevano continuare la gravidanza oppure erano in dubbio, diciamo, venivano tutte passate a me, diciamo, perché proponessi questo Comfort Care. Ed io, praticamente, ho messo in piedi questa trattamento medico che chiamo Comfort Care imparandolo totalmente dai miei bambini e dalle loro famiglie. Però, prima di entrare nello specifico di questo Comfort Care che sto facendo, voglio fare un passo indietro e parlarvi di un passo importantissimo che ho fatto ancora prima di questo nella mia conoscenza di cosa vuol dire essere medico. Come vi dicevo all’inizio, sono neonatologa per salvare i bambini, ma, per esempio con questi bimbi che hanno una vita brevissima, cosa vuol dire salvare la loro vita? Perché – una cosa che ho sempre avuto chiara – io non posso rinunciare al mio desiderio di salvarli. E ho capito questo passo attraverso la cura di due neonatine, una chiamata Neila [poi da verificare, ma non credo sia Nilah] e una Simona, perché prendendomi cura di loro mi hanno proprio fatto fare questo passo, cioè cosa vuol dire salvare la vita di ogni paziente, con ogni diagnosi, con ogni prognosi e con ogni lunghezza di vita. La prima è Neila: questa è Neila, è nata piccolissima, è la bambina più piccola, di cui io mi sono presa cura nella mia vita, pesava 406 grammi; era fragilissima, come potete immaginare, e non molti credevano che ce la potesse fare. E qui nella foto la vedete nelle prime settimane di vita; per farvi capire le sue dimensioni guardate, paragonate le dimensioni delle sue dita con quelle della mamma. Comunque mi sono presa cura di lei ogni giorno e ha avuto tantissime tantissime complicazioni, però io mi sono affezionata a lei a tal punto che mi sono sempre presa cura di lei per i sei mesi che è stata in ospedale, anche quando non ero di turno andavo a fare il giro. Lei era proprio diventata la mia paziente primaria, come si dice in inglese. Comunque dopo non poche complicazioni, come vi dicevo, viene il giorno di andare a casa: questa è la foto del giorno in cui lei è andata a casa: era ormai un gigante di tre chili. E qui siamo io e l’infermiera che si è presa cura di lei quasi tutto il tempo. Comunque, proprio perché sono stata così vicino a lei e alla sua famiglia, la famiglia mi ha chiesto se volevo diventare la sua madrina di battesimo, e io ero felicissima, onoratissima: e subito dissi di sì. Ma il motivo per cui vi ho raccontato tutta questa storia arriva adesso, perché parlando alcuni giorni dopo con degli amici dicevo loro: ma che bella questa cosa che mi hanno chiesto di diventare madrina di battesimo, perché mi sembra una cosa più collegata col destino del mio bambino. Io salvo i bambini e poi chissà dove vanno a finire; invece, facendo la madrina di battesimo, mi sembra di fare qualcosa di più per il loro destino. E mentre parlavamo uno di questi miei amici che mi ha sempre sollecitato ad essere vera nella mia professione mi dice: ma se il tuo ideale è di fare la madrina di battesimo dei tuoi bambini, allora smetti di fare la neonatologa, rinchiuditi in un monastero, prega giorno e notte per i tuoi bambini. E mi dice: ma è questo che vuoi? No, io ovviamente risposi no, però al momento non capii; mi tenni questa cosa nel cuore perché di lui mi fidavo. E quello che è successo è che mesi dopo incontrai un’altra bambina e, prendendomi cura di lei, capii cosa lui voleva dire. Simona è la figlia di una coppia di carissimi amici a New York: lei nacque improvvisamente, molto malata, molto piccola, e fui al suo capezzale per le prime sei ore di vita, senza mai muovermi perché è stata, almeno per sei ore, tra la vita e la morte. E mi ricordo che, mentre la rianimavo, ad un certo punto mi è venuta in mente questa conversazione, e mi sono resa conto che in quel momento lì, nonostante tutto il mio impegno, la mia professionalità, la mia conoscenza medica, tutto quello che facevo, non sarei stata in grado di aiutarla e di farla guarire, se non c’era un Altro che lo decideva; cioè, mentre la rianimavo ho capito che dovevo dare tutto di me come medico, però la sua vita era nelle mani di un Altro. E per cui in queste sei ore di rianimazione ho capito questo: che essere medico significa usare tutto di sé in termini di impegno, di professionalità, di conoscenza e di esperienza, per servire un Altro che dà la vita al paziente, ed è quest’Altro che decide le ore, le vite e i minuti. E – ancora più interessante – come quest’Altro mi fa conoscere qual è la lunghezza della vita del paziente, qual è il suo piano su questo paziente? Attraverso il paziente stesso. Per cui io sono chiamata ad essere estremamente attenta ai segni clinici che il paziente mi dà, ma anche ad essere affettivamente coinvolta, perché solo se sono affettivamente coinvolta riesco a percepire quei piccoli segni che il paziente mi dà, in modo da capire il piano di quest’Altro che dà la vita. Per cui, come capite bene, questo è stato un passo fondamentale per la concezione del mio essere medico e, per di più, mi ha aiutato a capire anche cosa vuol dire salvare la vita nei bambini con una vita molto breve. È la stessa cosa: per breve o lunga che sia la vita è la stessa cosa, io devo essere attentissima e affettivamente coinvolta per percepire la direzione della vita di ogni bambino, in modo da usare un trattamento medico adeguato e, ancora, proprio perché io possa servire – diciamo – la lunghezza della vita che è stata data da un Altro. Per cui, dal giorno… non mi ricordo che giorno era, comunque nell’anno 2006, quando ho alzato la mano e mi sono proposta di prendermi cura di quei bambini che avevano una vita breve e ho proposto il Comfort Care, io ho sviluppato una metodologia per il Comfort Care proprio basata su questo punto che vi ho spiegato adesso, perché la Comfort Care non è, come molti pensano e fanno, cercare di essere gentile col paziente e non fare più niente dal punto di vista medico perché non c’è più niente da fare. Non è affatto vero che non c’è più niente da fare, anzi la cura di questi pazienti è molto, molto più impegnativa, perché con questi pazienti bisogna uscire dagli schemi, bisogna a volte fare delle cose un po’ pazze. E questa Comfort Care, tra parentesi, io la definisco come un trattamento medico e infermieristico e in un certo senso dovrebbe essere parte della cura di ogni paziente, perché ogni paziente vuole sentirsi bene, solo che in questi casi, dove la guarigione sembra non essere possibile, è