LA CONOSCENZA DELLA BIBBIA È SEMPRE UN AVVENIMENTO. Omaggio a don Giussani

Il Serpente di Dio: Adamo, Eva e la libertà umana
Partecipa: Joseph H. H. Weiler, Director, The Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice, Co-Director, Tikvah Centre for Law & Jewish Civilization New York University.
A seguire:
Il Patriarca Jacobbe e la fede dell’uomo moderno
Partecipa: Joseph H. H. Weiler, Director, The Straus Institute for the Advanced Study of Law & Justice, Co-Director, Tikvah Centre for Law & Jewish Civilization New York University.
Introduce Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia all’Università Sacro Cuore di Milano.

 

STEFANO ALBERTO:
Benvenuti a tutti. Di tutti i 199 incontri del Meeting questo, mi permetto di dirlo, è il più particolare di tutti, per due ordini di ragioni: primo per l’argomento, perché si tratta di due lezioni sul libro per eccellenza, la Bibbia; secondo, per il protagonista a molti di voi già noto (è la sesta volta che viene al Meeting), possiamo parlare di un grande amico e di un grande maestro, il professor Joseph Weiler.
Titoli e pubblicazioni sono lunghissimi, risparmio tutti, penso di far piacere anche a lui, ma il professor Weiler oggi è con noi non in veste di grande professore di diritto, ma per introdurci, con la sua sapienza, con la sua acutezza, con la sua esperienza, con la sua fede a quello che è la radice della nostra esperienza: la Bibbia non è un libro qualunque; quello che per noi è Antico Testamento ci parla del dramma, inconcepibile in qualunque altra esperienza religiosa, al di fuori della Bibbia, del dramma fra la libertà di Dio, l’Onnipotente, e la libertà dell’uomo. E il professor Weiler ha scelto due argomenti fra i più drammatici del dramma, se così posso esprimermi: Adamo ed Eva e il patriarca Giacobbe e la fede dell’uomo moderno. Ma consentitemi di manifestare subito al professor Weiler la gratitudine mia e vostra perché, mi diceva prima: “non l’incontro di ieri” – che pure è stato bellissimo – “ma, per me, è questo l’incontro a cui tengo di più quest’anno”. E lui ha voluto che questo incontro fosse un omaggio a don Giussani.
Mi permetto di dire che questa scelta ci fa vedere che una sola cosa.. che se anche don Giussani ci ascolta, non più qui, dal cielo, noi continuiamo ad avere maestri e il professor Weiler è uno di questi, che ci aiutano ad entrare nella grandezza dell’avvenimento, a cui don Giussani ci ha introdotto: la bellezza, la drammaticità e il rischio di dipendere dal Mistero. Lascio subito la parola al professore.

JOSEPH H. H. WEILER:
Mille grazie. È vero che è la sesta volta che vengo al Meeting, ma è la prima volta che mi sento nervoso, mi sento un po’ impaurito. Per due ragioni: primo, perché ho deciso di fare questa lezione in omaggio a don Giussani e capisco benissimo la gravità e importanza di questa meditazione e secondo, perché si tratta della Bibbia e anche qui c’è una gravità che non appartiene a nessun altro libro. Prendendo tutti e due i fattori insieme, capite perché sono nervoso e un po’ impaurito.
È vero che ho preparato due lezioni, ma facciamo prima la prima, vediamo come và. E poi se c’è ancora l’energia facciamo anche la seconda. Decidiamo dopo. Può darsi che dopo la prima non vogliate ascoltare la seconda… può darsi…

STEFANO ALBERTO:
Scommetto di no…

JOSEPH H. H. WEILER:
Vi invito ora a studiare insieme a me, nello stesso modo che ho studiato con mio padre, Rabbino, scomparso nove anni fa, indimenticabile, grande studioso, e come studio con i miei figli. Così noi studiamo la Bibbia. Vi prego di concentrarvi – non è sempre facile – vi prego di avere pazienza, anche se vado un po’ piano. La Bibbia merita di essere studiata con pazienza, con cura, non velocemente. E poi c’è anche un elemento un po’ romanzo, un po’ “giallo”, per come presenterò l’argomento. Vale la pena resistere fino alla fine. Il titolo è: “Il serpente di Dio e la genesi della libertà”. Però vorrei cominciare con lo spiegarvi la prospettiva con la quale vorrei studiare con voi. La prospettiva è “valorativa”, la prospettiva di giustizia. E andiamo alla prima lettura della Bibbia, uno dei grandi momenti della storia di giustizia nella nostra civilizzazione, presa da Genesi 18: (Dio dice) “l’Eterno disse: siccome il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande..” eccetera – voi potete leggere – e propone di distruggere le due città. Ora Abramo, in un momento drammatico e quasi incredibile, invece di andar via – leggiamo nel versetto 23 – Abramo si accostò e disse: “farai tu perire il giusto insieme con l’empio?”. Ci vuole coraggio a dire questo a Dio. E poi dice: “il giudice di tutta la terra, non farà, Egli, giustizia?”, cioè, è una sfida di Abramo verso Dio: tu Dio, il giudice di tutta la terra non farai, Tu, la giustizia? Come si può far perire l’empio insieme al giusto? Ci vuole coraggio, noi anche dobbiamo avere coraggio e per questa ragione io ho scelto quel momento di Abramo, prima che affrontiamo la storia di Adamo ed Eva. Ci concentriamo, come punto di partenza, sull’aspetto della giustizia, identifichiamo, nel leggere la storia di Adamo ed Eva, due atti che sembrano ingiustizia clamorosa, due atti di Dio verso Adamo ed Eva, cioè verso tutti noi. Anche nel contesto di Adamo ed Eva si può chiedere: il giudice di tutta la terra, non farà, Egli, giustizia? Leggendo il testo con attenzione, spero di farvi vedere per primo che sembra che il peccato originale fosse da Dio e non da Adamo e Eva, che il peccatore in quella storia sia proprio Dio. Così il giallo e il romanzo cominciano. Scioccante, no? Non preoccupatevi troppo, poi troviamo una soluzione, una soluzione attraverso la quale troveremo due sensi fondamentali della nozione della libertà umana. Ritengo però, quanto al metodo di lettura, che il testo vuole sfidarci, che ponga il puzzle “valorativo” – un Dio che sembra non far Lui stesso la giustizia – proprio per forzarci a riflettere e capire la soluzione, capire la lezione in maniera molto più profonda. Vorrei insistere sul metodo. Quando Dio dice ad Abramo: vado a distruggere Sodoma e Gomorra, Dio aspetta che Abramo protesti e quando Dio ci presenta la storia di Adamo ed Eva, si aspetta che noi protestiamo quando vediamo l’ingiustizia della faccenda, per poi riflettere e trovare la soluzione dopo questa riflessione sulla ingiustizia. Non dobbiamo mai avere paura di parlare contro l’ingiustizia, anche quando leggiamo questi testi sacri, come la lezione dello stesso Abramo. Nella lettura della Bibbia di può dire “imitatio Abramica”, come prospettiva di lettura. Ora non sono sicuro affatto se don Giussani sarebbe stato d’accordo con la mia lettura di questa narrativa, una lettura che è del tutto ebraica, ma sono più che sicuro che sarebbe stato molto d’accordo di mettere la nozione della libertà umana al centro della storia della creazione del mondo, della creazione di noi. In questo senso questa mia lezione è dedicata con profondo rispetto a quel grande teologo e servo di Dio don Giussani. Allora, cominciamo. Per primo, ricordiamo che Adamo ed Eva sono personaggi minori nella Genesi, un libro dominato dalla grande epica della casa di Abramo, una narrativa con la grandiosità e l’arco di tempo di un Iliade e un’Odissea.
Adamo, Eva, Caino, Abele, Noè, passano davanti ai nostri occhi od orecchi in rapida successione, una preistoria velocemente raccontata, una narrativa che trova il suo ritmo quando Abramo si mette sul cammino dalla Mesopotamia alla Palestina. Eppure con la sua pochezza di dettagli e una caratterizzazione sottile come un foglio di carta, la loro storia, di Adamo ed Eva, è ed è stata radicata profondamente nella civiltà occidentale: tutti sanno di Adamo ed Eva, figura nell’arte, eccetera. In parte questo è dovuto alla sua aperta, quasi volgare etimologia (etimologia è la teoria delle cause): vogliamo sapere perché dare alla luce una vita è così doloroso? Perché odiamo e abbiamo paura dei serpenti? Perché per i più guadagnarsi da vivere è così duro? Ecco, abbiamo una storia, un colpevole, una ragione: la storia di Adamo ed Eva. Per la maggior parte di noi queste risposte sono insoddisfacenti, una etimologia deludente. Nell’accantonare queste risposte, dobbiamo prendere atto del fatto che lo struggimento metafisico, spesso disperazione, dietro alla domanda “perché la vita è così dura”, alla quale la narrativa, in superficie, fornisce risposte insoddisfacenti, è alla ricerca, oggi, tanto quanto lo era all’inizio dei tempi. Dobbiamo anche riconoscere che un testo come la Bibbia, che è senza tempo e senza età, concepito per parlare a tutti, per sempre, è necessariamente parlare in molteplici voci e sfumature; la superficie del testo è semplicemente quello: la sua superficie.
Il profondo radicamento della storia di Adamo ed Eva nella nostra cultura occidentale non si trova così nella sua diretta, espressa, etimologia. Dopo tutto, non dobbiamo fare nostro il mondo di dei gelosi, capricciosi e lascivi, gli dei della mitologia greca, per accettare che il meglio di Sofocle e Euripide contiene profonde lezioni sulla condizione umana? E in questo senso, anche Genesi, 1,2 e 3, la storia della caduta, della prima trasgressione del peccato originale, pretende di dire qualcosa alla nostra coscienza collettiva. Nei suoi ampi contorni, la storia sarà familiare ai più, a tutti. Prima partiamo dalla creazione dell’universo e dal posizionamento in esso dell’uomo e della donna. Poi veniamo a sapere dell’imposizione del primissimo comando normativo: Dio crea l’universo, poi crea gli uomini, uomo e donna, e poi dà il primo comando normativo. “E Dio diede questo comando all’uomo: dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare”. Poi la trasgressione, la caduta segue inevitabilmente e con essa il castigo, la cacciata dal giardino dell’Eden nel mondo come lo conosciamo; un mondo in cui, proprio, il dono della vita è accompagnato dal dolore della nascita, dall’afflizione dell’esistenza e della inesorabile morte, paradiso perduto. Questa è la storia, in generale, che conosciamo tutti, giusto? Vale la pena – di nuovo vi richiedo un po’ di pazienza – richiamare il maestoso testo per esteso, non semplicemente per la sua inimitabile bellezza, come testo letterario, ma anche perché nella narrativa di questa ben nota storia sono nascoste tensioni e suggestioni che semplicemente chiamano a gran voce l’esegesi, roba di giuristi, che a sua volta può produrre risultati sorprendenti. Dopo aver completato la creazione del cielo e della terra, e della notte e del giorno e della fauna e della flora e di tutte le altre creature viventi – Genesi 1 -, “E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”. Attenzione! Poi leggete: “poi Dio crea l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina, li creò”. Il testo continua, leggete voi per favore… ora, notiamo, per successivi riferimenti, due importanti elementi in quella prima lettura. Primo, il disegno divino per la creazione dell’uomo – uomo e donna – era che lui e lei fossero a immagine e somiglianza di Dio, quello era ciò che Dio voleva. Il testo inoltre suggerisce che anche nel loro periodo pre-caduta, essi erano benedetti con la capacità di procreare, perché Dio comanda: andate a procrearvi. Sarà importante per dopo. Continuiamo la lettura con Genesi 2. E ricomincia: “questa è l’origine del cielo e della terra, quando vennero create, quando il Signore Dio fece la terra e il cielo..” e così via, riprendiamo la storia e riprendiamo anche noi: “il Signore Dio diede questo comando all’uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. E, finalmente vorrei accennare, tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Allora – atto secondo finito – uomo e donna creati, il comando è dato e leggiamo che pur essendo nudi non avevano vergogna. Arriva Genesi 3 – può darsi qualche punto prima di questo – ma andiamo al 3, perché il tempo… Poi la caduta, il castigo seguono nella cosa dolorosamente criptica di Genesi 3; il serpente era la più astuta di tutte le bestie, va da Eva: “è vero che Dio ha detto: non dovete mangiare di nessun albero del giardino? Rispose la donna al serpente: dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta nel mezzi del giardino Dio ha detto ‘non ne dovete mangiare e non ne dovete toccare – Dio non ha detto questo – altrimenti morirete’. Ma il serpente disse alla donna: non morirete affatto, anzi Dio sa che quando voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come me, conoscendo il bene e il male”. Ora leggete con attenzione il verso 6: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza, prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito che era con lei e anche egli ne mangiò; allora si aprirono gli occhi di tutti e due, si accorsero di essere nudi e intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. E poi c’è il confronto con Dio e la storia che conosciamo.
Ora vorrei di nuovo accennare una cosa importante. Dopo il cosiddetto peccato, il Signore Dio disse all’uomo: “Ecco l’uomo diventato come noi, uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male, guardiamo che egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre”. “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino dell’Eden perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto, scaccio l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada…”, eccetera, eccetera.
Ora passiamo all’interpretazione. Anche la più frettolosa lettura, come abbiamo fatto ora, di questi testi, rivela i problemi “valorativi” profondi. I due principali fra essi, a mio parere, sono i seguenti.
Primo. Adamo ed Eva sono posti nel giardino e ad essi viene proibito di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e male. All’apparenza, dunque, essi sono privi di una sensibilità deontologica, di una sensibilità morale a distinguere fra bene e male, perché non hanno mangiato dell’albero che dà la capacità di distinguere fra bene e male, mancano della conoscenza del bene e del male, che, in tutti i nostri sistemi giuridici e etici, è una precondizione per un comportamento colpevole. Se non potevano cogliere la differenza fra bene e male, perché tale castigo, violento, senza compromessi, per la loro trasgressione? Prima di mangiare dell’albero della conoscenza fra bene e male, non sono forse Adamo ed Eva il massimo esempio di un diritto a reclamare una difesa di incapacità, visto che la loro stessa costituzione li privava della capacità di distinguere il bene e dal male? Dove era la loro “mens rea”? Qualsiasi giudice umano comminerebbe un simile castigo? La giustizia richiede sensibilità morale e etica come condizione di responsabilità etica e morale. Senza sensibilità morale non si può avere responsabilità morale e, come un bambino che non sa distinguere, non gli diamo la colpevolezza etica e morale. Loro non avevano questa sensibilità e perciò responsabilizzarli sembra contro la giustizia.
Echeggiando Abramo, non avremo ragione a chiederci: “il giudice di tutta la terra, non farà forse, giustizia?”.
Prima il giudice dice loro: non toccate l’albero, attraverso cui potete distinguere fra bene e male. Quando toccano non hanno questa sensibilità e poi vengono puniti! E come puniti! Non meno preoccupante, quanto la loro sensibilità morale, è l’enormità della punizione; la giustizia richiede una proporzionalità fra il reato e la punizione: qualcuno che ruba una mela, non si manda all’ergastolo. Va bene, hanno mangiato e per questo, non solo loro, ma tutta l’umanità per sempre, cacciata via all’ergastolo, anche in questo senso si può chiedere: “il giudice di tutta la terra, non farà, forse, giustizia?”. Veramente, sembra strano: tu privi queste persone della capacità di distinguere fra bene e male e poi, li giudichi colpevoli, quando non distinguono fra bene e male e non obbediscono a Dio.
Ci sono altre difficoltà, ma ho pietà di tutti noi e allora andiamo avanti…
Uno dei modi più tradizionali ad affrontare il problema è quello di riformulare il significato di conoscenza dell’albero del bene e male. In base a questa lettura, non era conoscenza morale, sensibilità etica, distinguere bene e male, ma conoscenza carnale, o meglio la conoscenza della conoscenza carnale: non sensibilità etica o deontologica, che portava con sé il frutto dell’albero, ma la sensibilità sessuale. È una lettura che ha molto senso; la reazione di questi due essere umani all’aver mangiato il frutto proibito, conferma questa tradizionale versione. Essi subito soffrono un imbarazzo sessuale e si coprono. Conoscenza semplicemente e, dopo tutto, una delle espressioni più comuni della Bibbia per indicare la carnalità. Pertanto, perché non intendere l’albero della conoscenza, come l’affondare nella carnalità? Teneramente, non appena sono fuori dal giardino, cosa fanno? Fanno un bambino. La prima cosa che apprendiamo su di loro è che loro hanno assecondato la loro nuova conoscenza della conoscenza carnale. Subito dopo la narrativa di Genesi 3, troviamo, in Genesi 4, primo versetto: “Adamo conobbe Eva – conoscenza! -, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino” eccetera. Allora, può darsi che sia questa la soluzione, cioè avevano sensibilità morale, non avevano sensibilità sessuale e mangiando la frutta hanno scoperto la sensibilità sessuale però comunque, grandi peccatori perché avevano sensibilità morale.
L’interpretazione basata sulla conoscenza carnale può trovare conferma anche in una diversa parte della narrativa. Isaac Abravanel, invocando un’altra audace interpretazione tradizionale, invita a considerare il famoso dialogo con il serpente con il dialogo interiore di Eva: non era un vero serpente, il serpente è una allegoria, una metafora per una voce interna, dunque il serpente di Dio; e il serpente, la voce dentro, dice: prendi, non prendere, tocca, non toccare, eccetera. Noi tutti capiamo queste voci che ci sono dentro di noi.
Ma ora, se è così, è una sfida alla nostra lettura chiave, cioè che Eva e Adamo non avevano una sensibilità deontologica, sensibilità etica. E’ veramente così? Sembra di no, sembrerebbe che la donna capisse che le era proibito mangiare dell’albero. Sembrerebbe cioè che sia in grado di distinguere fra bene e male, che possegga una sensibilità morale. Infatti il serpente o la voce interiore deve tentarla. Se non avesse sensibilità morale non avrebbe nessun problema a toccarlo, ma lei sa che sta per fare una cosa proibita. Allora, può darsi che abbia una sensibilità morale. Se è così, la conoscenza conferita dall’albero deve essere di diversa natura, può darsi la chiave erotica.
Questa interpretazione risolve il nostro principale dilemma. Se la donna è imbevuta di sensibilità morale, comprende di essere tentata a fare qualcosa di proibito e, ciononostante, commette la trasgressione, allora il principale problema della narrativa di spiegare un castigo a qualcuno innocente per sensibilità morale.. almeno una parte è risolta. Abbiamo risolto il problema: non è conoscenza bene-male, è conoscenza erotica. Ma non è una risoluzione comoda; se si tratta dell’albero della conoscenza carnale, perché è presentato come albero della conoscenza del bene e del male? Specialmente nel significato che troviamo nel verso 22, di Genesi 3. Torniamo al verso 22: “Il Signore Dio disse allora: ecco l’uomo è diventato uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male” – non intende conoscenza carnale, Dio, come uno di noi! Perciò questa bellissima interpretazione che può risolvere il problema non è affatto convincente, giusto?-. Allora, come la sensibilità deontologica è una condizione fondativa di colpevolezza nei nostri sistemi, così lo è la proporzionalità che, se fosse conoscenza carnale, non si capisce perché sia stato così tremendo farlo. Allora non è convincente e dobbiamo cercare una soluzione diversa.
Cerchiamo ora la soluzione diversa. Allora, resta sempre il problema che Dio fa l’ingiustizia verso Adamo ed Eva e verso tutti noi, perché se non sapevano distinguere fra bene e male, perché sono stati cacciati via? Abbiamo già notato che l’originale disegno divino in Genesi 1 era che il maschio e la femmina, creati dal nulla, fossero a immagine di Dio: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò”. Ora torniamo ancora a Genesi 3, 22-23 sullo schermo. Dio ha appena messo Adamo, Eva e il serpente di fronte alla loro trasgressione e poi? Di nuovo Dio Dice: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male”. Perché Dio è sorpreso, non era quella la sua intenzione originale, che l’uomo e la donna fossero come lui? Perché dopo la trasgressione dice: “Ecco l’uomo è diventato – ora, dopo la trasgressione! – come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male”? Non era quello il pian originale di Dio, che diventassero così? Dopo tutto, l’uomo fu creato diversamente da ogni altra creatura. Consideriamo ancora: nella loro esistenza di pre-trasgressione nel giardino di Eden, in che senso poteva manifestarsi quella essenziale diversità tra l’uomo e tutte le altre creature? L’uomo e la donna camminavano nudi come le bestie, mangiavamo come le bestie, presumibilmente procreavano ed erano designati a procreare come le bestie, funzionalmente, senza amore erotico. Il loro mondo sensoriale era simile a quello delle bestie e infatti non è chiaro in che senso possa dirsi che essi adempivano o erano capaci di adempire l’ulteriore disegno di Genesi 1: riempite la terra, dominatela, eccetera. E’ quella qualità di somiglianza alla bestia che indica la prima via d’uscita dell’enigma. Allora allacciate la vostra cintura di sicurezza, ora diventa interessantissimo. Essi erano come bestie, Adamo ed Eva, in un senso ulteriore. Sebbene non avessero ancora mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, essi avevano una primordiale, animalesca, sensibilità deontologica.
Dopo tutto.. noi abbiamo due cani, un gatto – cani ne abbiamo sempre avuti nella nostra famiglia – io posso insegnare al mio cane a obbedirmi, a non fare pipì in casa. Come ogni amante degli animali sa, se il cane mi disobbedisce, per esempio, lui sa che ha fatto qualcosa di male e scappa via. Lui capisce che il suo atto di fare pipì in casa è trasgressione contro la norma che il suo padrone, il suo dio gli ha dato. Anche gli animali, in questo senso primordiale, hanno il senso di quello che è proibito e quello che non è proibito, ma la rabbia nello scoprire che lui ha fatto pipì in casa, non deve essere affatto scambiata con indignazione morale. Il mio cane non è diventato un agente morale. Non posso essere veramente furioso con lui, come sarei potuto essere. Bisognerebbe dargli un’altra bastonata o dargli un’altra carota, che impara meglio. Ma il fatto che lui sa di non dover fare pipì in casa, perché io l’ho addestrato a non farla, non gli dà la sensibilità etica o morale. Il nostro piccolo bambino di due anni che tocca l’elettricità, sa di fare qualcosa di male perché gli do uno schiaffo e gli dico “non puoi farlo”, ma in nessun momento noi definiamo il bimbo di due anni con una sensibilità morale che può scegliere fra bene e male. Quello che Eva aveva prima di mangiare il frutto dell’albero era questa sensibilità primitiva, come uno di due anni, o come ce l’ha il mio cane.
Dunque, possiamo ritornare al nostro interrogativo. Nell’esistenza pre-trasgressione, nel giardino dell’Eden, in che senso si può dire che l’uomo manifestava la sua trasgressione all’immagine di Dio? Non era diverso dal leone o dal gatto, cari amici; la risposta lui e lei non la manifestavano ancora; era una potenzialità, una potenzialità che non era ancora realizzata. Come abbiamo già notato prima, Genesi 1, l’ouverture che accenna ai temi e agli esiti della creazione, che poi vengono nuovamente raccontati in maggior dettaglio in Genesi 2, in questa lettura è solo attraverso la trasgressione che lui realizza la sua potenzialità umana. In Genesi 1 il progetto di creare l’uomo ad immagine del Dio – primo atto; secondo atto: la trasgressione: Eva mangia la frutta proibita, Genesi 2. Solo in Genesi 3, sullo schermo, dopo la trasgressione, Dio disse: ecco l’uomo è diventato come noi. Lui dice: “ecco l’uomo è diventato come noi”, dopo che Eva ha mangiato la frutta proibita. E’ attraverso l’atto di Eva, dunque, che realizziamo il nostro destino di essere immagine di Dio.
Ricostruiamo la storia ora come segue: l’uomo e la donna sono creati da Dio come creature che in qualche modo sono diversi dagli altri esseri viventi, ma inizialmente questa diversità non è visibile; è una presa in giro del linguaggio suggerire che l’uomo e la donna possano essere a Sua immagine, senza uno sviluppato senso deontologico morale, che è indispensabile per essere in grado di adempire i Suoi comandi, i comandi di Dio. Così come la trasgressione in se stessa, anche l’ubbidienza senza una presupposta capacità di distinguere il bene e il male ha un significato morale limitato, come il cane: è l’ubbidienza di un cane fedele.
Ma sarebbe un disegno difettoso crearli all’inizio con un senso deontologico completamente sviluppato. Dio poteva crearli con questa sensibilità, perché anche allora l’uomo avrebbe agito semplicemente come un “Deus ex-machina”.
Per manifestare la particolarità della loro diversità, il senso in cui essi furono creati a sua immagine, essi dovevano, come Dio stesso nell’atto della Creazione, sebbene in senso affatto più limitato – siamo ad immagine di Dio, non siamo Dio -, compiere un atto autenticamente di libertà, di sensibilità morale. Immaginiamo Eva nel momento in cui è di fronte all’albero. Il serpente di Dio, il suo intimo, si fa avanti e la chiama alla sua vocazione umana: realizzare la sua creazione a immagine di Dio. La donna dibatte nel suo intimo. Secondo me, Dio sta lì ad aspettare: prendilo, prendilo, prendilo, realizza il tuo destino di umanità. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi, desiderabile per acquisire saggezza e con intuizione, prese del suo frutto e ne mangiò; trasgressione, forse, ma lei si sta protendendo verso la sua umanità, verso il suo destino, verso quel disegno divino nel quale fu creata. La minaccia della morte ha poco potere, perché la vita che aveva ha poca attrattività. Il giardino dell’Eden non è paradiso, quando non si ha la facoltà umana per comprendere, quando non si ha assaggiato dell’albero che rende saggi. In altri termini, il paradiso è perduto ben prima che essi vengano cacciati dal giardino, è perduto nel momento in cui la donna diventa saggia e si accorge di quale vita senza gusto lei e il suo uomo stavano conducendo nel giardino dell’Eden. Assaggiare di quell’albero significa essere cacciati dall’Eden, dal momento che la condizione umana può trovare la sua realizzazione solo in un mondo in cui devono essere compiute scelte morali, in cui devono essere fatte distinzioni, attraverso le quali la vita, come dono di Dio, ottiene il suo significato. L’afflizione è una necessità, se vogliamo apprezzare la gioia, la trasgressione, come segno di volontà autonoma e di libertà, è una condizione necessaria per essere in grado di sottomettere, in un senso reale, autonomo, libero, il nostro volere al volere di Dio. La morte è ciò che ci mette in grado di apprezzare la vita. Ma ancora di più, è solo l’individuo libero, unicamente distinto nella sua autocoscienza dalla specie nella sua generalità, che è in grado di comprendere la morte come una cosa personale; per l’individuo autonomo e libero, la morte fa parte del destino personale di ciascuno. Quando Hawwah (Eva) mangia dell’albero, l’avvenimento di Dio si compie, effettivamente scopre la morte e la comprende come destino personale: è diventata umana. Il paradiso diventa tale solo quando viene perduto; dall’atto di Eva si può costruire la caduta, ma anche l’ascesa, attraverso cui la nostra umanità, creatura creata ugualmente a Sua immagine, può emergere.
Ora, questa lettura può essere considerata come una interpretazione umanistica, secolare del testo, modernista. Non lo credo, non c’è nulla di modernista, non c’è nulla di secolare qui. Se è moderna, modernità in questo senso è radicata tanto una visione del mondo religioso. Si dice nella tradizione ebraica: tutto è nelle mani di Dio, eccetto il timore di Dio, quello spetta a noi. La libertà non è soltanto la precondizione della modernità in una visione secolare e antropocentrica del mondo, è anche condizione per realizzare la più profonda visione teocentrica del mondo.
Essere in questo mondo è tentare camminare nella sua via; nell’ottica di questa lettura possiamo capire il primo senso della libertà che il testo ci insegna. La Santa Sede di Roma ha spesso affermato che la libertà religiosa è la libertà più fondamentale. Nella nostra cultura, largamente secolarizzata, questa affermazione viene di solito accolta con sorriso indulgente. Quale libertà possiamo aspettarci, che sia privilegiata dal Vaticano? Dando a questa affermazione un significato cooperativistico, come se fosse, il Papa, il capo di una organizzazione sindacale preoccupato per i suoi iscritti.
Naturalmente nella libertà religiosa esiste anche questo aspetto e non c’è niente da rimproverare in un Pastore che sorveglia il suo gregge, ma ci sono almeno due dimensioni della libertà religiosa che ci permettono di comprendere il richiamo al carattere più fondamentale della libertà. Dice il Papa: “La nostra fede non la imponiamo a nessuno; un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà”. Se comprendo bene questa affermazione, questo insegnamento del Papa, emerge un significato molto più profondo della libertà religiosa, oltre quella di libertà di professare la propria religione, perché qui – è il cenno alla storia di Adamo ed Eva -, al centro della libertà religiosa risiede la libertà di dire no a Dio, cioè è una proposta religiosa, come ho detto prima. Tra noi ebrei, tutto è nelle mani di Dio tranne il timore del Signore. Se non possiamo dire no a Dio, il nostro sì a Dio vale poco. È soltanto la libertà di dire no a Dio che dà valore al nostro sì. Anche un ateo secolare può comprendere che qualora si accetti l’esistenza di un Creatore Onnipotente, insistere sulla proposta intrinsecamente religiosa della libertà di dire no a questo a questo creatore, è fondamentale per comprendere pienamente la condizione umana, all’interno di questa visione globale. Vuol dire raggiungere una nozione primordiale della libertà. Garantire una libertà di religione che copre una libertà religiosa così intesa, significa difendere profondamente gli esseri umani, in quanto agenti morali, autonomi, sovrani e liberi. Negare questa libertà così definita, o peggio, negarla in nome della religione stessa, vuol dire minacciare la nostra umanità più intima, in quanto agenti morali liberi. Noi credenti siamo agenti morali autonomi o sovrani, perché siamo stati creati con questa potenzialità di Dio e questa è la libertà. Secondo la mia lettura essa è stata realizzata al momento in cui Eva ha steso la mano e malgrado la proibizione ha mostrato la capacità di dire no al Dio e perciò la capacità vera come agente umano autonomo libero di dire sì a Dio. E’ un tragico mistero della nostra esistenza, che il momento della realizzazione della nostra natura umana, come essere liberi capaci di realizzare il nostro destino, il più profondo, cioè camminare nelle sue vie, le vie di Dio, “imitatio Dei”, tragicamente e necessariamente coinvolga una ribellione e disubbidienza al proprio Signore. Finalmente il peccato è nostro, ontologicamente quel peccato è parte della nostra identità umana, come lo ha voluto Dio stesso. Concedetemi ancora cinque minuti. So che può essere difficile sia capire, sia accettare. Questa metafora può darsi possa aiutare, attenzione, pensate a un figlio che passa dalla fase di bambino alla fase di adulto responsabile e maturo. Quale è il segno di questo passaggio, prima bambino, ora maturo? Quando guadagna la libertà del padre, non dipende più dal padre, è libero dal padre, ha guadagnato la sua libertà. Come si manifesta questa libertà? Il primo momento è quando rifiuta il babbo e manifesta la propria volontà, la propria autonomia e la propria libertà. Chi non ha vissuto questo momento sia come figlio, sia come padre? E’ il momento di Eva, il momento della ribellione. Quella ribellione è la prova che il figlio ha acquistato la piena libertà, necessaria per essere un vero adulto, responsabile per i propri atti. Io sono babbo di cinque figli, posso essere terribilmente furioso all’atto di disubbidienza che mio figlio mostra contro di me, eppure allo stesso momento capisco che è il necessario segno che il figlio è diventato un uomo per poter realizzare il proprio destino, per il quale lo abbiamo creato. Certo, anche il figlio deve rispettare e ubbidire a suo padre, ma ora che è un adulto maturo, libero, responsabile, non è più l’ubbidienza un vero rispetto verso me, è tutta un’altra cosa. Non è la paura del bambino, è il rispetto dell’uomo maturo, quella è la metafora. Velocemente passo al secondo enigma, veramente velocemente. Allora due altri minuti. La seconda presunta ingiustizia è la sproporzione fra reato e punizione. Cosa c’è di così terribile nella trasgressione di Eva che giustificava una punizione così severa e eterna? Rispondendo a questo, stiamo per capire la seconda nozione fondamentale dalle libertà, che il testo di Adamo e Eva ci insegna. La prima lezione era che solo un uomo libero può veramente servire Dio e perciò doveva prendere quel frutto. Quale è la seconda lezione delle libertà? Già prima abbiamo chiesto cosa era a differenziare Adamo ed Eva dagli altri animali, e abbiamo dato una risposta. Ma c’è un’altra differenza, ancora più importante, che al primo momento sembra banale: signore, signori, è la legge, la legge di Dio, solo su Adamo ed Eva è stata imposto una legge. Una proibizione normativa e direi una proibizione non naturale, non c’era nulla della loro natura che poteva dire “non mangiate di questa frutta”, tutti gli altri animali potevano mangiare, solo a loro era stato proibito. La prima interazione fra Dio e l’uomo è attraverso la norma, la legge che è il primo momento del nomos. Qual è il significato del fatto che la prima interazione fra l’uomo e Dio è che Dio pone una norma, una proibizione all’uomo? Nella lettura ebraica il significato è fondamentale e secondo me anche nella lettura giudea-cristiana, non solo ebraica. Siamo destinati come uomini e donne a essere liberi, a godere la libertà, ma pensate, nel mondo originale del giardino di Eden, in che cosa si manifesta la libertà? Ricordatevi, non c’è ancora la società, c’è solo l’individuo. La libertà si manifesta, possiamo immaginare, nella possibilità di fare quello che vogliamo, andare ovunque, mangiare, eccetera. Siamo liberi. Pensiamo ancora, di questa libertà godevano tutti gli animali, anche loro potevano andare ovunque, mangiare, eccetera: i gatti, i cani, gli insetti e i pesci. In realtà, qui, la prima affermazione cruciale, libertà senza limiti, non è affatto libertà, se mangio tutto quello che voglio e faccio senza limiti tutto quello che voglio, non sono libero, sono schiavo della mia natura naturale. Libertà senza limiti è una schiavitù per la nostra condizione naturale, per la nostra natura di animali, non siamo liberi. La seconda affermazione cruciale è che i limiti alla libertà naturale senza limiti, la proibizione, la norma, il nomos, quel limite aveva un fondo trascendentale che non veniva da noi, veniva da Dio, non nasceva dall’essere umano stesso, fu imposto da Dio, era una verità trascendentale. Se siamo così orgogliosi, così abituati a mettere l’uomo al centro, è difficile per noi accettare che se il limite nasce dentro di noi, in fondo non è limite, ma è così. Se il limite è fatto da me, diventa anche questo una semplice manifestazione della mia natura. Se faccio io la legge, posso rifare la legge, se la legge è di Dio non posso rifarla. Ora mettiamo tutte e due le cose insieme e chiudiamo. Se alla radice della nostra identità umana c’è la libertà, includendo la libertà di dire di no a Dio, vivere questa libertà senza limite vuol dire non realizzare questa capacità e libertà. Solo nel momento di sottomettermi ad una autorità, ad una sovranità di qualcuno trascendente, che è fuori da questo mondo, posso diventare veramente libero in questo mondo ed è quello che ci distingue da tutti gli altri esseri vivi, è quello che ci contraddistingue come veri esseri liberi, come umani. La norma di Dio, data esclusivamente agli uomini, diventa parte di quello che vuol dire essere umano: non sei umano vero se non c’è un limite trascendente imposto a te. Sotto questo profilo, il rifiuto di Adamo e Eva non era triviale, era il simbolo di una trasgressione fondamentale, non in maniera astratta contro la volontà di Dio, ma contro un disegno che di nuovo ontologicamente è necessario nella nostra definizione di esseri umani. Quando Dio dà la sua legge, è per realizzare la nostra umanità, rifiutando questa legge facciamo noi i sovrani senza la sovranità del Dio, abbiamo perso la libertà, siamo schiavi della nostra natura umana, abbiamo perso la nostra umanità. Nella ribellione contro la volontà di Dio, secondo la visione biblica, si cela ad un tempo la ribellione contro Dio e contro la nostra natura umana. Grazie a voi tutti.

STEFANO ALBERTO:
Io non ci vedo più tanto bene ma mi pare di non vedere volti dispiaciuti, anzi. Naturalmente ci ha avvisato di stringere bene le cinture, perché, vi sarete accorti, il percorso a cui siamo stati introdotti è mozzafiato. Ci sarebbe da discutere tantissimo ma sinteticamente io sono rimasto folgorato da questa osservazione che il prof. Weiler ha fatto prima di farci percorrere queste rapide così spumeggianti, così emozionanti. Dice: per noi ebrei tutto è nelle mani di Dio eccetto il timore di Dio. Penso che nella vostra esperienza, in tanti di voi, questa frase sia risultata estremamente familiare. Vi ricordate una delle domande più cruciali di don Giussani: Se Dio è tutto, che cosa è l’uomo? L’uomo è la sua libertà di riconoscere che Dio è tutto e parte della libertà, anche questo non dovrebbe risultarci troppo sconvolgente, è poter dire di no. Poi resta aperto il mistero del perché l’uomo, che poteva dire sì, ha detto no. Non c’è nessun Dio che prende così sul serio la libertà dell’uomo, non è una finta, non è un per modo di dire, non faccio paragoni con altre tradizioni religiose, Dio lo ha messo in conto che l’uomo poteva dire no. E’ accaduto e la storia da lì ha preso una piega anche molto complicata, ma senza la possibilità di dire no la libertà sarebbe una cosa da bestie e non l’avventura, il rischio di uomini veri. E’ un problema adesso anche di libertà, di ragionevolezza. Non sottoponiamo a votazione popolare, no so, innanzitutto, cosa facciamo adesso?

JOSEPH H. H. WEILER:
Io penso che se ci sono domande sono pronto a rispondere. Ma ci vuole una pausa di 15 minuti, poi se c’è ancora l’energia sull’azione, su Giacobbe, va bene ma senza complimenti. Capisco che la gente è affamata.

STEFANO ALBERTO:
Io rilancio, ci sono due possibilità e la pausa senz’altro. Tra l’altro abbiamo il caffè lì vicino, uscite e rientrate. Bisogna capire, perché io sono troppo incuriosito sulla questione di Giacobbe. Affrontiamo Giacobbe e poi l’anno prossimo tutte le domande. Vediamo, pensiamoci.

JOSEPH H. H. WEILER:
Allora facciamo pausa di 15 minuti e chi vuol sentire un po’ di Giacobbe è benvenuto. Grazie a tutti voi.

JOSEPH H.H. WEILER:
Vorrei ora passare alla relazione su Giacobbe. Per la verità questo è un po’ più difficile, spero di riuscire a spiegare bene il mio pensiero. Anche qui vorrei cominciare con un certo “giallo”, una certa sfida.
Secondo me, nella mia lettura, sicuramente non ho letto tutto, ma ho letto parecchio di Giussani e ho l’impressione che fra le figure del Vecchio Testamento sia Giacobbe il suo favorito. È anche il mio favorito, e spiegherò dopo perché. C’è qualcosa di politicamente scorretto nel concentrarsi su Giacobbe, perché di solito si dice che le fedi abramiche, le tre grandi fedi monoteistiche, perché sia il giudaismo che l’Islam che i cristiani siamo tutti figli di Abramo; invece a concentrarsi su Giacobbe è solo la tradizione giudaico-cristiana, perché è Giacobbe che è diventato Israele e voi sapete che voi e noi pretendiamo di essere di Israele. Infatti la cosa che da tanti anni non ho capito, è perché Dio ha scelto Giacobbe per essere Israele, il padre della Nazione, e non ha scelto Isacco o Abramo. Poteva ognuno di loro essere Israele, chi è più grande di Abramo? Veramente Abramo è senza paragone, l’uomo che era pronto a sacrificare suo figlio per mostrare la sua fedeltà all’amore di Dio – l’anno prossimo terrò una lezione su questo, mamma mia quello è difficile come tema. C’è chi dice che Abramo ha fallito la prova, che Dio aspettava che Abramo dicesse: “Mai, come posso essere assassino di mio figlio” e che quindi non abbia superato la prova, ma è solo un’interpretazione minore, lasciamo però qualcosa per l’anno prossimo. Ora, perché Dio ha scelto Giacobbe per diventare Israele e non Isacco, e non Abramo, Giacobbe, Israele che siamo noi, te e io, la tradizione giudaico- cristiana? La risposta che do ora e che cercherò di provare, di mostrare, è che più di altri patriarchi Giacobbe è in tutto un uomo moderno e il suo modo di confrontare Dio e il mondo, secondo me, è il modello giusto, eterno, di come bisognerebbe essere in questo mondo come uomini fedeli. Giacobbe, non Isacco e non Abramo: questa è la metafisica del mio discorso e vi ho già avvertito, è un po’ complesso, un po’ noioso ma spero che avrete un po’ pazienza, cercherò di farlo nel modo più interessante possibile. Allora, cominciamo, è dolce il ritmo che accompagna il flusso di generazioni nella saga della genesi dei nostri patriarchi, poetico, nel momento in cui il figlio scelto entra in scena, il padre, con molti anni ancora da vivere, si allontana in uno sfondo relativamente tranquillo, per riemergere al momento della sua morte e sepoltura da parte dei suoi discendenti. Così accade consciamente con Abramo, quando Isacco e la formidabile Rebecca vengono alla ribalta. Allora la storia diventa la storia di Isacco e dimentichiamo Abramo e all’improvviso leggiamo che Abramo è morto e viene sepolto. Così anche quando Isacco a sua volta scompare sullo sfondo, mentre Giacobbe emerge al centro della scena con una vita senza pari in prove e sfide. E proprio così sembra quando, in Genesi 36, – se dopo a casa volete leggere, la nostra storia comincia qui – si conclude la vicenda di cui Giacobbe è protagonista. Egli si stabilisce a Ebron, dove seppelliscono il padre Isacco, poi si solleva il sipario in Genesi 37 con un’ouverture di notevole efficacia, che porrà in essere tutti gli elementi salienti di una narrazione che si concluderà alcuni decenni più tardi, con la sepoltura di Giacobbe da parte dei suoi figli. Giacobbe viene un po’ dimenticato e la storia ora è la storia di Giuseppe. Leggo: Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di 17 anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane e stava con i figli di Bila e i figli di Zilba, mogli di suo padre. Ora Giuseppe riferì al loro padre i pettegolezzi sul loro conto”.
E così la storia di Giuseppe e dei fratelli comincia e Giacobbe dimentichiamolo un po’.
“Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche (nella traduzione italiana si dice dalle lunghe maniche e non dai molti colori – un segreto, anche in ebraico non è detto di molti colori)”. Il successivo protagonista è identificato come lo è la libertà tra fratelli, che è un elemento essenziale nella saga che è diventata un’icona della civiltà occidentale, conosciuta sotto il nome di Giuseppe e i suoi fratelli. Ora siamo nella storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. Impostata la scena, la storia di Giuseppe inizia in una maniera importante, con il racconto dei suoi famosi sogni, che alimenta ulteriormente l’odio dei fratelli e dà occasione alla collera e alla conseguente perplessità del padre. Leggo: “I suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui (era il più amato dal padre), ma suo padre tenne in mente la cosa”. Ora viene il passaggio fondamentale nella mia lettura, che è poco notato nei commentari, sia ebrei che cristiani, sembra un passaggio di poche conseguenze. Leggo: “Israele (cioè Giacobbe) disse a Giuseppe: ‘Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro’. Gli rispose: ‘Eccomi!’. Gli disse: ‘Và a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a riferirmi’. Lo fece dunque partire dalla valle di Ebron ed egli arrivò a Sichem”.
Ormai abituati al susseguirsi della generazione narrativa del Genesi e con l’attenzione già rivolta a Giuseppe stesso, non sorprende che questo passaggio, apparentemente innocente, a mio avviso singolarmente importante per la narrazione di Giacobbe, abbia attirato meno considerazione di quanto meriti. Per la maggior parte dei commentatori tradizionali e per molti commentatori moderni, questo brano suscita poche osservazioni, sembra un mero momento di passaggio, un espediente letterario che consente a Giacobbe di uscire di scena, mentre Giuseppe e i suoi fratelli iniziano il loro viaggio verso il destino, perché Giuseppe va a trovare i suoi fratelli a Sichem, loro cercano di farlo fuori, poi lo vendono, poi arriva in Egitto. E’ tutta la storia famosa di Giuseppe e i suoi fratelli, e tuttavia queste parole apparentemente innocenti nascondono dramma e angoscia e costituiscono uno dei momenti più toccanti e decisivi nella travagliata vita di Giacobbe. Alcune difficoltà lessicali sono immediatamente evidenti: cosa preoccupava Giacobbe quando lui manteneva la cosa nel suo cuore? La questione dei sogni di Giuseppe oppure la questione dell’invidia dei fratelli? La cosa colpisce ancora di più dal punto di vista linguistico, in particolare se lo si legge in ebraico: “Giacobbe disse a Giuseppe: ‘Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem?’ Egli rispose: ‘Eccomi!’”. La risposta di Giuseppe, sarebbe la classica risposta ad una frase come: Giuseppe! E lui risponde: Eccomi!. Non è per niente naturale nella formulazione del testo attuale: "Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Egli rispose: “Eccomi!”. Non và. E poi la ripetizione, ascoltate, bisognerebbe essere più acuti: “Giacobbe disse a Giuseppe: ‘Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro’. Gli rispose: ‘Eccomi!’. Gli disse: ‘Và a vedere come stanno i tuoi fratelli e come sta il bestiame, poi torna a riferirmi’”. Perché questa ripetizione? Perché due volte non è chiaro, bisognerebbe ricordare che di certo è il contenuto piuttosto che la scelta lessicale a porre la sfida più drammatica. Il rapporto di Giacobbe con il proprio padre Isacco, che sapevamo avere una preferenza per il fratello gemello, Esaù, – in ebraico Eshav; come Eshav è diventato Esaù per un altro giorno…- è stato un rapporto di ambiguità affettiva ma niente di tutto ciò traspare nel rapporto con il suo figlio preferito, Giuseppe, al quale è riservato uno speciale amore, che non si cura neanche di nascondere nel dono di un mantello dai molti colori: “Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il figlio avuto in vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica dalle lunghe maniche”.
Cosa è allora drammatico? Ve lo spiegherò: mandando Giuseppe a Sichem, lo manda a morte. Questo figlio amato lo manda a morte, perché? Un pochino di storia, due storie, vi ricordate che tra questi famosi dodici fratelli, figli di Giacobbe, c’era anche una figlia, che si chiamava?… Dovete promettermi da ora in poi, ogni sera, prima di andare a letto, di leggere un capitolo della Bibbia. Sono delle storie favolose! Tutte e due, non sono discriminatore, Vecchio Testamento e Nuovo Testamento, ogni notte un capitolo! Noi in sinagoga leggiamo ogni settimana una parte, così che in un anno si è coperto tutto, allora io ho sentito la Bibbia, ho 58 anni settimana prossima, l’ho sentita diciamo 52 volte. La sorella si chiamava Dina. Chi è incinta qui? È un bel nome per una figlia, Dina, figlia di Giacobbe, sorella di Giuseppe. Dina è stata violentata terribilmente dal figlio del re di Sichem che si chiamava Hamor, è stata violentata e allora i suoi due fratelli, Simone e Levi, hanno fatto un trucco ai cittadini di Sichem. Dopo averla violentata, lui voleva sposarla, non bello questo, prima la violenta poi vuole sposarla, allora i due figli hanno detto ai cittadini di Sichem: va bene, siamo pronti a dare la nostra sorella, però dovrete circoncidervi prima, tutta la città, come condizione. Quando si furono circoncisi – doloroso – i due fratelli sono venuti per la vendetta e hanno ammazzato tanti di loro. Giacobbe è scandalizzato, prima dice: dov’è la giustizia? e dopo dice: siete matti, da ora in poi quelli lì cercheranno di ammazzarci e noi siamo pochi e loro sono tanti. Quello è Sichem e lui manda gli 11 fratelli, tutti insieme, con la servitù per fare il pascolo a Sichem; va bene, possono proteggersi, ma ora manda il povero Giuseppe a Sichem, tutto solo, proprio dentro la gabbia del leone. Quelli cercano la loro vendetta, ma non solo loro. I fratelli di Giuseppe lo odiano, a titolo giusto: quale padre ama uno dei figli più degli altri? O almeno quale padre, che ama uno più degli altri, lo fa vedere? Sono invidiosi, e poi con i suoi sogni lui dice: nel mio sogno io sono il sole e la luna, voi siete le stelle e tutti inclinano verso di me. Allora anche i fratelli vogliono far fuori Giuseppe e cosa fa il nostro Giacobbe? Manda il suo figlio più amato, Giuseppe, proprio a morte, nel posto dove c’è pericolo grande due volte, il pericolo dai fratelli e il pericolo dai cittadini di Sichem che vogliono la vendetta dopo il massacro. Giacobbe stesso ha detto: “ora loro cercheranno di ammazzarci, loro sono tanti, noi siamo pochi” e poi non c’è ragione, se pensate, lui dice: “Va a vedere come vanno i tuoi fratelli”, era una ragione. Giacobbe è un benestante, non poteva mandare una serva per vedere chi stava bene, perciò deve prendere suo figlio, il più amato e mandarlo in questo pericolo. Ora c’è una grande parte del mio discorso che sta cercando di far vedere come l’hanno trattato tutti i commentatori. La maggior parte pretende che non ci sia problema, sono in pochi che dicono: non si capisce perché Giacobbe ha fatto questo. Ma non ho trovato spiegazione. Allora dov’è la spiegazione? Per questo siamo costretti a riandare alla vita di Giacobbe e cercare più profondamente il senso di queste drammatiche strane azioni, spiegazioni coerenti con il testo, in linea con la sua vita e, secondo me, coerenti con la sua grandezza. Facciamo due introduzioni a questa spiegazione, la prima prevede una rapida rivisitazione dell’ aspetto testuale-lessicale piuttosto che della difficoltà narrativa del testo. Vi ricordate? ““Eccomi” dice Giuseppe a Giacobbe, una risposta un po’ stridente con la domanda posta. Chiaramente scegliendo questa strana risposta di Giuseppe, “Eccomi”, che non è veramente una risposta alla domanda posta da Giacobbe, il testo vuole offrirci un suggerimento. Noi possiamo notare che questa frase “Eccomi”, è usata solo in due altri posti nella Bibbia, Genesi 22,1: “Dopo questa cosa Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Abramo, Abramo – rispose: ‘Eccomi’”. Poi Dio gli comanda di prendere il suo figlio amato Isacco e portarlo alla montagna e sacrificarlo. Abramo ha usato la stessa parola: “Eccomi”. Secondo: Esodo 3,1: “Or Mosè pascolava il gregge di Jethro suo suocero, sacerdote di Madian; egli portò il gregge oltre il deserto e giunse alla montagna di Dio, all’Horeb. E l’Angelo dell’Eterno gli apparve in una fiamma di fuoco, di mezzo a un roveto. Mosè guardò ed ecco il roveto bruciava col fuoco, ma il roveto non si consumava. Allora Mosè disse: ‘Ora mi sposterò per vedere questo grandioso spettacolo: perché mai il roveto non si consuma!’. Or l’Eterno vide che egli si era spostato per vedere, e Dio lo chiamò di mezzo al roveto e disse: ‘«Mosè, Mosè!’. Egli rispose: ‘Eccomi’”. Il grande Abramo, il grande Mosè usano la stessa parola, una combinazione di una espressione non propriamente adeguata, piena di “gravitas”, che è suggestiva, suggestiva di un passaggio gravido di conseguenze, piuttosto che mero momento di passaggio. Il lettore astuto, quando Giacobbe dice a Giuseppe vai a vedere i tuoi fratelli e Giuseppe risponde invece di “bene padre” Eccomi”, immediatamente si rende conto che una cosa speciale, una cosa di importante sta per accadere qui, altrimenti perché usare questa parola usata solo da Abramo quando vede Dio nella prova cruciale e da Mosè quando vede Dio nel fuoco? Con la differenza che in queste due occasioni è stato Dio a chiamare Abramo e Mosè, invece qui è Giacobbe a chiamare Giuseppe. Il testo ci offre un altro suggerimento, perché ci porta ad un momento importante della vita di Giacobbe, quando la parola “Eccomi” segna l’inizio dell’ inganno a scapito di suo padre Isacco. Storia di Giacobbe: “Così egli venne dal padre e disse: ‘Padre mio’. Rispose: ‘Eccomi; chi sei tu, figlio mio?’. 19Giacobbe rispose al padre: ‘Io sono Esaù’ – Giacobbe sta mentendo, sta raccontando bugie a suo padre – il tuo primogenito – non era il suo primogenito, Esaù era il suo primogenito – ho fatto come tu mi hai ordinato – non lo ha fatto affatto, sta ingannando suo padre – Alzati dunque, siediti e mangia la mia selvaggina perché tu mi benedica’”. Come ci aiuta il ricordo dell’imbroglio di Giacobbe verso suo padre a comprendere il pericoloso incarico affidato a Giuseppe! Avete capito cosa sto cercando di dire? Nel scegliere la parola strana “Eccomi”, il testo ci rimanda a due significati, la “gravitas” di Dio verso Abramo e Mosè e l’inganno di Giacobbe stesso verso suo padre Isacco. Il testo ci dà il suggerimento e lì che dovrete trovare il significato e il perché Giacobbe manda a sua volta Giuseppe. Allo stesso modo ci aiuta la seconda introduzione alla nostra esplorazione sulla vita di Giacobbe, una introduzione che ci porta al suo ultimo giorno, quando Giacobbe scende in Egitto ed incontra il Faraone. Infatti il Faraone gli chiede i suoi anni e Giacobbe risponde: 130 di vita errabonda, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita e non hanno raggiunto gli anni della vita dei miei padri, ai tempi della loro vita nomade, pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita. Così definisce Giacobbe la propria vita. Cominciamo a capire la personalità di Giacobbe: una persona che alla fine dei suoi anni dice ‘pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita’, non è una persona orgogliosa, è una persona con tanti dubbi dentro di lui. Non dice io sono il grande Giacobbe, figlio di Isacco, nipote di Abramo, dice: pochi e tristi anni e fa il paragone con il fatto che non ha raggiunto il numero degli anni di suo padre. Questo Giacobbe, che Dio ha scelto per diventare Israele, è un dramma, ancora un giallo. Vi è infatti un piccolo enigma nella dichiarazione. Quando queste parole sono pronunciate, Giacobbe non è sul letto di morte, egli potrebbe avere ancora molti anni di vita davanti. Ciò che anima tale dichiarazione è un profondo senso di inadeguatezza rispetto ai suoi padri, Abramo ed Isacco. Ma rivediamo luci ed ombre dei giorni della vita di Giacobbe. Ora, guardando gli highlights della vita di Giacobbe, piano, piano cominciamo a capire questo personaggio, che ci permette di spiegare perché manda Giuseppe a morte – siete ancora con me?
La sua battaglia inizia già nel grembo materno, tanto che Rebecca è molto preoccupata, poiché erano gemelli cerca il consiglio di Dio stesso, che le spiega: due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal grembo si disperderanno, un popolo sarà più forte dell’altro ed il maggiore servirà il più piccolo. Profeticamente Rebecca non ha mai svelato apertamente a Giacobbe del tallone del fratello, da cui deriva il nome Jacob. Ancora una volta dobbiamo ammirare la ferma e sconcertante onestà del testo. Malgrado il fatto che Giacobbe fosse il figlio scelto, perché Dio aveva detto a Rebecca che il figlio minore sarebbe stato il più importante, il testo è senza pietà: Isacco preferisce Esaù suo primogenito e Giacobbe deve trovare consolazione presso la madre. Ci sono infiniti modi e nessuno è stato evitato dal commentatore per spiegare la preferenza di Isacco, alcuni sono convincenti, ma tutti sono isaccocentrici. Perché Isacco amasse Esaù e non amasse Giacobbe non lascia dormire i commentatori. Per il momento, però, non ci interessa, perché tutti sono concentrati su Isacco, ma dal punto di vista di Giacobbe l’esperienza è la stessa, egli è il secondogenito e suo padre non lo ama. Quella è la sua esperienza di giovane, del giovane Giacobbe. Giacobbe, nonostante sia detto ingenuo, è tutt’altro che ingenuo, è costretto ad essere pieno di risorse per difendersi e l’astuzia vivente è la sua arma principale. Infatti la radice “keb”, il tallone, da cui deriva il suo nome, è “ancor”, cioè Giacobbe è il disonesto. Proprio il nome Jacob vuol dire tallone e disonesto, il suo nome è Giacobbe il disonesto, infatti per un piatto di lenticchie egli strappa la primogenitura di Esaù, una tradizione che la moderna regola contrattuale potrebbe definire iniqua. Si tratta di un atto di cui un giorno potrebbe pentirsi, soprattutto aumenta la colpa di Giacobbe e il timore di suo fratello. Ancora più importante, incitato da Rebecca, che agisce ad insaputa di Giacobbe per compiere la rivelazione che lei aveva avuto, Giacobbe imbroglia suo padre cieco, per farsi dare la benedizione che era stabilita per Isacco. Il pianto di Esaù è commovente, sentite Esaù: forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già due volte? Già ha carpito la mia primogenitura, ora ha carpito la mia benedizione. Poi dice a suo padre Isacco: non hai forse riservato qualche benedizione per me poverino? Se volete scoprire la più spettacolare astuzia di Giacobbe, leggete attentamente il racconto di intesa con Labano, relativa alla divisione del gregge; è veramente un inganno, un imbroglio di cui è diventato vittima Labano, meritatamente, devo dire. Non ci sorprende che Esaù trami per uccidere Giacobbe; Rebecca informa Giacobbe, Rebecca intercede con Isacco e Isacco sembra accettare che sia Giacobbe colui che porterà l’Alleanza. Isacco manda Giacobbe a cercare una moglie nello stesso luogo da cui era venuta sua moglie e alla partenza concede a lui l’ancestrale benedizione. Così ora Giacobbe è sulla strada, inviato fra l’altro senza paura dal padre, nonostante la minaccia di Esaù e si arriva alla scena che nell’immaginario collettivo è diventato una icona: il sogno della scala di Giacobbe in cui Dio ripete a lui quello che aveva sentito di Isacco, lui Giacobbe sarà portatore dell’Alleanza dei suoi padri.
Ricordate la scala di Giacobbe? Dio dice nel sogno: ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai, poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto. Questo dice Dio nel sogno a Giacobbe. Signore, Signori, ascoltate bene la risposta di Giacobbe a Dio. Da un lato la sua riposta immediata: “Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: Certo, il Signore è in questo luogo ed io non lo sapevo”; allora sa che era Dio che parlava. Ci siamo capiti ? Ma poi dice: “Giacobbe fece questo voto: ‘Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio’”. Incredibile, lui fa un patto con Dio, Dio ti promette, ti da tutto perché tu sei il portatore dell’Alleanza e Giacobbe invece chiede che se Dio farà questo e questo allora il Signore sarà il suo Dio. Stranissimo, archiviamolo per il momento. Tutto ciò non è asintomatico, la volta successiva in cui Dio si rivela a Giacobbe, alla vigilia della sua partenza da Labano per ritornare nella sua terra con la moglie ed i bambini, gli dice: torna al paese di tuo padre, nella tua patria e sarò con te. E’ un comando divino, una garanzia di protezione. Vi ricordate quando Dio dice ad Abramo: lascia la patria di tuo padre vai nel paese che ti mostrerò? E cosa fa Abramo? Si mette in cammino a piedi e và. Quando invece Dio dice le stesse cose a Giacobbe, cosa fa Giacobbe? “Allora Giacobbe mandò a chiamare Rachele e Lia, in campagna presso il suo gregge” e poi: “L’angelo di Dio mi disse in sogno: Giacobbe! Risposi: Eccomi”.
“Io sono il Dio di Betel, dove tu hai unto una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora alzati, parti da questo paese e torna nella tua patria!”.
E lui chiede alle sue due mogli: allora, ditemi, cosa devo fare? Solo con l’incoraggiamento di sua moglie finalmente decide di partire e scappa. Sulla strada di casa il suo passato prende il sopravvento su di lui, egli deve incontrare Esaù e ancora, nonostante la doppia promessa di Dio, Giacobbe prende precauzioni e divide in due il suo campo, ma non può restare ad implorare Dio di nuovo, e gli dice: “Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco, Signore, che mi hai detto: Ritorna al tuo paese, nella tua patria e io ti farò del bene, io sono indegno di tutta la benevolenza e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo. Con il mio bastone soltanto avevo passato questo Giordano e ora sono divenuto tale da formare due accampamenti.
Salvami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini!
Eppure tu hai detto: Ti farò del bene e renderò la tua discendenza come la sabbia del mare, tanto numerosa che non si può contare”.
Sembra che questo non abbia fiducia – giusto – è già la terza volta che Dio gli promette e che lui invece scettico fa accordi con Dio: se Tu lo fai, sarai il mio Dio etc. E poi dopo aver combattuto con l’angelo di Dio, quel passaggio molto amato da Giussani, e aver vinto, quando arriva il momento di confrontarsi con Esaù, le sue azioni sono quelle di un uomo senza fede piuttosto di un uomo che confida in Dio. Giacobbe è il disonesto, ci può stare, il testo è esplicito, Giacobbe il dubbioso (se Dio sarà con me…), può essere, ma un uomo senza fede, questo sembra davvero troppo, ma qui arriviamo ad un punto chiave per la comprensione della vicenda della persona di Giacobbe che ci servirà anche quando fra poco ritorneremo al momento in cui manda Giuseppe incontro al suo destino. Perché, di cosa dubita Giacobbe? Che lui sia dubbioso, non c’è questione, l’abbiamo visto tre volte. Ma in che cosa dubita? In che cosa, per chi non prova fede? C’è una costante in tutti questi passaggi: non è di Dio che dubita, rispetto a questo la sua fede è profonda e rilevante. Penso che nel tempo egli abbia sviluppato un grande senso di fiducia in sé e poi lui non è uno qualunque, lui è un uomo che ci sa fare, ha ingannato suo padre, ha ingannato Labano, è diventato ricco, non era un ometto, era un uomo, tredici figli e figlie. Su cosa ha consistenti dubbi? Ciò che lui sembra non poter accettare, ciò di cui egli non si fida, è se stesso, sé come colui che è stato scelto per essere il successivo anello della catena dell’Alleanza, quello su cui giustamente riposa la benedizione concessa ad Abramo e Isacco. Cultura, psicologia e teologia, tutto porta a creare che il dubbio interiore: come posso essere io veramente il successore di Isacco ed Abramo, il portatore dell’Alleanza, il padre – noi sappiamo – della tradizione giudeo-cristiana? Dal punto di vista culturale il presunto antenato dovrebbe essere il primogenito, in particolare un primogenito che era quello amato dal padre. Giacobbe sa che il diritto alla primogenitura, acquistato per un piatto di lenticchie, non può essere considerato legittimo, ed è pacifico quando Lea, quasi letteralmente, si intrufola nel suo letto, egli è ben consapevole di aver imbrogliato il padre e non meno dell’angoscia del padre. Allora Isacco fu colto da un fortissimo tremito, quando scoprì l’inganno. Come può essere che lui il secondogenito, il non amato, l’ingannatore, possa essere scelto come il successore dell’Alleanza? Quando Isacco lo manda sulla sua strada e gli accorda la benedizione dell’Alleanza, Giacobbe è silenzioso: non posso essere davvero io – dice a se stesso. Avrebbe potuto dire nel suo cuore: io ho ingannato mio padre e quando Dio ripete la promessa di protezione, Giacobbe riconosce ampiamente la maestà di Dio. Ricordate: “ora so che questo è il posto di Dio”, ma si preoccupa forse che Dio possa essere vittima del suo inganno? O forse la sua preoccupazione è diversa? E a questo punto la teologia si incontra con al psicologia e la cultura. Cosa ho fatto – Giacobbe deve essersi chiesto – per meritare questo? Egli è consapevole della tradizione della famiglia, la differenza fra lui e i suoi illustri antenati è impressionante, essi sono stati messi alla prova, hanno meritato di essere scelti, hanno meritato la benedizione, egli invece non era stato neppure chiamato e questo ai suoi occhi deve essere stato enormemente significativo, non essere messo alla prova in alcun modo, come il suo grande nonno e padre lo sono stati. Perché Dio ha messo alla prova Abramo? Perché Dio ha messo alla prova Isacco? Ed hanno passato la prova tutti e due. Invece Giacobbe dice a se stesso: io non sono stato messo alla prova, come possono essere io ad essere scelto? Riconsidera poi che Giacobbe aveva il sentore del dubbio a causa della sua nascita, del suo inganno e della sua vita religiosa senza alcun merito, se comparata a quella di suo padre e di suo nonno. Davvero s’intende me? – si sarà chiesto -, oppure forse questi sogni e ispirazioni messaggeri sono veri? E come possono essere cose reali se il loro messaggio è quello riscegliere me? C’è molto da imparare nel confronto con Abramo, Abramo è il cavaliere della fede, ma prendendo in considerazione Giacobbe, impariamo a capire qualcosa di più su Abramo. Il testo seguente di Abramo è emblematico: “Il Signore disse ad Abram: ‘Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra’.
Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore”.
Il Signore parla con Abramo direttamente, l’effetto è drammatico, non è solo la grande fede in Dio che Abramo ha ripetutamente mostrato, al punto che persino nel momento del timore la sua risposta immediata è “eccomi”, neppure un istante ha dubbi sulla sua scelta. Come è diverso Giacobbe, egli non deve lottare per accettare la sovranità di Dio, ma deve affrontare una grande lotta per affrontare il fatto che egli sia degno di quello che gli hanno concesso, perfino dopo aver superato la sua notte di prova della fede, dove gli viene detto che da ora in poi il suo nome sarà Israel, egli non può, come abbiamo visto, accettare tranquillamente quel destino. Egli chiama il luogo della sua lotta Penuel, il volto di Dio, poiché lì ha visto un essere divino faccia a faccia e tuttavia egli insiste: è necessario che mi benedica. Ora vi invito a rileggere tutti questi difficili passaggi con queste immagini di Giacobbe in mente. C’è un ulteriore passaggio che merita la nostra attenzione, prima di tornare a Giacobbe, Israel e Giuseppe. Quando voi rileggerete questi testi, vedrete una cosa che non si nota subito, che è il confronto tra Abramo e Giacobbe. Dio sempre si rivela in un sogno, in una visione, ma non direttamente, anche questo aggiunge un dubbio a Giacobbe: perché non c’è Dio proprio davanti a me, ora dov’è? Molto pericoloso quello che dice. Appena dopo la tragedia divina, la vita di Giacobbe sembra finalmente
giungere ad una qualche serenità e pace interiore. Nel capitolo precedente, quello che introduce Giuseppe, si legge che Dio disse a Giacobbe per la prima volta faccia a faccia, – Dio parla non in sogno, ma direttamente a Giacobbe -: "Alzati, và a Betel e abita là; costruisci in quel luogo un altare al Dio che ti è apparso quando fuggivi Esaù, tuo fratello". Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: "Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiate gli abiti. Poi alziamoci e andiamo a Betel, dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esaudito al tempo della mia angoscia e che è stato con me nel cammino che ho percorso". Ora cosa succede subito dopo questo, dopo che Dio parla direttamente a Giacobbe che lo vede in volto? “Poi levarono l’accampamento da Betel. Mancava ancora un tratto di cammino per arrivare ad Efrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: "Non temere: anche questo è un figlio!". Mentre esalava l’ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni, ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. Questa stele della tomba di Rachele esiste fino ad oggi”.
Ora, signore e signori, Rachele era sua moglie amata, ma non è Israele che costruisce la stele, è l’anziano Giacobbe, poiché questa calamità è stata sufficiente per fare a pezzi l’appena ritrovata sua serenità e il suo status. Nella mia lettura non è stata solo la morte del sua amata moglie a devastare Israele-Giacobbe, ma è possibile che iniziasse a realizzare altre due cose, mentre assorbe questo ultimo colpo. Perché, egli si deve essere chiesto, proprio quando la mia famiglia ha rinunciato a tutti gli idoli e il mio patto con Dio è stato reso solenne, faccia a faccia, perché doveva morire? E poi deve essersi ricordato di un’altro voto, il voto sfortunato e avventato che chiunque avesse rubato gli idoli di Labano sarebbe morto. E’ stato Giacobbe a dire questo e forse la verità inizia a farsi trovare da lui. E’ stata Rachele ad ingannare non solo suo padre, ma anche lui e ancora una volta Giacobbe è travolto non solo dal dolore, ma da un terribile e tormentoso dubbio, che siano stati lui e la sua promessa i responsabili della morte di Rachele. Ancora una volta sprofonda nel mondo dell’inganno e nel tentativo di capire come questa appena rinata relazione con Dio possa essere distrutta così rapidamente e crudelmente, egli affronta un dubbio ancora più profondo e cioè che forse Rachele non aveva mai abbandonato gli idoli. Abbiamo appena detto che gli idoli non erano così insoliti nella sua casa, che forse lei era morta in conseguenza di tale inganno e di fronte a questa possibilità di tradimento da parte della sua famiglia, i suoi dubbi riguardo al suo essere degno ritornano alla ribalta. Molti di voi penseranno che questa è una speculazione vana, se non irriverente e infatti la mano trema quando la si mette su carta. Ma ci sono due indizi a partire dalla Scrittura stessa: Giacobbe non seppellisce Rachele nel Me’arat HaMachpela in Ebron, dove è sepolta Lia e dove patriarchi e matriarchi dovevano essere sepolti, anche se la distanza della sua sepoltura era ad un giorno di viaggio a piedi. E notate inoltre il fatto singolare che, sebbene la petulante Rachele fosse la dolce moglie amata da Giacobbe, la Scrittura in ultima analisi preferisce la solita pia Lia; è dal suo grembo che la casa di giudea e di David viene, non da Rachele. Allora siamo di fronte a un Giacobbe che ha piena fede in Dio, che sa che c’è Dio, che questo è il Dio di Israele, suo popolo, ma ha piena sfiducia in lui stesso: come posso essere io il prescelto per portare avanti l’Alleanza da questo Dio, io che ho ingannato mio padre, io che ho ingannato mio fratello, io che sono secondogenito, io, a cui Dio non è apparso direttamente e la sola volta che è apparso direttamente, subito dopo ha preso la mia moglie amata, come posso essere io? Torniamo ora, per chiudere il giallo, al momento che Giacobbe manda Giuseppe a morte. Ci sono tre possibili interpretazioni di quel fatto. Vi è una spiegazione che in ultimo si deve rigettare, ma che ci mette chiaramente davanti agli occhi quello che dobbiamo discutere. Giacobbe mandò Giuseppe perché voleva la morte di Giuseppe: è semplice, voleva ucciderlo. Immaginiamo che invece di essere la parola viva di Dio, la nostra storia sia parte di una tragedia greca. Da questo punto di vista le azioni di Giacobbe sono evidenti: qui c’è un ricco e poderoso re, o capo tribù, che governa su un casato di due mogli, due concubine, dodici figli e una figlia. Si capisce poi che in un sogno viene rivelato che uno dei figli più giovani, il figlio amato, in un futuro lontano ridurrà il padre in circostanze particolarmente umilianti. Questo naturalmente non può essere tollerato o preso in considerazione, bisogna opporsi al destino. Sarebbe troppo grezzo e inquietante uccidere l’amato figlio con le proprie mani, il modo preferito nella tragedia greca non è forse prendere il colpevole e metterlo in situazione di pericolo? E’ questo ciò che accade qui. La congiura sembra accadere e il padre si affligge davvero per il destino crudele e tuttavia a sua insaputa il destino non può essere vinto, eccetera. E’ difficile migliorarla come tragedia greca, “Edipus rex” è lo stesso. La respingo non semplicemente per il rispetto che nutro nei confronti di Giacobbe e Israele, ma perché una simile spiegazione, sebbene sia perfettamente coerente con la visione mitologica, è così estranea alla rivoluzione monoteista, che si dispiega, nella stessa storia che stiamo esaminando, una analisi che ha un diverso telos, ed è guidato da un insieme di diverse forze, da una diversa dinamica di rapporto tra l’uomo e Dio. Per la seconda spiegazione voglio riandare a don Isaac Abravanel. Ho detto che avevo due teorie, di cui ne ho tratteggiata e respinta una sola, quella che diceva che Giacobbe non aveva alcun timore per la vita di Giuseppe. Vorrei ora esporre una seconda teoria, tratta da Abravanel, secondo cui Giacobbe dice a Giuseppe per scherzo: “i tuoi fratelli sono là, e tu sei qui, perché dovrebbe essere diverso, perché questo trattamento speciale?”. Giocosamente penso che forse Abravanel abbia toccato l’intimo dell’anima di Giacobbe. Citiamo Genesi 37, 11, “i suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui. Suo padre tenne in mente la cosa”. Ci siamo chiesti prima che cosa aveva in mente. Immaginate per un attimo che l’invidia dei fratelli colpisca Giacobbe e che, mentre egli riflette su questa invidia, di qui fino ad allora ne era ignaro, si saranno risvegliati in lui i ricordi e i risentimenti rispetto a un padre, suo padre, che amava uno dei suoi figli più degli altri, suo fratello Esaù, e l’invidia distruttiva e la disgrazia che un tale comportamento aveva scatenato fra lui e suo fratello. Quindi, consapevole dell’enorme responsabilità della propria scelta di preferire Giuseppe, egli si dà da fare per cercare di eliminare il danno già compiuto. Forse possiamo dare ora un po’ più di credito alla tesi del non pericolo, sostenuto da alcuni commentatori tradizionali. Lui lo manda per far vedere che non è più il preferito, perché ha capito che preferire l’uno o l’altro crea grande difficoltà. Però voglio andare alla terzo e secondo me la più importante, la più possibile spiegazione. Ricordiamo di nuovo Genesi 37,11, “i suoi fratelli perciò erano invidiosi di lui. Suo padre tenne in mente la cosa”; cosa succederebbe se ciò che teneva in mente non fosse stata l’invidia dei figli ma i sogni di Giuseppe, i sogni che un giorno sarà lui il portatore, il figlio preferito, eccetera? Se si trattasse di una tragedia greca, Giacobbe sarebbe preoccupato che i suoi sogni potessero diventare realtà. Ma non è una tragedia greca, è la Bibbia. Mettiamoci nei panni di Giacobbe, così insicuro del fatto che la sua casa dopotutto fosse benedetta, con le due recenti disgrazie di Dina e Rachele, una dopo l’altra. Poi dobbiamo ricordare un altro fatto pertinente, cioè che suo figlio maggiore, l’apparente erede Ruben, proprio quando Giacobbe aveva quasi finito di gettare la terra sulla tomba di Rachele, ha dormito con la moglie di Giacobbe. Sicuramente non è lui, Ruben che tiene alta la bandiera. Quindi il fatto che Dio sarebbe apparso a uno dei suoi figli, anche se in un sogno, destinandoli alla grandezza, agli occhi di Giacobbe potrebbe essere un segno di promessa e di speranza. Per Giacobbe, il timore è che allora il sogno non si avveri. Ma quanto a Giuseppe? E’ Giuseppe colui che egli ama e degno del destino, l’unico che indugia per casa mentre gli altri affrontano il pericolo, potrebbe ricordare a Giacobbe se stesso nella sua gioventù. Quindi quale è la statura di questo Giuseppe? Giacobbe sa di se stesso, di essere stato tormentato del dubbio. Allora dice: “va dai tuoi fratelli e così vedremo la verità, se il tuo sogno è un vero sogno, niente può accadere”. Permettetemi di aggiungere quattro piccole parole. Israel disse a Giuseppe: “Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem, vieni ti voglio mandare da loro”. Israel mette alla prova Giuseppe, invece di cercare di eliminare il pericolo del racconto, in questa lettura è proprio il pericolo che rende la missione significativa. Giacobbe trema, egli esita, è il motivo per cui egli pone la domanda due volte: “Concedi a Giuseppe una via di uscita”, e Giuseppe risponde in una maniera per cui Giuseppe deve aver gioito. Sebbene non richiesto, egli usa la stessa risposta del grande Abramo “Eccomi”, egli appare agli occhi di Giacobbe come Abramo. Mai dubitando della promessa di Dio, mai dubitando che egli è degno di tale promessa. Allora Giacobbe lo manda. Si può riassumere con quattro parole leggermente diverse: Giacobbe mette Dio alla prova, non mette Giuseppe alla prova, mette Dio alla prova. Rispetta se stesso, Giacobbe che è pieno di dubbi decide una volta per sempre: vorrei essere sicuro, sono io veramente il prescelto, allora metterò Dio alla prova, manderò il mio figlio al pericolo e se veramente sono io il prescelto e sono io il degno, allora questo mio figlio non soltanto sarà protetto, ma mostrerò a Dio la mia volontà, la mia prontezza di sacrificare il mio figlio amato. Giacobbe che non è mai stato messo alla prova da parte di Dio, mette se stesso alla prova per essere degno della scelta caduta su di lui. Vorrei finire qui.
Quale è la nostra lezione? Perché Giacobbe e Israele? Giacobbe e Israele perché è in Giacobbe che siamo invitati ad identificarci. In realtà è difficile identificarci in Abramo, è troppo grande, ha parlato direttamente con Dio, risponde subito, è pronto al sacrificio a cui noi non sappiamo se siamo pronti. E’ troppo lontano da noi. E’ così anche Isacco, che si mette sull’altare con la gola pronta ad essere sacrificato. Invece Giacobbe e Israele è proprio noi, fallito, a volte disonesto, anche se mai dubita che ci sia Dio, che Dio sia il creatore, che sia il padrone della terra. Ma è sempre pieno di dubbi su se stesso. Anche quando si sente vicino a Dio, non è mai sicuro, non ha mai l’hybris di una persona di fede che dice: “io ho tutto perché ho la fede”. Giacobbe non è mai così, arriva il giorno della sua morte e anche dopo che è gli stato rivelato che Giuseppe è vivo, che Dio quindi mantiene il sogno, dice al Faraone: “sono stato triste nei miei pochi anni”. Per me questo è il vero Israele, la persona in cui possiamo identificarci, una persona che ha grande fede in Dio e poca fede in se stesso come scelto di Dio. E’ così la vera scelta, la giusta scelta per il simbolo, per il protogenito della tradizione giudeo-cristiana. Grazie a tutti voi.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

28 Agosto 2009

Ora

11:15

Edizione

2009

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti