La tecnologia al servizio della didattica

Andrea Ferraresso, Docente Liceo Romano Bruni, Padova; Francesca Maganzi, Dirigente Scolastico Liceo Scientifico E. Torricelli, Bolzano; Stefania Nicolli, Dirigente Scolastico Fondazione Giovanni Paolo I, Mira, Venezia; Giovanna Tarantino, Dirigente Scolastico Istituto Istruzione Superiore Enrico Fermi, Policoro; Sara Terzoni, Docente Liceo Scientifico E. Torricelli, Bolzano. Introduce, Margherita Rabaglia, Dirigente Scolastico Istituto Istruzione Superiore Gadda , Fornovo di Taro, Parma.

L’innovazione sta nel cuore di ogni impegno educativo. La parola del docente (o del genitore) non può essere monotona, deve contenere ogni volta un accento nuovo, aggiornato. Può essere ripetitiva, ma non noiosa. Per questo l’innovazione è una dinamica propria dell’educazione. Eppure essa non si risolve semplicemente con nuovi strumenti. L’innovazione tecnologica è utile, fondamentale per il processo educativo, ma va pensata, progettata e monitorata lungo tutti i passi del percorso

Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna.

LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLA DIDATTICA

Margherita Rabaglia: Buongiorno a tutti, il titolo dell’incontro di questo momento “La tecnologia al servizio della didattica”. Presento gli ospiti-colleghi: Andrea Ferraresso, Docente, Liceo Romano Bruni di Padova; Francesca Maganzi, Dirigente Scolastico del Liceo Scientifico Torricelli di Bolzano; Stefania Nicolli, Dirigente Scolastico Fondazione Giovanni Paolo I, Mira, Venezia; Giovanna Tarantino, Dirigente Scolastico, Istituto Superiore Fermi di Policoro; Sara Terzoni, Docente del Liceo Scientifico Torricelli di Bolzano.

Il tema è particolarmente intrigante. In materia di tecnologia digitale la scuola italiana sta cercando, con grande fatica, di compiere dalla metà degli anni 80 un percorso di integrazione tra educazione e tecnologia, che è stato accelerato dall’emergenza pandemica. Ne è scaturita, secondo Rivoltella, una geografia a macchia di leopardo con isole d’eccellenza, là dove c’era già una cultura digitale e zone in cui non si è trovato null’altro di meglio che remotizzare la didattica in presenza. In ogni caso la bellissima immagine di Luciano Floridi sui media che sono onlife, ci ricorda che è impensabile tenere la tecnologia ai margini dei nostri percorsi presenziali. L’operatore della scuola che abbia capito quale sia lo spazio dei media nella società informazionale, comprende anche che i media digitali non possono essere esclusi dalla sua didattica, che non si può ignorare lo sganciamento rispetto allo spazio ed al tempo, soprattutto rispetto allo spazio, prodotto dalla larga applicazione dell’informatica. Inoltre la realtà di oggi è definita da molti studiosi come società post-mediale, espressione con cui non si intende certo dire che i media non ci siano più ma che sono scomparsi nella loro visibilità di strumenti. Nella società post-mediale, infatti, i media sono diventati parte integrante delle vite individuali e delle attività sociali delle persone e quindi è – come dire – che siamo di fronte ad una polverizzazione, ad una fortissima porosità dei media che entrano praticamente in tutti i processi – individuali e collettivi – e il tema merita di essere ben considerato all’interno dei percorsi didattici. Primo aspetto è quello della condivisione: una didattica aumentata digitalmente è una didattica che sa servirsi del digitale, supporto della condivisione, della co-costruzione, dello scambio della società del sapere, della possibilità di dare una nuova base unitaria all’impresa del conoscere. Secondo aspetto è quello dell’autorialità: tra le tante caratteristiche che i media hanno, c’è quella di essere dei dispositivi autoriali, dispositivi – cioè – attraverso i quali, con grande facilità, si fanno cose; e questo dentro una scuola del fare, dentro una scuola che si concepisce come laboratorio, come officina culturale, è la rappresentazione di un’opportunità straordinaria. I colleghi presenti daranno conto di quello che io ho introdotto sinteticamente. Iniziamo dal primo relatore e gli lascio la parola. Prego.

 

Stefania Nicolli: Un amico caro mi ha detto una volta: “Stefania, ricordati una cosa. Il mondo si divide in due categorie: i sollevatori di problemi e i risolutori. Vedi di stare dalla parte giusta, perché tra i sollevatori di problemi c’è un sacco di concorrenza, tra i risolutori un po’ meno”. Oggi proverò a raccontarvi come, nel fare scuola, noi cerchiamo di tirar su, di far grandi, generazioni di bambini e bambine che diventino risolutori di problemi. Sono Stefania Nicolli, mio nonno era il maestro del paese, il mio papà vicepreside della scuola secondaria e la mia mamma avrebbe voluto fare la maestra; quindi la scuola ce l’ho nel DNA, da sempre. Non a caso ho scelto di fare Scienze della Formazione Primaria e i miei vent’anni di esperienza nella scuola si sono sviluppati tra Emilia Romagna, Trentino Alto Adige e Veneto, tre regioni forti per la ricerca educativa. Cercherò di raccontarvi in che senso questo può c’entrare con la tecnologia oggi. La Fondazione Giovanni Paolo I, dove lavoro io, è una scuola che da cinque anni sperimenta la robotica, il thinkering e il coding con un’ora curricolare, dalla scuola dell’infanzia alla primaria. Un’ora aggiuntiva all’ora di informatica. In questi anni abbiamo accumulato più di 2500 ore di esperienza curricolare. La storia nasce nel 2017 quando vinciamo un bando STEM del Dipartimento per le Pari Opportunità e introduciamo questi ambiti; nel 2020 arriviamo primi in Italia e nel 2021 siamo selezionati tra le 20 scuole del Festival dell’innovazione Scolastica di Valdobbiadene. L’esperienza nostra è stata raccontata da alcune riviste accademiche come quelle del CIRD dell’Università di Trieste. Abbiamo collaborato, appunto, con l’università di Trieste, il Museo Civico di Rovereto, accreditato per la First Lego League, ma anche con realtà bellissime come i CoderDojo. Questa sono io e questa è la mia scuola, che ha una scuola dell’infanzia e primaria – la San Pio X di Mira – e una scuola primaria e secondaria – la San Domenico Savio -. Ma questa sono io, e voi chi siete? quanti di voi operano alla scuola secondaria? Per alzata di mano. Ok. Intendo secondaria di primo grado e di secondo eh. Quindi … ok. Scuola primaria? Ok. Scuola dell’infanzia? Lo sapevo … Asilo nido, sezione primavera? Ok. La tecnologia del Meeting per l’anno prossimo permetterà di farlo anche da remoto, ma per adesso accontentatevi di questo. Io parlerò a chi di voi opera alla scuola dell’infanzia nella fascia 0-6 anni; e se conoscete qualcuno, girate il link del video dopo perché spero che sia interessante. La mia scuola in questi cinque anni ha declinato le STEM – e qui nella slide vedete STREM perché accanto all’acronimo classico è stata aggiunta la R di reading, di lettura- in un taglio artigianale, del fare. Il discorso che vi farò si articolerà su tre assi, tre pilastri: l’unitarietà, l’idea dello sherpa e le soft skills. Unitarietà: questa immagine meravigliosa del Codice Atlantico di da Vinci ci racconta la prospettiva con cui, secondo noi, la tecnologia va declinata. Uno dei cento linguaggi – come diceva Loris Malaguzzi – capace di parzialità e di ricchezze, un linguaggio da conoscere. Lo racconterò in un approccio molto pratico, molto semplice, a partire dal robot più presente nelle scuole dell’infanzia e primarie: il classico Bee-bot o Blue-bot, in base alla console trasparente e qui vedete un’immagine di un’attività perché noi siamo partiti dall’idea che in ogni scuola dell’infanzia si parla della primavera. Ma perché non farlo attraverso la robotica? e altre scienze? Un po’ come Leonardo da Vinci che coniugava ingegneria ad anatomia. La sua infanzia è stata tutta nelle campagne e poi in bottega, tra pittura e esperienze clandestine di anatomia. Facciamolo anche noi: robotica, ma anche esplorazione con lenti e visualizzatori di modellini montessoriani ispirati proprio all’ape; e proiezione delle immagini, e esplorazione di un alveare, e osservazione delle forme esagonali che compongono l’alveare, e creazione di un giardino delle farfalle, e box degli esploratori, e algoritmi dimostrati con le fotografie dei bambini che passano dal miele allo spalmare il miele sul pane – fotografie a prova di Covid, plastificate – da ricostruire, per insegnare ai bambini un approccio all’algoritmo esperienziale, unitario. Matematica: silent book come questi che vedete. Attraverso questa mappa concettuale – di cui ringrazio Francesca che l’ha realizzata per noi – vedete un esempio e qui si va dalla T di tecnologia in cui mettiamo insieme proiezione di immagini, robot, ma anche esplorazioni sonore, o il tubo dei venti – ispirati all’exploratorium -, ad attività come possono essere quelle legate alla E di Engineering, e quindi l’esperienza di macchine volanti per scoprire cos’e il volo. Insomma le STREM, da questo punto di vista, possono essere un volano anche per le scuole dell’infanzia più piccole, anche per la scuola primaria, perché l’esperienza è il cardine anche della tecnologia. Simone. L’approccio che abbiamo noi cerca di promuovere la scoperta dei bambini. Simone è un bambino della nostra scuola – DSA con gravi problemi di irrequietezza; frequenta spesso il mio ufficio di preside – ma di fronte alla prima esperienza con Ozobot, questi robot che si programmano con sequenze di colori, ha mostrato che i bambini hanno una potenzialità di scoperta estrema. Io ho detto: “Scoprite voi come si programmano, potete usare tutto quello che c’è nell’astuccio” e lui, provocatorio: “Ma anche la matita grigia?” Per chi non lo sapesse questi robot si programmano con sequenze di pennarello e io, da maestra fatta, ho risposto: “Sì, può essere, prova” ma pensavo già di sapere che non avrebbe funzionato. E invece? E invece la scoperta perché gli Ozobot si programmano anche con sequenza di matita grigia. Non c’è scritto nei blog: Simone l’ha scoperto, per lui e quelli come lui che hanno bisogno di altri linguaggi, noi non possiamo tirarci indietro rispetto alla tecnologia ma dobbiamo cucirla col nostro punto, col nostro modo di fare. E qui viene il ruolo dello sherpa. Mi hanno detto di non dirlo perché non sarebbe piaciuta questa parola, perché è umile, modesta e il docente un po’ si sente capitano, non sherpa. Ma io penso che nel cuore di un capitano c’è anche un cuore di servizio, come lo sherpa appunto, che aiuta l’alpinista ad arrivare in cima all’Everest. Quali caratteristiche? Un cuore indomito. Non serve sapere tutto: la tecnologia è una palestra di scoperta in cui io e gli alunni siamo al pari, come Simone. Ovviamente quando si va nelle scuole si incontrano scuole virtuose con apparati meravigliosi, e scuole più … alle prime armi. Le più virtuose trovano spesso una stampante 3D impolverata, inutilizzata. Altre scuole trovano invece docenti che vorrebbero osare, ma che hanno paura; altre scuole trovano dei docenti che dicono “Sono l’unico, non c’è nessuno con me”. Allora il primo sherpa non è l’insegnante ma è il Dirigente Scolastico, ma è l’animatore digitale, ma è il vicario, colui che sceglie che formazione fare e che macchine acquistare. Il mio suggerimento è: ausili a basso costo – massimo 150 € per un kit robotico, 200 per una mini-plotter da taglio, 400 per una stampante 3D-. Così da permettere al docente di dire “Vuoi provare? Portala a casa”. Io ho fatto portare a casa anche stampanti 3D – complici le vacanze – perché il docente le testasse coi suoi figli. Perché non è quello che ho in mente io ma quello che lui può fare, un po’ come diceva Papert che il computer poteva permettere di fare 200 cose: anche la tecnologia, ma va cucita su misura sull’insegnante. Perché se io amo cucire userò il wearable device per creare delle cose meravigliose; ma se io ho una sensibilità più attenta all’impasto farò circuiti morbidi, conduttivi; ma se a me non importa niente di queste cose lavorerò con Scratch. Ogni docente – come i cento linguaggi di Malaguzzi per i bambini – deve poter scegliere il suo linguaggio. Terzo punto le soft-skills: ho preso a prestito la frase dei CoderDojo, amatissimi, bussola del mio operare: prima di chiedere a me adulto chiedi a tre. E questo è il mantra che cerchiamo di trasmettere nelle scuole dell’infanzia dove facciamo robotica con gruppi misti di età: bambini di tre, quattro, cinque anni guidati dalla maestra – gruppi di 20 bambini – creiamo, allestiamo la stanza con aree di interesse, con banchi con quattro postazioni, piccoli gruppi per favorire la cooperazione e per insegnare la pazienza. E se devo creare un circuito conduttivo do un barattolo di pittura conduttiva e due pennarelli, e due pennelli ma i bambini sono quattro, e gli altri due? Attendono. La pazienza. Prima di chiedere a me chiedi a tre. Ma in tutto questo le famiglie? Abbiamo provato a coinvolgerle, abbiamo inventato le “merende STEM” o i “gelati digitali”: pomeriggi in cui abbiamo invitato le famiglie a fare scuola con noi, a fare innovazione con noi, a scoprire con noi – con sfide di robotica, di Scienze, di coding, di thinkering, in cui passare anche qualche contenuto; del tipo: lo sapete che delle app educative – negli studi del 2015 – solo il 2% era realmente aperto, costruttivo, creativo? E per le maestre dell’infanzia collegate faccio qualche esempio: “Stop Motion”, “My Little Book”, “SoundForest”: queste sono app che permettono di spaziare, ma personalmente noi non introduciamo il tablet alla scuola dell’infanzia, usiamo la tecnologia cucendola sui bambini. L’elastico. Questa attitudine si allena un momento alla volta, a partire da intelligenze particolari. Una mamma ci ha detto che una volta a casa ha detto “Bambini non ho l’elastico, l’avete visto?” E uno dei nostri alunni ha detto “No, non l’ho visto, ma se vuoi te lo costruisco”. Pongo la domanda a voi: Come costruireste un elastico con i materiali presenti a casa vostra o nel lavoro, due mesi fa? Lui ha pensato all’FP2, ha le stringhe, le ha legate, le ha cucite, ha creato un elastico e ci ha cucito su un bottone. E ha fatto un elastico per la mamma. Per bambini così noi non dobbiamo perdere l’occasione di fare tecnologia, a modo nostro, in un’attitudine che si allena, perché, come diceva Einstein: “La logica vi porterà da A a B; l’immaginazione, dappertutto”

 

Margherita Rabaglia: Grazie.

 

Francesca Maganzi: Il progetto che presentiamo è stato svolto in una classe seconda del Liceo Scientifico Torricelli di Bolzano e ha per titolo “La matematica del contagio”. Quello che ci siamo chiesti è stato, innanzitutto, come far sì che l’integrazione delle nuove tecnologie – benché in forma semplice, in un progetto didattico – tornasse a beneficio della crescita culturale e personale degli alunni; quindi che non si limitasse a essere una semplice – diciamo così – risposta di facciata o una soluzione moderna che però non incide sulla crescita dei ragazzi. Da questo punto di vista tutto il percorso progettuale – dalla programmazione alla conduzione e poi al monitoraggio – ha tenuto conto di questo aspetto, di questa finalità nell’integrazione delle nuove tecnologie; e, in particolare anche in fase di programmazione, di una serie di vincoli – condizioni preesistenti – che in qualche modo dovevano essere commisurati con l’utilizzo delle nuove tecnologie. In particolare mi riferisco, qui nello specifico di questo progetto, al dettato della previsione normativa locale; perché le indicazioni provinciali per i curricoli del secondo ciclo della scuola di Bolzano prevedono proprio questo tipo specifico di progettualità nei primi due anni delle scuole superiori, in forma di un progetto, che si definisce appunto “area di progetto”. L’“area di progetto” viene intesa come un laboratorio concreto, a carattere interdisciplinare dove le discipline di uno stesso asse, in questo caso l’area matematico-scientifica, dialogano tra loro sullo sfondo di una cornice pedagogica. Questo vincolo è stato quello di cui abbiamo maggiormente tenuto conto nella progettazione della nostra esperienza e, in particolare, nell’integrazione delle nuove tecnologie. Da qui è derivato il tipo di lavoro che i docenti hanno svolto – e quindi la collaborazione collegiale tra i docenti – e anche questa volta abbiamo visto come l’utilizzo delle nuove tecnologie sia andato a supporto sia della programmazione collegiale dei docenti, sia poi del processo di insegnamento e di apprendimento da parte dei ragazzi. Quindi nella fase di programmazione l’utilizzo di certi software ha aiutato a capire quale potesse essere l’approccio più utile, l’apporto più utile di ogni singola disciplina alla realizzazione del progetto. Così come anche è stato necessario definire in premessa quali discipline, su quali discipline, si sarebbe concentrato il progetto e la ricaduta, quindi, in termini di utilità dell’utilizzo dei software che poi la professoressa Terzoni presenterà. Ultimo – ma non ultimo – il lavoro così svolto, cioè la collaborazione, la programmazione collegiale dei docenti, la conduzione interdisciplinare del progetto sostenuta dall’utilizzo di risorse tecnologiche innovative – ma forse, insomma, anche molto semplici, ma comunque di nuove tecnologie – ha aiutato, ha favorito, il consolidarsi di una dimensione comunitaria della conoscenza. Cioè: abbiamo osservato nel nostro progetto che l’utilizzo, l’impiego delle nuove tecnologie aiuta la diffusione di una conoscenza di tipo comunitario, quindi aiuta a uscire da quello schema un po’ classico, un po’ tipico, se vogliamo, di una delle forme più tradizionali del nostro insegnamento, del nostro apprendimento, che sono quelle rigidamente divise per discipline, intese come compartimenti stagni. Qui vediamo invece come la conoscenza intesa come trasmissione e come acquisizione di conoscenze, contenuti, metodi e competenze abbia tratto beneficio dalla condivisione generata anche dall’utilizzo delle nuove e favorita dall’utilizzo delle nuove tecnologie. In questo senso non mortificando il sapere individuale ma, al contrario, valorizzando i talenti personali nell’ambito della realizzazione di un progetto comune. Grazie

 

Sara Terzoni: Buongiorno a tutti, vi ringraziamo di essere qui. Allora, con la classe II D abbiamo svolto il progetto “La matematica del contagio”, questo progetto ci ha permesso di applicare le diverse – appunto – discipline in ambito anche proprio tecnologico. Ma qual è lo scopo principale del nostro progetto? È stato quello di ricreare un clima di gruppo che perlopiù era andato purtroppo perso in questi anni di pandemia; e le tecnologie digitali di cui noi abbiamo fatto uso le abbiamo utilizzate proprio come collaboration-tools. Però prima di cominciare ad esporre questo piccolo progetto vorremmo proprio lasciare la parola ai nostri ragazzi che hanno proprio voluto creare per voi questo video e cioè per essere qui con noi tutti. Buona visione

 

Trascrizione del video in cui intervengono la prof. Sara Calzoni ed i ragazzi della II D [min 24.53 a min 29.24]

 

Sara Calzoni: Buongiorno a tutti sono la professoressa Sara Calzoni e insegno matematica e fisica al Liceo Scientifico Evangelista Torricelli di Bolzano. in questo video presenteremo il progetto interdisciplinare dal titolo “La matematica del contagio: modelli epidemiologici come strumento di cittadinanza scientifica”. Il progetto in questione è stato svolto dalla nostra classe II D ed ha promosso un’esperienza formativa ai fini di apprendere ed applicare le diverse discipline, scientifiche e non, in ambito epidemiologico, tematica molto importante vista l’emergenza sanitaria in corso. Il progetto ha permesso di ricreare un clima di gruppo per lo più andato perso in questi anni di pandemia, anni in cui i nostri ragazzi si sono abituati ad essere spettatori passivi invece di attori protagonisti della scuola. Sono state utilizzate le tecnologie digitali, intese come collaboration tools, intese come utile strumento di apprendimento e di promozione della collaborazione, della cooperazione e della distribuzione della conoscenza. Ma quindi chi se non i nostri ragazzi possono spiegare al meglio il progetto e dire, in particolar modo, le attività degli aspetti che hanno consentito di conseguire ottimi risultati utilizzando l’innovazione tecnologica? Vediamolo tutti assieme. Buona visione.

 

Alunno 1: Buongiorno a tutti, siamo la classe II D del liceo scientifico Evangelista Torricelli di Bolzano, indirizzo scienze applicate. In questa breve presentazione desideriamo mostrarvi il nostro progetto “La matematica del contagio: modelli epidemiologici come strumento di cittadinanza scientifica” e le sue fasi di realizzazione.

 

Alunno 2: Come abbiamo organizzato il progetto? ci siamo divisi in gruppi eterogenei e per ogni gruppo è stato nominato un capogruppo che ha riferito puntualmente ai nostri professori lo stato di avanzamento dei lavori e si è occupato di coordinare e suddividere equamente i compiti all’interno del team. Questo ha aiutato molto a sviluppare una nostra autonomia gestionale. Ecco i gruppi di lavoro suddivisi per tematiche legate alla matematica del contagio.

 

Alunno 3: Team 1: modello esponenziale; team 2: modello logistico; team 3: modello SIS; team 4: modello SIR; team 5: modello SIRS, SEIR e MSEIR; come il singolo e la popolazione possono limitare i comportamenti e a rischio e agire per arginare le infezioni.

 

Alunno 4: Questo progetto ha promosso un’esperienza formativa ai fini di apprendere ed applicare le diverse discipline – scientifiche e non – in ambito epidemiologico, tematica molto importante vista l’emergenza sanitaria in corso.

 

Alunno 5: Il lavoro nei gruppi è stato monitorato dai nostri professori sia in progresso che a lavoro concluso, anche grazie alla creazione di una classe virtuale per una condivisione rapida dei materiali ed informazioni.

 

Alunno 6: La classe virtuale ci ha permesso di interagire, comunicare, e condividere in modo veloce notizie e dati di rilievo, visualizzare materiali e discutere in un ambiente online anche in tempo reale. Ciò ci ha permesso di sviluppare una maggiore collaborazione tra noi e i nostri professori.

 

Alunno 7: Come prodotto finale ogni gruppo ha realizzato un sito web riguardante l’argomento assegnato utilizzando Wakelet, un ambiente virtuale online gratuito che permette la creazione di un portfolio in cui è possibile inserire video, PDF, immagini e link. Il Wake – con tale termine viene definita la pagina web utilizzata con Wakelet – è stata quindi la nostra vetrina espositiva della tematica assegnata ad ogni team. Tramite Wakelet è stato possibile creare inoltre una cartella collaborativa: i componenti di ogni gruppo potevano infatti accedere, non solo in visualizzazione, ma anche in modifica. Abbiamo capito l’importanza di cooperare per un obiettivo comune.

 

Alunno 8: Oltre al sito web abbiamo realizzato anche presentazioni multimediali e di codici QR relativi agli elaborati finali del progetto in modo da racchiudere poi in un unico poster virtuale i lavori di ciascun gruppo.

 

Alunno 9: Infine abbiamo utilizzato la stampante 3D Ultimaker del nostro liceo per la creazione di un prototipo di struttura di virus tramite Tinkercad.

 

Alunno 10: Tutto ciò è servito come supporto per l’esposizione orale tenutasi al termine della settimana di progetto. Si è trattato di un bellissimo momento di condivisione dei saperi acquisiti.

 

Alunno 11: Riteniamo che nella didattica le tecnologie digitali intese come collaboration tools siano un’opportunità di arricchimento formativo ed educativo da utilizzare sempre, quando possibile, come utile strumento di apprendimento e di promozione della collaborazione, della cooperazione e della distribuzione della conoscenza.

 

Alunno 12: Che ne pensate? Con la nostra matematica del contagio, siamo riusciti a contagiarvi di spirito di squadra ed innovazione tecnologica per riuscire ad imparare divertendosi?

 

In Coro: Vi ringraziamo per l’attenzione.

 

Sara Terzoni: Quindi la parola d’ordine del nostro progetto, qual è stata? Collaborazione. Collaborazione che abbiamo quindi svolto con svariati strumenti come proprio abbiamo visto, quali Google Classrom, Wakelet e QR-code, poster virtuali, stampante 3D. Ma la tecnologia del nostro progetto, cos’è che ha fatto? Ha messo al centro l’alunno e quindi ha generato un maggiore senso di impegno e anche di autostima. E quindi ci chiediamo: ma la tecnologia migliora gli apprendimenti? La risposta è: non lo sappiamo, non lo sappiamo perché quello che poi conta, cos’è? Il fattore umano, quello che riesce a volgere al bene o al male qualsiasi cosa. Grazie per l’attenzione.

 

Giovanna Tarantino: Buongiorno a tutti. Adesso vi parlerò di un progetto della scuola secondaria di secondo grado, un progetto realizzato nella Basilicata, nella città di Policoro e nella scuola che dirigo ormai da sette anni. Naturalmente vedrete soltanto il risultato finale, in maniera semplicistica, perché è stato elaborato. Queste sono immagini di repertorio dove invece ad essere protagonisti sono gli alunni. Mandiamo il video. Prego.

 

Trascrizione del video in cui intervengono i ragazzi del liceo Fermi [min 31:02 a min 32:50]

 

Alunno 1: Buongiorno, benvenuti a una nuova edizione di MeteoFermi. Sulla nostra regione continuano a sentirsi gli effetti di una circolazione instabile con rovesci e locali temporali pomeridiani. Le temperature sono in rialzo e i venti sono deboli, provenienti dai quadranti nord occidentali.

 

Alunno 2: Cosa è successo quest’anno? Adesso vi illustreremo il monitoraggio dei parametri metereologici fondamentali rilevati da maggio 2020 a maggio 2021.

 

Alunno 3: Il giorno più caldo è stato il 2 agosto 2020. Si è registrata una temperatura di 38°.

 

Alunno 4: Invece il giorno più freddo è stato il 17 gennaio 2021, registrando una temperatura di circa 1°.

 

Alunno 5: Il giorno con la percentuale di umidità più alta è stato il 29 aprile, con un valore pari al 97%.

 

Alunno 6: Il giorno con le maggiori precipitazioni è stato il 4 aprile 2021, con un valore registrato pari a 526 mm circa.

 

Alunno 7: Il giorno più ventoso è stato il 5 dicembre 2020, registrando un’intensità 48 km/h.

 

Alunno 8: Il giorno con la pressione più alta registrata è stato il 23 febbraio 2021, con un valore pari a 1043 hPa

 

Alunno 9: Grazie per averci seguito, ci vediamo l’anno prossimo e nel frattempo seguiteci sull’applicazione e sul sito e ricordatevi: stai sereno!

 

In Coro: Con noi di Chat Meteo

 

Giovanna Tarantino: Il bollettino meteo, quanto mai attuale visto i tempi, e poi un report finale che viene fatto ogni anno sulla media delle condizioni atmosferiche, metereologiche, del nostro territorio. È un progetto che viene svolto ormai da cinque anni; è messo a sistema e ha una peculiarità: quella di formare la figura del meteorologo nei giovani ragazzi, soprattutto nell’articolazione e conduzione del mezzo navale; è partito, naturalmente, da un’idea: quella di poter prevedere le condizioni metereologiche nel nostro territorio dandone una previsione giornaliera, come avete visto nella prima parte del video. Naturalmente non è una cosa facile – la tecnologia ci è venuta in aiuto e, naturalmente, siamo partiti da cosa? Dal fatto che spesso i ragazzi sapevano usare la tecnologia meglio di noi adulti; e allora abbiamo fatto una programmazione a ritroso, una programmazione partendo dal dato reale per poter poi ideare, progettare, quantificare, programmare le attività in una forma multidisciplinare come quella del meteo, che avesse però anche un obiettivo che era quello di supportare le aziende agricole, il settore turistico e la nautica da diporto – visto che si rivolgeva soprattutto all’istituto tecnico -. Naturalmente l’obiettivo è stato ambizioso. Obiettivo però raggiunto perché c’era una rilevazione in situ dei parametri metereologici ai fini di adattarli, naturalmente, alla scala locale però producendone una medio-alta attendibilità; diffondere dei bollettini meteo ad alta fruibilità -in modo che tutti ne potessero conoscere i dati -; quindi è stata ideata, programmata e prodotta un’app dagli stessi ragazzi. Infine, la cosa che è piaciuta di più è la linea educativa sottesa a questo progetto. Fondamentalmente sono state tutte attività laboratoriali. Didattica quindi in spazi – e dove anche la stessa aula diventava laboratorio -; e ha visto naturalmente diverse fasi: l’educazione, la rilevazione dei dati – naturalmente – attraverso delle fasi ben precise, che era una ripresa dei contenuti delle discipline che hanno lavorato in forma multidisciplinare e attraverso anche proprio la rilevazione e i l’uso dei mezzi impiegati che erano di tipo satellitare a scala sinottica, naturalmente quelli accesso ad accesso libero. Successivamente lo studente diventava e diventa meteorologo, in modo da poter sviluppare tutte quelle conoscenze e le abilita all’uso degli strumenti di laboratorio. Questo ha consentito, non solo la lettura della nostra stazione meteo che abbiamo sul tetto del nostro del nostro istituto, ma anche – soprattutto – la lettura delle carte, pressione e degli agenti atmosferici che vengono, naturalmente, rilevati quotidianamente. Infine il meteorologo da formato diventa formatore e questo ha portato, senz’altro, ad un innalzamento dei traguardi di competenze tipici degli istituti tecnici che, necessariamente, devono – secondo noi – coniugare il sapere al saper fare. Ha un duplice risvolto positivo: oltre alle conoscenze per sé questo tipo di progetto ha avuto e ha svolto un ruolo anche di tipo sociale, tant’è che la metodologia e i dati di Meteo Fermi venivano condivisi tra gli operatori del settore e quindi, ecco, un apprendimento sociale, solidale, che veniva condiviso. Quindi la scuola ha tentato di coniugare il sapere con il saper fare in una forma, penso, abbastanza efficiente. Però la cosa che, insomma, ci tenevo, in un certo senso, a rilevare oggi era quello proprio che questo tipo di progetto è stato condiviso a livello collegiale. Bisogna formare una idea di innovazione che non può essere soltanto di una delle componenti scolastiche ma deve essere partecipata, e questo lo si fa innanzitutto con una condivisione, sviluppando creatività, curiosità, poi mettendo a sistema: avere un’idea reale dove praticamente i ragazzi possano godere la fruibilità e poi anche la produttività di quello che realizzano. Ed infine metterlo a sistema perché il progetto – o qualsiasi attività – deve essere monitorata, deve essere affidabile, deve essere

Incisiva – come diceva la collega prima – ad un sapere che è pensato. Da qui l’idea che tutte le attività tecnologiche di cui la nostra scuola – l’Enrico Fermi di Policoro – ha a disposizione, vengono esplicitati in moltissimi altri progetti dove però lo sfondo e la cornice ha sempre quello dell’adozione di una metodologia innovativa. Sia il Piano Nazionale Scuola Digitale ce ne fornisce di esempi ogni anno, sia quello territoriale che è quello nazionale, ma anche molto produttivo è il riferimento all’istituto INDIRE – in particolar modo ad Avanguardia Educativa – che ci dà una matrice entro cui definire i confini per l’applicazione della tecnologia che deve essere necessariamente guidata, supportata, calibrata anche alle reali capacità dei ragazzi. Bisogna indirizzarli, bisogna lavorarci, bisogna esprimere energia, far vedere quanto la tecnologia piuttosto che – insomma – essere usata passivamente, dargli invece un valore. E questo – grazie a Dio – lo realizziamo in diversi progetti. Quello che avete visto è solo una piccola parte. Ci sono in essere e abbiamo realizzato nell’ambito della disciplina di elettronica, di altri contesti, sia delle guide – come dicevo – all’interno del Festival dell’innovazione, accessibili, ma anche altri progetti che nascono però da un’idea fondante che non può essere staccata dal progetto educativo in primis che la scuola fornisce. Grazie per l’attenzione e soprattutto grazie ai promotori del Festival dell’Innovazione che ogni anno ci spingono a dare e a sollecitare, non solo la comunità scolastica, ma anche a riflettere sulla validità o meno di alcuni mezzi, di alcuni strumenti, a cui non possiamo lasciare soltanto un uso creativo o – voglio dire – all’ultimo grido, ma che debba avere e debba rientrare in un contesto, in una matrice educativa, a cui noi siamo educati da anni. Grazie mille.

 

Andrea Ferraresso: Buongiorno a tutti, mi chiamo Andrea Ferraresso. Sono un consulente informatico che lavora anche per l’editoria scolastica e da qualche anno insegno informatica al liceo Bruni di Padova. Ora parleremo di STEM, STEM è una sigla che vuol dire “scienze tecnologia ingegneria e matematica”, però dietro a questa sigla si nasconde qualcosa di più importante cioè si parla di una revisione delle metodologie didattiche per integrare le varie discipline scientifiche e umanistiche. Sostanzialmente fare STEM significa mettere i ragazzi di fronte a un problema e insegnare loro a risolverlo integrando le conoscenze che hanno appreso studiando le varie discipline. Il vero problema è che trovare delle attività realmente STEM – specie in Italia – è abbastanza difficile. Io insegno – un lavoro – però la cosa più divertente che faccio è un’associazione che, in maniera totalmente gratuita, organizza Code Dodger: cioè sono delle palestre di coding e robotica. Tra il 2014 e il 2020 – prima della pandemia – abbiamo tenuto decine di incontri, la maggior parte dei quali in collaborazione col polo scientifico dell’Università Ca’ Foscari. Ai primi incontri avevo mille problemi perché poi i docenti mi contattavano tramite i social e mi chiedevano di non farlo più perché gli alunni tornavano in classe e chiedevano di fare ad esempio coding con Scratch o di fare robotica. Poi, in realtà, il clima è cambiato molto in fretta e hanno cominciato a invitarmi. Io per diversi anni ho girato l’Italia a fare il formatore e mi sono anche divertito un sacco. In piena pandemia il liceo Bruni di Padova mi chiama e mi chiede di insegnare informatica come materia di potenziamento. Avendo – diciamo – abbastanza libertà, mi muovo seguendo quelle che sono le idee costruzioniste e di Papert – che era un professore dell’MIT che è stato uno degli inventori del linguaggio LOGO, prima ancora era stato allievo di Piaget, quindi aveva una mente molto ampia -. Mi muovo, diciamo così, su questo terreno e scopro che esiste una sfida che si chiama AstroPi: è una sfida dell’ESA che consiste sostanzialmente nel proporre un progetto e poi, se si viene selezionati, scrivere un programma in Python – è un linguaggio di programmazione piuttosto diffuso alla scuola secondaria – e questo programma gira nella stazione spaziale internazionale, raccoglie dei dati all’interno della stazione spaziale, oppure li raccoglie facendo delle foto perché è abbastanza … gira su dei computer che sono abbastanza accessoriati e i dati, una volta ricavati, vengono utilizzati per essere analizzati e creare una relazione. Io siccome l’anno precedente con questa classe avevo già introdotto sia Scratch che Python e anche altri strumenti come Tinkercad per la progettazione 3D o per la simulazione dei circuiti, ho proposto – quando erano in seconda – di partecipare a questo concorso dell’ESA, che è una sfida STEM vera e propria. E si impara anche subito una cosa: che non è necessario, cioè, non è fondamentale, sapere programmare. Sì, serve per poter partecipare a una sfida del genere, ma servono anche altre capacità, altre conoscenze. Ad esempio, la prima relazione va scritta in inglese e quindi i ragazzi devono, oltre che inventare l’esperimento che vogliono fare, devono anche scriverlo in inglese. Poi, i ragazzi sono abituati a risolvere problemi che di solito gli vengono proposti, specie dai libri, in maniera piuttosto meccanica; qui invece loro dovevano inventarsi il problema che poi avrebbero risolto e questo li porta su tutto un altro piano. Poi c’era una serie di vincoli da rispettare: ad esempio l’esperimento poteva durare – cioè girare nei computer dell’ESA – per un massimo di tre ore e non si sapeva esattamente queste tre ore se fossero di notte, di giorno, o in che orario, perché quando veniva eseguito, veniva eseguito. Quindi ci si trovava a doversi fare poi tutta una serie di domande. Questo computerino è un Raspberry, che è un computer creato in Inghilterra per la scuola, modificato con dei sensori dall’ESA per poi poter essere messo nella Stazione Spaziale. Quindi ci sono una serie di vincoli e una serie di opportunità e nascono anche tutta una serie di domande. Cioè i ragazzi si chiedevano: OK, ma la stazione spaziale quanto alta è sopra la Terra? Quanti giri fa? O: quanto ci mette a fare il giro completo del globo terreste? Che percorso seguirà? E quindi bisognava, ad esempio, studiarsi il funzionamento di Google Maps e parlare in maniera approfondita – quindi non per trovare il percorso, magari come l’ho usato io per venire a Rimini – e anche di capire come funzionano le coordinate geodetiche e così via. E poi c’era tutto il problema del fatto di che tipo di foto si sarebbero scattate da così in alto fino alla Terra. L’idea – ve la faccio breve – che è emersa nei ragazzi è stata quella di scattare delle foto della Terra per valutare lo stato della vegetazione e capire poi se, negli anni, l’inquinamento aveva contribuito o meno a migliorarlo o peggiorarlo e cosi via. Ovviamente, come si valuta lo stato della vegetazione? Non è semplice, perché i ragazzi – cercando in Google – hanno scoperto che esiste un indice che si chiama NDVI e che serve, appunto, partendo dall’immagine, per calcolare qual è lo stato della vegetazione rispetto a un’immagine che gli viene data. Ho anche scoperto che la NASA raccoglie tutta una serie di dati – ad esempio – e mantiene lo storico sul biossido di azoto. E poi hanno scoperto che esistono degli open data – intanto hanno scoperto che esistono gli open data, cioè dati aperti – ma che ne esistono proprio relativi all’inquinamento che vengono raccolti da un sacco di anni dalle università di tutto il mondo e sono abbastanza – diciamo così – geolocalizzati; quindi sappiamo dove vengono raccolti e possono essere scaricati come un normale foglio Excel e, in qualche maniera, elaborati. Hanno anche scoperto, tra l’altro, che – ….scoperto: gliel’ho detto io, gli ho insegnato ad usare le basi – esiste una piattaforma che si chiama Github che serve per diffondere e condividere o del codice – quindi dei programmi informatici – o anche dei dati. In Italia è diventata abbastanza famosa perché, quando c’è stata la pandemia, la protezione civile diffondeva tutti i dati della pandemia tramite Github; ma ci sono anche un sacco di sia aziende private che la utilizzano, sia software open source che vengono sviluppati in maniera condivisa da programmatori in tutto il mondo proprio tramite Github. Senza contare poi che, lavorando per progetti, questo tipo di attività – come quella dell’AstroPi dell’ESA – aiuta a sviluppare le cosiddette soft skill che includono, tra l’altro, il pensiero critico, la capacità di lavorare in gruppo, delle abilità che sarebbe bello che poi i ragazzi, in realtà, sviluppassero anche prima, già fin dalla primaria perché poi sono estremamente utili. Poi permettetemi due parole sul coding, cioè sulla programmazione. Il coding potrebbe essere il collante delle STEM però non è semplice proporlo a scuola. Io ho imparato a programmare da autodidatta, da bambino, con un Commodore 64, ma quello che conta è la motivazione: io volevo programmare videogiochi come quelli che – erano gli anni 80 – si vedevano nei bar e quindi, ad esempio, dovevo ruotare qualcosa e ho scoperto che esisteva la trigonometria che, stranamente, alla scuola media non veniva insegnata – perché mi è stata insegnata solo alle superiori – quindi mi sono procurato un libro di trigonometria per capire come calcolare la rotazione di qualcosa. Quindi quando ho insegnato al Bruni avevo la questione della motivazione, la questione della motivazione ce l’avevo abbastanza in testa tanto che, se voi parlate con i ragazzi, al di là dei personaggi magari dei social, un personaggio che loro ammirano molto – nel bene o nel male – è Elon Musk e quindi proporre qualcosa di spaziale, già questo li appassiona. Poi bisogna tener conto che i ragazzi ragionano e lavorano in maniera molto fluida. Noi abbiamo delle aule informatiche in giro per l’Italia che sembrano laboratori di dattilografia degli anni 70. I ragazzi un giorno arrivano con il computer, il giorno dopo arrivano col tablet, quindi bisogna lavorare e riuscire ad adottare strumenti multipiattaforma altrimenti ci si blocca alla seconda lezione, sostanzialmente. E poi, anziché intestardirsi a insegnare un linguaggio di programmazione, visto che ce ne sono decine, secondo me è molto meglio sviluppare, lavorare sullo sviluppo del pensiero computazionale, che non significa imparare a pensare come il computer, ma imparare a pensare in maniera algoritmica, cioè creare algoritmi che poi possono essere implementati in qualsiasi linguaggio di programmazione. Quindi, quando gli studenti hanno imparato quelle cose lì – sono gli schemi, le ripetizioni – una buona parte del lavoro è fatto e la tecnologia arriva solo in seconda battuta. Tra l’altro, se si entra in quest’ottica si superano anche gli stereotipi di genere. Cioè: non è vero che alle ragazze non interessa la tecnologia o che non sanno programmare; se noi pensiamo che il coding è qualcosa per esprimersi – come lo è stato la penna biro e la penna prima ancora – allora noi li facciamo esprimere e loro esprimono sé stesse – le ragazze in questo caso – e imparano a programmare perché devono fare qualcosa che gli interessa. Quindi, da questo punto di vista, si può partire benissimo con un linguaggio visuale come Scratch che è anche molto inclusivo perché, magari, chi è alle prime armi o ha qualche difficoltà, comunque riesce a vedere subito il risultato di quello che fa; e poi si apre un mondo di piattaforme simili, quali possono essere ad esempio Makeblock che consente – sempre a blocchi come Scratch oppure con una programmazione testuale come è quella, ad esempio, di Python – di programmare robot; oppure schede AMICO controllore, come quelle della famiglia Arduino, e così via. Si possono usare degli strumenti come Edublocks che consentono di programmare in Python proprio a blocchi. Quindi il passaggio da Scratch – che è un software dell’MTI studiato apposta per introdurre l’informatica, ma anche per far vedere qual è il lato umanistico del coding nei bambini e nei ragazzi – si passa poi a un linguaggio di programmazione come il Python che viene usato nella sfida e dell’ESA. In realtà il mio intento al Bruni non è quello di creare dei programmatori, ma creare dei cittadini consapevoli. Quindi i prossimi passi, quelli che vorrei fare, sarebbe di parlare di robotica in maniera un po’ più – diciamo così -dettagliata. Esiste una piattaforma, sempre gratuita e open come quelle che ho descritto prima, che si chiama Open Roberta ed è stata fatta per la scuola tedesca ma è tradotta anche in italiano. Quindi, sostanzialmente, è un simulatore robotico, non serve avere i robot. E la cosa ancora più bella che sarebbe da fare, sarebbe cominciare a parlare di intelligenza artificiale perché è un tema che ci sta coinvolgendo tutti e i cittadini consapevoli di domani devono sapere che cos’è l’intelligenza artificiale. Poi, in realtà, la cosa che vorrei fare ma è troppo pericolosa – quindi non l’ho detto neppure ai vertici della scuola che sono comunque presenti qua – è lanciare qualche piccolo razzo, cosa che negli Stati Uniti ha anche creato una certa letteratura sul tema. Quindi, il rettore della scuola è qui ma farà finta di non avermi sentito … sto cercando di realizzarli in maniera più sicura possibile e quindi queste sono un po’ le prospettive a cui si può arrivare anche senza essere dei programmatori – diciamo così – di prim’ordine perché si mette il lato umano davanti alla tecnologia.

 

Margherita Rabaglia: Bene. Abbiamo visto come la tecnologia può addirittura rappresentare un terzo insegnante, ovvero una risorsa aggiuntiva in classe in grado di supportare, aiutare nello studio integrando nel progetto educativo e formativo di una persona quanto una volta era rappresentato dal semplice spazio, dai materiali utilizzati nel gioco scolastico – come sosteneva Loris Malaguzzi, insegnante pedagogista -. Pensiamo soltanto – l’hanno accennato i colleghi – a quanto possa risultare utile un computer, un tablet, per un bambino con disturbi specifici d’apprendimento, quando un software può trasformare un lungo testo da leggere in una sintesi vocale; o piuttosto di fronte a un docente, una mappa concettuale, un’infografica, ovvero un’immagine evocativa da condividere con gli alunni. Le nuove tecnologie in classe permettono di realizzare simulazioni, viaggiare, orientarsi, reperire informazioni da fonti diverse, confrontarle tra loro, scrivere testi più umani in modo cooperativo, guardare video tutorial, svolgere esercizi interattivi. Ovvero: ci consentono di rispettare i compiti autentici e dinamici, esperienze che prevedono un coinvolgimento attivo da parte degli alunni utilizzando strumenti a loro familiari. Credo che le testimonianze dei colleghi siano state fantastiche. Sono esperienze, peraltro, che fanno parte del grande patrimonio del Festival dell’innovazione di Valdobbiadene che quest’anno vedrà la seconda edizione nella prima settimana di settembre, con la presenza del ministro Bianchi. Mi corre l’obbligo in chiusura di ricordare che il Meeting è un evento del tutto unico. L’esito sorprendente, sempre nuovo, di una straordinaria collaborazione umana come abbiamo visto anche stamattina nella coralità, insomma, di questi interventi; una civiltà non cresce senza cultura, dialogo e bellezza: ne sono la linfa vitale. Il Meeting è da sempre luogo di cultura e ciascuno di voi può contribuire a far continuare questa grande storia. Incontrerete lungo la fiera postazioni Dona Ora, caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni saranno unicamente da darsi ai desk, dove vi aspetteranno i volontari. Importantissima novità: da quest’anno la Fondazione Meeting è un ente del terzo settore e chi sosterrà il Meeting potrà usufruire di benefici fiscali al momento della dichiarazione dei redditi. Grazie ai tecnici di sala, grazie a tutti, alla vostra attenzione e buon lavoro insieme. Grazie.