proprio il punto focale della cura. E ci tengo a dire che la Comfort Care può anche includere, oltre a trattamenti medici, anche trattamenti chirurgici se sono necessari: per esempio, alcuni anni fa ci siamo prese cura di una bimba che è nata perfettamente normale ma con delle gravissime alterazioni della volta cranica e della faccia, per cui l’unica struttura, diciamo, visibile nella faccia era la bocca. Questa bambina non riusciva a respirare e a mangiare allo stesso momento perché si sentiva soffocare; e allora, praticamente, contro il parere di molti colleghi ma d’accordo con i genitori, abbiamo deciso di posizionare chirurgicamente un tubo gastrico, in modo tale che lei potesse respirare bene e, nel frattempo, non soffrire la fame e la sete. E questa bimba è vissuta per quattro mesi, però ha vissuto quattro mesi nel benessere, nel comfort. Adesso vorrei spiegarvi un pochino più nei dettagli in cosa consiste questa Comfort Care: allora, io definisco il Comfort Care come la soddisfazione di bisogni primari, in questo caso del neonato. Di cosa ha bisogno un neonato? Molto semplice: il neonato ha bisogno di essere accolto, di essere tenuto al caldo, di non soffrire la fame e la sete, e di non soffrire il dolore; per cui quando facciamo il giro su questi pazienti ci chiediamo: come aiutare questo neonato a sentirsi bene? E questo elenco che vedete nella diapositiva può sembrare scontato, ma non lo è perché per ottenere questi quattro semplici criteri si tratta di sconvolgere l’organizzazione della patologia neonatale. Comunque, per farvi capire meglio come funziona, vi parlo di alcune storie. Infatti, negli ultimi anni, diciamo quattro o cinque anni, ho seguito più di cinquanta bambini e le loro famiglie, e vedrete tra poco delle foto che gli stessi genitori mi hanno dato per fare vedere in giro. Prendendomi cura di loro ho capito molte cose dal punto di vista medico, ma soprattutto ho visto la vittoria della bellezza e della verità sul limite, sulla menzogna e sulla morte. Come vedrete dalle foto, il sentimento prevalente di tutte le foto è il sentimento della gioia, cioè la gioia di avere con sé il proprio bambino in quel momento. Allora, il primo bisogno di un neonatino è di essere accolto, e facciamo questo rompendo le regole della patologia neonatale o della sala parto e lasciando entrare tutti, i fratellini e le sorelline, il nonno, lo zio, perché a volte se un bambino vive per sette minuti bisogna poter fare le foto con tutti quanti, o tutti devono tenerlo in braccio. Nella foto che potete vedere qui hanno è bimba che ha vissuto per quattro ore nelle braccia dei suoi genitori, dei suoi familiari. E vi invito a guardare i particolari della foto: la faccia della mamma, sorridente e orgogliosa, come ogni mamma dopo che ha partorito; poi forse la cosa più bella sono l’espressione dei fratellini: quello piccolino è totalmente catturato dallo stupore per la sorellina, e il più grande sembra cantare vittoria: finalmente è nata, finalmente è qua! E ancora, ripeto, il sentimento prevalente qui è quello della gioia, eppure questa mamma e questi bambini sapevano che questa sorellina sarebbe morta dalì a poco.
Un altro bisogno del neonato è la necessità di essere tenuto al caldo. Questa foto che vedete qua è bellissima, mi piace molto, perché è anche una storia bella: questa è una famiglia americana che era in missione in Brasile, e durante la diagnosi prenatale mentre erano in Brasile hanno scoperto delle gravissime malformazioni del loro terzogenito, e allora sono tornati per partorire la bimba in America nel caso avesse avuto bisogno di terapie speciali. Li ho incontrati nel mio ospedale subito dopo che gli avevano fatto la diagnosi che sì, la bambina aveva delle malformazioni gravissime ma accompagnate da una sindrome di fondo che avrebbe limitato la sua vita e sarebbe vissuta pochissimo. E loro mi hanno detto: dottoressa, guardi, sappiamo di cosa si tratta, vogliamo accogliere questa bambina, la cosa più importante per noi è stare con lei tutto il tempo della sua vita, per cui ci aiuti in questo. E allora gli ho detto: va bene! Gli ho spiegato cosa facciamo nel Comfort Care e ci siano date appuntamento da lì a due mesi, quando la mamma sarebbe stata a termine di gravidanza. Dopo circa due settimane ero di guardia di notte, mi chiamano dal pronto soccorso e mi dicono: c’è una signora che ha partorito una bimba piccolissima e per di più con una malattia letale. Mi sono precipitata in pronto soccorso – tra parentesi pensate la coincidenza, la notte che ero di guardia io – e, incredibile, erano loro: anche loro erano felicissimi di vedere me perché avevamo questi accordi di fare questo Comfort Care, e se non ci fossi stata io non sarebbe stato possibile magari. Comunque, questa bimba pesava 800 grammi, piccolissima, però era vivace, stava benino. Il problemi è che, visto le sue dimensioni, eravamo preoccupati che avesse freddo, e non volevo metterla nell’incubatrice perché sarebbe stato come dividerla dai genitori. Allora ho proposto la Kangaroo Care: infatti, se guardate la foto, c’è una freccia indica la testina della bambina nella camicetta della mamma. Ho proposto la Kangaroo Care, che è, come diciamo noi, skin to skin exposure, e il papà e la mamma si sono alternati a fare la Kangaroo Care nelle dodici ore della sua vita; poi i fratellini hanno partecipato anche loro alle cure, l’hanno vestita, le hanno messo il cappellino, sono arrivati i nonni… Insomma, durante le dodici ore della sua breve vita tutta la famiglia è riuscita a godersi questa bimba, e lei è riuscita a godere della sua famiglia. Il giorno dopo, quando sono andata a salutarli perché stavano andando a casa, ho detto qualcosa tipo: mi spiace per la vostra bimba, qualcosa così; e la mamma mi dice: ma dottoressa, non dica la parola “Mi dispiace”, noi siamo stati felici con la nostra bambina. E hanno usato la parola “felici”. E mi ha ringraziato per aver permesso loro appunto di spendere questo tempo con lei. Quando incontro i genitori durante la diagnosi prenatale e arriviamo al momento della comunicazione della diagnosi e poi quando spiego loro il piano di Comfort Care, io non parlo mai di opzioni: io faccio una proposta, perché per me l’aborto non esiste, non c’è nel mio orizzonte, non lo vedo. Io parto sempre dicendo: io sono una neonatologa, sono andata a scuola di medicina, ho imparato la medicina per salvare la vita dei bambini, e poi, se non è possibile, almeno per rendere la loro vita bella. Per cui io faccio una proposta di un trattamento medico adeguato a quelle che sono le condizioni del bambino, e lo faccio con i bambini che riusciranno a guarire e con quelli che non riusciranno a guarire. L’altra cosa che faccio è che mi presento sempre, ancora prima di parlare delle condizioni di questi bimbi, chiedo: ma questo è un maschietto? una femminuccia? avete deciso il nome?, cioè, cerco di comunicare che io voglio già bene a questo bambino, e sono lì proprio per aiutarlo. E mi sono accorta dopo un po’ che facendo così scateno quella che potrei definire una competizione affettiva per questo bimbo, perché dei genitori non possono sopportare l’idea che ci sia qualcuno al mondo che ami il loro bambino più di loro: per cui mostrando la mia posizione – che è vera, non faccio finta di affetto per questo bambino – so che molti genitori considerano magari l’aborto silenziosamente nel loro cuore, ma moltissimi accettano invece poi l’ipotesi del Comfort Care, cambiano idea, proprio per questo: perché non possono sopportare l’idea che uno ami il loro figlio più di loro. Io dico che la mia è una proposta ragionevole, cioè basata sul fatto che tutti abbiamo lo stesso cuore e, come è un bisogno primario di un genitore di amare il proprio bambino, così è un bisogno primario del dottore di aiutare chi chiede aiuto, in qualsiasi età, con qualsiasi malattia, e in questo senso l’aborto non è un’opzione. Come dicevo prima, il cuore l’abbiamo tutti uguale, e un esempio per me molto bello del fatto che il cuore l’abbiamo tutti uguale si vede dal fatto che la bellezza trascina, muove: infatti dopo i primi casi ho iniziato a vedere delle persone, del personale che lavorava con me, delle infermiere, delle assistenti sociali e dei giovani medici, che sono venuti a chiedermi: possiamo lavorare con te? possiamo aiutarti? Ciò proprio perché quest’impostazione piaceva, e io naturalmente ho detto: certo, ho bisogno di aiuto, assolutamente! E così si forma il Comfort Care Team, cioè una decina di persone, soprattutto infermiere, assistenti sociali e altro personale mi aiutano questi casi clinici; le infermiere in particolare organizzano dei corsi di formazione per infermiere perché, come dicevo prima, questo Comfort Care sembra una cosa semplice, ma dobbiamo uscire dagli schemi, dobbiamo fare qualcosa di diverso, con questi bambini.
Poi, non so, anche l’ospedale ci sta aiutando: abbiamo vinto un grant; siamo riusciti ad attrezzare una cameretta nel reparto in modo da avere una privacy per i genitori, per la famiglia. Cerchiamo di fare nostro possibile: queste non sono tecniche, non cerchiamo di colmare il vuoto che lascia la morte di un bambino, sarebbe impossibile. Lo facciamo perché attraverso queste azioni, stando con loro stiamo, con loro, perché è impossibile, è impossibile per un genitore affrontare da solo la morte del proprio figlio: e allora, tirato proprio alle sue radici, il Comfort Care è semplicemente una possibilità di stare con loro. Un altro punto fondamentale della Comfort Care è che noi lavoriamo per il benessere del neonato, perché il neonato si senta bene, ma non per allungare o accorciare la sua vita a nostro piacimento; e questo ci tengo a dirlo, perché il Comfort Care bisogna definirlo, in quanto può essere la porta d’entrata per l’eutanasia. Quello che noi diciamo è che la vita è data e la lunghezza della vita di ognuno di questi bambini – come per ognuno di noi, del resto – non può essere decisa dai genitori, tanto meno dai medici: per cui noi lavoriamo per assicurare una situazione di comfort nella vita che a loro è data. A questo proposito bisogna stare attenti perché ci possono essere delle sorprese, e vi voglio raccontare la storia di una bambina, adesso, in cui le cose ci hanno sorpreso: questa è la storia di Alessandra e l’ho intitolata “Quando la realtà ci sorprende”. Alessandra è nata piccola, di appena 800 grammi, e per di più ha avuto una gravissima infezione intestinale che le ha distrutto tutto l’intestino. Quando è ritornata dalla sala operatoria i chirurghi ci hanno detto: guarda, l’intestino è morto, lasciatela morire; basta, non c’è più niente da fare. Io ero il medico curante in patologia neonatale e i genitori erano disperati e mi hanno supplicato di non spegnere la macchina, il respiratore, perché potessero stare un po’ con lei. Io ho accettato, non perché credessi che questa bambina potesse farcela, ma per due motivi: uno, perché i genitori me lo chiedevano – è già un segno –; secondo, perché pensando al caso clinico mi sono detta: però un bambino prematuro può essere supportato come routine, diciamo, con un respiratore, perché i polmoni sono immaturi; per cui ho pensato che non stavo facendo un accanimento terapeutico, almeno per qualche giorno. E allora ho proposto a loro Comfort Care in questo modo, cioè: lasciamo un supporto di respiratore al minimo, senza alzare l’ossigeno, un supporto di nutrizione parenterale per idratarla, un antibiotico, visto che aveva quest’infezione tremenda, e poi morfina ogni tre ore per il dolore; e siamo stati vedere come le cose andavano. La questione è che Alessandra era circondata da persone che le volevano molto bene, attentissimi a quello che succedeva, e non davano per scontato nulla, prima i suoi genitori, poi noi. Passano i giorni, passano le settimane, lei comincia a muoversi, la ferita sembra un po’ guarire: insomma, per farla breve, incredibile, un giorno sono andata dei genitori a dire che volevo spegnere respiratore, ma non per lasciarla morire, ma perché aveva iniziato respirare da sola. E questa è Alessandra che è andata a casa a cinque mesi: da 800 grammi ora è quattro chili, ha un intestino molto corto – dieci centimetri –, per cui ha bisogno di nutrizione parenterale ogni notte e poi a piccole quantità di cibo dato per bocca. Però è viva. Questa è la foto del primo compleanno che abbiamo fatto a casa mia: c’erano un po’ di amici e c’era anche Debby, un’infermiera non l’ha mai lasciata. Qui la vedete, a due anni, mentre dà lei da mangiare alla sua bambola. Prendendomi cura di lei mi è diventato ancora più chiaro che il nostro lavoro di medici è prima di tutto un dialogo col Mistero che ci parla attraverso la realtà, la realtà dei nostri bambini, in modo che possiamo trattarli dal punto di vista medico al meglio. E una cosa che mi piace dire è che io dico sempre ai genitori dei miei bambini, quando discuto il piano clinico, cioè quello che vogliamo fare dal punto di vista medico; gli dico sempre: io seguo il tuo bambino, il tuo bambino ci dirà dove stiamo andando, cosa dobbiamo fare. Ed è bellissimo vedere come i genitori sono totalmente in pace con il mio piano di azione, di seguire i loro bambini, e – devo dire – sono fieri del fatto che i loro bambini guidino i dottori. In questo senso per me come medico la cura di ogni paziente è un dramma, perché devo seguire un altro, ma proprio perché seguo un altro non c’è mai una scelta giusta o sbagliata: posso fare molto, molto spesso esperienza di impotenza, perché come avete visto nella storia con Alessandra ogni volta è un gran mistero, e percepisco ogni volta la presenza di questo abisso tra quello che vorrei fare per questi bambini e quello di cui sono capace, che molto poco; però questo senso di impotenza va bene perché lascia lo spazio al Mistero che interviene, arriva ogni volta e chiarisce. Una domanda che ho sempre avuto e che ho sempre anche adesso di fronte a questi bambini è perché loro hanno una vita così breve, perché la sento comunque sempre come un’ingiustizia perché la vita è bella, ci sono le cose belle da vedere, siamo liberi, siamo amati, possiamo amare; allora perché loro hanno una vita così breve e non possono godere, per esempio, di quello che sto godendo io? Questa domanda non ha ancora trovato una risposta compiuta, però ho capito di più un pochettino la risposta attraverso un altro caso clinico di cui magari avete già sentito parlare, ed è la storia appunto di due gemelline siamesi di cui mi sono presa cura. Dico subito che questi genitori di queste sorelline – siamesi vuol dire due bambini uniti al torace, per cui avevano un cuore in comune –, questi genitori avevano quindici anni, e quando li ho incontrati la prima volta il loro tipico aspetto di teenager mi ha un po’ preoccupato, perché non sapevo come avrebbero reagito ala mia proposta del Comfort Care, anche perché queste bambine erano inoperabili, non c’era una prospettiva di farle guarire. Ad un certo punto abbiamo dovuto addirittura farle nascere premature perché la mamma aveva una pressione altissima; comunque loro, nonostante il loro aspetto da teenager, immaturi, come volete voi, però da subito mi hanno detto: guardi dottoressa, non si preoccupi, i medici volevano farci abortire, ma queste sono le nostre bambine, per cui noi gli vogliamo bene e stiamo con loro. Arriviamo al giorno del cesareo, e quel giorno in sala parto io ero abbastanza triste, perché appunto tutti intorno a me o erano lì con la macchina fotografica, aspettando di fotografare questa – come dire – cosa eccezionale che doveva avvenire, che magari non avrebbero visto più nella loro vita, soprattutto i miei personing training, i miei resident, e poi tutti gli ostetrici che si lamentavano in continuazione: questa ragazza è pazza, si fa un cesareo, si rovina la vita. Il clima era bruttissimo; comunque, ad un certo punto nascono, arrivano, sono bellissime, abbracciate l’una all’altra, perché erano unite al torace. Il padre appunto, il famoso ragazzino, vede che respirano poco poco; mi chiede di tenerle in braccio: subito gliele diamo, assolutamente. E lui le vede che fanno questi sospiri – il respiro del morente – e l’ha preso come che erano tristi, piangevano; allora comincia a dire: il vostro papà è qua, non vi preoccupate. Per cui anche lì mi sono detta: ma pensa questo papà, magari non è il primo della classe a scuola, però è un vero padre. Poi mi guardo intorno, la sala parto completamente cambiata. Cosa succede? Tutti piangono, tutti si commuovono, vanno ad abbracciare questi due ragazzini, gli specializzandi mettono via la macchina fotografica, magari la foto la facciamo dopo. Cioè cosa succede? È un momento di bellezza, cioè «la bellezza è lo splendore del vero», com’è stato detto, e che cosa è il vero? La verità è che queste bambine ci sono, queste bambine ci sono, esistono perché qualcuno le chiamate alla vita, il Mistero le ha chiamate alla vita, e il fatto che tutti si sono commossi è proprio un’altra prova del fatto che il cuore ce l’abbiamo tutti uguale e il cuore si muove di fronte alla bellezza. Nel frattempo appunto ascolto il cuoricino, va sempre più piano, siamo vicini agli ultimi minuti, e chiedo al papà: ma lei crede in Dio, vuole che le battezzo? E lui: certo, certo!, e mi dà i nomi delle due bambine, Keila e Kilah. Allora parto con l’acqua, parto con la bimba sulla destra e dico: io ti battezzo Keila, stavo partendo, lui mi afferra il braccio e mi dice: no questa non è Keila, è Kilah! E a quel punto, incredibile: queste erano gemelle siamesi identiche; che differenza fa? Eppure, ho pensato, lo sguardo di questo ragazzino è lo sguardo con cui Dio guarda ognuno di noi, assolutamente unico, irripetibile. Per cui voglio ritornare alla mia domanda rispetto al senso di ingiustizia, al fatto che questi bimbi hanno una vita così breve. Certamente siamo di fronte ad un gran mistero, ma di una cosa sono certa: che la vita di queste bambine è segno di un Altro che le ha volute, e così io ho visto nella brevità della loro vita la Croce, la Croce che rimane, però anche la Resurrezione. Come ho visto la Resurrezione? L’ho vista perché tutti si sono commossi in sala parto, la bellezza c’era, la sua bellezza c’era, la loro breve comparsa di pochi minuti ha cambiato tutti lì: e allora la bellezza c’è, e io seguo questa bellezza.
E adesso concludo; appunto vorrei dirvi questa cosa di conclusione: che il mio lavoro di neonatologa è appunto affermare ciascuno di questi bambini di cui mi prendo cura, che loro non sono la somma dei loro cromosomi, che può essere normale o anormale, oppure non sono definiti dall’egemonia culturale, diciamo, di questa società che li giudica inutili o addirittura nocivi, perché loro sono rapporto col Mistero. Perché posso dire questo? Ancora, perché ci sono, esistono, il Mistero li ha chiamati alla vita, e creandoli il Mistero suscita una grande promessa di felicità, come dicevamo all’inizio, però il Mistero fa assaporare un anticipo di questa felicità alle persone intorno a loro: prima di tutto ai loro genitori, ma poi anche medici e alle infermiere, però queste persone per poter assaporare questo anticipo di felicità devono guardare, cioè guardare la realtà nella sua verità. Grazie.

ORLANDO CARTER SNEAD:
È stato veramente qualcosa di straordinario. È per me un enorme piacere essere qui con il vecchio amico Andrea Simoncini, ed è sicuramente un profondo onore per me parlare con la dottoressa Parravicini, viste tutte le cose che fa: veramente sorprendente, qualcosa di sorprendente. Oggi vorrei, diciamo, presentarvi una prospettiva leggermente diversa e, in certo qual modo, affrontando un po’ lo stesso discorso che appunto ha affrontato nella sua straordinaria presentazione la dottoressa Parravicini. Desidero pormi [così pare, non porvi] un quesito: chi è il neonato? E com’è che, riflettendo appunto su questo quesito, possiamo riuscire a capire meglio chi siamo noi e anche quello che dobbiamo gli uni agli altri? Io credo che il punto di partenza per tutte le mie riflessioni non sia un principio teorico-tecnico, quanto piuttosto sia necessario cominciare con la nostra esperienza umana, un’esperienza condivisa del neonato, un’esperienza del neonato stesso, quando appunto lo incontriamo nella vita quotidiana. Quindi con questo punto di partenza propongo di porci un quesito, cioè chi è biologicamente il neonato e – ancora più importante – chi è il neonato dal punto di vista morale, dal punto di vista umano e dal punto di vista giuridico. L’obiettivo finale è di nuovo quello di capire meglio chi tutti quanti noi siamo e che cosa dobbiamo gli uni agli altri. Vi propongo che la riflessione sulle identità e l’esperienza del neonato porti a degli spunti molto importanti: per esempio, per quanto riguarda beni dell’uomo come la solidarietà e la comunanza; anche l’importanza della vulnerabilità e di obblighi non scelti; poi ci dà degli spunti sulla dignità umana e sull’antropologia morale; infine anche sul rapporto dell’uomo con l’infinito. Cominciamo quindi a chiederci chi è come sostanza biologica il neonato. Naturalmente, è chiaro in prima battuta notare che il bambino neonato è un membro, un singolo membro della nostra specie: il neonato nel senso della tassonomia è membro della famiglia umana. Il neonato è dipendente e lo è radicalmente: fra i mammiferi il bambino nasce, diciamo, presto nel processo evolutivo, cioè prima che la sua testa diventi talmente grande che la nascita, il parto sarebbe impossibile. Di conseguenza, il bambino è molto dipendente, radicalmente dipendente, anche tra i mammiferi proprio intesi come classe nel loro complesso. Nel contempo c’è, sin dall’inizio proprio, un riconoscimento ed un legame: per esempio i bambini neonati già di quattro giorni possono in maniera affidabile discriminare il volto della madre e preferirlo ad altri, rispetto appunto al volto di uno straniero, di un estraneo. La voce della madre, così è stato dimostrato, attiva dei circuiti cerebrali, che non solo sono correlati alla comprensione/elaborazione dei suoni, ma controllano anche il movimento della bocca durante il discorso: quindi sin dall’inizio la voce materna non è semplicemente uno stimolo ma proprio svolge una attività di insegnamento, insegnando al bambino come parlare. Poi, il rapporto tra mamma e bambino è reciproco, nel senso che il neonato ha un effetto anche lui sulla mamma: tutti quanti noi sappiamo qual è la reazione di una mamma che allatta al pianto del proprio bambino. Però il neonato ha bisogno – e gli piace, anche – di interagire con l’ambiente: i neonati mostrano una preferenza per i nuovi stimoli uditivi e visivi. Anche il loro pianto rispecchia un po’ la melodia e i toni di coloro che gli parlano attorno. E poi arrivano al mondo con una capacità, cioè la capacità di rispondere a quelli che sono i segnali e gli stimoli emotivi: i neonati reagiscono negativamente, in modo avverso, ai ricercatori che per esempio si rivolgono a loro e immediatamente distolgono tutta l’attenzione senza spiegazione. Il bambino esprime sorpresa e irrequietezza quando c’è un cambiamento improvviso di tonalità e anche di modalità di esprimersi. Però contemporaneamente il neonato come essere cognitivo è abbastanza immaturo, ha un senso molto limitato della propria identità rispetto a quella degli altri, non ha la capacità di formulare oppure valutare dei piani che mirano a un determinato obiettivo, le loro facoltà razionali, le facoltà razionali che, diciamo, normalmente caratterizzano la specie umana non sono ancora attive nel neonato. Quindi passiamo adesso a un altro quesito, cioè l’identità del neonato come qualche cosa di umano, morale, e poi farò anche alcune annotazioni relativamente all’identità giuridica del neonato. Il neonato – e questo è stato documentato anche nelle osservazioni fatte dalla dottoressa Parravicini – è «un estraneo misterioso che accogliamo, amiamo e di cui ci prendiamo cura incondizionatamente» [controllare entità della citazione], ha una richiesta, pone delle richieste nei nostri confronti come appartenente alla famiglia umana. Il neonato ha diritto a cura, affetto, protezione: la stessa vulnerabilità delle neonato chiede fortemente protezione. Noi, nella nostra esperienza quotidiana, tutti quanti riconosciamo lo sdegno e l’indignazione che avvertiamo in presenza di abusi o danni a un bambino neonato. Per quanto riguarda la questione giuridica, nella tradizione del mio Paese, ma anche del vostro, c’è una linea che, appunto, alla nascita si delinea, nel bene e nel male. Un neonato ha una sua personalità completa davanti alla legge, può ereditare per esempio delle proprietà, può per esempio sollevare delle rivendicazioni in illeciti contro privati, può appellarsi e asserire i propri diritti costituzionali contro lo Stato, e gode di protezione in base al diritto penale. Il neonato quindi ha una persona giuridica completa al momento della nascita. Quindi, ripensando un po’ alla identità biologica, e poi anche quella morale e giuridica, che cosa possiamo dire? che cos’è che questa esperienza ci insegna alla fine relativamente a che cosa è veramente il neonato e chi siamo dopotutto noi? Prima di tutto, dal neonato impariamo che arriviamo nel mondo e siamo subito in rapporto con gli altri: come ha mostrato la dottoressa Parravicini questo estraneo misterioso ha dei legami di parentela all’attuale generazione, cioè alla presente generazione dei propri fratelli e sorelle, hai dei legami con i suoi genitori e nonni e anche con le generazioni future. Come abbiamo visto il neonato è in grado di riconoscere la mamma, il neonato risponde alla lingua, al linguaggio della comunità, il neonato reagisce a tutti quelli che sono gli stimoli emotivi e le interazioni. Una lezione importante e negativa viene insegnata dal neonato, cioè che non veniamo al mondo come soggetti, persone radicali, qualcosa di completamente slegato e staccato dagli altri membri della comunità umana: noi, invece, arriviamo al mondo e in questo momento siamo in comunanza con gli altri. Sempre connesso a questo aspetto, sappiamo dall’esperienza del neonato che non entriamo nel mondo come volontà priva di corpo, ma veniamo al mondo come organismi profondamente bisognosi e vulnerabili, organismi fisici profondamente vulnerabili e bisognosi. Sin dall’inizio, dobbiamo fidarci e basarci sulla benevolenza degli altri, sempre per via di quella dipendenza radicale di cui parlavamo, e riconosciamo in noi stessi, quando incontriamo il neonato, tutte quelle richieste che il neonato pone su di noi: noi avvertiamo, per esempio, il dovere di proteggere questa creatura, avvertiamo il bisogno di farla crescere e occuparci di lei, non per quello che possa fare per noi, non per via di un contratto di qualche tipo, ma proprio per via di ciò che è questa creatura, membro della famiglia dell’uomo. E io credo che questa considerazione abbia delle importanti conseguenze proprio perché possiamo capire quello che sono i fondamenti della dignità umana e i confini della nostra antropologia morale. E quindi perché questo neonato ha delle richieste nei nostri confronti, delle rivendicazioni? Perché intuitivamente capiamo per esempio che il neonato ha diritto a cure e protezione da parte nostra, anche tra estranei? Non come hanno detto alcuni – Peter Singer, Martin Nussbaum – e gli autori Giublini e Minerva hanno suggerito: non è per una capacità particolare che ha il neonato, capacità di capire chi è; non è perché il neonato ha la capacità di riconoscere e desiderare degli obiettivi futuri; e non è nemmeno perché il neonato sia capace di autonomia, oppure di vita indipendente. Non è assolutamente per questi criteri che avvertiamo proprio questa richiesta del neonato di essere protetto e che noi ci prendiamo cura di lui: la nostra esperienza ci dice che questa antropologia morale non è corretta. È invece perché il neonato è un membro vivente della famiglia umana che in lui vediamo la nostra famiglia, vediamo un organismo, un membro della nostra famiglia vulnerabile e immaturo, che richiede tutta la nostra cura e tutto il nostro amore. E questa riflessione, questa considerazione, cioè l’idea che proprio questo aspetto, l’identità del neonato, non la sua o le sue capacità, che appunto ci rivolgono queste richieste, è proprio questa riflessione che ci dovrebbe far pensare ad altre categorie, altre categorie di persone indigenti che possiamo incontrare, persone che in qualche modo hanno delle difficoltà cognitive, perché appunto sono piccoli anche loro o perché hanno avuto dei danni cerebrali, delle lesioni, o perché hanno una patologia cognitiva devastante che a un certo punto li conduce alla demenza. Estendere l’amore e le nostre preoccupazioni nei confronti del neonato proprio per via di quello che è il neonato ci aiuta anche a capire che è incoerente e insostenibile non estendere lo stesso tipo di amore, lo stesso tipo di preoccupazione anche ad altri elementi più vulnerabili della famiglia umana. Infine, il neonato che cosa ci insegna, che cosa ci insegna la nostra esperienza del neonato, per esempio sull’apporto dell’uomo con l’infinito e il suo anelito all’infinito? In certo qual modo, in senso temporale, come tutti noi, il neonato è tra due infiniti: il suo rapporto si estende a ritroso nel tempo, arrivando praticamente fino ai primi nostri antenati comuni come esseri umani, però contemporaneamente si protende anche nel tempo, verso il futuro, verso quelle generazioni di esseri umani che devono ancora nascere. Però in senso ancor più profondo il neonato è un qualcuno di concreto, fatto a immagine e somiglianza di Dio, qualcosa di prezioso e insostituibile, riflette la nostra umanità comune, ma indica anche Colui che ha reso possibile per noi conoscerLo, amarLo e servirLo in questo mondo ed essere felici con Lui per sempre nei cieli. Grazie tante.

ANDREA SIMONCINI:
È sempre molto difficile il ruolo del moderatore negli incontri del Meeting: penso che questa sera sia proprio impossibile; impossibile aggiungere qualcosa senza distrarre o rovinare quello che abbiamo ascoltato. Ciononostante, mi scuserete se dirò solo una cosa, in conclusione di questo incontro, partendo da una delle foto che ci ha fatto vedere Elvira – quella in cui c’era tutta la famiglia riunita con questa piccola bambina che avrebbe vissuto per quattro ore, il volto felice della madre, il volto rapito di un fratellino, l’esultanza dell’altro –: ecco, io di fronte a quella foto, penso, ho avuto un contraccolpo che penso molti di voi abbiano avuto. E mi son posto questa domanda: ma come si fa ad essere così felici, lieti, per una bambina che tra quattro ore non ci sarà più? E il punto è che – scusate se ho la presunzione di dire – e il punto è [mi sa che si mangia i verbi, e così solo ha senso] che la risposta di tutti noi non può essere che: non lo so, ma è accaduto; non so perché, non so come si faccia essere contenti in una situazione del genere, eppure è accaduto, accade. Accade solo che lo si lasci accadere, solo che si faccia spazio a questo. Io penso che questo sia il punto sintetico che io traggo dall’incontro di oggi: noi parliamo della vita partendo dall’esperienza, non da un discorso. Il punto che più mi risuona tra i mille suggerimenti che ognuno di noi ha avuto è che proprio la verità è qualcosa che accade e che sento corrispondere in una maniera che non capisco – perché, ripeto, quei sorrisi, quella letizia sarebbe inspiegabile –, eppure accade. Forse, meglio, più che qualcosa che accade è Qualcuno che accade, la verità. Oggi – questo è il punto che traggo dalla lezione di Carter – noi dobbiamo riflettere su questa esperienza: noi dobbiamo essere capaci di giudicare questa cosa che succede, e questo giudizio sistematico su quello che succede si chiama cultura. Il diritto, la politica fa parte della cultura di un popolo; le regole – come si gestisce un ospedale, quali sono i protocolli – fanno parte della cultura di un popolo. Oggi tutto congiura a che queste esperienze, cioè questi fatti non accadano. Non si fa il Comfort Care e quindi non si non ci si attiva in nessun modo di fronte a queste persone e dunque nessuno avrà più l’esperienza di questa felicità. Non ci si attiva: il protocollo ci dice di fare altro. Oggi il vero attacco è impedire che accada la possibilità di vedere foto così! Allora dico solo che questa è la responsabilità: educare uomini, donne, con la passione per quello che vedono e che non hanno paura delle regole e dei protocolli, ma si fanno prendere da questo fascino. Grazie ancora a tutti e grazie ad Elvira Parravicini e a Carter Snead.

ORLANDO CARTER SNEAD:
E’ stato veramente qualche cosa di straordinario, E’ per me un grande piacere essere qui, con il vecchio amico Andrea Simoncini ed è sicuramente un profondo onore per me parlare con la dottoressa Parravicini, viste tutte le cose che fa, veramente sorprendente, qualcosa di sorprendente. Oggi vorrei, diciamo, presentarvi una prospettiva leggermente diversa e in certo qual modo affrontando un po’ lo stesso discorso, che ha appunto affrontato nella sua straordinaria presentazione la dottoressa Parravicini. Desidero pormi un quesito: chi è il neonato? E com’è che, appunto riflettendo su questo quesito, possiamo capire meglio chi siamo noi e anche quello che dobbiamo gli uni agli altri. Io credo che il punto di partenza per tutte le mie riflessioni non sia un principio teorico, tecnico, quanto piuttosto sia necessario cominciare con la nostra esperienza umana. Un’esperienza condivisa del neonato, un’esperienza del neonato stesso quando appunto lo incontriamo nella vita quotidiana. Quindi con questo punto di partenza mi propongo di porci un quesito, cioè chi è biologicamente il neonato e ancora più importante chi è il neonato dal punto di vista morale, dal punto di vista umano e dal punto di vista giuridico. L’obiettivo finale è di nuovo quello di capire meglio chi tutti quanti noi siamo e che cosa dobbiamo gli uni agli altri. Vi propongo che la riflessione sull’identità e l’esperienza del neonato porti a degli spunti molto importanti, per esempio per quanto riguarda beni dell’uomo come la solidarietà e la comunanza. Anche l’importanza della vulnerabilità e di obblighi non scelti. Poi ci dà degli spunti sulla dignità umana e sull’antropologia morale, infine anche sul rapporto dell’uomo con l’infinito. Cominciamo quindi a chiederci: chi è, come sostanza biologica, il neonato. Naturalmente è chiaro, in prima battuta, notare che il neonato è un membro, un singolo membro della nostra specie. Il neonato, nel senso della tassonomia, è membro della famiglia umana, il neonato è dipendente, lo è radicalmente. Tra i mammiferi il bambino nasce diciamo presto nel periodo, nel processo evolutivo, cioè prima che la sua testa diventi talmente grande che la nascita, il parto sarebbe impossibile. Di conseguenza il bambino è molto dipendente, radicalmente dipendente, anche tra i mammiferi, intesi come classe nel loro complesso. Nel contempo c’è sin dall’inizio proprio un riconoscimento e un legame. Per esempio i bambini, neonati, già di 4 giorni possono in maniera affidabile discriminare il volto della madre e preferirlo ad altri, rispetto appunto al volto di uno straniero, di un estraneo. La voce della madre, così è stato dimostrato, attiva dei circuiti cerebrali che non sono solo correlati alla comprensione, elaborazione dei suoni, ma controllano anche il movimento della bocca durante il discorso. Quindi sin dall’inizio, la voce materna non è semplicemente uno stimolo, ma proprio svolge un’attività di insegnamento, insegnando al bambino come parlare. Poi il rapporto tra mamma e bambino è reciproco, nel senso che il neonato ha un effetto anche lui sulla mamma. Tutti quanti noi sappiamo qual è la reazione di una mamma che allatta al pianto del proprio bambino. Però il neonato ha bisogno, e gli piace anche, di interagire con l’ambiente. I neonati mostrano una preferenza per i nuovi stimoli uditivi e visivi. Anche il loro pianto rispecchia un po’ la melodia e i toni di coloro che gli parlano attorno. E poi arrivano al mondo con una capacità: cioè la capacità di rispondere a quelli che sono i segnali e gli stimoli emotivi. I neonati reagiscono negativamente, in modo avverso, ai ricercatori che per esempio si rivolgono a loro e immediatamente distolgono tutta la attenzione, senza spiegazione. Il bambino esprime sorpresa e irrequietezza, quando c’è un cambiamento improvviso di tonalità e anche di modalità di esprimersi. Però contemporaneamente, il neonato, come essere cognitivo, è abbastanza immaturo, ha un senso molto limitato della propria identità, rispetto a quella degli altri. Non ha la capacità di formulare, oppure di valutare dei piani che mirano a un determinato obiettivo. Le loro facoltà razionali, le facoltà razionali che diciamo normalmente caratterizzano la specie umana, non sono ancora attive nel neonato. Quindi passiamo adesso ad un altro quesito, cioè l’identità del neonato, come qualche cosa di umano, morale e poi farò anche alcune annotazioni relativamente all’identità giuridica del neonato. Il neonato, e questo è stato documentato anche nelle osservazioni fatte dalla dottoressa Parravicini, è un estraneo misterioso, che accogliamo, amiamo e di cui ci prendiamo cura incondizionatamente. Ha una richiesta, pone delle richieste nei nostri confronti, come appartenete alla famiglia umana. Il neonato ha diritto a cura, affetto, protezione. La stessa vulnerabilità del neonato chiede fortemente protezione. Noi, nella nostra esperienza quotidiana, tutti quanti riconosciamo lo sdegno, l’indignazione che avvertiamo in presenza di abusi o danni a un bambino neonato. Per quanto riguarda la questione giuridica, nella tradizione del mio paese, ma anche del vostro, c’è una linea che, appunto, alla nascita si delinea, nel bene e nel male. Un neonato ha una sua personalità completa davanti alla legge, può ereditare per esempio delle proprietà, può per esempio sollevare delle rivendicazioni in illeciti contro privati, può appellarsi e asserire i suoi diritti costituzionali contro lo stato e gode di protezione in base al diritto penale. Il neonato quindi ha una persona giuridica completa al momento della nascita. Quindi ripensando un po’ alla identità biologica, e poi anche a quella morale e giuridica, che cosa possiamo dire, che cos’è che questa esperienza ci insegna alla fine, relativamente a che cosa è veramente il neonato e chi siamo dopo tutto noi? Prima di tutto dal neonato impariamo che arriviamo nel mondo e siamo subito in rapporto con gli altri. Come ha mostrato la dottoressa Parravicini, questo estraneo misterioso ha dei legami di parentela all’attuale generazione, cioè alla presente generazione dei propri fratelli e sorelle, ha dei legami coi suoi genitori e nonni e anche con le generazioni future. Come abbiamo visto il neonato è in grado di riconoscere la mamma, il neonato risponde alla lingua, al linguaggio della comunità, il neonato reagisce a tutti quelli che sono gli stimoli emotivi e le interazioni. Una lezione importante e negativa viene insegnata dal neonato, cioè che non veniamo al mondo come soggetti, persone radicali, qualcosa di completamente slegato e staccato dagli altri membri della comunità umana. Noi invece arriviamo al mondo e in questo momento siamo in comunanza con gli altri. Sempre connesso a questo aspetto, sappiamo dall’esperienza del neonato, che non entriamo nel mondo come volontà priva di corpo, ma veniamo al mondo come organismi profondamente bisognosi e vulnerabili, organismi fisici profondamente vulnerabili e bisognosi. Sin dall’inizio, dobbiamo fidarci e basarci sulla benevolenza degli altri, sempre per via di quella dipendenza radicale di cui parlavamo, e riconosciamo in noi stessi, quando incontriamo il neonato, tutte quelle richieste che il neonato pone su di noi. Noi avvertiamo, per esempio, il dovere di proteggere questa creatura, avvertiamo il bisogno di farla crescere e occuparci di lei, non per quello che possa fare per noi, non per via di un contratto di qualche tipo, ma proprio per via di ciò che è questa creatura,membro della famiglia dell’uomo. E io credo che questa considerazione abbia delle importanti conseguenze proprio perché possiamo capire quello che sono i fondamenti della dignità umana e i confini della nostra antropologia morale. E quindi perché questo neonato ha delle richieste nei nostri confronti, delle rivendicazioni? Perché intuitivamente capiamo, per esempio, che il neonato ha diritto a cure e protezione da parte nostra, anche tra estranei. Non è come hanno detto alcuni,Peter Singer, Martin Nussbaum e gli autori Giublini e Minerva hanno suggerito; non è per una capacità particolare che ha il neonato e capacità di capire chi è, non è perché il neonato ha la capacità di riconoscere e desiderare degli obiettivi futuri e non è nemmeno perché il neonato sia capace di autonomia oppure di vita indipendente. Non è assolutamente per questi criteri che avvertiamo proprio questa richiesta del neonato di essere protetto e che noi ci crediamo cura di lui. La nostra esperienza ci dice che questa antropologia morale non è corretta. E’ invece perché il neonato è un membro vivente della famiglia umana che in lui vediamo la nostra famiglia. Vediamo un organismo, un membro della nostra famiglia vulnerabile e immaturo che richiede tutta la nostra cura e tutto il nostro amore. E questa riflessione, questa considerazione, cioè l’idea che proprio questo aspetto, l’identità del neonato, non la sua o le sue capacità, che appunto ci rivolgono queste richieste, è proprio questa riflessione che ci dovrebbe far pensare ad altre categorie, altre categorie di persone, di gente che possiamo incontrare. Persone che in qualche modo hanno delle difficoltà cognitive perché appunto sono piccoli anche loro o perché hanno avuto dei danni cerebrali, delle lesioni o perché hanno una patologia cognitiva devastante che a un certo punto li conduce alla demenza. Estendere l’amore e le nostre preoccupazioni nei confronti del neonato, proprio per via di quello che è il neonato, ci aiuta anche a capire che è incoerente e insostenibile non estendere lo stesso tipo di amore, lo stesso tipo di preoccupazione anche ad altri elementi più vulnerabili della famiglia umana. Infine, il neonato che cosa ci insegna, che cosa ci insegna la nostra esperienza del neonato, per esempio sul rapporto dell’uomo con l’infinito e il suo anelito all’infinito? In certo qual modo, in senso temporale, come tutti noi, il neonato è tra due infiniti. Il suo rapporto si estende a ritroso nel tempo, arrivando praticamente fino ai primi nostri antenati comuni come esseri umani, però contemporaneamente si protende anche nel tempo, verso il futuro, verso quelle generazioni di esseri umani che devono ancora nascere. Però, in senso ancor più profondo, il neonato è un qualcuno di concreto fatto a immagine e somiglianza di Dio, qualcosa di prezioso e insostituibile. Riflette la nostra umanità comune ma indica anche Colui che ha reso possibile per noi conoscerlo, amarlo e servirlo in questo mondo ed essere felici con Lui per sempre nei cieli. Grazie tante.

MODERATORE:
E’ sempre molto difficile il ruolo del moderatore negli incontri del meeting, penso che questa sera sia proprio impossibile. Impossibile aggiungere qualcosa senza distrarre o rovinare quello che abbiamo ascoltato. Ciononostante, mi scuserete se dirò solo una cosa in conclusione di questo incontro partendo da una delle foto che ci ha fatto vedere Elvira, quella in cui c’era tutta la famiglia riunita con questa piccola bambina che avrebbe vissuto per quattro ore e il volto felice della madre, il volto rapito di un fratellino, l’esultanza dell’altro. Ecco, io di fronte a quella foto penso, ho avuto un contraccolpo che penso molti di voi abbiano avuto e mi son posto questa domanda: ma come si fa ad essere così felici, lieti per una bambina che tra quattro ore non ci sarà più? E il punto è che, scusate se ho la presunzione di dire, è il punto che la risposta di tutti noi non può essere che:” Non lo so, ma è accaduto, non so perché, non so come si faccia essere contenti, in una situazione del genere, eppure è accaduto, accade. Accade solo che lo si lasci accadere, solo che si faccia spazio a questo. Io penso che questo sia il punto sintetico che io traggo dall’incontro di oggi: noi parliamo della vita partendo dall’esperienza non da un discorso. Il punto che più mi risuona, tra i mille i suggerimenti che ognuno di noi ha avuto, è che proprio la verità è qualcosa che accade e che sento corrispondere in una maniera che non capisco,perché ripeto quei sorrisi, quella letizia sarebbe inspiegabile, eppure accade. Forse meglio che, più che qualcosa che accade, è Qualcuno che accade: la verità. Oggi, e questo è il punto che traggo dalla lezione di Carter, oggi noi dobbiamo riflettere su queste esperienze, cioè noi dobbiamo essere capaci di giudicare questa cosa che succede e questo giudizio sistematico su quello che succede si chiama cultura. Il diritto, la politica fa parte della cultura di un popolo. Le regole, come si gestisce un ospedale, quali sono i protocolli, fanno parte della cultura di un popolo. Oggi tutto congiura a che queste esperienze, cioè questi fatti, non accadano. Non si fa il comfort care, e quindi non ci si attiva in nessun modo di fronte a queste persone, e dunque nessuno avrà più l’esperienza di questa felicità. Non ci si attiva. Il protocollo ci dice di fare altro. Oggi il vero attacco è impedire che accada la possibilità di vedere foto così. Allora, dico solo che questa è la responsabilità: educare uomini, donne con la passione per quello che vedono e che non hanno paura delle regole, dei protocolli, ma si fanno prendere da questo fascino. Grazie ancora a tutti e grazie ad Elvira Parravicini e a Carter Snead.

Trascrizione non rivista dai relatori

Data

24 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri